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SALUTE WEB Magazine multimediale della Fondazione Vita e Salute

STORIE DI IMPEGNO SOCIALE, ATTUALITÀ, STILI DI VITA


REDAZIONE DAVIDE MOZZATO, COORDINATORE MARKO HROMIS MAURIZIO CARACCIOLO GRAFICA RONCONI COMUNICAZIONE ENTE ECCLESIASTICO AVVENTISTA ADV VIUZZO DEL PERGOLINO, 8 - FIRENZE PROGETTO GRAFICO ORIGINALE MADE BY B.SOCIAL RESPONSABILE CONTENUTI MULTIMEDIALI VINCENZO ANNUNZIATA ___________________________________________________ VITA&SALUTE WEB edizione digitale gratuita del Magazine Vita & Salute periodico iscritto alla federazione italiana editori giornali - IT ISSN 0042-7268 Direttore responsabile: Veronica Addazio Questo numero di Vita&Salute WEB è interamente sostenuto dall’8xmille alla Chiesa Avventista


Condividere è il verbo più bello del mondo Conmoltiplicare, non si dice, ma rende il concetto meglio ancora Il film più bello? Chiunque viva alle nostre latitudini ha, da qualche parte, una sua lista, un film, uno di quelli che non si dimenticano mai. Il mio, che sono diversamente giovane, è del 2007, Sean Penn ne è il regista: “Into the wild – nelle terre selvagge”. Ho letto anche il libro di Jon Krakauer, dal quale è tratta la storia: “Nelle terre estreme”, un capolavoro pubblicato negli USA nel 1996 e da noi da Corbaccio nel 2008. Il protagonista è Christopher McCandless, giovane laureato, di famiglia benestante. Finiti gli studi decide di abbandonare tutto, anche gli affetti, per andare alla scoperta di sé stesso, della verità, nella Natura selvaggia, in Alaska. Il suo viaggio è costellato di incontri e relazioni ma lui punta alla pace, alla quiete, alla purezza di tutto ciò che non sia contaminato. Legge e sottolinea i suoi libri: London, Thoreau, Tolstoj e trova rifugio nella carcassa di un autobus lasciato in mezzo al nulla. Caccia, raccoglie, cuoce quello che ha, legge, riflette. Dal libro di Tolstoj, “La felicità domestica”, distilla frasi e pensa alle relazioni precarie della sua famiglia di origine nella quale è nato e cresciuto. Un paragrafo mi è rimasto dentro: «Ho vissuto molto, e ora credo di aver trovato cosa occorra per essere felici: una vita tranquilla, appartata, in campagna. Con la possibilità di essere utile con le persone che si lasciano aiutare, e che non sono abituate a ricevere. E un lavoro che si spera possa essere di una qualche utilità; e poi riposo, natura, libri, musica, amore per il prossimo. Questa è la mia idea di felicità. E poi, al di sopra di tutto, tu per compagna, e dei figli forse. Cosa può desiderare di più il cuore di un uomo?». Ma com’è possibile vivere tale stato se non si condivide? Happiness only real when shared, la felicità è reale solo se condivisa. Questo è il punto più vero e il tema del numero della nostra Vita&Salute Web e del podcast . L’individualismo è senza dubbio sterile (dato non certo trascurabile in periodo di pandemia), ma non porta a nulla. La vera gioia, la pace vera, necessita del dono condiviso o conmoltiplicato che non si dice ma rende l’idea in modo più migliore. E non è un romanzo, non è solo un film, Christopher McCandless è esistito davvero e ci ha voluto lasciare questo dono. Grazie. Davide Mozzato Coordinatore Via&Salute WEB

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SALUTE WEB PRIMO PIANO AIDO ANDARE OLTRE UN “SÌ”

di Leonio Callioni 6

SOLO UNITI SI RIESCE A FARE IL BENE INSIEME

di Leonardo Lega 8

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TESTIMONIANZE TRAPIANTI DUE VOCI, DUE MADRI, UN DONO GRANDISSIMO 12 ROCKY, SE CREDI DI ESSERE FORTE LO DEVI DIMOSTRARE! 15

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INTERVISTE TRAFFICO D’ORGANI, UNA LEGGENDA METROPOLITANA?

Vita & Salute Web incontra la Dott.ssa Franca Porciani 16

‘DONATORI’ FORZATI: STORIE E VISI DI UOMINI E DONNE TRATTATI COME PEZZI DI RICAMBIO

Vita&Salute Web dialoga con Roberto Orazi 20 EUTANASIA: QUESTIONE DI VITA E DI MORTE, IN PUNTA DI DIRITTO E IN PUNTA DI PIEDI

Vita & Salute Web incontra Luciano Violante 38

RUBRICHE CALEMBOUR ORGANI DA SUONARE 10 LA STRISCIA

di Ivana Battista 10

RASSEGNA CINEMATOGRAFICA

di Marko Hromis 22

PSICOLOGIA DONO E PERDONO 25

STORIE

ADRA FELICITTÀ, UNA REALTÀ CHE CRESCE E NON SI PONE LIMITI 26

intervista a Fiorenzo Caspon

DONARE OSSIGENO L’UOMO CHE PIANTA ALBERI 36

UN DONO DI NOME OMAR

di Ronaldo Rizzo 45

RADIO RVS UNA VITA DI DOMANDE

Intervista a Claudio Coppini che ha avuto in dono le risposte di Gino Strada

RIFLESSIONI

RADIO RVS GINO STRADA, UN UOMO CHE SI FA DONO... UN DONO CHE SI FA UOMO 30

di Hanz Gutierrez

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LA MORTE E IL SUO SIGNIFICATO ARRIVATI ALLA FINE, NON CI SONO PIÙ PAROLE 40

ORA! È TEMPO DI RINGRAZIARE

TRUST CHI SE LO MERITA? OGGI È “NOSTRO”, MA “DOPO DI NOI”?

di Giovanni Varrasi 42

di Giuseppe Cupertino

DIRITTO ALLA SALUTE MATTEO E IL DONO STRAPPATO VIA

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FAMIGLIA IL DONO È THINK AND THANK

di Biagio Tinghino 44

di Roberto e Anna Iannò 49

IL MONDO DI CELESTE CONDIVIDERE LE RISORSE CHE ABBIAMO 54

guarda il video

ascolta l’audio

approfondisci l’argomento 40

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PRIMO PIANO

AIDO Associazione Italiana per la Donazione di Organi, Tessuti e Cellule

Andare oltre un “sì” di Leonio Callioni L’appello dell’Associazione Italiana Donatori di Organi per passare dall’adesione alla partecipazione

1 milione e 400 mila soci iscritti L’atteggiamento iniziale degli iscritti si era però fin da subito caratterizzato in una duplice modalità: da una parte coloro che si limitavano ad assicurare all’universo sanitario la propria disponibilità 6 VITA

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a donare qualora se ne presentassero le circostanze; dall’altra nuovi iscritti si sono messi al servizio dell’Associazione, nelle sue radicate articolazioni nazionale, regionale, provinciale e comunale, dando vita alla struttura dirigenziale dell’AIDO. Questo, con l’andare degli anni ha da una parte rappresentato una potenziale disponibilità “a priori”, fatta di solidarietà pura e sincera, ma senza un diretto coinvolgimento nell’attività di costruzione di una cultura sociale sempre più evoluta. Arrivati alle altissime quote di iscritti quali quelle toccate da AIDO negli ultimi anni, questa duplice modalità di appartenenza presenta però delle criticità. Di fronte agli oltre 1 milione e 400 mila soci iscritti ad AIDO, infatti, i soci attivi con ruoli di responsa-

bilità e con un servizio effettivo ai fini dell’Associazione sono poco più di 10 mila. Una percentuale troppo bassa di fronte alla massa di persone disponibili al dono.

Un progetto di solidarietà Emerge con sempre maggiore chiarezza che lo status di socio AIDO deve essere qualcosa di più di un semplice “sì” espresso magari decenni prima. Sia chiaro: que-

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Nata ormai quasi 50 anni fa per diffondere la cultura della donazione attraverso una espressione di volontà affidata ad un atto olografo (un modulo cartaceo valido quale indicazione di una scelta fatta in vita) AIDO ha rappresentato nel corso dei decenni il punto di riferimento socioculturale della comunità civile desiderosa di contribuire alla lotta alla sofferenza di chi attende, in lista d’attesa, la chiamata per il trapianto che salvi la vita.

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sto è importante ed è alla base di ogni attività dell’Associazione. Ma sembra di poter dire che ormai è tempo di andare oltre al “sì” e farlo diventare un progetto di solidarietà. In sintesi: dico sì alla donazione, se sarà possibile, ma non finisce tutto qui, perché mi rendo disponibile a servire questo meraviglioso progetto di solidarietà verso le persone sofferenti facendo quello che meglio so fare o comunque mettendomi al servizio del progetto stesso.

Formazione e ricerca fondi Ecco che allora AIDO evolve, diventa interlocutore sempre più importante per gli organismi statali, sanitari e non, cerca di migliorare la preparazione dei propri esponenti che vanno nelle scuole,

sulle piazze, e ovunque sia possibile, mettendo in campo progetti di formazione sempre più diffusi ed efficaci, cercando nuove vie di sostentamento economico, alternative o almeno aggiuntive alle modalità tradizionali, basate essenzialmente sulle quote versate dai soci stessi e sul gettito del 5 per mille.

Donare con un’app Oggi AIDO è impegnata in progetti di fund-raising, partecipa ai bandi dei diversi livelli privati e pubblici, sta costruendo una solida base comunicativa sbarcando sul web e addirittura promuovendo la donazione attraverso l’utilizzo di una app che permetta l’espressione di volontà direttamente, utilizzando il proprio telefono cellulare.

Condivisione di valori Tra i princìpi fondamentali dell’Associazione c’è in particolare il richiamo a corretti stili di vita che concorrono a rendere migliore la società in cui viviamo, di cui siamo responsabili. Ed ecco nascere, per svilupparsi al meglio, la collaborazione con l’UICCA – Chiesa Cristiana Avventista. È una collaborazione agli albori ma che poggia su solide fondamenta: la condivisione totale dei valori cristiani di solidarietà e amore per il prossimo.

_________________________________ Leonio Callioni Responsabile Comunicazione AIDO Nazionale, Vice Presidente Vicario di AIDO, Direttore Responsabile de L’Arcobaleno VITA

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PRIMO PIANO

Solo uniti si riesce a fare il bene insieme di Leonardo Lega

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AIDO e Fondazione Vita e Salute, la cooperazione nel dono

A partire dal 1952 la spinta avventista alla divulgazione dei principi per cambiare il proprio stile di vita in meglio, si è materializzata nella prima rivista dedicata alla salute e alla prevenzione: Vita&Salute. Dietro al successo crescente della rivista ci furono anche gli sforzi dei volontari della Lega Vita e Salute, che fino al 2015 ha promosso l’eredità avventista nel campo della salute nei territori italiani, organizzando Check-up gratuiti per la popolazione, corsi antifumo e conferenze su alimentazione e stili di vita. La Fondazione Vita e Salute nasce nel 2016 dall’intenzione della Chiesa Avventista di rafforzare l’impegno sui temi della salute, inglobando l’eredità che la Lega Vita e Salute ha costruito attraverso la rivista e le attività sui territori.

Un unico obiettivo Una prima naturale connessione con AIDO arriva quindi dalla storia parallela di due organizzazioni che si sono poste l’obiettivo non solo di promuovere i propri scopi statutari, ma anche di fare del Dono un vero e proprio elemento di cultura sociale. Cultura sociale che deve nascere a partire dai luoghi dell’associativismo, luoghi di comunità in cui la personalità viene sollecitata a diventare partecipante e compo-

nente di un movimento di cambiamento che ha l’obiettivo di coinvolgere altri in nuove relazioni di senso, secondo il circolo virtuoso del Dono.

La sfida del terzo settore Questa prospettiva contiene la sfida che la Fondazione si è sentita chiamata a raccogliere, ma che allargando lo sguardo coinvolge necessariamente tutte le altre organizzazioni che compongono il panorama del terzo settore. Le parole del dott. Callioni sono molto chiare: la sollecitazione ai nostri cittadini ad acquisire comportamenti sempre più virtuosi deve essere preceduta da un’evoluzione istituzionale e sistemica delle organizzazioni stesse. Proprio questa evoluzione determinerà il successo dei nostri progetti, non solamente misurabile dai numeri, ma anche da quanto l’organizzazione sarà stata in grado di calare la propria missione nella realtà, nelle piazze, nel concreto della vita civile.

Il dono: un motore importante

nell’affermare che esso è il “fatto sociale totale”, elemento fondante di qualsiasi spinta personale a costruire società: che qualcuno si definisca religiosamente, civilmente, politicamente attivo egli troverà alla radice del suo impegno il motore del Dono a corroborare la sua volontà di partecipazione. E sotto il segno del Dono nasce la collaborazione viva e in divenire che caratterizza il rapporto tra la Fondazione Vita e Salute, Chiesa Avventista e AIDO, una collaborazione straordinaria. Questa nuova piccola società è infatti straordinariamente concreta nei suoi propositi: in questa epoca di incertezza, e in particolare a partire dall’evento pandemico, l’urgenza di un nuovo risveglio sull’importanza di costruire un buono stile di vita, solidale e sano, deve tornare sotto gli occhi di tutti. Grazie ad Aido, Grazie alla Chiesa Avventista che ha deciso di accompagnare la Fondazione in questa sfida.

_____________________ Leonardo Lega Responsabile per la Fondazione Vita e Salute

E quanto di più concreto può esserci del Dono? Marcel Mauss, nel suo Saggio sul Dono, non ha dubbi VITA

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CALEMBOUR

Organi da suonare M

ASCOLTA LA STORIA

onselice da casa mia? Non è distante a un’andatura alterca per il traffico costante. Leggo l’occhiello sul giornale locale con l’occhiale e un palmo sul naso. Un organo in canne e ossa, imponente: 6 metri e 645 canne fumanti, con una musicalità, una purezza e una potenza del suono veramente stradivari, Donato, in verbo gratuito, da un generoso e forse genero di suo suocero: Gianni Brunello, parrocchiano e monselicense benemerito. L’organo è strumento de’sensi, il vento gl’è sospinto con pressione diastolica alta in serate e giornate di bassa pressione emotiva. Si spiega in un composto organico non in un origamico di pioppo da gettare come rifiuto di carta pestata da mille suole indifferenziate. L’organo batte in petto racchiuso da bottoni abbracciati stretti nelle loro asole che riverberano sulle lentiggini oscurate come isole per le serate rosse degli occhi al sole. Un organo che suona sempre i suoi femori e anche al plurale, per il soldato semplice e in generale. È un abbraccio

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unisex e in taglia unica che riconosce la grandezza altrui, è un salvagente in acqua alta e sa farlo anche quando la statura è più bassa dei 6 metri del buon Brunello invecchiato rosso nelle botti di Monselice. Perché un dono è grande non per le sue dimensioni, né per le molecole basse e i voli alti dei droni; non per la sua medaglia al dolore e tantomeno per il suo colore, il re-gallo va spennato e sciolto come i capelli, ciocca a ciocca, teneramente, come fa la chioccia con i suoi pulcinella vestiti di bianco e piumatti di giallo. Oggi tocca a me, tocca a me decidere indentro. Sono nato con un organo nel petto, emesso e promesso al mondo da un AIDO di petto, per quanto stonato mi sono or ora ricordato che rimango puro e per sempre, solo se resto Donato finalmente.

la striscia di Ivana Battista

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TESTIMONIANZE

TRAPIANTI

Due voci due madri

un dono grandissimo Una vita troncata risorge in un trapianto d’amore

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La vita, la sorte (ognuno scelga la definizione che preferisce) a volte, sa essere davvero cinica e crudele nel concatenarsi di situazioni e circostanze che rendono ancora più pesante un evento già drammatico di suo: il 27 ottobre del 2017 è il giorno del compleanno di Mauro, un bel ragazzone pieno di vitalità e per niente superficiale, se è vero come è vero che ha deciso di rinunciare agli studi per lavorare e dare un aiuto concreto alla sua famiglia. Quella sera, com’è normale, ha in programma una festa con gli amici. Ma la festa diventa tragedia, uno schianto automobilistico che procura a Mauro lesioni gravissime. Nonostante il tentativo disperato dei medici dell’ospedale Careggi di Firenze, quelle ferite saranno fatali. Fine della storia? Affatto. Giovanna, sua madre, acconsente al prelievo degli organi di Mauro. Proprio quella sera, nello stesso ospedale, un’altra giovane madre con seri problemi di salute, sottoposta a dialisi, riceve il rene di Mauro. L’intervista che segue è il racconto a due voci offertoci da queste due madri che forse per una casualità (loro sono convinte del contrario) si sono conosciute,

e qui è nata tutta un’altra storia… VITA

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I L L I B R O C O N S I G L I ATO

Le testimonianze di Giovanna e Anna, insieme a quelle di altre cinque madri, sono raccolte nel libro

Lettere senza confini Donne coraggiose che hanno scelto di ricordare i figli perduti scrivendo loro una lettera e raccontando al mondo che l’amore è più forte del dolore e della disperazione. Un dono che nasce da cuori sensibili.

Titolo: Lettere senza confini Dal cuore di 6 mamme A cura di: Gaia Simonetti Editore: EDIZIONI A.D.V. Anno di pubblicazione: Prima edizione: 2018 Formato: 21 x14,5 cm | 131 pagine | brossura ISBN: 9788876593321 Prezzo: 13,00 €

COMPRA ORA 14 VITA

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TESTIMONIANZE

Rocky

Se credi di essere forte lo devi dimostrare! Albina Verderame la prima in Italia a ricevere il trapianto di utero, si racconta È salita sul ring, Albina, lottare è la sua vocazione, è forte e lo ha dimostrato. Ha 30 anni, siciliana di Gela ed è la prima donna in italia ad aver avuto in dono l’utero. Ci si emoziona facilmente nel sentirla parlare, nell’osservare il suo sorriso gioioso e contagioso. La sua è una malattia rara, la sindrome di Mayer-Rokitansky Kuster Hauser, a causa della quale l’utero non può formarsi in modo naturale.

Questa patologia colpisce una donna su 4500 e diventa evidente solo durante l’adolescenza, quando le bambine si sviluppano ma le mestruazioni non arrivano mai. Albina ringrazia, ringrazia tutti, la giovane donatrice che le ha permesso di coltivare il suo sogno, i medici, gli amici, il compagno con il quale ha navigato fin qui. Mayer-Rokitansky Kuster Hauser, troppo lungo e complicato, Albina Verderame è la nostra Roky.

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INTERVISTE

Traffico d’organi, una leggenda metropolitana? Vita & Salute Web incontra la Dott.ssa Franca Porciani Franca, lei è una giornalista laureata in medicina e si è occupata di svariate tematiche scientifiche. Perché, a un certo punto, ha deciso di realizzare non una, ma ben due, pubblicazioni importanti, per FrancoAngeli: Traffico d’organi. Nuovi cannibali, vecchie miserie, 2012 e Vite a perdere, 2018, legate entrambe al traffico degli organi? Alla fine degli anni Novanta e nei primi anni del Duemila mi sono occupata spesso di trapianti d’organo per il Corriere della Sera, la testata per cui lavoravo e proprio in quegli anni crescevano i rumors sul traffico d’organi da inchieste giornalistiche, soprattutto in testate anglosassoni, che raccontavano della vendita dei reni in India, in Brasile, nelle Filippine ( i trapianti avvenivano in cliniche private o in ospedale “camuffati” da donazioni), e nei paesi dell’Ex Unione Sovietica (in questo caso i trapianti clandestini avvenivano in una clinica di Istanbul, in Turchia). Ma sembrava impossibile: la comunità scientifica negava con forza che questo mercato esistesse, lo negava con un’intransigenza tale da sembrare sospetta. Devo dire che la direzione del Corriere della Sera dei primi anni Duemila (Ferruccio de Bortoli) mostrò una grande sensibilità verso

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questi problemi e un giovane inviato, Andrea Nicastro, nel 2001 riuscì a scovare nella clinica Vatan di Instabul un paziente italiano in attesa di un trapianto di rene a pagamento. Il servizio fu pubblicato e fece un certo scalpore. Così cominciai ad appassionarmi a questa storia. E quando l’antropologa Nancy Scheper-Hughes pubblicò nel 2003 sulla rivista Lancet il primo report “scientifico” sul traffico d’organi, la Direzione mi permise di fare un servizio che lo raccontava. La cosa ebbe un grande risalto. È stata una delle prime giornaliste a dedicarsi a questo tema; quali resistenze, secondo lei, hanno bloccato questa proposta di riflessione all’opinione pubblica? Ha dovuto fronteggiare difficoltà in tal senso? Le resistenze a quell’epoca erano enormi. I direttori delle principali testate giornalistiche, sia nella carta stampata che in RAI, temevano questo argomento, scomodo per tutti, e pericoloso, perché il mercato degli organi è gestito dalla criminalità organizzata. Ma il motivo principale era la “sudditanza” dei giornalisti alla classe medica che faceva muro, negava tutto, anche perché questo traffico coinvolgeva, e coinvolge, colleghi chirurghi che


... Un famoso chirurgo tedesco fu sollevato dal suo incarico di primario perché emerse che, invece di andare in ferie, era volato negli Emirati Arabi a fare trapianti clandestini... VITA

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INTERVISTE

Nancy Scheper-Hughes

avevano (e hanno) una sorta di doppia vita. Un famoso chirurgo tedesco fu sollevato dal suo incarico di primario perché emerse che, invece di andare in ferie, era volato negli Emirati Arabi a fare trapianti clandestini. Eppure il Centro Nazionale Trapianti ha negato fino a pochi anni fa l’esistenza del traffico d’organi. Meglio parlare di “leggenda metropolitana”. Quanto le è stata d’aiuto l’azione dirompente dell’antropologa americana Nancy ScheperHughes? Il lavoro di Nancy Scheper-Hughes, che grazie ai finanziamenti dell’università di Berkeley e del miliardario George Soros, aveva fondato Organ Watch, organizzazione no profit finalizzata a documentare il traffico d’organi, è stato fondamentale. I suoi collaboratori ne scovarono le prove in Brasile, in India, nelle Filippine e l’autorevole rivista Lancet pubblicò il loro “affresco” con grande risalto. Lì si infranse la “leggenda metropolitana”. Anche la rivista JAMA pubblicò un’inchiesta realizzata da medici

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americani in India, nei villaggi dove buona parte della popolazione aveva venduto un rene. Nei suoi libri lo denuncia con forza: ci troviamo davanti a una sorta di neocolonialismo dei Paesi ricchi nei confronti della povertà disperata. Un business che vale almeno un miliardo e mezzo di dollari. Può fare qualche esempio concreto che ci aiuti a comprendere meglio? Il flusso del mercato degli organi si muove sempre nella stessa direzione: dai Paesi ricchi a quelli poveri. Gli americani vanno in cerca di organi in Brasile o nelle Filippine, gli europei in Egitto e in Sudafrica, i giapponesi in Cina, in Nepal e in India. Dove c’è più povertà, c’è più offerta. E la rete si è organizzata. Al momento attuale, ad esempio, è in Egitto, al Cairo, uno dei crocevia più importanti del traffico; lì sono nate cliniche clandestine dove si fanno trapianti d’organo a pagamento. I clienti sono israeliani, arabi e europei. I “donatori” vengono dai campi profughi, dal Sudan e da altri paesi africani.


Il flusso del mercato degli organi si muove sempre nella stessa direzione: dai Paesi ricchi a quelli poveri. Gli americani vanno in cerca di organi in Brasile o nelle Filippine, gli europei in Egitto e in Sudafrica, i giapponesi in Cina, in Nepal e in India

Il grosso del business dei trapianti riguarda il rene perché c’è una grande richiesta, è un intervento ormai relativamente semplice e il “donatore” può vivere con un rene solo. Ma in Cina, dove vengono prelevati gli organi ai condannati a morte, nelle cliniche clandestine si trapianta di tutto. Nel libro se ne parla diffusamente. Una domanda molto personale, delicata: alla luce dei risultati raccapriccianti delle sue inchieste giornalistiche, come si porrebbe davanti alla possibilità di donare a qualcuno un pezzettino di sé? Sono favorevole alle donazioni.

________________________________________________ Dottoressa Franca Porciani Giornalista scientifica

Nei suoi libri lei racconta degli intermediari, dell’opera di convincimento che portano avanti questi procacciatori di organi, nell’intento di far cadere gli indugi dei potenziali ‘donatori’. Oggi, 10 anni dopo, ha senso dire che i disperati stessi sono disposti a pagare tutto ciò che hanno e che sono pur di passare il Mediterraneo per venire da noi? Quali nuove possibilità offre oggi il business sui migranti? È l’argomento chiave del secondo libro che ho fatto con Patrizia Borsellino, docente di filosofia del diritto all’università Bicocca di Milano, Vite a perdere. Nel libro si raccontano le prove esistenti oggi del commercio degli organi nei campi profughi, dove i broker reclutano le loro vittime per portarle al Cairo, dove viene loro prelevato il rene. Dopo l’intervento ricevono il compenso, sempre irrisorio rispetto ai guadagni del broker e, soprattutto, del chirurgo, e vengono riportate nei campi o nel Paese di origine. Ogni tanto la polizia fa irruzione in queste cliniche, le fa chiudere per un po’, poi il traffico ricomincia.

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INTERVISTE

‘Donatori’ forzati storie e visi di uomini e donne trattati come pezzi di ricambio Vita&Salute Web dialoga con Roberto Orazi, documentarista, regista e autore del film H.O.T. human organ traffic «Su internet non trovi nulla, solo robaccia», non è vero, non è sempre vero, non è del tutto. Di robaccia ce n’è, a tonnellate, ma con un po’ di pazienza, se si ha un po’ di fortuna… Su internet abbiamo trovato un film-documentario, spezzettato, una serie di recensioni serie, un viso di profilo, un indirizzo FB, e sai che? Io ci provo: «Roberto, buongiorno. Mi chiamo Davide Mozzato, sono coordinatore di una rivista: Vita&Salute web. Nel mese di ottobre usciremo con il primo numero, imperniato sul tema del dono. Mi farebbe piacere dialogare anche con lei visto il suo ottimo lavoro HOT human organ traffic. Che ne dice? Non ho trovato la sua e-mail, per questo le scrivo su FB. Le segnalo i miei contatti: d.mozzato@vitaesalute.net. Grazie. Davide». Oh, mi ha risposto, quasi subito. Fissiamo un appuntamento, mi racconta un pezzetto della sua storia, è felice di

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collaborare, ci diamo del tu. «Roberto, io vorrei tu ci raccontassi dei tuoi incontri, delle tue emozioni, del tuo tatto e del tuo contatto con questi ‘donatori’ forzati. Del problema in generale ci interessa molto, ma delle storie di queste singole persone ancora di più». La risposta? «Ok Davide, ci sto, quei visi, quei luoghi non li ho dimenticati, non li posso dimenticare, non li dimenticherò mai».

Non abbiamo molto tempo. Il processo scadrà tra poco più di un anno. I miei sforzi e la mia lotta vanno avanti da 21 anni. Tutto ciò che ho ricevuto sono state molestie, minacce e intimidazioni da parte del governo brasiliano. C’è una rete di traffico di organi umani 24 ore su 24 in Brasile. Leggi di più e dona qui


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Rassegna cinematografica di Marko Hromis Quante storie lette, viste o vissute hanno riempito pagine e pellicole, portando alla più profonda riflessione sul valore del corpo umano

The Island 22 VITA

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Il dottor Merrick aveva raccontato una serie infinta di bugie, passando le giornate a controllare ogni loro minuto, pasto, sonno, movimento, relazione ed emozione. Assistiti e curati, allenati per non ammalarsi in un ambiente protetto e chiuso. Il loro più grande desiderio era quello di vincere la “lotteria”, per riuscire ad andare nell’unico posto sulla Terra in cui c’era ancora vita. Sì, il premio della lotteria è la terra promessa, dove non c’è dolore né morte, dove si vive in armonia, lontani dal brutto e cattivo mondo malato. Era questo che avevano raccontato a Lincoln Sei Echo e a Jordan Due Delta – a fare l’appello ci stavano due ore ogni mattina- : il pianeta era finito e loro, insieme a migliaia di altri ragazzi, vivevano protetti dal contagio, tenendosi in forma, in attesa della vincita alla lotteria, che avrebbe voluto dire libertà. Sono in migliaia a crederci, in quell’allevamento a cielo chiuso, controllati ad ogni battito di ciglio; si cresce, si vive e ci si innamora e poi?

È la curiosità a rompere gli schemi; la curiosità di seguire il volo di una falena, entrata accidentalmente nella struttura. Come è possibile che esista ancora una forma di vita fuori da lì? Seguirla fin dove? Fino

ai piani inferiori, fino a scoprire che il premio della lotteria non sarebbe stata una nuova vita bensì una morte definitiva. L’espianto. Terminati all’interno di laboratori pieni degli strumenti più adatti, pronti per essere usati nel preciso momento in cui il cliente finanziatore avesse fatto richiesta di un organo, “coltivato” ed “allevato” nel corpo del suo clone perfetto, numero di serie, fiore all’occhiello della tecnologia d’avanguardia. In fondo, “pagato” non è “rubato”; trattasi di transazione coperta a cuore aperto. Galeotta la falena.

Il mondo non era finito come avevano raccontato loro, era solo arrivato ad essere un posto peggiore, si era spinto più in là, troppo in là. Per Lincoln e Jordan non resta che la fuga, la ribellione, la lotta per la vita e la liberazione di tanti cloni che, una volta all’esterno, avrebbero potuto scegliersi un nome come si deve e un futuro non determinato da calcoli ma da sogni e desideri. È l’epilogo

di The Island, pellicola fantascientifica girata dal regista Michael Bay che, con i consueti colpi di scena rumorosi ed esplosivi, diventati suo marchio di fabbrica, porta lo spettatore lontano nel tempo e lontano dalla ragione.

È solo fantascienza? Fin dove siamo pronti a spingerci? La stessa domanda deflagra nel mezzo di un altro film, noto al grande pubblico. Se la pone un gigante di Hollywood, Denzel Washington, che interpreta un operaio la cui vita, fatta di ristrettezze, scorre comunque serena finché non viene diagnosticata un’insufficienza cardiaca al figlio. Sbam! John Q, questo il suo nome, non ha certo i soldi per garantire a suo VITA

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REDCARPETREDCARPETREDCARPET che di fronte ai verdetti più freddi, mettono l’essere umano a nudo, all’angolo, a fare i conti con un presente che sembra amaramente più dilatato del futuro.

Ci sono poi le speranze, i gesti d’amore, per passione o adesione, che tornano a dare profondità al tempo.

21 grammi figlio le cure migliori, non ha mica una lista di cloni allevati su un’isola da cui attingere a piacimento strisciando la carta. Lui timbra il cartellino ogni giorno e torna a casa la sera stanco, affondando su un divano comprato ai grandi magazzini, felice di rilassarsi e di passare le serate con la sua famiglia. Vende tutto, raschia il barile ma non basta mai; cittadino degli Stati Uniti, lì servono i verdoni per farsi curare. E se anche li trovi, serve un donatore, c’è una lista, un’attesa sfiancante ad ogni giro di roulette, ad ogni battito nel petto, finché dura.

Fin dove siamo pronti a spingerci? A quale costo? Serve un cuore ma un cuore non c’è. John è pronto a donare il suo, fermato pochi attimi prima di procurarsi la morte per regalare la vita. Un paradosso dietro al gesto estremo di un padre. Un sacrificio: lui pronto a farlo, la società impre-

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parata ad accettarlo, perché segno di fallimento e punto di non ritorno. Quel bambino deve vivere, con un padre che si prenda cura di lui. Sarebbe stato davvero un gran cuore però. Quante corse a perdifiato contro il tic tac inesorabile che porta anzitempo ai titoli di coda; pronti a tutto pur di dare più sabbia alla propria clessidra o a quella dell’amore più caro. Lunghe attese, dietro a chi ha meno ore di te, davanti a chi ne ha qualcuna in più, aspettando quel dono, da chi può farne a meno o da chi non sa più cosa farsene. John Q non sei mai stato solo, e il copione del tuo film è il copione di milioni di vite, alcune ormai andate, ma tante rinate. La somma di quegli organi organizzati trasforma ogni pezzo di carne in anima pensante, creativa e spirituale, capace di provare empatia e valorizzare il più profondo significato del dono, ricevuto tanto ai nastri di partenza quanto a un doloroso e cruciale pit stop. Sono le molteplici forme di disperazione,

Quante storie lette, viste o vissute hanno riempito pagine e pellicole, portando alla più profonda riflessione sul valore del corpo umano, di ogni suo pezzo riempitivo e ogni suo vuoto; di ogni sua connessione, contrazione e ragion d’essere. Tutto questo può essere toccato, calcolato, pesato. Paul Rivers, personaggio del film “21 Grammi”, interpretato magistralmente dal premio Oscar Sean Penn, ha risposto così dal suo letto di morte: “Quante vite viviamo? Quante volte si muore? Si dice che nel preciso istante della morte tutti perdiamo 21 grammi di peso. Nessuno escluso. Ma quanto c’è in 21 grammi? Quanto va perduto? Quando li perdiamo quei 21 grammi? Quanto se ne va con loro? Quanto si guadagna? Quanto... sì... guadagna? 21 grammi, il peso di cinque nichelini uno sull’altro. Il peso di un colibrì, di una barretta di cioccolato. Quanto valgono 21 grammi?”

Quei 21 grammi valgono tutto. Andatelo a dire a John Q, a Lincoln Sei Echo e a Jordan Due Delta. ________________________________ Marko Hromis Redattore Vita&Salute Web


:-( ??? :-) @ :-o + # !!! ;-) Dono e Perdono Alessia Calvagno ne parla con la dott.ssa Deborah Giombarresi psicologa e psicoterapeuta Nella vita capita a tutti di trovarsi nella situazione di dover perdonare qualcuno per un torto subito. Per alcuni questo gesto può essere più semplice, per altri invece molto faticoso. Dipende certamente anche dall’entità del torto e da chi si è comportato male con noi. Ma cosa significa perdonare? E quali effetti produce in noi scegliere di perdonare chi ci ha feriti? Mens sana 23 – I benefici del perdono - HopeMedia Italia

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Felicittà

una realtà che cresce e non si pone limiti L’impegno di ADRA PERUGIA al servizio della comunità cittadina, partendo dagli ultimi e dalle periferie

“Ci sarebbe qualcosa anche per me?”. La voce che mi ha rivolto questa domanda è stata quella della signora Luciana. Ci ha visto distribuire pacchi alimentari ad alcune famiglie indigenti di un condominio della periferia di Perugia. È scesa in strada in peno inverno, senza giacca, in ciabatte, senza curarsi di nulla, mi ha preso per un braccio e mi ha detto:

“Non ho nulla, e da quando è morto Don Enzo, non so più a chi chiedere aiuto”. Un tuffo al cuore, ho tolto un po’ di pacchetti da ogni scatolone per crearne uno nuovo da donar-

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le mentre le lacrime le rigavano il viso e saltavano le rughe, fino alla vestaglia.

“Ad averti mandato è il Signore”, mi ha fatto promettere di ritornare da lei, che non ha neanche un telefono cellulare. Insieme a Luciana ci sono più di cinquanta famiglie, sparse in tutta l’Umbria, che Adra Perugia serve mensilmente in sinergia con il Banco Alimentare e con AGEA. Con l’esponenziale aumento della richiesta di aiuto abbiamo lanciato il cuore oltre l’ostacolo e abbiamo unito le forze con altre associazioni della città per aprire un luogo comune di co-working sociale. Un progetto che è ormai realtà da due anni.

Disponiamo di una sede alla quale convergono svariate offerte e richieste, ogni buona volontà trova facoltà di espressione. Sono state allestite postazioni per telelavoro e didattica a distanza per chi non ha mezzi propri; sono stati organizzati corsi di inglese per ragazzi, campagne di raccolta cibo, circuiti di redistribuzione di alimenti eccedenti dai supermercati di zona, incontri di formazione e prevenzione, attività musicali con persone audiolese e realiz-

zato iniziative con Adra e Vita & Salute, come quella del ‘marciapiede didattico’, strumento fattivo di sensibilizzazione alle barriere architettoniche e al senso civico, che contiamo di proporre in modo organizzato alle scuole della città. I nostri sforzi sono stati ripagati da finanziamenti della Regione Umbria e della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e hanno destato la curiosità di giornalisti locali e cittadinanza attiva, al punto da fare individuare in Felicittà il luogo in cui aprire un tavolo di lavoro permanente sulle povertà diffuse. E poi, un giorno, Elio, un uomo di mezza età, affetto da numerosi problemi di salute, che vive in una baracca di alluminio vicino alla ferrovia, nel ricevere alcuni vestiti mi ha messo in mano degli asparagi selvatici che aveva appena colto:

“È l’unica cosa che posso darti in cambio”. Non è vero, Elio mi ha offerto anche la sua amicizia, la sua fiducia, valori ben più preziosi di un sacchetto di vestiti o un pacco viveri. Noi continueremo a camminarti al fianco, Elio, amico caro, e anche al fianco tuo, Luciana; non siete soli, siamo in tanti in questa nostra Felicittà, pieni di entusiasmo. _____________________________________

Marko Hromis Referente Adra Perugia

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Una vita di domande Intervista a Claudio Coppini il redattore di RVS Radio Voce della Speranza che ha avuto in dono le risposte di Gino Strada Claudio, tu hai intervistato Gino, in quali occasioni? Ho intervistato Gino Strada in due occasioni ma l’ho incontrato molte altre volte. La prima volta nel 2010, per il nono incontro nazionale di Emergency a Firenze, 6 giornate ricchissime di appuntamenti e di personaggi, nazionali e internazionali, a tutto campo, al Mandela Forum e al Palazzo dei Congressi dal 7 al 12 settembre. La seconda nel 2013, sempre per la giornata nazionale di 28 VITA

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Emergency, ma questa volta a Livorno, con Gino spalle al mare. Che uomo ti è parso? Ricordo la prima volta, eravamo nel giardino del Palazzo dei Congressi e stava per avere inizio la kermesse di Emergency, ero in agitazione, perché l’addetto stampa mi aveva dato l’ok per l’intervista, ma si era raccomandato: «Non più di 10 minuti!». C’era un gran via vai, ero agitato, emozionato, speravo funzionasse tutto e non facessi

errori, non volevo compromettere l’intervista. Poi mi giro e vedo Gino, in mezzo al prato con in braccio un bambino, suo nipote Leone, figlio di Cecilia. Rimasi colpito nel vedere un personaggio pubblico, come Gino, in un atteggiamento così privato. È così, penso, partirò da qui per l’intervista. Mi chiamano, Gino è pronto. Vado: «Buongiorno Gino, sono Claudio Coppini, inviato di RVS». «Buongiorno a lei», la sua risposta cordiale.


RadioEmergency, è stata per me e per RVS un’esperienza incredibile, grazie a un volontario storico di Emergency, Nicola Garcea

E parto da dove avevo deciso di iniziare: «Un Gino Strada insolito, con il nipotino in braccio?». La risposta è stata secca e mi ha fatto secco: «Non c’ho nessun merito in questa cosa!». Mi sono sentito ghiacciare, il cuore fermo, sicuro di non riuscire più a trovare le parole giuste per andare avanti. Mi feci coraggio, tirai un gran respiro e ripartii subito, l’imbarazzo si sciolse di lì a poco, e Gino cominciò ad articolare con chiarezza le sue risposte. Che uomo mi è sembrato? Beh, ti rispondo con l’ultima mia battuta prima di chiudere l’intervista, gli do del tu e gli faccio: «Scusa Gino, ti posso dare un bacio?», hahahaha, nell’intervista registrata si sente anche lo schiocco. Gino Strada è un uomo che ti arriva diretto al cuore. Tu hai curato per diversi mesi delle trasmissioni radiofoniche ‘radio Emergency’, ti sei sentito una minuscola parte di questo suo grande progetto? RadioEmergency, è stata per me e per RVS un’esperienza incredibile, grazie a un volontario storico di Emergency, Nicola Garcea che curava ogni volta i collegamenti con medici, infermieri, operatori, logistica, dagli ospedali e cliniche di Emergency, dall’Afghanistan, a Kabul Centro chirurgico per le vittime di guerra, al Centro di Maternità di Annabah nella valle del Panjshir. Dall’Iraq, con il Centro di

riabilitazione e reintegrazione sociale di EMERGENCY Sulaimanyia nel quale, i pazienti, quasi sempre vittime delle mine anti uomo venivano sottoposti a trattamenti di fisioterapia e all’applicazione di protesi e potevano frequentare corsi di formazione professionale per imparare un lavoro compatibile al loro handicap. Dalla Libia, dal Sudan, dalla Sierra Leone per l’epidemia di Ebola. E poi dall’Italia con il Poliambulatorio di Marghera o con i pullman attrezzati per visite e cure “Quello” e “Questo”, a Castel Volturno, in Sicilia ecc... Fino ad all’intervista con una infermiera di Emergency del 2020, durante la prima ondata di Covid 19 con l’ospedale in Fiera a Bergamo. Nicola Garcea ci ha fatto viaggiare e raggiungere queste “basi di vita” ogni settimana con il programma RadioEmergency, che storie. Uomini e donne formidabili che avevano e hanno chiaro il loro compito e la loro missione nella vita. In questi 6 anni abbiamo imparato tanto grazie a Emergency. Come mi sono sentito, mi chiedi? Fiero di far parte di un’emittente che grazie ad un’associazione umanitaria condivideva concretamente l’invito di Gesù «ama il tuo prossimo come te stesso». Infinita riconoscenza per quei collegamenti in diretta dal mondo con storie drammatiche

ma colorate dalla speranza portata da uomini e donne al servizio della vita. Qual è il dono più grande che hai ricevuto da Gino? Rispondo con due frammenti fuori onda del dopo intervista. «Gino perché negli ospedali di Emergency nel mondo date la stessa cura e attenzione alla sala operatoria e al giardino?», chiedo. Gino mi risponde così: «Il giardino è l’altro 50% necessario per la guarigione. Ha una funzione terapeutica. Dopo un’operazione tu ti trovi su un letto in posizione orizzontale. Vedere dalla finestra degli alberi in posizione verticale ti aiuta, se poi aggiungi le rose i fiori, i profumi... Muovere i primi passi, da resuscitato, in un giardino, è cura tanto quanto i farmaci. Il giardino è terapeutico e poetico. Ecco perché troverai sempre un giardino ben curato in ogni ospedale di Emergency». L’altro dono. «Gino hai speranza per il futuro?», domando. «Che vuol dire speranza? Noi sappiamo il compito che ci è stato affidato e abbiamo ben chiaro quello che siamo chiamati a fare e dobbiamo fare. Questa è per me speranza». Davide, queste due risposte me le porto scolpite nella mente e nel cuore da più di 10 anni e credo che non le scorderò mai.

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Gino Strada,

un uomo che si fa dono... un dono che si fa uomo

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... la vita salvata e la cura, la protesi e la riabilitazione, l’insegnamento e la formazione, il rispetto e l’amicizia che durano una vita. In una parola, Umanità.


Ancora non riusciamo a crederci, che Gino Strada ci abbia lasciato venerdì 13 agosto 2021. Quel visionario romantico e tremendamente concreto, fondatore di Emergency insieme alla moglie, Teresa Sarti, e ad alcuni amici. L’uomo contro la guerra, contro tutte le guerre, il medico chirurgo che curava tutti nei tanti ospedali e cliniche costruiti via via nelle zone più emarginate del nostro mondo. Un uomo spinto da un rigore e una strenua volontà, quella di offrire la stessa chance di vita dell’Occidente privilegiato, agli ultimi del Pianeta. Abbiamo ripreso dal sito di hopemedia.it un’intervista del 2013 che Claudio Coppini ha fatto a Gino Strada in apertura dell’incontro nazionale di Emergency a Firenze e abbiamo voluto farla riascoltare e commentarla insieme a Francesca Testa, volontaria storica di Emergency, area Firenze, e responsabile della comunicazione del gruppo fiorentino. In quegli anni, e per diversi anni, Radio RVS Firenze una volta la settimana diventava RadioEmergency con straordinari collegamenti dai vari ospedali dell’associazione sparsi per il mondo per raccontare i

vari progetti in corso

.

Francesca ha voluto condividere oggi una delle tante esperienze di speranza che grazie a Gino e ad Emergency hanno cambiato la vita ad un essere umano, in questo caso ad un bambino di nome Soran. Siamo in Iraq, è il 1996, Soran ha 12 anni e raccogliendo verdure con la madre salta su una mina. Milano 2019, Soran è un uomo e fa il maestro di scuola, ha due bambine ed insegna nel suo Paese, oltre che le sue materie, anche come fare a riconoscere le terribili mine-giocattolo. È venuto a trovarci al meeting dei 25 anni di Emergency. La sua storia e l’abbraccio con Gino sono l’essenza di Emergency: la vita salvata e la cura, la protesi e la riabilitazione, l’insegnamento e la formazione, il rispetto e l’amicizia che durano una vita. In una parola, Umanità. Se non l’avete ancora fatto, leggetevi di Gino Strada il libro “Pappagalli verdi”, le diaboliche mine “giocattolo” per mutilare i bambini e i ragazzi e per indebolire lo spirito di resilienza e di libertà di un popolo. Un grazie ai tanti volontari e operatori di Emergency che per diversi anni hanno collaborato con Radio RVS per il programma “RadioEmergency” e un particolare ringraziamento a Nicola Garcea che ne è stato il coordinatore e co-conduttore con Claudio Coppini e Roberto Vacca. VITA

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Chi se lo merita? Oggi è “nostro”, ma “dopo di noi”?

RUBRICA

TRUST

di Giuseppe Cupertino Scegliere in modo informato e consapevole su ciò che ci appartiene finché morte non ci separi “A chi se lo saprà meritare”. Secondo la leggenda queste furono le ultime parole di Alessandro Magno. Il grande condottiero, partendo dalla Macedonia aveva conquistato il mondo allora conosciuto e oltre, sconfiggendo i regni più potenti del suo tempo, quello greco e quello persiano, spingendosi fino all’Indo.

L’eredità di Alessandro Magno Mentre moriva, in modo del tutto inatteso, ad appena 33 anni, abbattuto da una febbre maligna, si narra che Alessandro ebbe l’idea di consegnare ai suoi generali il suo anello simbolo del comando

di cui sarebbe stato investito il suo successore, rinunciando a designarne uno. In questo modo lasciava ai posteri l’ardua sentenza di decidere come destinare la sua eredità. La leggenda dice che questa fu la ragione per la quale, i nove generali di Alessandro (chiamati i diadochi) si sfiancarono in guerre intestine, smembrando e indebolendo l’impero che con incredibile audacia e capacità strategica era riuscito a mettere insieme.

Formulare le ultime volontà Questa di Alessandro Magno mi sembra la storia emblematica del fine vita di molti in Italia. La mancanza di tempo, il timore di scontentare qualcuno, la superstizione, l’impreparazione e la poca consapevolezza delle implicazioni giuridiche delle successioni fanno sì che nel nostro paese il 79% dei , come Alessandro cittadini Magno, dichiara di non aver for-

mulato le proprie volontà circa la gestione del proprio patrimonio dopo la morte, lasciando agli eredi la responsabilità di gestirlo. Un’evenienza foriera di litigi e incomprensioni, di odi e rancori che durano negli anni.

Sostenere le scelte di una vita Non solo, spesso il non formulare le proprie volontà post mortem comporta la rinuncia a continuare a sostenere le scelte e i progetti ai quali si è dedicato la vita. Secondo i dati diffusi dal Consiglio Nazionale del Notariato, dopo l’emergenza Covid è cresciuto il senso di solidarietà nel paese e il 72% della popolazione adulta (25-75 anni) risponde di sapere che cosa sia un lascito solidale. Ma anche se Il numero di coloro che dichiarano di avere fatto o pensato di fare un lascito a favore di organizzazioni benefiche, in piena pandemia, è registrato in aumento dell’8%, esso rappresenta comunque ancora VITA

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IMPARARE A GESTIRE IL “DOPO DI NOI” solo il 20% degli ultracinquantenni. E la percentuale si abbassa ulteriormente nella popolazione più giovane.

Gli eredi Quindi, stando ai dati statistici, non tutti sanno che, pur tutelando gli interessi dei propri congiunti, gli eredi legittimari, una quota del nostro patrimonio post mortem rimane disponibile e non è vincolata alle disposizioni di legge che garantiscono questi stessi eredi. Tale quota è variabile in funzione della presenza degli eredi legittimi, che sono coniuge e figli in prima battuta e genitori qualora non vi fossero . In assenza di tali soggetfigli ti, per i quali esiste un vincolo di legge, la destinazione del proprio patrimonio è libera. È importante sapere anche che in assenza di eredi (si parla di “eredità vacante), il patrimonio è devoluto . Tale condizione si allo stato verifica quando non vi sono eredi

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entro il sesto grado e non siano stati designati eredi per testamento. Solo nel 2020 lo Stato è entrato in possesso di patrimoni per un valore di quasi 16 milioni di euro.

Attenzione ai Bitcoin Infine, in tempo digitalizzazione, soprattutto dell’economia, è importante sapere che il portafoglio digitale in Bitcoin non è esigibile da eventuali eredi se il proprietario non ha disposto un . testamento

Il 25% per una buona causa Ecco un numero di ragioni sufficienti a farci pensare seriamente a come organizzare il “dopo di noi”. Lo possiamo fare in modo concreto e realistico, anche continuando a influire sulla nostra società in base alle scelte che abbiamo com-

piuto nella nostra vita, quando abbiamo deciso di abbracciare una causa, un progetto particolare, una fede. Infatti, una quota del nostro patrimonio, dal 25 per cento al 100 per cento, a seconda di quali eredi entrano nella nostra linea di successione, può essere devoluta a sostenere i progetti che ci sono cari e nei quali abbiamo investito tempo e risorse nella nostra esistenza. Tenuto conto che il patrimonio complessivo delle famiglie italiane è di circa 9.000 miliardi di euro, applicando la percentuale minima del 25 per cento, in teoria vi sarebbero oltre 2.200 miliardi disponibili per sostenere tali progetti e attività. Le stime dicono che entro il 2030 le famiglie italiane devolveranno 129 miliardi in donazioni e lasciti testamentari a favore di organizzazioni del Terzo Settore, con una crescita superiore al 20 per cento rispetto alla situazione attuale.


Gli strumenti

per definire in che modo dovranno essere usati in nostri beni

1

Il testamento: olografo, pubblico, segreto, speciale

1

2 2

Il legato con il quale una parte del patrimonio viene affidata ad un legatario

3 Il trust familiare derivato dalla legislazione anglosassone, ma entrato con pieno diritto in quella nazionale, per tutelare beneficiari specifici o uno scopo particolare

3

4

4

La polizza vita nella quale il titolare può indicare il beneficiario della somma assicurata, persona fisica, giuridica o ente che sia, anche totalmente estraneo all’asse ereditario

Pensiamo al “Dopo di noi” Insomma, oggi disponiamo di tutta una serie di dispositivi per gestire il “dopo di noi” e far sì che il nostro progetto non si esaurisca con la nostra esistenza in vita. Superate le difficoltà psicologiche e le reticenze che possono frenare una tale scelta, ci troviamo di fronte a numerose opportunità e disposizioni che ci consentiranno di evitare al nostro patrimonio la fine

dell’Impero conquistato da Alessandro Magno. L’incertezza derivante dalla pandemia ci ha resi anche più consapevoli che rimandare questa operazione non è saggio, nell’interesse delle persone che amiamo e dei progetti che accarezziamo e ai quali abbiamo spesso dedicato l’esistenza.

________________________________ Giuseppe Cupertino, Direttore Opera Sociale Avventista (OSA) VITA

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STORIE

DONARE OSSIGENO

L’uomo che pianta alberi intervista a Fiorenzo Caspon Un imprenditore veneto che vuole restituire alla sua terra il ricordo di quando era bambino L’India può vantare Jaday Molai Payeng, che a partire dal 1979, dopo un devastante alluvione, ha cominciato a piantare alberi in quella che era diventata una landa desolata e sabbiosa del Paese. Oggi, nella stessa regione, grazie al suo instancabile lavoro di piantumazione, è cresciuta una foresta rigogliosa, grande 550 ettari. Lo ha fatto da solo. «Ho avvisato il Dipartimento Forestale e ho chiesto loro se lì potessero crescere alberi. Hanno risposto che non sarebbe cresciuto niente su quella terra, ma mi hanno anche detto di provare a piantare bambù. L’ho fatto, non c’era nessuno ad aiutarmi. Nessuno era interessato». Oggi, in quella foresta, vivono elefanti, rinoceronti, diverse specie di uccelli, formiche rosse, che l’uomo ha portato sull’isola dal suo villaggio, e persino cinque tigri reali del Bengala. Il Brasile ha Sebastiaõ Salgado e la moglie Lélia Wanick, che hanno piantato quattro milioni di alberi in venti anni. Dopo anni di lavoro all’estero, il famoso fotografo brasiliano torna a casa e trova la desolazione. Alberi sradicati, terra erosa e acqua piovana che scorre e trascina ogni cosa. Deserto, nulla. Venti anni e 17

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mila ettari di terra sono rinati a nuova vita. «Bisogna tornare al pianeta, in primo luogo dobbiamo farlo noi spiritualmente. Bisogna rispettarlo, fare qualcosa per proteggerlo, la terra, gli oceani. Io fotografo, io pianto alberi, faccio le cose che ritengo vadano fatte. Ma bisogna che lo facciano le persone, gli stati, le grandi aziende: perché bisogna amare la natura, l’acqua, la nostra terra per ripartire». Noi? Noi abbiamo Fiorenzo Caspon, un imprenditore veneto che vuole restituire alla sua terra il ricordo di quando era bambino. Di quando la terra era madre, non una risorsa da depredare. Una terra sulla quale si piegavano ogni giorno migliaia di schiene al lavoro, all’opera, alla cura. Fiorenzo, il nostro Fiorenzo, ha piantato circa 500 alberi di alto fusto all’anno, alberi espiantati perché scomodi, fastidiosi. Lo ha fatto per 10 anni di seguito, da solo e non si è stancato, non si è pentito, anzi. «I miei nonni, i miei genitori hanno amato questa terra, una terra fertile, feconda. Non posso girarmi dall’altra parte, anche i miei nipoti devono godere dell’ombra di queste fronde, devono poter respirare questo magnifico spettacolo della vita, questo dono immeritato».


Ha piantato circa 500 alberi di alto fusto all’anno, per 10 anni di seguito, da solo

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INTERVISTE

Eutanasia:

questione di vita e di morte, in punta di Diritto e in punta di piedi Vita & Salute Web incontra Luciano Violante Presidente Violante, in un suo recente contributo per Repubblica, in piena campagna di raccolta firme per il referendum sull’ eutanasia, pone una riflessione che sembra individuare un limite tra “fine vita” e “diritto”. Sono termini inconciliabili o possono comprendersi e determinarsi vicendevolmente? L’intervento della Corte Costituzionale, nel 2019, riesce a esaurire e perimetrare il tema, in punta di giurisprudenza? Quale contributo di riflessione vuole dare ad un tema che si preannuncia particolarmente divisivo ma, di certo, ampiamente dibattuto? Credo che sulle decisioni “ultime”, quelle non revocabili, come il darsi la morte, occorrano riflessioni rigorose e procedure garantite nell’interesse della stessa persona che aspira alla morte. Vanno distinti due casi molto diversi che nel dibattito vengono confusi: il suicidio assistito (art.580 c.p.) e l’omicidio del consenziente (art.579 c.p.). Sul primo è intervenuta la Consulta, in un modo che condivido. Sul secondo intende intervenire il referendum che propone non l’eutanasia, ma la liberalizzazione dell’omicidio del consenziente sempre, tranne i casi di infermità di mente, minore età e inganno. Quindi sarebbe depenalizzato anche l’omicidio di chi chiede di essere ucciso in un momento di depressione, di crisi sentimentale, di disavventura finanziaria. Mi sembra inaccettabile.

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Nell’articolo citato, in vista della consulta referendaria, conclude con una sorta di appello: “si eviti che il Paese, prigioniero delle buone intenzioni, autorizzi inconsapevolmente a schiacciare i più deboli”. Quando scrive “buone intenzioni” facendo poi riferimento al rischio che corrono “i più deboli”, sembra farsi interprete delle istanze di entrambi i fronti. È ancora possibile, secondo lei, in un’Italia sempre più divisa, approcciare temi di bioetica senza presunzione, tesi assolutistiche e reciproca delegittimazione caricaturale? La nostra società invecchia, ha molte diseguaglianze sociali, presenta costi molto alti per la sanità, è attraversata da idee eugenetiche. Quale sarebbe la fine dei vecchi poveri e ammalati se si tollerasse l’omicidio del consenziente? Alle spalle del referendum ci sono motivazioni che guardano alla sorte dei malati gravissimi, per i quali c’è già la sentenza della Corte; e motivazioni ispirate da un individualismo esasperato che non tiene conto delle conseguenze sociali di quella opzione. Il tema della eutanasia ha certamente un fascino. Ma, ripeto, il referendum non riguarda l’eutanasia, già legittimata dalla Corte Costituzionale; il referendum legittima, con alcuni limiti, l’omicidio del consenziente, che nel tempo può condurre a conseguenze tragiche. In vista del referendum, se sarà dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale, bisognerebbe spiegare chiaramente la differenza


e aprire un dialogo non condizionato da a priori, ma ispirato all’etica della persuasione. Questo mese la nostra rivista affronta da più punti di vista e con molte testimonianze e racconti, il tema del “dono”. È un concetto centrale del contendere referendario ma si esplicita in tante sfumature che non possono essere ricondotte al solo bianco e nero. Lei ritiene che la vita sia un dono? Crede possa esserlo anche la morte? In che modo lo Stato può garantire colui che dona e colui che riceve il dono? Non ho titolo né competenze per addentrarmi in questo tipo di argomentazioni. La vita è il fatto che più strettamente attiene al singolo essere umano e all’umanità nel suo complesso, a quella di chi ha vissuto, di chi vive e di chi vivrà. Perciò merita il massimo rispetto e la massima tutela, nella considerazione dei casi-limite. La morte è la fine biologica; ma ciascuno di noi continua, dopo la morte, nella memoria dei vivi e nelle tracce che ha lasciato durante la vita. Altri aspetti del dopo-morte sono affidati ai convincimenti di ciascuno di noi. Chi ha fede, ha speranza. Quanto all’intervento dello Stato in temi eticamente controversi, mi permetto di richiamare quanto disse Aldo Moro al Consiglio Nazionale della DC, dopo l’esito del referendum sul divorzio, avvertendo che settori dell’opinione pubblica “sono ora ben più netti nel richiedere che nessuna forzatura sia fatta con lo

strumento della legge, con l’autorità del potere al modo comune di intendere e di disciplinare in alcuni punti sensibili i rapporti umani. Di questa circostanza non si può non tener conto perché essa tocca ormai profondamente la vita democratica del nostro Paese, consigliando talvolta di realizzare la difesa di principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale”. Presidente Violante, la sua vita è testimonianza di impegno al servizio dello Stato: uomo delle istituzioni, magistrato ma anche docente universitario. Qual è il dono più grande che sente di aver fatto al Paese e ai suoi studenti e quale è il dono più grande che ritiene di aver ricevuto da entrambi? Non penso di aver fatto nulla di particolare. Ho invece ricevuto molto. Ho avuto la possibilità di servire il mio Paese come magistrato per dodici anni, come parlamentare per trenta giungendo a presiedere la Camera, come docente dal 2009. I miei studenti mi hanno costretto e mi costringono a studiare e a imparare continuamente. Sono grandi doni.

__________________________________________ Luciano Violante Presidente Camera dei deputati dal 1996 al 2001

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RIFLESSIONI

LA MORTE E IL SUO SIGNIFICATO

ASCOLTA L’ARTICOLO

Arrivati alla fine, non ci sono più parole di Hanz Gutierrez La società contemporanea ha smarrito gli strumenti per spiegare la morte

La morte e il suo significato si sono sempre situati oltre la portata della comprensione umana. Non solo perché questa irrompe nell’esistenza in modo inaspettato, ma soprattutto perché, anche quando ci troviamo di fronte ad essa e ne sentiamo la vicinanza, eccede sempre i nostri pensieri e il nostro intento di comprenderla. Quindi, più che una “riflessione sulla morte”, oggettiva e precisa, la nostra è sempre e di gran lunga, piuttosto, una “esperienza della morte”. Noi umani la viviamo come situazione ineludibile e travolgente, di fronte alla quale, i nostri pensieri, laici o religiosi, rimangono sempre corti, frammentari e insufficienti.

Non esiste una verità filosofica sulla morte o un’ortodossia della sua comprensione. Sono tutti sospiri, i nostri, pensieri sparsi che non possono entrare a forza in un sistema.

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Di fronte alla morte e alle sue varie comprensioni, devono dunque prevalere il rispetto e l’empatia, l’altro può arrivare a esprimere qualcosa che io non sono stato in grado di pronunciare in modo intelligibile. Siamo al cospetto dell’eccedenza della realtà sul pensiero, della vita sul suo senso, dell’esistenza su ogni dottrina che pretenda di descriverla e collocarla in un ordine comprensibile e definitivo. La morte la si vive in modo diretto quando, in prima persona, si cessa di esistere, è chiaro. Se poi dovesse subentrare in modo repentino e inaspettato, senza prodromi né dilatazioni temporali, questa assume la forma di un istante terribile e conclusivo. Ma, della morte, è soprattutto l’esperienza indiretta quella che accresce maggiormente il dolore e la sofferenza. La morte degli altri, di quelli che ci sono cari. Con loro scompare qualcosa

di “nostro”, una morte nostra, che si sperimenta da vivi e che produce una lacerazione ingovernabile. Una morte in vita. Non è poi necessario che l’altro muoia fisicamente. È sufficiente che la persona amata rischi anche solo di morire perché questa angoscia scatti e ci divori impietosamente dal di dentro. È la mortalità più della morte stessa a destabilizzare ed evidenziare l’incancellabile fragilità e vulnerabilità del nostro essere.

La morte abita proprio al centro della vita. Per fronteggiare questa eventualità permanente e ininterrotta, l’essere umano e le società premoderne hanno foggiato simboli, rituali, parole tali da permettere di pensare e di vivere questa prossimità ineludibile con l’ignoto. Questo lavorio creativo non ha certamente cancellato il dolore e la sofferenza che la morte procura, ma ha comunque permesso di focalizzarne un volto meno buio, aggressivo, estraneo.


Nella forza del gruppo, ad esempio, l’individuo che muore non lo fa mai completamente perché il suo ricordo sopravvive in coloro che rimangono. Nella dimensione del ciclo naturale, osservato con cura, d’altro canto, anche l’umano e la sua morte possono rientrare in una logica più ampia, quella della trasformazione continua della vita. Le civiltà premoderne hanno trovato, in terzo luogo, un senso profondo della morte nella fiducia nel divino, in un’istanza superiore che funge da garante di tutto ciò che all’umano può risultare incomprensibile e arbitrario. Questa forma strutturata e stratificata di pensiero millenario pare non trovare più posto nelle nostre società moderne e postmoderne, efficienti, organizzate, “evolute”. Un colpo di spugna ha come cancellato dalla lavagna nera il tema per eccellenza, calcato in gesso da coloro che ci hanno preceduto. Il nodo è stato sciolto? Certamente no. La presunzione moderna appare, piuttosto, sul palcoscenico del senso, quasi come una sorta di involuzione culturale, un arretramento connotato dall’afasia. È come se la morte sia stata dimenticata, separata dalla vita fin dalla nascita. Là dove c’è morte non c’è più vita. E se la vita c’è, è chiaro che lì la morte non possa esserci.

Mancano le parole. Si fa dunque largo, ai nostri tempi, un pensiero disgiuntivo, legato al concetto di efficienza. La morte non c’è più, è negata, semplicemente, senza tanti giri di parole. La morte non esiste, basta una passata di alcol per cancellarne gli aloni. Un processo produttivo efficiente, tecnico, economico, non può contemplare un arresto della macchina, un colpo a vuoto.

Tutto deve girare a perfezione, senza interruzione alcuna. La morte? Va cancellata, nascosta almeno, potrebbe distrarre. È necessario vivere non solo come se la morte non esistesse, ma proprio come se noi o i nostri avatar fossimo immortali. I sistemi produttivi, specchio dell’homo faber, devono funzionare, rigorosamente, secondo le previsioni. I luoghi, i simboli, i momenti che nel passato ci ricordavano la co-presenza costante della morte, devono scomparire o essere relegati nell’ombra, ridotti a fatti privati. I cimiteri, il lutto, le commemorazioni, i moribondi… tutto deve essere celato alla vista. La morte va segregata. Il mondo continua a girare, deve continuare a girare. Questo atteggiamento moderno ha creato un paradosso evidente. Da un lato la morte è respinta, allontanata, e dall’altro, paradossalmente, è voluta e anticipata. Efficientismo

ed eutanasia, dimenticanza e anticipazione della morte, egoismo e masochismo culturale sono gli altri ulteriori paradossi che contraddistinguono la nostra era.

Facciamo di tutto per vivere più a lungo dimenticando la morte e finiamo poi per volerla anticipare perché stanchi di vivere. Va da sé che vivere in questo continuo paradosso culturale finisca per esasperare e radicalizzare il morso del dolore e della sofferenza muta. Rispetto alle culture premoderne, quando la morte ci presenta il suo conto, non trova mediazione alcuna: né un gruppo allargato che possa fare da cuscinetto, né un senso naturale o trascendente che possa consolare… la presenza della morte travolge e trascina l’essere nel gorgo dell’angoscia più buia. L’individualismo, il pragmatismo tecnico e la secolarizzazione hanno destrutturato e cancellato quelle istanze che nel passato rendevano la morte più morbida e benigna. Il gruppo sociale, la natura e la divinità, garantivano e rappresentavano quei riti di passaggio che allargavano lo sguardo all’orizzonte del senso e permettevano di avvicinarsi alla soglia della consolazione. _____________________________________

Hanz Gutierrez Docente di Etica, Facoltà Avventista di Teologia (FAT) di Firenze

PROPOSTE BIBLIOGRAFICHE •

Byung Chul Han, L’espulsione dell’altro, Nottetempo 2017

Umberto Curi, La morte del tempo, Il Mulino 2021

Antonio Cavicchia Scalamonti, La morte. Quattro variazioni sul tema, Ipermedium 2007

Elena Pulcini, Tra cura e giustizia. Le passioni come risorsa sociale, Bollatti Boringhieri 2020. VITA SALUTE WEB 00I21 41


Ora!

È tempo di ringraziare di Giovanni Varrasi Un esercizio virtuoso nella riscoperta quotidiana della preghiera Quasi tutti gli umani pregano, chiedono alla Divinità di proteggerli, di aiutare persone care in difficoltà, di evitare gravi malattie o drammi personali, di regalare fortuna. È nella natura dell’uomo una doppia forte propensione: da una parte rivendicare con orgoglio la forza della propria soggettività, l’autonomia autosufficiente, la spinta individuale nel risolvere i problemi; dall’altra il desiderio, quasi la necessità di affidarsi alla madre quando si è bambini, al padre per qualche consiglio; da adulti a persone a cui si attribuisce qualità e poteri, e a Dio.

La preghiera è la forma attraverso cui si chiede questa protezione, la perorazione di una sorta di abbraccio consolatorio, di una carezza che dia sollievo dalle pene della vita, di una protezione che non ci faccia sentire disperatamente soli nel cammino dell’esistenza. Si prega non solo in chiesa. Le vedi pregare, le persone, accanto a un letto d’ospedale, davanti a una sala parto, prima di un esame o di 42 VITA

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una prova sportiva, o da soli in tutte le circostanze difficili o gioiose. Dovunque.

Preghiere serene o disperate, commosse, piene di fiducia che la richiesta sarà accolta. Le preghiere di cui parlo non sono richieste, sono VISIONI, nel senso di vedere, finalmente. È strano vedere, guardare con attenzione, perché noi facciamo di tutto per accecarci. Per questo, quando riusciamo a vedere bene è una cosa strana, straordinaria. È questo il motivo per cui le chiamo visioni. L’uso della preghiera nella vita di tutti i giorni può essere consigliabile. Una preghiera specifica, speciale: la preghiera del ringraziamento. Nella vita di ciascuno di noi ci sono o ci sono state esperienze negative, frustranti, dove il destino sembrava accanirsi. E poi, per fortuna, aspetti positivi di noi stessi, delle nostre relazioni affettive, private o sociali. Ecco, mi piacerebbe che ringraziassimo per quello che abbiamo. La propria salute, per esempio, e

quella delle persone care, la presenza della bellezza nel mondo, tra le persone e nella natura. Per bontà e buona volontà, piante rigogliose nella foresta delle rabbie, delle paure, delle guerre private.

Si può ringraziare persino l’aria che si respira, soprattutto se è profumata e leggera e non sa di piombo ( di quello siamo colpevoli noi stessi), l’acqua che beviamo, la terra che ci fornisce tanti buoni frutti, il cielo misterioso, infinito, sopra di noi. Ringraziare, ringraziare esplicitamente con parole precise, pensate, ricercate. Di quello che ci regalano e che ci siamo procurati, noi e gli altri, fino a spingerci verso la Divinità.

La mia intenzione non è solo religiosa in senso stretto, ma umana, umanistica, medica. Ringraziare, essere grati, fa bene, produce sostanze chimiche che


potenziano il benessere corporeo e mentale e che contrastano deformazioni, contrazioni, imbruttimenti dell’essere e persino gravi malattie.

Propongo un esercizio: ogni sera oppure ogni mattina dedicate qualche minuto della vostra giornata al ringraziamento. Fatelo con apertura di cuore e di mente. Non un ringraziamento generico, ma preciso, approfondito, puntuale. Limitatelo a due o tre aspetti della vostra vita, da

cambiare ogni volta, dove potrete concentrarvi e vedere bene tutti gli aspetti, le persone, la concatenazione dei fatti.

Potete ringraziare voi stessi, la vostra intelligenza, l’abilità, la qualità etica o del pensiero, pensare con gratitudine a estranei che vi hanno offerto possibilità inaspettate, ringraziare il Caso, la Fortuna, oppure Dio che si è sporto verso di voi favorendo un’intuizione, un pensiero, una scelta. Negli USA si festeggia, il quarto

giovedì di novembre, il giorno del Ringraziamento. Si chiede a Dio di proteggere le famiglie e lo stato americano. Alla platea di Vita & Salute Web mi sentirei di proporre la celebrazione di una festa quotidiana, nella quale si provi a uscire dalla prigione dell’egocentrismo automatico, per camminare o veleggiare verso tutto quello che è fuori e può influenzare positivamente la vita che è dono autentico. ____________________________________

Giovanni Varrasi Medico, psichiatra, psicoterapeuta

...mi piacerebbe che ringraziassimo per quello che abbiamo. La propria salute, per esempio, e quella delle persone care, la presenza della bellezza nel mondo... VITA

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STORIE

Un dono di nome Omar di Rolando Rizzo

ASCOLTA LA STORIA

Dietro al suo anagramma una storia di salvezza e condanna

Omar significa vivere lungamente ma, questo, Omar non l’ha mai saputo. Non sapeva nemmeno che quella notte stava per morire troppo presto, al largo di un’isola dell’arcipelago siciliano, quando si ritrovò scaraventato in mare. Non aveva ancora tre anni, Omar, e dovette lottare con le onde che uccisero numerosi suoi connazionali, compresi i suoi genitori. Lui fu ritrovato nudo e infreddolito sulla spiaggia, molto distante da dove furono rinvenuti gli altri. Dormiva semisepolto nella sabbia, come una tartarughina addormentata. Come abbia fatto a sfuggire alla violenza degli scafisti e a quella del mare non è dato sapere.

È certo che Omar pareva nato dall’acqua e che l’acqua fosse la sua vera casa e nuotava con la stessa gioia dei delfini in amore. Lo trovarono un mattino un uomo e una donna, una strana coppia di loschi massaggiatori che, dopo quintali di carte bollate, lo ottennero prima in affidamento poi in adozione. I due, determinati a superare le competenze di massaggiatori per raggiungere la categoria dei santoni, vivevano isolati in prossimità degli scogli, laddove è vietato costruire. Ma la coppia, per conoscenze altolocate e un potere di ricatto senza pari, riuscì a costruirvi un’abitazione miserabile dalla quale operava contrabbandando poteri misteriosi.

Ricevevano i loro clienti solo a notte fonda, per essere coadiuvati dai fantasmi evocati dai sibili del vento e dal frangersi delle onde contro la scogliera. Brutta casa la loro, soprattutto all’interno. Un eccesso di panni rossi, di animali imbalsamati quali la civetta e il gufo, mescolate a ritratti della vergine e di padre Pio, a busti di Budda e di Mussolini a croste di cattivo gusto che inquadravano corna, zampe di lepre e di volpe, mentre ai quattro angoli olezzavano robuste collane d’aglio intrecciate. Quella abitazione orrenda era frequentata nella penombra da persone insospettabili che compievano pratiche ridicole, nella convinzione che i due potessero avere potere sulla vita e sulla morte, sull’amore e sul dolore, sulla malattia e sulla salute. La loro fama, che si era diffusa e continuava a rimanere sommersa come un fiume carsico, se l’erano costruita sapientemente e ignobilmente pronosticando guarigioni e morte con la complicità di un infermiere disonesto il quale, lautamente ricompensato, faceva loro consultare le cartelle cliniche dell’ospedale oncologico che non era lontano dalla loro abitazione. All’indomani, l’uomo telefonava al paziente di turno dicendo di volerlo incontrare; se la risposta fosse stata affermativa, si sarebbe presentato a casa sua o in ospedale con un mazzo di fiori, raccontando di averlo visto in sogno e promettendo la diagnosi esatta e la guarigione certa. Chiedeva poi il permesso di poter fare una verifica, semplicemente massaggiando e auscultandogli le piante dei piedi. Distribuiva a piene mani certificati di vita e di VITA

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morte, gioendo con i primi e piangendo con i secondi, non senza illuderli promettendo loro che se si fossero recati presso di lui, sarebbero guariti. La fama si sparse: “ci sono tra noi creature ultrasensibili, capaci di svelare i misteri, in grado di penetrare il regno dei morti e i segreti della salute, leggendo le piante dei piedi…”.

La notte era tutta un brulichio di persone, incamminate verso quella catapecchia. Disperati per malattia, affari, amore, che cercavano sollievo pur vergognandosene un pochino. Non era raro entrassero in quel tugurio mascherati. I due figuri sapevano bene di non possedere alcun potere ultraterreno, ma nel trattare i disperati sapevano come rendersi credibili. Capaci di essere alla volta empatici, solidali, grandi ascoltatori anche se i pazienti erano per entrambi solo materiale inerte per la loro storia, anzi per il loro conto corrente. Esseri ignobili che, anche davanti alla disperazione più nera erano capaci di simulare commozione, partecipazione, solidarietà ma, mentre fingevano di piangere, calcolavano tempi e modi per mungere i malcapitati di turno. Qualcuno scopriva ogni tanto il marcio che si celava dietro la loro apparenza solidale, ma presto si accorgeva che una denuncia avrebbe significato mettere a repentaglio la propria stessa vita e la propria reputazione.

L’indifferenza di questa coppia criminale verso l’intero genere umano era radicale, universale. Somigliava a quella delle iene e dei condor che attendono la morte di qualunque essere vivente per poterlo profanare, dilaniare e divorarlo sino all’ultima fibra. Quel fresco mattino di luglio in cui raccolsero il 46 VITA

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piccolo fagotto, Omar, sfinito, sulla sabbia. Lo portarono a casa che ancora dormiva, nel breve tragitto fecero calcoli e piani su quanto avrebbe fatto loro guadagnare quel bambino miracolato. Lo raccolsero come fosse un’ombrina appena pescata, Pensarono a una giovane baronessa sterile che tanto avrebbe voluto adottare un bambino…non sarebbe stato difficile collocarlo. Arrivati a casa lo immersero nel catino senza che riuscisse a svegliarsi. Dormiva, non faceva altro che dormire, il piccolo tesoro, per tre giorni e tre notti; mentre dormiva succhiava latte di capra, tiepido. Il quarto giorno, all’alba, Omar aprì gli occhi mentre la coppia di imbroglioni, appena alzatasi dal letto, lo stava guardando. Il bambino, pelle immacolata e opaca da mulatto, occhi dolcissimi e grandi color cognac, dentini bianchissimi, labbra pronunciate moderatamente, li osservò per un’istante facendo roteare gli occhi da destra a sinistra con inusitata grazia, per poi sciogliersi in un sorriso che avrebbe illuminato la notte; li fissò entrambi e disse: “Mamma, Papà”.

Accadde l’incredibile. Quei due figuri avari e cinici, improvvisamente, come per incanto, sentirono nell’anima, contemporaneamente, un flusso caldo di tenerezza e d’amore. Un meraviglioso trasporto, un intenso, gioioso, bisogno di darsi a quell’esserino indifeso, sorridente, mite. Quel bambino che quando li vedeva batteva le mani, afferrava le sponde della vecchia culla di vimini e la scuoteva festoso… I suoi occhi, ecco: furono quegli occhietti a struggere il loro cuore. Quel batuffolo d’ebano, di carne arrivata in un barcone di disperati, salvato dalle acque dal Dio dell’impossibile, gettato loro tra le braccia come lievito d’amore, aveva infranto l’involucro di pietra


STORIE

La mattina dopo la festa, si svegliarono con chiari sintomi da contagio: erano stati colpiti tutti e tre, ma solo Omar in forma pesante... sviluppatosi intorno al cuore. Guariti? Guariti dalla loro miserevole cupidigia senza scrupoli? No. Non del tutto. Solo nei confronti di Omar. Per il resto rimase tutto invariato, ogni sotterfugio, ogni rapina, ogni disprezzo. Anzi, ora la famiglia si era allargata e occorreva provvedere al futuro di Omar e gli scrupoli, se mai ce ne fossero stati, si dileguarono come un’ombra fugace. Il loro grande amore era come quello dei lupi e delle iene che amano i loro cuccioli anche a rischio della vita. Accadde quello che accade a tanti, laddove l’amore, è, in fondo, un sentimento narciso e animale.

Passarono quindici anni durante i quali Omar crebbe buono, generoso, convinto di avere a che fare con degli eroi benefattori. Festeggiò il suoi diciottesimo circondato da amici su una famosa terrazza, in tempi di Covid, in una festa clandestina da mille e una notte. Era convinto che il Covid fosse una forte influenza amplificata per motivi di potere e credette di prevenirlo con un intruglio che i suoi vendevano illegalmente. I “genitori adottivi” si erano fatti vaccinare clandestinamente ma non potevano coinvolgerlo, per timore scoprisse la loro doppia vita e il patrimonio immenso, lievitato a dismisura anche grazie alla vendita degli intrugli antiCovid-19. Per amore di Omar e per timore della legge avevano deciso di trasferirsi in continente e limitarsi a esercitare solamente la pratica dei massaggi, per la quale possedevano diplomi regolari. Il Covid-19 sarebbe stato l’ultimo affare losco, proprio l’ultimo. L’amore animale verso Omar, solo quello, li aveva convinti a cambiare vita, città, nazione. Ma non fecero in tempo; proprio la mattina dopo la festa, si svegliarono con chiari sintomi

da contagio: erano stati colpiti tutti e tre, ma solo Omar in forma pesante: avvertiva forti dolori ai muscoli, la gola infiammata, scariche di diarrea, mal di testa, perdita del gusto e dell’olfatto. Sulle prime dettero la colpa agli eccessi della sera prima, poi si resero conto che avevano contratto il virus.

Omar chiese alla madre di somministrargli uno degli intrugli che vendeva, ma la coppia decise di portarlo all’ospedale. Omar non capiva. Per nulla spaventato, ripeteva a memoria i pensieri ottimistici con i quali era stato educato. Poi nulla poté più fare o ricordare, arrivò un’ambulanza preceduta dalla polizia. Qualche genitore alla vista dei figli infettati alla festa aveva denunciato l’assembramento illegale. Un maresciallo dei carabinieri, molto autoritario, spinse Omar nell’ambulanza e i due santoni la videro sparire avvolta dalla polvere di terra battuta. Temevano di non rivedere mai più quel figlio meraviglioso, quel dono insperato d’amore, che le onde della vita aveva loro gettato tra le braccia. E mai più lo videro. Il ragazzo sabotò le cure, in coerenza con quanto aveva appreso, e morì solo, come tanti suoi amici, assassinato da due ladroni di lui innamorati, colpiti dai loro stessi sortilegi. Avevano ricevuto gratuitamente le chiavi del paradiso e le avevano perdute, vittime dei loro stessi incantesimi. Alcuni pescatori che all’alba passavano nei pressi della loro abitazione per raggiungere le barche li videro piangere guardando il mare. ______________________________________________________

Rolando Rizzo Poeta e autore di romanzi

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... la prima cosa che ci viene in mente pensando al dono è quando diamo per scontato ciò che l’altro fa per noi, ritenendolo parte del suo dovere. 48 VITA

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PENSARE, RINGRAZIARE, SONO I VERBI DELLA COPPIA

Il dono è think and thank Riflessioni e spunti di Roberto e Anna Iannò, Ministeri della famiglia (UICCA) Ci troviamo, insieme, all’ingresso del Vittoriale, la casa-museo che ospitò il poeta D’Annunzio, e siamo colpiti dalla frase incisa sul portale d’ingresso: «Io ho quel che ho donato». Com’è possibile che ciò che doniamo rimanga ancora, in qualche modo, in nostro possesso? Poi, pensiamo a un’immagine biblica, quella del dono cristiano per antonomasia, cioè Gesù Cristo: «Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato (donato) il suo unigenito Figlio» (Giovanni 3:16). Anche in questo caso, Dio non ha perso nulla nel donare ma, anzi, appare ai nostri occhi ancora più totale. E che dire del dono, così come viene declinato nel luogo della famiglia? Quali vissuti evoca e in che cosa possiamo crescere? Il dono-dovuto. La prima cosa che ci viene in mente pensando al dono è quando diamo per scontato ciò che l’altro fa per noi, ritenendolo parte del suo dovere. Se durante il fidanzamento apprezziamo un dono particolare – per il compleanno, una festa – una volta sposati rischiamo di non stupirci più di quel gesto e di ritenerlo, piuttosto, un fatto scontato, se non addirittura facente parte dei “doveri coniugali”. Quando succede, il “grazie” che ne deriva diventa più una frase di buona educazione piuttosto che di apprezzamento per quanto ricevuto. Quanto è invece importante fermarsi e pensare al dono che l’altro – il coniuge, il figlio, un parente – ha fatto per noi. Non è un caso che la parola “grazie”, in inglese thank, derivi proprio dal verbo “pensare”, cioè to think. Nella coppia è importante non farsi prendere dalla routine fino a non aver più tempo per porre attenzione ai doni dell’altro. Il dono-apprezzato. A questo punto, quando pensiamo al dono ricevuto, possiamo sperimentare la gioia che ne deriva. Quel dono diventa importante, indipendentemente dal suo valore. Diventa speciale,

anche se fatto per l’ennesima volta. Quel dono porta a esprimere un “grazie” ancora più totale. È significativo che la radice di “ringraziare” è grazia, cioè “favore e dono”, che a sua volta deriva da gioia. Quindi, di fronte a un dono sono invitato a restituire, anche se in parte, il piacere ricevuto. Solo quando siamo riconoscenti – cioè abbiamo pensato – sappiamo esprimere un grazie di cuore, restituendo così al nostro coniuge parte della gioia ricevuta. Non è più un “grazie” sfuggente, distratto, automatico, ma è un dono bello quanto ciò che abbiamo ricevuto. Il dono-ricambiato. Ora siamo pronti per sperimentare il livello massimo del dono: il desiderio di contraccambiare, non certo per sdebitarci quanto invece come desiderio di donarci a nostra volta. Il dono è una relazione a doppio senso, un legame reciproco che porta a trovare un equilibrio tra ricevere e dare. Quest’esperienza del dono ci porta a esprimere il nostro “grazie” a un livello superiore. Non a caso, in portoghese la parola per “grazie” è obrigado, cioè “obbligato”. Nella vita di coppia ci sentiamo “obbligati” a donare – e donarci – non certo con la calcolatrice in mano, per stabilire quanto volte lo hai fatto tu e quante io. Ci sentiamo “obbligati” grazie a un amore altruistico così come espresso ancora da Gesù: «Vi è più gioia nel dare (donare) che nel ricevere» (Atti 20:35) Concludendo. Siamo ancora all’ingresso del Vittoriale, Anna e io, presi come siamo da questa riflessione sul dono. Non sappiamo se avremo tempo di visitarlo. Forse ce ne torneremo a casa. Ma una cosa non dimenticheremo di questa visita: l’importanza del donare nella nostra famiglia. Del dono che cercheremo di dare ai nostri figli per il loro futuro. Del dono che condivideremo con le persone che passeranno dalla nostra casa. Del dono che abbiamo ricevuto da Dio tramite la fede in Lui. VITA

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OPINIONI

DIRITTO ALLA SALUTE

Matteo e il dono strappato via di Biagio Tinghino

ASCOLTA LA STORIA

L’urlo delle vittime del Covid risuona nelle orecchie di chi ancora dice no

Stava seduto nella terza fila a destra, dietro di me. Mai una nota, una parolaccia, mai una cattiveria contro qualcuno. Parlo di Matteo, mio compagno di liceo che pochi mesi fa è morto per colpa del coronavirus.

Lui non aveva fatto in tempo a vaccinarsi. Era entrato in ospedale con tampone negativo per un’altra malattia, dalla quale si stava rimettendo. Poi il contagio, la febbre, la polmonite grave, l’insufficienza respiratoria, il decesso. Inevitabile domandarmi come sia stato possibile, se tutti i pazienti venivano testati all’ingresso ed erano negativi.

È stato contagiato da un infermiere, da un medico o da un altro sanitario? Non lo sappiamo.

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Però Matteo non c’è più. Per questo motivo ogni volta che sento parlare di libertà di scelta, diritti e relativi timori non posso fare a meno di pensare a lui e ricordarmi che la salute è un dono. È un dono di Dio, per chi ci crede. È il frutto dei nostri cromosomi, ma quelli non possiamo sceglierli. È la conseguenza di piccole o grandi decisioni legate alla nostra alimentazione e ai sani stili di vita. Stiamo parlando di un rapporto personale con la salute, dove gli altri sono coinvolti solo parzialmente. Il “mio” infarto, se viene, tocca me, non il cugino con cui ho mangiato la pizza la sera prima. L’ipertensione idem, e c’entra poco il mio vicino di scrivania. In questo dialogo con sé stessi, ciascuno raccoglie ciò che ha seminato o – spesso – ciò che i suoi geni gli hanno impiantato. Ma esiste una dimensione collettiva della salute?

Esistono comportamenti di altre persone che possono influire sul mio benessere fisico? Sì e sono tanti. Pensiamo al fumo di sigaretta. Prima della legge Sirchia si poteva fumare nei locali pubblici e i non fumatori erano soggetti a tutti i rischi del fumo passivo, come cancro e infarto. Quando la legge fu approvata, ci fu una levata di scudi perché si disse che il divieto era in contrasto con le libertà individuali. E si alzò un coro di giacobini che profetizzavano l’imminente avvento di una nuova dittatura. Sentivamo i dibattiti in televisione e gli esperti sembravano divisi a metà, ma era una finzione dei conduttori per tenere alta la polemica e gli spettatori incollati allo schermo. Gli esperti, i medici, erano tutti da


Vaccinarsi, secondo me, è uno straordinario atto di altruismo, un dono di salute che possiamo fare agli altri. VITA

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una parte, cioè contro il fumo di tabacco, tranne qualche bastian contrario che ottenne così il suo miserabile momento di gloria, nel difendere l’indifendibile. Oggi siamo grati per quella legge. Abbiamo rivisto polemiche simili in altre circostanze: • obbligo della cintura di sicurezza • obbligo del casco • limiti nell’uso di alcol alla guida • ora i decreti per arginare l’epidemia.

Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.” Leggendolo superficialmente, l’articolo sembra affermare il diritto dell’individuo. Ma le tre parole “interesse della collettività” ci fanno capire che i padri fondatori non sono stati superficiali.

Quando il bene collettivo si scontra con qualche abitudine personale, si accendono le scintille.

La salute, ci dice quell’articolo, è un mio diritto, ma esiste un limite a tutti i diritti individuali che è costituito dai diritti della collettività.

Oggi spopola l’articolo 32 della Costituzione, secondo il quale “La

Per esempio, esiste il diritto di curarsi e quello di non curarsi. Un in-

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dividuo può scegliere di trattare il suo cancro con impacchi di misture ritrovate su internet o affidarsi agli oncologi. Possiamo tranquillamente svuotare l’armadietto delle medicine, interrompere tutti i trattamenti e mettere in atto così la più grande protesta immaginabile contro Big Pharma. Ma la libertà dell’individuo ha un limite – ben definito in ogni passo della Costituzione – che è la libertà dell’altro. In questo caso il diritto a non essere esposto al rischio di contagio. L’ordinamento giuridico prevede (già per altri casi) l’obbligo vaccinale, il divieto di guida in stato di ebrezza, i limiti di velocità, la necessità di requisiti specifici per avere la patente, l’obbligo di pagare le tasse, il divieto di circolazione in alcuni posti, la limitazione alla libertà di opinione in caso di calunnia, minacce o diffamazione,


addirittura il reato di epidemia dolosa o colposa (articoli 438 e 452 Codice Penale) per chi contagia volontariamente o per imprudenza gli altri. Questi “conflitti tra libertà” ovviamente non possono essere pensati in astratto, ma devono confrontarsi con la scienza.

Nel caso dei vaccini il dato imprescindibile è che chi si vaccina si infetta in misura molto minore (il 78% in meno) dei non vaccinati e perciò trasmette molto meno il virus ad altri. Questo è il punto, perché se la cosa riguardasse solo il rischio di finire in rianimazione (il 95% dei ricoverati attualmente è non vaccinato) o di morire (97% dei decessi è tra

non vaccinati) “per conto proprio” nulla ci sarebbe da eccepire sulla libertà di scelta. Ma se tu hai il diritto di non vaccinarti, io ho il diritto di non essere contagiato, e lo stesso diritto hanno i miei figli che vanno a scuola o prendono l’autobus. Questa cosa assume ancora più valore se ci ricordiamo che una minoranza di individui non è e non può essere protetta dai vaccini: • Fragili • Anziani • portatori di handicap • immunodepressi Che società è quella che non difende i deboli? Perché utilizziamo tutti i diritti del welfare se poi ci barrichiamo dietro egoistiche scelte individuali? Vaccinarsi, secondo me, è uno straordinario atto di altruismo, un dono di salute che possiamo fare agli altri. Rifiutare senza validi motivi il vac-

cino significa rinunciare a fare il bene che potremmo fare. Duemila anni fa qualcuno disse: “Ama il tuo prossimo come te stesso”. I farisei subito tentarono la via della polemica e chiesero: “Ma chi è il mio prossimo?” E allora venne fuori la straordinaria parabola del Samaritano, che ogni tanto andrebbe riletta da credenti e non credenti. A me basta guardare vicino per capire chi è il mio prossimo che posso contagiare. Vorrei soprattutto capire perché e se sia giusto, che il diritto di qualcuno poteva includere anche quello di infettare Matteo, di rubargli il dono della salute e della vita.

_______________________________ Dott. Biagio Tinghino Dirigente medico ASL Provincia di Monza e Brianza, Responsabile di U.O. Dipendenze

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Condividere le risorse che abbiamo

__________________________ Celeste Scuccimarri Artista di 13 anni

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CARO FUTURO, OGGI TI NUTRO DI SPERANZA. Scelgo di firmare per l’Unione delle Chiese Cristiane Avventiste del Settimo Giorno, una firma che agisce oggi sulla promozione di stili di vita sani, per un domani di speranza.

ottopermilleavventisti.it

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STORIE DI IMPEGNO SOCIALE ATTUALITÀ, STILI DI VITA

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SALUTE WEB Magazine multimediale della Fondazione Vita e Salute

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Articles inside

Il dono è think and thank

3min
pages 48-49

Matteo e il dono strappato via

5min
pages 50-53

Organi da suonare

3min
pages 10-11

Rassegna cinematografica

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pages 22-24

Un dono di nome Omar

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pages 44-47

Ora! E' tempo di ringraziare

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pages 42-43

La morte e il suo significato. Alla fine non ci sono più parole

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pages 40-41

Eutanasia: questione di vita o di morte

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pages 38-39

Chi se lo merita? Oggi è "nostro" ma "dopo di noi"?

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Felicittà, una realtà che cresce e non si pone limiti

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Dono e Perdono

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Due voci, due madri, un dono grandissimo

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L'uomo che pianta alberi

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Gino Strada, un uomo che si fa dono...un dono che si fa uomo

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Andare oltre un "sì"

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Rocky - Se credi di essere forte lo devi dimostrare

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Una vita di domande

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Solo uniti si riesce a fare il bene insieme

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pages 8-9

"Donatori" forzati

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pages 20-21

Traffico d’organi, una leggenda metropolitana?

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pages 16-19
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