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Sulla porta del mondo

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Luigi dal cin

PORTA MONDO Sulla del

storie di emigranti italiani

ILLUSTRAZIONI DI cristiano lissoni

Alzo lo sguardo dal foglio bianco. Fisso la valigia che ieri ho posato qui davanti alla mia scrivania. È una vecchia valigia di cartone pressato.

Apparteneva a mio nonno.

Con quella valigia mio nonno Lorenzo è emigrato molto lontano, oltreoceano.

Sfinito dalla fame e dalla miseria, per mantenere la sua famiglia – tre figli tra cui mio padre – è emigrato per lavorare prima in Australia e poi in Canada. Se io sono qui, se oggi posseggo gli strumenti che mi consentono di scrivere su questo foglio, di realizzare un sogno, è anche grazie alla sua sofferta partenza, al suo faticoso viaggio, al suo duro lavoro oltreoceano, a tutti i suoi sacrifici.

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Dentro quella valigia di cartone aveva portato con sé poche cose. Poche cose che, però, rappresentavano un mondo.

Ricordi della famiglia che, mentre la nave si allontanava dal porto, sentiva già dolorosamente lontana, un biglietto da spedire una volta arrivato, una lettera di presentazione per qualcuno che sperava potesse dare un aiuto, un po’ di cibo per il viaggio, qualche misero abito rattoppato, tanti sogni.

Un mondo, appunto.

Quella valigia l’ho ritrovata in soffitta anni fa, tutta impolverata. Mi ricordo che l’ho aperta facendo scattare la serratura. Clic. Conteneva solo un taccuino fitto di nomi, cognomi, indirizzi, tutti italiani, scritti a penna con calligrafia incerta.

Emigranti come mio nonno, partiti da ogni regione d’Italia, incontrati chissà dove nel mondo.

Quante storie, in giro per il mondo, hanno preso il via da quegli indirizzi.

Ora quella valigia la porto sempre con me in giro per le scuole, le biblioteche, i teatri di tutte le regioni d’Italia.

Ora contiene gli oggetti di scena per i miei spettacoli, e sento che mio nonno Lorenzo ne sarebbe felice.

A volte penso che, forse, se ha riportato a casa questa valigia è perché io la potessi utilizzare per fornire agli alunni che incontro ulteriori strumenti per realizzare i propri sogni. Per riportare i sogni a casa loro.

Raccontare le storie degli italiani che sono emigrati nel mondo. La motivazione è forte.

Forse, se comprendiamo che la nostra storia è fatta di generazioni che hanno vissuto la miseria e la fame e che, per sopravvivere e mantenere i figli, sono emigrate anche molto lontano, che se siamo qui è anche grazie a quei viaggi, a quei sacrifici, a quelle storie, forse allora il nostro sguardo cambia.

Magari diventa più luminoso.

Eppure di fronte a questo foglio bianco mi sento bloccato, come nei compiti in classe, a scuola.

Non succedeva a tutti i miei compagni, a me sì.

Bloccato davanti alla mole di lavoro di studio e ricerca che dovrò affrontare.

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Avrò buoni compagni di viaggio, documenti, libri, immagini, canzoni, che lo so, mi sosterranno, ma c’è la responsabilità di reperire documenti originali, verificare eventi, fornire dati esatti.

E poi c’è la scrittura.

E il foglio è sempre lì. Sempre bianco.

Ma come non mai, qui, oggi, mi appare più chiaro il senso del mio mestiere di scrittore.

Riportare le storie a casa.

Ecco l’audace impresa che mi aspetta.

Immaginare, costruire con cura, passo dopo passo, organizzare con metodo, segnare d’inchiostro, con attenzione, col fiato sospeso, cercare le parole giuste, con pazienza, svelarle, scartarle, sceglierle, e togliere, togliere ancora, dubitare, cambiare, dubitare, cambiare, limare, limare ancora, con passione, con amore, un addomesticamento, un corteggiamento, un viaggio.

Tutto questo per cosa?

In fondo, per riportare ogni storia a casa sua.

Quando mi immergo con mente e cuore a descrivere il dolore e i sogni di chi è emigrato, in fondo, è per riportare quel dolore e quei sogni a casa loro.

Riportare le storie a casa.

Come mio nonno ha riportato a casa questa valigia.

Forse è questo il senso del mio mestiere.

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manifesto rosa Un

Lo tengo aperto qui davanti a me, sopra il foglio bianco ancora da scrivere.

L’ho trovato tra le vecchie carte di mio nonno, conservate nel baule in soffitta.

Riposava lì, ripiegato su se stesso, chissà da quanti anni. Un manifesto rosa.

“Operai italiani, condizioni particolarmente vantaggiose vi sono offerte per il lavoro sotterraneo nelle miniere belghe.”

E subito sotto il titolo un’invitante tabella con i salari giornalieri.

A seguire: “Premio temporaneo. Per un periodo di 6 mesi, a partire dal 1° novembre 1951, gli operai delle miniere riceveranno, in più del loro salario, un premio eccezionale e supplementare”.

E poi, in bella evidenza, tutta una serie di benefici: “Assegni familiari, Assenze giustificate per motivi di famiglia, Carbone gratuito, Biglietti ferroviari gratuiti, Premio di natalità, Ferie, Alloggio”.

In fondo al manifesto: “Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori. Il viaggio dall’Italia al Belgio è completamente gratuito per i lavoratori italiani firmatari di un contratto annuale di lavoro per le miniere. Il viaggio dall’Italia al Belgio dura in ferrovia solo 18 ore. Compiute le semplici formalità d’uso, la vostra famiglia potrà raggiungervi in Belgio”.

Strano, però.

Sì, strano.

Nessun accenno alle condizioni di lavoro.

A quale profondità i minatori avrebbero dovuto inabissarsi nel ventre

della terra per scavare il carbone?

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Quante ore al giorno avrebbero dovuto lavorare là sotto?

C’erano dei rischi?

Rischi lavorativi?

Rischi per la salute, a respirare tutta quella polvere di carbone?

Niente.

Il manifesto rosa non dice nient’altro.

Mio nonno non è mai emigrato in Belgio, ma aveva conservato con grande cura questo manifesto.

Mi viene da pensare che, sfiancato dalla fame e dalla miseria, avesse preso in considerazione la possibilità di partire per lavorare nelle miniere belghe.

Sarebbe mai ritornato?

Perché è proprio nelle parole di propaganda altisonante di questo manifesto rosa che vanno cercati i motivi per cui nella tragedia della miniera di Marcinelle la maggior parte delle vittime era italiana.

Tra queste, la maggior parte era partita dall’Abruzzo.

UNA PROMESSA La Seconda guerra mondiale aveva lasciato in Italia ferite profonde.

Una nazione, fatta a pezzi, da ricostruire, un’economia in ginocchio, interi territori ridotti in miseria.

Fu allora che la promessa di una vita migliore apparve all’improvviso su curiosi manifesti rosa appesi per le strade delle città a dei paesi di tutta Italia.

Un miraggio di speranza nel deserto che la guerra aveva lasciato dietro di sé.

In molti lo leggono. Qualcuno se lo fa leggere. È una proposta.

Di più.

È una promessa.

Un lavoro.

Uno stipendio.

Un lavoro nelle miniere di carbone, ben stipendiato.

Belgio.

Certo, significa separarsi dagli affetti e dai luoghi di sempre.

Ma sarebbe stato per poco: si guadagna, si risparmia, e poi si ritorna a casa.

Quel manifesto rosa è un proclama.

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A chiare lettere annuncia la liberazione dalla miseria. Una prospettiva di riscatto.

Una via di fuga.

Nel disastro della miniera di carbone Bois du Cazier a Marcinelle, in Belgio, persero la vita 262 minatori, di cui 136 italiani.

E la regione con il maggior numero di vittime fu l’Abruzzo. Era l’8 agosto del 1956.

Fu il terzo incidente per numero di vittime nella storia dei minatori italiani emigrati.

Il primo, per numero di morti, fu il disastro avvenuto nel 1907 a Monongah in West Virginia, negli Stati Uniti, dove le vittime furono in prevalenza italiane, in prevalenza molisane.

Molise e Abruzzo: unite in un’unica regione fino al 1963, drammaticamente accomunate anche nelle condizioni di lavoro dei propri emigranti.

APPROFITTATE DEGLI SPECIALI VANTAGGI

Il 23 giugno 1946 tra il governo italiano e quello belga era stato firmato un trattato che prevedeva un gigantesco baratto.

L’Italia doveva inviare in Belgio 2.000 lavoratori a settimana da impiegare nelle miniere. In cambio, il Belgio assicurava all’Italia una buona quantità di carbone per ogni minatore.

Appena uscita dalla guerra, l’Italia contava milioni di disoccupati e aveva necessità di carbone per far ripartire le proprie industrie. In Belgio, invece, la mancanza di manodopera nelle miniere frenava la produzione.

Il governo italiano considerava l’emigrazione come il principale fattore economico per la ricostruzione del Paese tramite le rimesse, ovvero il trasferimento del denaro degli emigranti verso il Paese d’origine, e poiché in Belgio c’era bisogno di manovalanza a basso costo incentivò la partenza di lavoratori che non trovavano impiego in Italia.

Dell’accordo “minatori in cambio di carbone” – il trattato parlava testualmente di “accordo minatori-carbone” – sui manifesti rosa della Federazione carbonifera belga, però, non c’era traccia.

I minatori emigranti allora non ne furono messi a conoscenza.

Lo scoprirono solo dopo il disastro di Marcinelle.

E ne nacque una questione molto controversa.

L’accordo “minatori-carbone” equiparava infatti i lavoratori a una merce.

I minatori italiani sentirono di essere stati trattati come deportati economici, venduti da un’Italia matrigna e cinica per qualche misero sacco di carbone.

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E se l’accordo si occupava di tutti gli altri aspetti dello scambio, si preferiva invece chiudere gli occhi, sia da parte delle autorità belghe che di quelle italiane, sulle condizioni di vita e di lavoro che effettivamente attendevano i lavoratori italiani destinati alle miniere del Belgio.

Approfittate degli speciali vantaggi che il Belgio accorda ai suoi minatori.

Condizioni particolarmente vantaggiose di lavoro sotterraneo.

Premio temporaneo, Assegni familiari, Assenze giustificate per motivi di famiglia, Carbone gratuito, Biglietti ferroviari gratuiti, Premio di natalità, Ferie, Alloggio.

PROPAGANDA

Pura propaganda.

Pubblicità ingannevole, diremmo oggi.

Perché nei vagoni di ogni treno erano stipate circa mille persone. E, una volta a destinazione, la promessa degli alloggi a prezzi scontati si svelava in tutta la sua cruda realtà.

Baracche fatiscenti dove pochi anni prima erano stati rinchiusi i prigionieri di guerra. E apparve subito chiaro come per gli italiani emigrati non fosse possibile affittare un alloggio più dignitoso. Non solo per ragioni economiche.

La gente del posto lo scriveva su cartelli: Ni animaux, ni étrangers ovvero “Né animali, né stranieri”.

Non mancò infatti il disprezzo nei confronti degli emigranti italiani, a cui fu affibbiata l’etichetta dispregiativa di macaronì.

E poi c’era l’impatto con la miniera e le “condizioni particolarmente vantaggiose di lavoro sotterraneo” che talvolta prevedevano che i minatori arrivassero a oltre mille metri di profondità.

L’inesperienza, la mancanza di un periodo di formazione e l’ignoranza sulla reale situazione in cui avrebbero dovuto lavorare rendevano particolarmente traumatica la discesa in miniera.

E non c’era nemmeno la consapevolezza che respirare quell’aria intrisa di polvere di carbone esponeva al rischio di contrarre la silicosi, una grave malattia professionale che ha portato alla morte centinaia di migliaia di minatori.

Ma ormai non era più possibile tornare indietro. Chi rompeva il contratto poteva finire in carcere.

LA TRAGEDIA DI MARCINELLE

Pare che all’origine del disastro ci fu un’incomprensione tra i minatori che dal fondo del pozzo caricavano sull’ascensore i vagoncini con il carbone e i manovratori in superficie.

Alle 8 e 10 del mattino dell’8 agosto 1956 un vagone di carbone rimase

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incastrato nella gabbia del montacarichi ma l’ascensore partì comunque. Nella risalita il carrello che sporgeva tranciò le condutture dell’olio, i tubi dell’aria compressa e i cavi dell’alta tensione.

Le scintille causate dal cortocircuito fecero incendiare l’olio.

Fu subito l’inferno.

Un imponente incendio si estese alle gallerie superiori mentre sotto, a oltre mille metri di profondità, i minatori venivano soffocati dal fumo.

Il fuoco infatti era divampato nel pozzo d’ingresso dell’aria e il fumo prodotto dalla combustione raggiunse ben presto ogni angolo della miniera.

Fin dai primi istanti la gravità dell’incidente e l’impossibilità di trarre in salvo gli eventuali superstiti apparvero chiare ai soccorritori.

Il 22 agosto, dopo due settimane di difficili ricerche, mentre una fumata nera e acre continuava ancora a uscire dal pozzo, uno di loro, riemergendo affranto dalle viscere della miniera, sussurrò in italiano: “Tutti cadaveri”.

A Marcinelle persero così la vita 262 minatori di diverse nazionalità ma per la maggior parte, 136, italiani.

Di questi, 60 erano abruzzesi, di cui quasi la metà dai paesi di Manoppello e Lettomanoppello, in provincia di Pescara.

Il ministro dell’Economia belga creò una commissione d’inchiesta alla quale presero parte due ingegneri del Corpo delle miniere italiane.

Anche la Federazione carbonifera belga creò una propria commissione d’indagine.

Le inchieste si proponevano di fare “ogni luce” su cosa fosse accaduto nella miniera di carbone Bois du Cazier a Marcinelle la mattina dell’8 agosto 1956.

Ma nessuna delle istituzioni mantenne pienamente le sue promesse.

DA MACARONÌ A COPAINS

Fu la strage di Marcinelle a far superare i preconcetti sui minatori italiani.

La tragedia infatti accomunò famiglie italiane e belghe nello stesso lutto e all’improvviso fu chiaro per tutti come lo sviluppo economico dell’intera nazione belga stesse poggiando anche sul lavoro di molti italiani, schiavi del carbone.

Nel 1956, tra i 142.000 lavoratori impiegati nelle miniere belghe, 63.000 erano stranieri e, tra questi, 44.000 erano italiani.

“Il nostro vicino, che non la smetteva mai di insultare mio padre, è venuto da noi piangendo”, dichiarò in un’intervista il figlio di un minatore.

“La comunità italiana del Belgio ha pagato con il sangue il prezzo del suo riconoscimento”, commentò il quotidiano Le Monde.

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L’impressione della tragedia di Marcinelle trasformò i macaronì in copains, “amici”.

Da quel dolore si avviò il processo di integrazione degli italiani in Belgio.

Il prezzo pagato per ottenere il riconoscimento della dignità degli emigranti italiani fu di 136 vite, consumate in poche ore.

Vite perdute per riscattare una dignità propria a ogni essere umano.

La storia a venire era già pronta a chiudere gli occhi per dimenticare e riproporre lo spaventoso baratto.

Nel 2012 la miniera di Marcinelle è stata inserita tra i siti dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco.

Un riconoscimento, certo, ma soprattutto un monito.

Per non dimenticare gli incidenti sul lavoro che hanno segnato le pagine più buie della storia dell’emigrazione.

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GIROVAGAmusica

Oggi ascolto musica.

Davanti a me il foglio bianco, pronto per raccontare l’emigrazione dalla Basilicata.

Mi preparo.

Intanto ascolto musica.

Oggi musica irlandese.

Arpa celtica.

Mi ricordo di quella volta in Basilicata. Ero lì per tenere incontri e spettacoli nelle scuole, e una maestra era venuta a prendermi in auto alla stazione dei treni. Caricammo nel bagagliaio la valigia di cartone di mio nonno piena degli oggetti di scena. Portavo ancora gli auricolari, in treno avevo ascoltato musica.

“Che musica?” mi chiese.

“Musica irlandese.”

“Ah, sì, l’arpa celtica”, disse. “Ma quell’arpista cieco irlandese, poeta e compositore, considerato un eroe della patria... come si chiamava?”

“O’Carolan?”

“Sì, lui. Era un arpista itinerante, vero?”

Appassionata di musica, cominciò a parlarmi di Viggiano, il suo paese natale, mentre gli splendidi variegati paesaggi lucani scorrevano davanti ai miei occhi.

Mi raccontò che quel piccolo paese in provincia di Potenza aveva una tradizione secolare nella costruzione di arpe.

Fin dal Settecento suonatori itineranti erano partiti da Viggiano e avevano portato con sé i loro strumenti.

Esportando la loro musica e le loro tradizioni in tutto il mondo, dall’e-

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stero avevano inviato denaro al proprio paese d’origine sostenendone così l’economia.

Mi raccontò che alcuni di loro ebbero l’opportunità di suonare in orchestre sinfoniche di livello internazionale.

E che i più grandi costruttori di arpe, negli Stati Uniti, sono discendenti di emigranti partiti proprio dal suo paese.

“Ma la storia delle arpe di Viggiano ha anche delle ombre”, mi disse. Il suo sguardo d’improvviso si era fatto triste.

Cambiammo argomento, eravamo già arrivati alla scuola e i bambini attendevano che salissi sul palco.

MUSICANTI

Nella storia della Basilicata c’è una categoria di emigranti un po’ inconsueta, ma tutt’altro che marginale, la cui vicenda è rimasta a lungo dimenticata. È quella dei musicanti: arpisti, violinisti, flautisti e zampognari, in gran parte provenienti dai comuni della Val d’Agri, in provincia di Potenza.

Cominciarono a emigrare dalla Basilicata fin dal Settecento, quando i suonatori girovaghi di arpa e di violino raggiungevano Napoli in occasione delle novene di Natale.

Fu un fenomeno molto importante, se si considera che il paese da cui maggiore fu il flusso delle migrazioni legate all’attività musicale itinerante, il piccolo comune di Viggiano, arrivava a contare, tra il 1861 e il 1885, 248 famiglie con almeno un suonatore.

La migrazione dei musicanti della Val d’Agri non rappresentò un fenomeno saltuario: molti suonatori affrontavano lunghi viaggi, quasi sempre della durata di più anni, e il mestiere di musicista divenne un’attività che nella maggior parte dei casi impegnò l’intera vita, tanto che la tecnica di suonare uno strumento veniva trasmessa ai bambini fin dalla tenera età.

Per gli emigranti della Val d’Agri l’attività di bravo musicante rappresentò quindi un’identità di cui andare fieri nella loro comunità.

Ancora oggi sono visibili arpe, violini e cetre incise nella seconda metà dell’Ottocento sulle chiavi di volta in pietra dei portali delle case di Viggiano. La bravura e la passione per la musica non sempre però corrisposero con la considerazione pubblica che i musicanti della Val d’Agri sperimentarono dopo l’Unità d’Italia.

Spesso erano considerati dall’autorità alla stregua di vagabondi e mendicanti. Eppure la loro fama cresceva sempre più, tanto che alla fine dell’Ottocento i suonatori toccavano destinazioni varie e lontane: prima nel territorio italiano, poi nel resto d’Europa, soprattutto Svizzera, Spagna, Francia, Inghilterra, nel bacino del Mediterraneo, soprattutto Egitto, e infine oltreoceano, negli Stati Uniti.

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La migrazione dei musicanti cominciò poi via via a spegnersi a partire dagli anni Venti del Novecento, ma a Viggiano, come nelle altre comunità della Val d’Agri, non si è mai persa la traccia di un’antica esperienza di emigrazione in grado di creare identità e cultura, capace di portare negli angoli più remoti del mondo un’arte straordinaria nata in una piccola zona del Sud Italia.

Viggiano è oggi conosciuta come “Città dell’Arpa”.

SULLA SITUAZIONE

DEI PICCOLI ITALIANI

Ma anche in questo contesto, fra tante persone oneste c’era qualcuno che si approfittava delle situazioni di necessità.

Oltre a portare per le strade del mondo la musica, tra i suonatori c’era chi sfruttava i bambini per ottenere l’elemosina.

Molte famiglie vivevano nella più cupa miseria, i figli erano tanti e darne in affido qualcuno era considerata un’opportunità.

Il padrone allora pagava annualmente alla famiglia una somma pattuita e si impegnava a fornire cibo e alloggio al figlio a lui affidato e a insegnargli il mestiere. Il bambino non percepiva alcun compenso per il suo

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lavoro, tutto quello che riusciva a guadagnare era del padrone, ma dopo tre anni era libero di tornare in famiglia.

Spesso i genitori non avevano idea della situazione in cui potevano vivere i loro figli.

Ho trovato uno straordinario documento che ne parla: il rapporto del 1868 “Sulla situazione dei piccoli italiani” presentato dalla Società italiana di beneficenza di Parigi.

Ecco le esatte parole che riporta: “La maggior parte degli abitanti della Basilicata fa della musica e del vagabondaggio una vera industria, da questo luogo sono partiti torme di fanciulli musicanti grandi e piccoli, che hanno reso il loro paese celebre in tutta Europa e anche in America. Cinque o sei comuni si distinguono particolarmente per il numero considerevole dei loro emigranti, e sono i seguenti: Marsico Vetere, Corleto, Laurenzana, Calvello, Picerno e Viggiano. [...] Ogni anno, ad epoche determinate, partono dai loro villaggi parecchie centinaia di ragazzi, di tutte le età, di tutti i sessi, di gruppi da 3 a 10, sotto la guida di individui che si dicono loro parenti o loro padroni. Taluni sono veri padroni di schiavi, dal momento che questi fanciulli sono dati in affitto, venduti o confidati, in virtù di contratti sottoscritti da una parte e dall’altra, e che le due parti probabilmente suppongono regolari. Queste convenzioni stipulano la locazione del fanciullo per un periodo determinato, mediante il pagamento di una somma annua ovvero di una somma fissata e pagata precedentemente per tutta la durata dell’ingaggio”.

SFRUTTATORI

E SFRUTTATI

“Queste bande di ragazzi, appena lasciati i loro villaggi, cominciano a mendicare per conto dei loro padroni, attraverso tutta l’Italia. [...] Alle frontiere incomincia la vera tratta dei bianchi; i conduttori rivendono ad individui che abitano a Parigi o in altre regioni della Francia o altrove. Dopo aver consegnato la merce ritornano in Basilicata a raccogliere altri ragazzi che fanno viaggiare allo stesso modo, con i documenti che sono serviti per i precedenti convogli. Arrivati a Parigi, i ragazzi sono alloggiati a rinfusa [...] ogni mattina questi meschini cenciosi sono lanciati in tutte le direzioni alla ricerca del soldo. Talvolta i padroni li seguono e li sorvegliano da lontano e strappano loro di mano gli introiti fuori dallo sguardo dei donatori. I più piccoli sono i migliori strumenti di lavoro perché attirano meglio la pietà dei passeggeri, così sono più ricercati da questi trafficanti. Il vagabondaggio dura da mattina a sera e vivono questi ragazzi di ciò che la pubblica carità dona loro in natura; giunta la sera tornano nel loro ricovero sull’imperiale di un omnibus, oppure si addormentano sotto qualche palazzo per cui vengono trovati

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dai poliziotti e inviati in qualche dormitorio. Qualche volta la giornata di lavoro è così faticosa che i poveri ragazzi, sfiniti dalla stanchezza, non avendo più la risorsa dei tram, privi della forza e del coraggio necessari per camminare fino al loro tugurio, con lo strumento musicale che pesa, soccombono sovente alla fame e al sonno sopra un banco del Boulevard accanto ad un pilastro o sotto un portone. Nelle serate di inverno, gli uni e gli altri si accatastano fra di loro con al fianco i loro strumenti. Il sonno non è mai di lunga durata, in quanto gli agenti di polizia si incaricano di svegliarli e di procurargli loro un asilo per la notte. […] Si comprende da quanto descritto la sorte che spetta a questi poveri ragazzi, malnutriti appena vestiti e male alloggiati, maltrattati di continuo da uomini capaci di tutto. […] Vedendo crescere questi piccoli cenciosi per la strada, facilmente si indovina l’avvenire che loro aspetta; possiamo riferire solamente che per testimonianza di un signore napoletano, su cento fanciulli che abbandonano i loro villaggi 20 soltanto ritornano alle loro case, 30 circa si stabiliscono in diverse parti del mondo e 50 soccombono alle malattie, alle privazioni di ogni sorta e ai cattivi trattamenti. La mortalità, dunque, dei piccoli emigranti sarebbe del 50%.”

MENDICANTI BAMBINI

In fondo al rapporto c’è una nota dalla quale si evince l’età di alcuni bambini arrestati: “Parigi, 27 dicembre 1867. La Prefettura di Parigi fa tradurre al Consolato Generale d’Italia per cause di rimpatrio i nominati: 1) Dell’Aquila Raffaele di 9 anni di Calvello, 2) Guerrieri Antonio di 9 anni di Calvello; 3) Varallo Giacomo Antonio di anni 14 di Marsico Vetere; 4) Leli Nicola di anni 10 di Laurenzana; 5) Di Pasquale Lorenzo di anni 13 di Marsico Vetere, 6) Strata Antonio Sant’Angelo di anni 12 di Marsico; 7) Passalacqua Luigi di anni 10 di Marsico Vetere; 8) Spaccuccio Rocco di anni 9 di Marsico Vetere, giovani musicanti girovaghi che esercitano l’accattonaggio a Parigi per conto di speculatori. Per il Prefetto di Polizia, per autorizzazione, il capo del secondo ufficio Lecour”.

COSTRUTTORI D’ARPE

Oltre a essere il paese dei suonatori di arpa, Viggiano divenne famosa anche per la qualità delle arpe che vi si costruivano.

Vincenzo Bellizia, nato a Viggiano nel 1801, era figlio di un falegname, e fin da giovane esercitò l’attività di musicista girovago.

Proprio dalla cultura musicale che si respirava in paese, combinata con le conoscenze di falegnameria trasmesse dal padre, Bellizia trasse l’arte che lo avrebbe fatto divenire uno dei più famosi costruttori di arpe in Italia.

E poi fu la volta di Victor Salvi.

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Suo padre Rodolfo era un liutaio veneziano trasferitosi a Viggiano per motivi di salute della moglie Livia, malata di tubercolosi, alla ricerca di aria pura e, ovviamente, di buona musica.

A Viggiano loro figlio Alberto perfezionò lo studio dell’arpa e successivamente si iscrisse al Conservatorio di Napoli, dove venne seguito da uno dei maggiori maestri dell’epoca, Giovanni Caramiello.

Dopo la morte di Livia, Rodolfo conobbe Apollonia Paoliello, nipote di Vincenzo Bellizia, che sposò e con cui, nel 1909, emigrò negli Stati Uniti. Dal loro matrimonio nacquero quattro figli, tra cui Victor e Aida, entrambi appassionati d’arpa.

SALVI HARPS

Negli Stati Uniti Alberto, Aida e Victor intrapresero una straordinaria carriera musicale che li portò a grandi trionfi nei più importanti teatri d’America. Ma nonostante il grande successo sul palcoscenico, la vera passione di Victor rimaneva quella di costruire arpe, e così a New York, nel 1954, realizzò il suo primo prototipo.

Da quel momento non smise più, impiegando professionalità e passione, mesi di lavorazione e l’opera congiunta di decine di collaboratori cui diceva: “Le mie arpe devono suonare dolci come un sussurro”. Nacquero così le Salvi Harps, un marchio talmente famoso e prestigioso da innalzare la sua azienda a leader mondiale del settore.

Oggi le corde delle Salvi Harps suonano per le più grandi orchestre nei più importanti teatri di tutto mondo.

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PAG 7 Un manifesto rosa ABRUZZO 14 Musica girovaga BASILICATA 20 Cuori a metà CALABRIA 27 Etichette al contrario CAMPANIA 34 Prosciutto sulle Ande EMILIA ROMAGNA 41 Vite nuove, sogni infranti FRIULI VENEZIA GIULIA 48 Balie e modelle, splendori e lacrime LAZIO 55 Tra le onde spumeggianti LIGURIA 63 Ecco cosa ho imparato in America LOMBARDIA 70 Una distanza atlantica MARCHE 76 Italiani in miniera MOLISE 82 Cam-caminì PIEMONTE 88 Here’s to you, Nicola and Bart PUGLIA 95 Buon’aria di casa SARDEGNA 102 La spartenza SICILIA 108 Scritture e figure TOSCANA 115 Le rondini volano lontano TRENTINO ALTO ADIGE 123 La storia dei sentimenti UMBRIA 130 La cura VALLE D’AOSTA 137 La tragica truffa del regno che non c’è VENETO 145 Storia dell’emigrazione degli italiani nel mondo raccontata per regione 175 La storia continua. L’attualità dell’emigrazione degli italiani nel mondo: i numeri, le provenienze, le destinazioni 186 Le fonti: libri, musica, film
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