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DUE ANNI DI GUERRA

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INDICE

Gu ANTECEDENTI DELL'INTERVENTO Ventitre anni di preveggenza e di politica costruttiva L 'Italia in guerra tra i due conflitti mondiali Come si arrivò all'intervento o

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IL CONTRIBUTO DELL'ITALIA ALLA GUERHA TERRESTRE

La fase offensiva iniziale L'Italia di fronte alla potenza imperiale britannica

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La guerra in Grecia Le operazioni in Africa Settentrionale dall'inizio della controffensiva italo-germanica del marzo I94I-XIX ad oggi L'epopea dello CoSol.R. La guerriglia nella Balcania o

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lL CONTRIBUTO DELL'ITALIA ALLA GUERRA NAVALE

La guerra n a vale

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IL CONTRJBUTO DELL' ITAUA ALLA GUERRA AEREA

La guerra aerea

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G LI ANTECEDENTI D E LL'IN TERVENTO

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"''LA PIO GRAVE lotta contro /a distruzione che minacciiJva il popolo e lo Stato ebbe luogo in Italia. Con una ribellione eroica senza precedenti gli ex-combattenti italiani e la gioventù italiana sotto la guida di un Uomo che ha avuto /a grazia di essere illuminato in grado unico, hanno abbattuto in lolte sanguinose il compromesso tra la viltà democratica e la prepotenza bolscevica, sostituendo/o con una nuova idea positiva nazionale e stiJiale ... Solo dopo la vittoria del Fascismo si può parlare dell'inizio del salvataggio dell'Europa. " ADOLFO HITLER Discorso pronunciato al Reichslag il 26 a prile 19 42

VENTITRE ANNI DI PREVEGGENZA E DI POLITICA COSTRUTTIVA questa guerra che noi crediamo si possa D intitolarea«Guerra di successione fra due sistemi moI FRONTE

rali », il compito degli storici futuri sarà nello stesso tempo arduo e semplice. Complicata sarà la loro opera quando essi dovranno dipanare la matassa intricatissima degli avvenimenti politico-diplomatici e quando dovranno selezionare- per illustrarli e giudicarli partitamente - gli incontri e gli intrecci spesso complementari dei fronti d'urto, economici e militari. Le difficoltà (specialmente per la parte politico-diplomatica) interverrano nella interpretazione dell'opera delle Grandi Democrazie (adottiamo questa definizione di comodo, soprattutto per il quantum di grottesco e di ironico che essa contiene) le q uali coi loro trattati spesso elidentisi a vicenda, col groviglio delle richieste e delle offerte di garan zie, con l'intervento sotterraneo o camuffato di ambasciatori straordinari, di osservatori, di corruttori, di bombardieri e di sicari, hanno fatto del ven-

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tennìo 1919-1939 il più cervellotico assurdo e cnminoso romanzo giallo che la storia umana abbia sin qui registrato. Invece ascriviamo a nostro orgoglio e a soddisfazione della nostra coscienza la facilità con la quale quegli storici potranno verificare per lo stesso ventennio le direttrici di marcia anche esterne del Fascismo, prima come rivoluzione e poi coine regime. Basterà loro consultare il pensiero e l'opera di Mussolini nelle due fasi successive della sua azione : quale osservatore presago della situazione mondiale, poi quale Duce dell'Italia fascista e « direttore di coscienza» dell'Europa e del mondo. Nella sua parola e nella sua opera, gli storici, senza doversi spremere disperatamente le meningi per risolvere incognite e decifrare testi sibillini, potranno seguire, limpido e ordinato, il corso della nostra storia politica e militare. Ora, tale esame li obbligherà a riconoscere nella personalità del Duce due virtù singolari. In primo luogo: la capacità meravigliosa con la quale Egli metodicamente previde e segnalò, con notevole anticipo sul tempo, quelle che sarebbero state le linee di sviluppo degli eventi europei e mondiali. In secondo luogo : la tenacia generosa e intrepida con la quale Egli si valse della sua capacità divinatoria per indicare al mondo i pericoli sempre più gravi ai quali lo esponeva la dominante dissennatezza, e per offrire alla meditazione de] mondo stesso ogni problema accompagnato da formule risolutive di esemplare realismo, ispirate sempre alla giu· stizia e alla equità. L'Europa che Egli aveva di fronte dal suo primo osservatorio di giornalista e di politico, era in sostanza quella che Paul Morand definiva «Europa egoista invidiosa democratica e dispersa, smantellata dalla ossessione del denaro e dallo spirito di rivolta». Ed ecco la «costante programmatica n di Mussolini : risanare l'E uropa versagliese dalla doppia infezione capitalista e bolscevica, ricondurla dalla dispersione spirituale al senso della gerarchia e allo

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orgoglio dell'unità, e con ciò ridarle la forza morale politica ed economica necessaria per tenere testa ai Continenti massicci che, scontando la sua debolezza, avanzeranno implacabili su di essa per ridurla in soggezione. Naturalmente, in questo programma di bonifica europea l'Italia ha nel suo cuore, nella sua volontà, il primissimo posto : non a caso Egli dirà un giorno che l'unica sua << filìa )), è la « filla )) per l'Italia. E nel I922 stabilisce le origini remote della sua passione più alta : «Dai primi anni di gioventù la semplice parola Roma aveva nella mia anima un rimbombo di tuono». Poi ribadisce e precisa: « Roma è il nostro punto di partenza e di riferimento; è 11 nostro simbolo o, se volete, il nostro mito. Noi pensiamo di fare di Roma il cuore pulsante e lo spirito alacre dell'Italia imperiale che sogniamo >>. Italia imperiale l la parola è.pronunciata; non sarà ritirata mai più. Cioè la conquista del potere e la instaurazione del Regime costituiscono semplicemente la premessa esterna, la pregiudiziale di necessità alla attuazione programmatica della Rivoluzione intesa come potenziamento dell'Italia nel mondo e come anticipazione del rinnovamento europeo. Ma contro questa evidente necessità di disintossicare l'Europa dalle tossine versagliesi (e poi anche moseovite) sta la pervicacia inflessibile con la quale i possidentes difendono l'arbitrario bottino col mantenere l'Europa- dirà Ciano-<< in quello stato di immobilità marmorea che ne paralizza le capacità di rinascita)). Intangibilità dei Trattati; esasperazione delle formule di schiacciamento della Germania; inflazione bellicosa di nazioni-mosaico destinate a vigilare e a incatenare anche l'alleata Italia; diniego di ridurre i propri armamenti e rifiuto agli altri del diritto di armarsi, sono il loro credo, come la S.d.N. è il loro tempio e la loro fortezza. Che soltanto si pronunci la parola revisione e il sinedrio scandalizzato urlerà che << revisione significa guerra >>. Ora è proprio in questa esosa e ipocrita cristallizzazione in favore dei profittatori della Vittoria che il Duce subito ravvisa

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la frode morale e la fatalità di nuovi conflitti. Già nell'adunata di San Sepolcro (23 marzo 1919), tracciato il confronto tra la pletoricità possessoria delle altre Nazioni e la brutale spoliazione dell'Italia, Egli dice : « Non si comprende che si predichi l'idealismo da parte di coloro che stanno bene a coloro che soffrono>>. Alla S.d.N., Egli fa ancora garanzia e ne accetta il postulato societario, ma subito aggiunge con sana libertà di espressione : « Intendìamoci bene! Se la S.d.N. deve essere una solenne fregatura da parte delle Nazioni ricche contro le Nazioni proletarie, allora guardiamoci negli occhi. Questo non è idealismo, ma tornaconto e interesse ». Ora, dove mai fu tutelato l'interesse italiano? N è l'interesse nè il decoro. Egli l'aveva già rilevato commentando il Trattato di pace consegnato ai delegati tedeschi : «Una novità sorprendente è data dall'annuncio di un progetto di alleanza difensiva militare tra Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Bisogna prendere atto che da questa alleanza l'Italia viene esclusa : l'umiliazione inflitta all'Italia è atroce. Con questa alleanza la nostra posizione diventa penosa e difficile. Ormai è evidente che, con o senza Società delle N azioni, noi saremo e siamo i sacrificati ... Può darsi però che la digestione dei tre epuloni, che a Parigi hanno divorato l'universo, sia particolarmente laboriosa e difficile. Una Nazione di 40 milioni di abitanti, che potrà contarne 6o tra cinquant'anni, quando abbia coscienza di sè e delle ingiustizie e delle umiliazioni sofferte, può dare del filo da torcere agli odierni trionfatori del dollaro e della sterlina >>. E con un balzo nel futuro, del quale allora nessuno intravvide la portata e la possibilità di realizzo, ammonisce : « Sin da questo momento e sugli elementi di fatto dei quali siamo in possesso, bisogna orientare la nostra politica nazionale del domani. Se l'Occidente plutocratico, con l'alleanza militare delle tre Nazioni squisitamente plutocratiche e borghesi, ci umilia e ci ignora, noi dovremo volgerei verso gli altri punti cardinali; al nord, all'est e al sud n. A parte questa prec1saz10ne del diritto e del dovere 16


particolari dell'Italia rispetto a coloro che la estromettono nell'ora dei vantaggi dopo averla invocata nell'ora dei pericoli, è tutto il sistema versagliese e ginevrino che Mussolini chiama in causa, e tra i postulati approvati nell'adunata nazionale fascista del 24 maggio 1920, il quinto postulato è -su ciò - categorico: <<Il Trattato di Versaglia deve essere riveduto e modificato in quei punti che si appalesano inapplicabili o la cui applicazione può essere fonte di odi formidabili e di nuove guerre >>. « Con che Egli precisa (13 novembre 1920) dopo gli Accordi di Rapallo - si ammette implicitamente la revisione non del solo Trattato di Versaglia, ma anche di quegli altri che possono presentare lo stesso pericolo ». Il che non vuoi dire però che si debbano- ad esempio- rinnegare proprio gli accordi di Rapallo solo perchè costituiscono una dolorosissima rinuncia adriatica. Mussolini è sopratutto realista, anche se la realtà comporta sacrifici : <<L'Italia ha moralmente economicamente politicamente e fisiologicamente bisogno di pace per riprendersi c per rifarsi. Tutto ciò che avvicina la pace, tutto ciò che segna un punto fermo a un capitolo della nostra storia, è accolto (o ve non sia umiliante e lesivo dei nostri supremi interessi) con un vasto respiro di soddisfazione da ogni classe di cittadini. P er questo noi riteniamo buoni gli accordi per il confine adriatico e per Fiume n. :t il linguaggio della saggezza più riflessiva e matura. Ma Mussolini è anche tempista e aggiunge: c< Del resto i diritti dei popoli non si prescrivono. Quello che una generazione non può compiere, sarà compiuto da un'altra>>. Al fondo di ciò vi è la convinzione che bisognerà operare su basi ben più vaste che non siano quelle del pur doloroso episodio adriatico. L'Adriatico è un settore mfl.rginale del disordine europeo; l'epicentro è Ginevra. E sulla S.d.N., nella stessa adunata del 24 maggio I<)20, il Fascismo aveva emesso un giudizio quanto mai inci:;ivo : << Il Fascismo non crede alla vitalità e ai princìpi che inspirano la cosidetta S.d.N. In

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questa Società le Nazioni non sono affatto su un piede di eguaglianza . .t: una specie di Santa Alleanza delle Nazioni plutocratiche del gruppo franco-anglosassone per garantirsi - malgrado in evita bili urti di interessi - lo sfruttamento della massima parte del mondo •>. Questo motivo, che Mussolini mai più abbandonerà perchè è assiomatico, della interdipendenza tra Versaglia. e S.d.N., tra l'arbitrio dei possidentes e il diritto dei sacrificati, riappare in un passo del Suo primo discorso di Governo (16 novembre 1922) : « I Trattati non sono eterni, non sono irreparabili. Sono capitoli della Storia, non epilogo della Storia. Eseguirli significa provarli. Se attraverso la loro esecuzione si appalesa il loro assurdo, ciò può costi- . tuire il fatto nuovo che apre le possibilità di un ulteriore esame delle rispettive posizioni n. Chiaro ma moderato, contenuto ma preciso. Il guaio si è che nell'altro campo, dominato dalla cupidigia e dalla paura di dover rendere i conti, si negherebb e anche la luce solare se il sole fosse sospetto di revisionismo. E riprendendo nel secondo discorso di Trieste (6 febbraio 1921) la questione di Rapallo, Mussolini ne disvela il malo spirito informatore : 11 Per spiegare Rapallo bisogna pensare agli alleati, dei quali due essendo mediterranei. per posizione geografica (la Francia) o per interessi e colonie (l'Inghilterra), non possono vedere di buon occhio il so rgere dell'Italia come potenza mediterranea, onde si spiègano in loro lo zelo e le manovre più o meno oblique con cui sono riusciti a creare nell'Adriatico superiore e . inferiore il contraltare marittimo jugoslavo e grèco dell'Italia''· Ma l'ostinazione e l'irrisione, le minacce spavalde, i ricatti sottaci uti e le ipocrite adesioni, l'offrirsi per sottrarsi, J'a mpliare (ìno all'assurdo un progetto per seppell irne la sensatezza degli inizi, non turbano e non scoraggiano questo atleta della Pace. Se mai, danno in sua mano altrett a nti elementi di giud izio per il giorno inevitabile della resa dei conti. La Storia giudicherà. Nell'attesa Egli per-

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severa e rinnova il suo sforzo di distensione, di riordino e di costruzione. Losanna, filiazione di Ginevra, è }ungi dall'essere un T rattato approvabile e costruttivo; tuttavia il Duce non esita a portarvi la ratifica dell'Italia perchè Losanna (dove Egli ha impedito che il Dodecanneso fosse affidato agli alleati che non ce l'avrebbero mai più restituito), sistemando definitivamente la situazione giuridica dell'Italia in quell'arcipelago, in sostanza cauterizza un'altra delle piaghe aperte nel corpo d'Europa. Decisione conveniente e anche fausta, perchè da essa discende in prosieguo di tempo la possibilità per il Duce di farsi mediatore fortunato di pace tra la Grecia e la Turchia, snebbiando per lungo periodo l'orizzonte del Mediterraneo orientale. Però, nello stesso discorso (rs novembre 1924) in cui, riepilogando il biennio di politica estera fascista, elenca le risoluzioni pacifiche di taluni problemi (Fiume, Giuba, Trattato di arbitrato con la Svizzera), Egli non dimentica di segnalare come tuttora in sospeso le questioni del Protocollo e del disarmo « o meglio della riduzione degli armamenti n, e dovendo spiegare la esitazione dell'Italia a firmare il Protocollo, se ne vale per denunciare chiaramente: cc Noi siamo in una condizione di inferiorità come materie prime e siamo stati oggi colpiti duramente dalI'Jmmigration Bill. Non basta (sono quasi le stesse parole del 1919) dire da parte dei popoli chè sono arrivati "stiamo tranquilli", perchè. se noi non sappiamo dove mandare il nostro di più di umanità, se non sappiamo dove trovare le materie prime che ci debbono far vivere all'interno, questa è una pace di aguzzini, non è la pace degli uomini liberi e umani veramente». Ora, fino a quando a queste martellanti intimazioni di verità sacrosante risponderà - se si può dire- il silenzio gJaciale e sdegnoso degli jnterpellati? Non importa; la voce della realtà e della giustizia non si stancherà di levarsi; se i governi non l'ascoltano, i popoli se ne ricorderanno domani. E nel discorso del 3 giugno 1928 al Se19


nato, il Duce, dopo aver ricordato di avere detto l'anno prima (previsioni di cui oggi soltanto possiamo valutare la matematica esattezza) che tra il 1935 e il 1940 l'Europa si troverebbe ad un punto molto interessante e delicato de1la sua storia, afferma: «Complicazioni gravi saranno evitate se rivedendo i trattati di pace là dove meritano di essere riveduti, si darà nuovo respiro alla pace. Questa è l'ipotesi che io accarezzo; e alla quale è ispirata la politica veramente sanamente schiettamente pacifica del Governo fascista e del popolo italiano. Ma poichè anche la contraria ipotesi va considerata, nessuno può in buona fede stupirsi &e, sull'esempio di tutti gli altri Stati, anche l'Italia intende di possedere le forze militari necessarie per difendere la sua esistenza e il suo avvenire>>.

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L'Italia, dunque, si arma? È ingenuo chi se ne meravigli. Non è da dire infatti che al disarmo il Duce non abbia dedicato pensiero volontà e tentativi. Anzi, la corsa agli armamenti, pericolosa come tentazione, massacrante come onere finanziario, ha sempre trovato condanna inesorabile in Lui che nei grandi piani di attrezzatura civile della Nazione (bonifiche e strade, porti e navigli, scuole e previdenze sociali) vorrebbe profondere illimitati tesori (dice a Littoria : «questa è la guerra che noi preferiamo !n). Ma da quando - cioè dall'indomani di Versaglia - ha potuto saggiare la sincerità del pacifismo societario; da quando ha visto in quale estenuazione diarroica di conferenze, di comitati, di progetti e di protocolli (dicembre rgzs-febbraio 1927) si è di)uito e disperso anche il programma locarnista del « disarmo progressivo proporzionato alle condizioni esistenti della sicurezza generale e regionale u; da quando infine ha potuto identificare nei mercanti di cannoni e negli incendiari di professione i veri dirigenti segreti della politica democratica e sovietica, Egli che già a v eva realisticamente, come è suo costume, "Contratta la utopistica formula del «disarmo>> in quella forse 20


attuabile della << riduzione » o della « stabilizzazione n degli armamenti, ha dovuto ammettere che bisogna essere militarmente pronti a tutte le sorprese quando chi a sè nulla nega, nega agli altri anche il diritto di respirare. Ed ecco che nel Messaggio per l'anno IX, il Duce nettamente dichiara : << Noi lottiamo contro un mondo al declino ma ancora potente perchè rappresentante di una enorme cristallizzazione di interessi. L'antifascismo non è morto; soltanto, il terreno della lotta è spostato; ieri era l'Italia; oggi è il mondo; poichè dovunque si battaglia pro e contro il Fascismo. Ma accanto alla guerra morale i preparativi materiali vengono affrettati alle nostre frontiere. P otevamo tardare a dare la sveglia al popolo italiano? L'Italia fascista naturalmente si arma perchè tutti si armano. Disarmerà se tutti disarmeranno. Sia chiaro comunque che noi ci armiamo spiritualmente e materialmente per difenderci, non per attaccare. L'Italia fascista non prenderà mai la iniziativa della guerra. La nostra stessa politica di revisione dei trattati prospettata sin dal rgz8 è diretta ad evitare la guerra, a fare la immensa economia di una guerra. La revisione dei trattati non è un interesse prevalentemente italiano; ma europeo, ma mondiale ». E nel 1933, nel famoso discorso per lo Stato corporativo, riappellandosi alla urgenza di ricomporre l'unità gerarchica dell'Europa sottraendo le sorti della pace ai nervosisrni esplosivi di piccole inflazionate Nazioni irresponsabili e alle pertinaci istigazioni esercitate su di esse dalla Quadruplice demosovietica, rinnova il monito virile e angosciato : <<L'Europa può ancora tentare di riprendere il timone della civiltà universale se trova un minimum di unità politica. Questa intesa politica dell'Europa non può però avvenire se prima non si sono riparate delle grandi ingiustizie. Siamo giunti ad un punto estremamente grave di questa situazione ». Ora, l'Uomo che nel 1931 così parla, ha pur convinto nello stesso anno lo sforzo più felicemente costruttivo della sua ventennale opera di condottiero della pace. Fermo ne) 21


pensare che alla base del disordine europeo sta l'avere deIJlagogicamente attribuito nella S.d.N. assoluta parità giuridica per le cose di Europa alle grandi Nazioni e alle piccole, cioè anche a quelle che ripetono la loro inflazione di territori e di popoli dall'imbroglio versagliese (nel discorso del I novembre 1936 a Milano ricorderà che gli Stati si differenziano almeno dal punto di vista della loro storica responsabilità) e persino alle Nazioni extracontinentali totalmente estranee alla storia e alla coscienza e ai problemi di Europa, il Duce ha predisposto e fatto accettare dalle altre tre grandi Potenze occidentali quel Patto a Quattro che, se accolto con sincerità e applicato con energia, avrebbe evitato almeno per venti anni l'attuale conflagrazione. Di tale Patto, firmato il 13 luglio 1933, il Duce aveva avuto l'ispirazione nell'ottobre dell'anno precedente. Ne · troviamo infatti il pensiero informatore nel discorso da Lui tenuto a T orino il 23 ottobre 1932 : « Io penso - Egli dice - che se domani sulla base della giustizia e del riconoscimento dei nostri sacrosanti diritti consacrati dal sangue di tante giovani generazioni italiane, si realizzassero le premesse necessarie e sufficienti per una collaborazione delle quattro grandi Potenze occidentali, l'Europa sarebbe tranquilla dal punto di vista politico e forse la crisi economica che oggi ci attenaglia andrebbe verso la fine n. Questo concetto è sviluppato il7 giugno 1933, nell'annunzio al Senato della conclusione del Patto : fissatane la genesi nella soluzione negativa (estate 1932) della Conferenza del disarmo e poi nell'arenamento (marzo 1933) della seconda fase di detta Conferenza, Egli dichiara che il P atto a Quattro è l'atto internazionale che più completamente esprime lo spirito di intesa e di co1laborazione fra Stati e che esclude- ecco il punto essenziale- ogni idea di raggruppamenti contrapposti o di finalità politiche antagonistiche. Sviluppo, dunque, logico e necessario del Patto di Locarno dell'ottobre 1925, in quanto impegna so0

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lennemente i firmatari a collaborare, a concretarsi e ad intendersi in tutte le questioni che li riguardano, e a realizzare intanto una politica di collaborazione anche con le altre Potenze. E poichè Egli prevedeva la riottosa insurrezione delle Potenze non firmatarie, aggiungeva che non si trattava di protocollare e consacrare una gerarchia definitiva e immutabile degli Stati:~ vero che una gerarchia esiste obbiettivamente e storicamente per i quattro grandi Stati occidentali, ma «garanzia non significa supremazia o direttorio che imponga la sua volontà agli altri >>. Del resto una simile gerarchia era già in atto a Ginevra con la assegnazione di un seggio permanente nel Consiglio della Lega ai suddetti quattro grandi Stati occidentali. Quanto alla possibile connessione del Patto a Quattro con la questione della revisione, spiegava che non si trattava di imporre con la forza una qualsiasi revisione dei Trattati, ma di riconoscere che cc è in atto dalla fine stessa della guerra un processo di adattamento dei Trattati di pace>>. L'u uomo del popolo>> che, nel formulare quel Patto, aveva voluto soprattutto andare incontro all'ansia sospesa dei popoli, è fiero di annunziare che il Patto stesso cc viene salutato con grande soddisfazione dalle moltitudini, che più lontane dall'artificio e più vicine alla vita, sentono e intuiscono la portata morale degli eventi che si possono chiamare storici. Un voto dovunque si eleva ed è questo: Fate, o signori di tutti i governi, che attraverso il luminoso varco aperto mentre le nubi si addensavano agli orizzonti, passino non soltanto le speranze, ma le certezze dei - popoli >>. Un mese più tardi (29 luglio 1933) il Popolo d'I talia in una nota di evidente intonazione mussoliniana, ancora rifletteva la soddisfazione del vigoroso operaio della pace : cc Mentre agonizzano le conferenze di Londra e di Ginevra, il P atto a Quattro ha liberato l'Europa dalla impressione di trovarsi dinanzi al vuoto o alla vigilia della guerra. Col Patto a Quattro si respira n. Però, concludeva ammonendo di non abbandonarsi ad 23


eccessive illusioni. E infatti, dopo averlo accolto con clamorose esaltazioni, le stesse democrazie con progressive oblique manovre silurarono il Patto; ma ciò non impediva che nella opinione delle moltitudini estranee ai complotti delle Cancellerie, si radicasse la certezza che al di sopra e al di fuori dei vociferanti e inconcludenti parlamentini conferenziali, il Patto a Quattro fosse stato l'unico tentativo serio di opporsi al tempestoso frazionamento dell'Europa. E il Duce stesso lo segnala va nel discorso in Senato (14 novembre 1933) per lo Stato corporativo : «Si è fatto in questi ultimi tempi un grande silenzio intorno al Patto a Quattro. Nessuno ne parla, ma tutti ci pensano». Ci pensavano le folle; ne tacevano gli incendiari. I quali, imbarazzati e ormai sbarazzatisi del Patto, per vendicarsi della umiliazione di averlo dovuto firmare rendendo omaggio almeno formale alla volontà di pace del Duce, intensificavano e p erfezionavano le intese di accerchiamento e di iugulamento delle Potenze della Giovane Europa : soprattutto di questa Italia fascista che per prima aveva contestato e disturbato la loro armata tirannide e appariva scandalosamente decisa a rinnovare l'Europa come aveva rinnovato se stessa. Dirà più tardi gustosamente il Duce all'inviato del Daily Mail: «Essi nutrono verso l'Italia quella meschina animosità teologica che è caratteristica delle sètte religiose in declino ». Il guaio peggiore per i satrapi della sterlina e del dollaro (ai quali la pavida smar:ritissima Francia faceva da servo sciocco) stava nel fatto che l'Italia fascista ormai non era più sola nel denunciare e nel rivendicare. Al suo fianco marciava (similare nel Condottiero, nel Regime e nella dottrina) la Germania nazionalsocialista, la cui rinnovata potenza morale politica economica e forse già anche militare, spezzava ad una ad una le troppo tese e arrugginite catene del diktat versagliese. Certo, alla rinascita germanica, l'Italia di Mussolini era stata tutt'altro che estranea, ma i societari che oggi convergono i lori scandalizzati furo24


ri sulla<< premeditazione totalitaria» sono pregati di ricordare che l'avvento di Hitler è del ro gennaio 1933, mentre la presa di posizione del Duce contro le clausole assurde e feroci del diktat antigermanico risale agli anni in cui il regime interno germanico non era davvero politicamente apprezzabile dal regime fascista. Posizione dunque - allora -di disinteressata rivendicazione della giustizia, non collaborazione di similari Regimi. Possiamo, del resto, citarne e datarne le espressioni più probative. Il 25 gennaio 1922; nell'articolo « Il dramma di Cannes » (Popolo d'Italia) Mussolini scriveva che dei tre interrogativi sospesi sulla Conferenza, uno era quello tedesco : « ... La Germania è inerme, ma gli spiriti sono armati. Ci sono, soprattutto, in Germania, 62 milioni d1 tedeschi... Ora tutti i tentativi di spezzare la compagine del Reich sono falliti: il Reich è uno ». « ... La Francia aveva un programma massimo : smembrare il Reich; ora è ridotta al veto di impedire l'unione dell'Austria alla Germania... Quando le maglie del veto saranno allentate, Vienna lascerà Praga per dirigersi verso Berlino ». Idem per i quattro milioni di tedeschi incorporati nella Cecoslovacchia « che è uno degli Stati più paradossali del mondo >>. Per di più : « la Germania non è più moralmente isolata nel mondo, mentre di questo isolamento è minacciata la Francia contro la quale si muovono da varie parti, specie dai businessmen della democrazia nord_americana, le accuse che si volgevano ieri alla Germania>>.

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E da allora, la realtà di una massa tedesca tendente agli ottanta milioni dj componenti « piantata nel cuore di Europa, chiusa in un territorio ingrato e, salvo che al sud, senza confini» Gli apparirà come un elemento dominante e insopprimibile dell'avvenire europeo. Soltanto la follia vendicativa e il superficialismo teorizzatore delle democrazie possono illudersi di ridare al Continente una normalità, anche soltanto economica, tenendo illimitatamente 25


incatenato e schiacciato questo poderoso complesso di meravigliosi produttori e di apprezzabili consumatori. Tale realismo rettilineo e controllato detterà al Duce la linea di condotta nella questione della Ruhr: « L'atteggiamento che certi elementi di sinistra in Italia reclamavano sarebbe stato inutile. Non avremmo impedito alla Francia di marciare nella Ruhr, mentre avremmo forse aumentata la resistenza tedesca ». A questa saggezza diremo così europea, e nello stesso tempo già protettiva delle elementari esigenze della Nazione germanica, si affianca naturalmente la vigorosa difesa degli interessi e del preStigio italiani. Fatta fermamente salva la base di rispetto e di cordialità dei reciproci rapporti, la politica del Duce verso la Germania si mantiene e si riafferma sempre ispirata al concetto basilare della giustizia per tutti. Ora il bando della Germania dalla S.d.N. è una delle prime incongruenzc da eliminare. Dopo avere una prima volta affermato (24 marzo 1924, discorso al Costanzi di Roma) che Egli «non è contrario alla eventuale ammissione della Germania >> il 15 novembre dello stesso anno (discorso alla Camera) si dichiara non solo favorevole alla ammissione, ma « anche favorevole a chè la Germania abbia un posto permanente nel Consiglio della Lega ». Ciò significa avviarsi al riconoscimento integrale della uguaglianza giuridica nei diritti e nei doveri tra la Germania e le altre Nazioni. Ma malgrado ciò, e malgrado Locarno, che assicnra va alla Germania P. alla Francia la garanzia e l'assistenza dell'Italia e dell'Inghilterra, la Germania si trovava ancora in inferiorità pra6ca, cioè praticamente disarmata. Pesava su di lei il diktat versagliese che le aveva imposto un modesto status militare appena SUfficiente alla difesa e alla conservazione dell'ordine pubblico, mentre «nello stesso Trattato il disarmo della Germania doveva.essere il preambolo di una riduzione gene~ale degli armamenti allo stesso livello di quelli germanici; lltl.pegno solenne che finora non è stato mantenuto ». Con-

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traddizione ipocrita e ingiustizia palese contro le quali il Duce reagisce dichiarando (25 ottobre 1931, discorso di Napoli) : « La vera pace non può essere dissociata dalla giustizia, altrimenti è un protocollo dettato dalla vendetta, dal rancore e dalla paura >>. «Se fosse imposto alla Germania di rimanere eternamente disarmata in una Europa piena di armati, il riconoscimento della sua parità di diritti suonerebbe come un'ironia e il suo posto di uguale tra gli uguali nella S.d.N. si ridurrebbe ad una mera finzione ». «Se il livello degli armamenti altrui (Egli scriverà in un articolo riprodotto il 13 settembre 1912 nel Popolo d'Italia) non si abbassa, la Germania ha il diritto di aumentare il suo per non trovarsi nella categoria inferiore di Stati che non hanno pieno l'esercizio della loro sovranità politica e militare. È inevitabile che il diritto di uguaglianza giuridica in materia di armamenti le sia riconosciuto. Credere di fermare il corso della storia, credere di poter comprimere per la eternità un popolo di alta civiltà come il popolo tedesco, il quale dopo la Russia è il più numeroso d'Europa, è semplice e rovinosa illusione. Per aprire le vie del futuro non si può rimanere sempre inchiodati al passato)). Ora, chi si ostina così balordamente (ed è soprattutto la incorreggibile utopistica Francia) a contrastare il diritto della Germania, non vorrà poi pretendere che la Germania porti alla conclamata Conferenza ginevrina del disarmo la sua presenza di minorenne e di minorata. Forse tale presenza la Francia nemmeno pretende o desidera, ma questa sua cocciutaggine è fatale a lei stessa, perchè l'assenza o il ritiro della Germania silurerà senz'altro la caldeggiata Conferenza. Mussolini, come sempre, ha visto giusto. Il 14 ottobre 1933 la Germania se ne andrà, e tale distacco troncherà bruscamente la già faticata ripresa dei cosiddetti lavori dopo' Ìa pesante chiusura settembrina della prima fase conferenziale. 27


Nel frattempo, scontando con la sua acutissima preveggenza il naufragio della Conferenza e le sue conseguenze, il Duce in un articolo per l' U niversal Servi ce scrive (5 ottobre 1933) : « Il giorno in cui si avrà il fallimento più o meno elegantemente camuffato della Conferenza, la S.d.N. avrà finito praticamente di esistere; nuovi raggruppamenti degli Stati si produrranno, le antitesi diventeranno immediatamente acute, e un tempo pieno di terribili incognite di ordine anche sociale comincerà nella storia dell'Europa e del mondo 1>. Da allora, infatti, respinta e beffata, soprattutto sottovalutata nella sua Rivoluzione nazionale, la Germania che è ormai la Germania di Hitler, sceglie la sua strada e progressivamente spezza le catene che i suoi carcerieri sciocchi e malvagi pretendevano eterne. Vano sarà d'ora in poi da parte del sinedrio ginevrino simulare la sorpresa, gridare al tradimento e minacciare rappresaglie. Ancora un tentativo coraggioso e leale compie il Reich per la convivenza e la collaborazione coi suoi esasperati nemici. Confidando senza esitare nella nobiltà e nella schiettezza del Duce che l'ha proposto, consentendo (perchè emana dal Duce) nello spirito che lo informa, la Germania pone la sua firma al Patto a Quattro. Ora che cosa rappresenti l'adesione germanica il Duce stesso afferma altamente, oso dire gioiosamente, in quel passo del discorso illustrativo del Patto (7 giugno 1933 in Senato) che è doveroso riportare qui per esteso, perchè già vi traspare l'impostazione pregiudiziale della formazione dell'Asse: << La volontà di pace della Germania (discorsi di Goering a Dusseldorf e di Hitler per le elezioni di Danzica) è dovunque solennemente affermata. Bisogna rendersi conto che quella attualmente in corso in Germania è una profonda rivoluzione non soltanto nazionale, ma sociale. È una rivoluzione di popolo, fatta da uomini usciti dalla guerra e dal popolo. È un'affermazione che sale da venti milioni di tedeschi. Sul piano internazionale riaffermo quanto dissi altra volta in questa stessa aula: La Germania esiste nel cuore di


Europa con la sua massa imponente di 65 milioni di abitanti; con la sua storia, con la sua cultura, le sue necessità; una politica veramente europea e diretta al mantenimento della pace, non si può fare senza la Germania e, peggio ancora, contro la Germania; tanto meno si potrà condurre siffatta politica quanto più la Germania orienterà la sua azione internazionale secondo i punti essenziali contenuti nel programmatico discorso di Hitler >>. Ultimo lealissimo tentativo di collaborazione e di ricostruzione europea, quello del Patto a Quattro; ma quando le cc oblique manovre l> l'avranno svuotato senza tuttavia denunciarlo, il Terzo Reich riprenderà la sua marcia inesorabile verso le mète che tanto più gli appariranno legittime e sacre, quanto più gli saranno contestate e sbarrate. Non solitaria è però la sua marcia. L'Italia gli è al fianco con la sua primogenita bandiera di rivoluzione, col genio del suo Condottiero, col suo popolo credente disciplinato e guerriero. Come potrebbero i due Regimi non comprendersi e non amarsi? Nel discorso del 19 luglio 1940 al R eichstag, il Fiihrer, affermando che cc avere personalmente l'onore di essere l'amico di Mussolini Io riempie di gioia >>; riconosce nella sua bella onestà : « Da quando il popolo tedesco è risorto, soltanto dall'Italia abbiamo potuto udire voci di umana comprensione. Da questa reciproca comprensione è nata una viva comunità di interessi e infine essa fu consolidata nei Trattati >>. Comprensione reciproca, interessi complementari, collaborazione senza riserve. È l'origine, è lo spirito dell'Asse, - espressione per la prima volta usata da Mussolini a Milano- ma è anche, esteso a tutti gli altri popoli che se ne sentano degni, il credo e il programma della Giovane Europa che il Duce vaticinava e preparava da vent'anni. Ora vengano per la Germania la crisi austriaca e qu ella boema, si stringa intorno al collo dell'Italia il capestro sanzionista, e i Condottieri e i regimi si aiuteranno fra- • ternamente. Dirà il Duce il 19 agosto 1937 (discorso di Palermo) :

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u Una realtà di cui bisogna tenere conto è quella che si chiama ormai comunemente Asse Berlino-Roma. Non si arriva a R oma ignorando Berlino ; e non si arriva a Berlino ignorando Roma o contro Roma. Tra i due R egimi c'è una solidarietà in atto n. E il 20 settembre dello stesso anno, parlando nella gigantesca quasi religiosa adunata del Campo di Maggio a Berlino, dopo aver ricordato con gratitudine che la Germania, per quanto sollecitata, non aveva aderito alle sanzioni (ditficile per le democrazie persuadersi che gli altri non siano pronti a tradire come esse sono, fraternamente, use tra di loro), il Duce proclamò con parole che la Storia forse non aveva mai raccolte, così intime e solenni, da un guidatore di popoli : 11 Il Fascismo ha la sua etica alla quale intende rimanere fedele ed è anche la mia personale morale: parlare chiaro e aperto, e quando si è amici, marciare insieme sino in fondo >>. I n attesa che il Patto di Acciaio lo perfezioni strumentalmente, l'Asse funziona e funzionerà senza soste e senza impacci. Soltanto era nato per la pace, per creare e per consolidare la pace con giustizia; e si dovrà alla stoltezza e al furore degli avversari se esso dovrà funzionare nelle imminenti ore di congiuntura.

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Da quando, con un rovinoso crescendo ventennale, l'arbitrario Direttorio demoplutocratico ha irrimediabilm ente infranto l'unità dell'Europa provocando la formazione minacciosa di blocchi antitetici, il Duce( pur non disertando dalla sua ostinata missione di pacifìcatore e di ricostruttore. ha pur dovuto prendere atto che nc=--;un !'f>rÌO consenso favoriva i suoi sforzi, e che anche nel ristretto àmbito dei già troppo sacrificati interessi essenziali dell'Italia, le opposizioni si agguerrivano invece di disarmare. Non provvedendo, il giorno non sarebbe lontano in cui la difficol tà italiana del vivere si COf1vertirehhe in piena tragica impo~c;ibilità. P rovveòere dnnque doveva. Dicendo ciò. non si esagera. Negato infatti all'Italia-

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dalla congiura versagliese - ogni territorio di colonie o di mandato; sempre più sfav.orevole il rapporto proporzionale tra territorio beni e povolazione; giustamente stroncata J'emigrazione dtspersiva in terre e in schiavitù strani P-re; respinta con brutale ripulsa o con gelido silenzio ogni proposta di onesta, anche discreta, redistribuzione di territori e di beni da parte di quei popoli che nemmeno potevano nè sapevano sfruttare l'eccessivo bottino, l'avvenire del popolo italiano si profilava orientato verso una paurosa tragedia di disperazione, alla quale le pur imponenti provvidenze di bonifica interna e di valorizzazione libica non potevano portare che palliativi momentanei e modesti. Tre anni dopo J'avvento del Regime, il Duce, in un discorso al Senato (2 aprile 1925), non aveva temuto di fare iJ punto sulla incertezza del futuro : « Non ho bisogno di ricordare a voi che l'Italia si trova nel Mediterraneo e che il Mediterraneo ha tre vie di accesso e che queste vie sono ben custodite. Il giorno in cui queste vie fossero bloccate, il problema dei viveri sarel;>be estremamente difficile ». Non altro : il problema dei viveri ! Diagnosi cruda di una r:ealtà inoppugna bile. E allora, poichè tutti i mezzi pacifici per passare dalla diagnosi alla terapia col concorso degli cc alleati >> di ieri, cioè evitando all'Europa perturbazioni particolari, erano per la carenza degli cc alleati >> stessi. falliti o destinati al fallimento, bisogna va pure che l'Italia provvedesse coi propri mezzi. al disopra di ogni ostacolo, a superare i propri elementari problemi di indipenrlenza e di espansione. Relativamente costruttivi erano apparsi: in realtà, gli Accordi Mussolini-Laval del gennaio 1935. e già, per raggiungerli, il Duce aveva accettato nello Statuto degli italiani in Tunisia una soluzione, in certo senso. sacrificale. Anche. a11ora- va notato- il Duce, pur ansioso degli interessi più direttamente italiani, non ]j aveva avulsi dalla sua concezione totalitaria della «giustizia per tutti)) come

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pregiudiziale di una vera pace; e, nel brindisi di palazzo Venezia (5 gennaio), aveva desiderato riaffermare i princìpi di ordine generale che guidavano da un decennio la politica dell'Italia fascista. «Non si tratta- Egli disse allora- per quanto si riferisce all'Europa centrale, di rinunciare alle nostre amicizie; si tratta di armonizzare nel bacino Danubiano gli interessi e le necessità vitali dei singoli Stati con quelle che sono le esigenze di ordine generale ai fini di una pacificazione europea». Ma, nel rispondere, Lavai, pur rendendo amplissimo omaggio alla generosa tenacia con la quale il Duce «mette il suo prestigio al servizio dell'Europa » pur ammettendo che « la pace è precaria, che i popoli non vogliono più attendere perchè vivono nella incertezza, e troppo spesso nella miseria n, non dava poi al richiamo esplicito del Duce alcuna risposta sostanzialmente rasskurante. Un punto, non pubblicamente codificato negli Accordi (che a ciò non erano diretti) ma acquisito- si poteva credere - alla lealtà del Governo franc~se dopo i colloqui Mussolini-Laval, riguardava l'adesione della Francia al nostro ormai fatale intervento nel centro del Continente africano. Troppo noto, perchè qui Io si accentui, il come e il quando la inesecuzione da parte francese di quest'ultimo impegno operò negativamente sul conflitto i taio-etiopico e portò doverosamente l'Italia a denunciare gli Accordi di Roma, restituendoci automaticamente la nostra libertà anche nella questione tunisina. Per quanto riguardava i problemi più direttamente europei che ~vevano fatto oggetto dei richiami del Duce (5 gennaio), e poi della Parte Quarta degli Accordi di Roma (7 gennaio), tre mesi dopo l'incontro di Roma (n14 aprile) si riuniva a Stresa la Conferenza tripartita Italia-Francia-Inghilterra- che fu utile, se mai, per quello che tra le sue quinte fu detto e soprattutto per quello che da parte britannica fu taciuto. l1 Duce ebbe allora la precisa sensazione che almeno l'Inghilterra sarebbe stata sostan-


zialmente ostile alle nostre rivendicazioni espansive nel Continente africano. In quell'anno, dunque, i certami diplomatici ci fruttarono dalle democrazie parole molte, anche se non sempre _ esplicite, ma maggiori e assai più espliciti i silenzi e le tergiversazioni a mantenere anche i modesti impegni già assunti. Bisognava dunque che l'Italia decidesse, o di risolvere coi mezzi propri, coi mezzi drastici, gli elementari problemi del suo « vivere», o di adattarsi a dipendere sempre più dal ricatto e dalla elemosina dei grandi signori del mondo. A rinunciare cioè ad ogni indipendenza politica. Da questo dilemma, nel quale la scelta non è difficile per un popolo di dignità e per una Rivoluzione di potenza e di giustizia, nasce la nostra impresa africana, alla cui tempestività risolutiva offrono - si può ben dire - felice concorso le intollerabili provocazioni negussite che vanno dalle aggressioni di Gondar e di Ual Ual (novembre-dicembre 1934) a quella di Afdub (gennaio 1935), fino al protervo ncorso dell'Etiopia alla pronuba Società delle Nazioni. Non è qui luogo di riferire partitamente sulla campagna di Etiopia che tiene insieme della Storia e della Jeggenda e che costituisce la più potente e meglio organizzata campagna coloniale della Storia europea e mondiale. Si può però sufficientemente riassumerla ricordando che fu combattuta a più di quattromila chilometri dalle basi di rifornimento, che fu vinta in soli sette mesi attraverso durissime battaglie campali, e che vi parteciparono non meno di centomila operai che la giustizia. del Duce mise, alla pari coi combattenti, all'ordine del giorno della Nazione nel discorso del 5 maggio 1936. In rapporto, poi, con l'oggetto di questo scritto, va ricordato che vincemmo la campagna di Etiopia anche contro lo spietato accerchiamento sanzionista di 52 Nazioni organizzate sotto la direzione suprema delle due grandi democrazie occidentali. Come qui si disse e ·come era naturale, la Germania, per quanto (offensivamente) sollecitata, non aderì alle san33


zioni; anzi, in quanto pote', collaborò ad alleviarcene il terribile peso. Ora con la campagna sanzionista (nella quale per la prima volta nella Storia, Potenze europee, cioè presurnibilmente civili, facevano causa comune con barbari negrieri proprio contro quella Nazione di più antica magistrale civiltà che le aveva, quasi tutte, tratte all'onore della Storia) con la campagna sanzionista, la frattura dell'Europa, oltre che irreparabile, si presentava come moralmente inesplicabile e politicamente intollerabile. RifuJgeva una volta ancora la miracolosa prescienza del Duce, il quale esattamente dieci anni prima, nel discorso dell'Ascensione, aveva denunciato che le Nazioni cosiddette locarniste non solo si armavano furiosamente, ma « osa vano persino parlare di una guerra di dottrina che avrebbe dovuto muoversi dalla democrazia degli immortali princìpi contro questa irreducibile Italia fascista, antiplutocratica, antidemocratica, antiliberale, antisocialista e antimassonica u. Vaticinio esattissimo. Quella che prima poteva apparire semplicemente come sordida azione difensiva di possessi e di privilegi, si rivelava ora senza ambagi come una lotta senza quartiere tra due si~temi morali dei quali i sistemi politici ed economici non erano che gli aspetti strumentali. Di questa costatazione si faceva immediatamente declaratore il Duce ammonendo:« Noi non dimenticheremo che la S.d.N. ha organizzato con metodi di una diligenza diabolica l'iniquo assedio contro il popolo italiano; ba tentato di affamare questo popolo nella sua concreta vivente realtà degli uomini, delle donne, dei fanciulli; ha cercato di spezzare il nostro sforzo militare e l'opera di civiltà che si compiva a circa quattromila chilometri di distanza dalla madre patria 11. Logica conseguenza de11a inaudita congiura ginevrina doveva essere l'uscita dell'Italia dalla S.d.N., deliberata infatti dal Gran Consiglio Fascista su proposta del Duce e da Lui stesso annunziata e motivata all'Italia e al mondo nello storico discorso di Piazza Venezia dell'n dicembre 34


I937· Non si poteva dire che la decisione fosse avventata e prematura. Alla creazione wilsoniana, l'Italia aveva anzi fatto credito con una larghezza di tempo e una tolleranza di adattamento veramente singolari, ma anche questo rientrava nel sistema del Duce di tutto provare prima di condannare senza più appello. <<Abbiamo voluto durante lunghi anni - Egli infatti diceva - offrire al mondo uno spettacolo di inaudita pazienza. Non avevamo dimenticato e non dimenticheremo l'obbrobrioso tentativo di strangolamento economico del popolo italiano perpetrato a Ginevra. Ma qualcuno pensava che ad un certo momento la Lega delle Nazioni avrebbe compiuto un gesto di doverosa riparazione. Non lo ha fatto. Non lo ha voluto fare. Le buone intenzioni di taluni Governi annegano non appena i loro delegati entrano in contatto di quell'ambiente esiziale che è il sinedrio ginevrino, manovrato da torbide forze occulte nemiche della nostra Italia e della nostra Rivoluzione. In queste condizioni, non era più oltre tollerabile la nostra presenza sulla porta di Ginevra... Ecco che noi gridiamo il nostro basta l e ci allontaniamo senza alcun rimpianto dal barcollante tempio dove non si lavora per la pace ma si prepara la guerra ». Ma ancora e sempre aggiungeva : «Non per questo noi abbandoneremo le nostre fondamentali direttive politiche, tese verso la collaborazione e la pace. Ne abbiamo nei giorni scorsi fornito una luminosa prova consacrando la pace nelle acque dell'Adriatico ». In sostanza, la crisi sanzionista di epicentro ginevrino, se non ci ha nulla rivelato della ormai accertatissima ostilità demoplutocratica ad ogni programma revisionista per tutti- delJa gerarchia dei possidentes, ba però servito ad illuminare della luce più cruda, più tragicamente cruda, la totale prigionìa dell'Italia nel Mediterraneo. Che la tenacia e l'audacia dell'Italia dei produttori, favorita soprattutto dalla fulmineità risolutiva del fatto militare in Etiopia, abbia frustrato il proposito societario di coiwertire la prigione in una tomba, ciò per nulla infirma

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la prima già citata precisazione mediterranea fatta dal Duce in Senato. Il miracolo di ieri potrebbe, per avversa fortuna, non rinnovarsi domani, e una grandè Nazione non può mettersi in eterno alla mercè dei miracoli. Ed ·ecco che il Duce, nella vivezza esemplare della .recentissima esperienza, ripropone senza tardare, a chi lo v:oglia ascoltare, i termini del problema (discorso di Milano l novembre 1936) : «Il Mediterraneo - Egli dice - è per la Gran Bretagna una strada, una delle tante strade; piuttosto una scorciatoia con cui l'Impero britannico raggiunge più rapidamente i suoi territori periferici; ma se per gli altri il Mediterraneo è una strada, per gli ita1iani è la vita. Non è possibile un urto bilaterale e meno ancora è pqssibile un urto che da bilaterale diventerebbe immediatamente europeo. Non c'è quindi che una soluzione: la intesa schietta rapida completa sulla base del riconoscimento dei reciproci interessi. Ma se così non fosse, se veramente si meditasse di soffocare la vita del popolo itali<ino in questo mare che fu il mare di Roma, ebbene si sappia che il popolo italiano balzerebbe come un solo uomo in piedi, pronto al combatt1mento, con una decisione che sarebbe senza precedenti nella Storia >>. 0

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Purtroppo, nel già intricato quadro della convivenza - per non dir altro - mediterranea, un nuovo elemento di minaccia e di pericolo si stava inserendo. La guerra etiopica era finita da appena due mesi. Il sinedrio ginevrino ancora si baloccava, si incaponiva e si perdeva nella bizantina·questione del riconoscimento dell'Impero d'Italia. Tale riconoscimento, all'Italia· non importava affatto; se mai doveva importare all'Europa, perchè (discorso di Palermo 19 agosto 1937) «per quanto noi non possiamo essere 'sospettati di eccessiva tenerezza verso l'areopago ginevrino, diciamo tuttavia che è superfluo aggiungere alle infinite divisioni che torturano quell'organismo, un'ultima


divisione tra coloro che non hanno riconosciuto e coloro che hann,o riconosciuto l'Impero di Roma». (A tale proposito, ricordiamo la trovata gustosa e sensatissima di Shaw: «Se l'Inghilterra non vuole riconoscere l'Impero fascista, l'Italia non deve far altro che non riconoscere l'Impero britannico »). Ora, mentre Ginevra non si decide a seppellire l'ammorbante cadavere dell'Etiopia negussita, ecco che divampa la guerra di Spagna, al cui mizio l'Italia fu e si mantenne del tutto estranea, mentre il conte Ciano pote' documentare, basandosi su dichiarazioni di Yvon Delbos, contenute nel volume Expérience rouge, che da parecchi anni Mosca organizzava metodicamente la bolscevizzazìone della Spagna, quale formidabile branca occidentale di stritolamento degli Stati totalitari. Quando si ebbe la prova che le Milizie Franchiste avevano contro di sè, oltre alle formazioni sovversive spagnuole, vere formazioni internazionali inquadrate nelle brigate rosse, il Duce ordinò l'allestimento del Corpo Volontario Italiano. Nella prefazione agli Atti del Gran Consiglio (Io luglio 1938) la campagna fascista di Spagna era così annunziata dal Duce: << Avevamo appena avuto il tempo di salutare la vittoria etiopica, quando da oltre il Mediterraneo ci giungeva un appello che non poteva essere lasciato senza risposta: dopo che i bolscevichi fecero della guerra di Spagna la loro guerra, si 'ricostituivp.no i Battaglioni appena tornati dalla conquista dell'Impero. Le nuove gesta sono consegnate alla Storia coi nomi di Malaga, Guadalajara, Santander, Bilbao, Tortosa n. E infatti, con una lotta di trentadue mesi e col sacrificio di 4000 legionari, il nostro intervento aveva avuto potere decisivo nella cacciata dei bolscevichi dalla Spagna. A nulla era valso per le P otenze occidentali l'essere gradualmente slittate dalla astuta logomachia ginevrina del. u non intervento» ad una sfacciatissima sovvenzione delle forze bolsceviche, con truppe armi danaro e complicità. La partita l'avevano perduta in pieno : moralmente 37


e militarmente. Piccola rappresaglia era stata quella d'insinuare che l'Italia avesse mercanteggiato con Franco l'intervento, contro l'uso futuro di basi navali o addirittura contro la cessione delle Baleari; ma la calunnia era soltanto degna dei calunniatori : rifletteva quel loro malcostume piratesco, cosi definito da Hitler in contrapposto con la chiarezza generosa dei rapporti itala-germanici: «Tra le democrazie, se l'una aiuta l'altra, pretende subito qualche cosa : basi di appoggio o alcunchè di simile per passare poi alla occupazione. Il Duce e io, noi due, non siamo nè giudei, nè affaristi. Se noi due ci diamo la mano, questa è la stretta di due galantuomini ». E infatti l'Italia, malgrado la pesantezza del sacrificio, non aveva presentato nè preannunciato alla Spagna alcun conto creditorio, e in una intervista con Ward Price (r9 marzo 1937), il Duce aveva solennemente smentito la malvagia asserzione contraria: « Rinnovo assolutamente l'assicurazione che l'Italia nulla ha chiesto al generale Franco e l'Italia non ha fatto e non farà nulla che possa anche indirettamente violare la integrità territoriale della Spagna». Certo, la vittoria legionaria, oltre al valore nei riguardi della Spa- . gna, ne aveva uno di portata internazionale, perchè costruiva la pregiudiziale favorevole alla sicurezza e alla tranquillità rivierasca del Mediterraneo occidentàle, in vista di un futuro conflitto il cui progressivo maturarsi non era ormai dissimulabile. Questa funzione protettiva nel Mediterraneo occidentale doveva trovare nei successivi discorsi del Duce un crescendo di precisazione, ora ammonitore, ora, senza ambagi, trionfante. Nella citata prefazione, Egli aveva già detto: « L'evento è di una importanza storica enorme : è la prima volta - ma sarà anche l'ultima? - in cui le CC. NN. hanno affrontato in campo internar.ionale le forze bolsceviche e quelle degli immortali princìpi; è il primo scontro tra le due rivoluzioni, fra quella del secolo scorso {anche il bolscevismo è una involuzione reazionaria) e la .


nostra; non sappiamo se tale urto possa domani svilupparsi su scala europea e mondiale; quello che sappiamo è che il Fascismo non teme il combattimento che deve decidere le sorti dei Continenti ». Poi aveva precisato : « Il tentativo bolscevico di invasione del Mediterraneo è stroncato; la profezia di Lenin è smentita». Ma nell'annunziare dal balcone di Palazzo Venezia (26 giugno 1939) alla folla acclamante la conquista di Barcellona, Egli indicherà al popolo i veri sconfitti della guerra di Spagna : « La splendida vittoria di Barcellona è un altro capitolo della storia della nuova Europa che stiamo creando. Dalle magnifiche truppe di Franco e dai nostri intrepidi legionari non è stato battuto soltanto il governo di Negrin; molti altri tra i nostri nemici mordono in questo momento la polvere. La parola d'ordine dei rossi era N o pasaran : siamo passati e vi dico che passeremo ».

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13: innegabile che in questo grido di vittoria vibra e freme qualche cosa di insolitamente passionale. Si è che fino a ieri si era potuto soltanto sospettare che tra bolscevismo e democrazia, malgrado violenti contrasti esteriori, ci fossero oscuri rapporti di istintiva attrazione. Ma ecco che il gran vento delle Sierre di Spagna disperde le caligini e disvela le posizioni nemiche; democrazie e bolscevismo appaiono affiancati sulla stessa trincea; una cosa sola, un solo interesse, una sola combutta. Se il bolscevismo (discorso del Campo di Maggio) «è inaudito sfruttamento della credulità popolare da parte di un regime di servitù, di fame e di sangue», il regime demoplutocratico, pure nella sua minore astensione spettacolare, vale quanto il bolscevismo nel sottoporre le moltitudini del lavoro, le Nazioni proletarie, ad uno stesso regime di servitù e di fame: e se occorre, come in !spagna, anche di sangue. Non 39


c'è dunque timore di sbagliare. Come diceva il Gonzaga, basta tirare nel mucchio; tanto u sono tutti inimici nostri». Ma, quello che più conta, nella guerra di Spagna i legionari continuano gli squadristi della vigilia, e il Fascismo, ritrovandosi a faccia a faccia col suo primo nemico, ritorna alle origini e riassume, inesorabilmente esemplare, il suo posto di vessillifero della civiltà contro l'asiatica bar- _ barie. Contro la frode per le anime e la violenza per i corpi che caratterizzano il programma della «bestia trionfante», la primogenitura di sbarramento e di insurrezione (col suo martirologio di Caduti dentro e fuori d'Italia) è innegabilmente fascista. «Non sarà inopportuno», scrive il Duce il25 maggio 1922 (Gerarchia)« ricordare ancora una volta agli immemori che il primo formidabile colpo di arresto alla follia bolscevica fu inferto a Milano nell'aprile 1919 >L Si; le ferite della guerra erano allora tutte da sanare. Sì; da Versaglia la vittoriosa Italia era uscita umiliata e battuta. Per rifare i conti falsati dai barattieri alleati, sarebbero occorsi al timone della Nazione dignità audacia e accortezza; ma quel che più urgeva era di salvare la compromessa sanità del popolo italiano dove il mito moscovita illudeva per meglio ingannare, divideva per meglio distruggere. « Quello cui ci opponiamo noi fascisti (discorso a Trieste 20 settembre 1920) è la mascheratura bolscevica del socialismo italiano». Ora che cosa è questa Russia invocata come un paradiso interno e come una esterna liberatrice? Quale parola nuova apporta nel campo sociale, quale correttivo apporta all'imperialismo zarista? In fatto di politica sociale «è strano [discorso citato] che una razza che ha avuto Pisacane e Mazzini vada a cercare i vangeli prima in Germania e poi in Russia. Bisognerebbe studiare un poco P isacane e Mazzini, e si vedrebbe che alcune delle verità che si pretendono rivelate dalla Russia non sono che verità già consacrate nei libri dei nostri grandi maestri italiani ... Ma noi non promettiamo agli uomini felicità in terra, a differenza dei socia40


listi che pretenderebbero di mascherare la faccia dei mediterranei con la maschera russa ».

Quanto alla politica estera, che cosa persegue la Russia? La pace o la guerra? « In altri termini (discorso di Trieste 6 febbraio 1921) sotto l'emblema falce e martello si nasconde o non si nasconde il vecchio panslavismo zarista, che oggi sarebbe inoltre dominato da una ferrea necessità rivoluzionaria di allargare la rivoluzione nel resto di Europa per salvare il governo sovietico in Russia? n. E il governo dei Soviety ha bisogno urgente di salvezza, perchè dopo quasi un quinquennio di esperimenti compiuti in perfetta libertà di manovra, il suo bilancio si riassume in questa antitesi tremenda: avere promesso il paradiso per tutti e avere dato a tutti l'inferno. E a chi di ciò non sia persuaso, il Duce rivolge dal Popolo d'Italia quello scritto severamente educativo, amaramente ironico («Quando il mito tramonta») che resterà indistruttibile testimonianza di come già nel dicembre 1921 il Duce denunziasse la follia criminosa dei dirigenti bolscevichi e ne ammonisse le pericolose infatuazioni degli imitatori europei, con tale assoluta priorità di intuito e di azione su tutti gli uomini politici di quel tempo torbido e smarrito, da designarlo alla Storia come meritevole di ogni gratitudine prima che di ogni ammirazione. E da allora, Egli mai disarmò nè ripiegò. Ancora nel discorso alla Sciesa di Milano (4· ottobre 1922) celebrativo dei caduti nell'assalto del 4 agosto all'Avanti!, ribadiva che c<gli italiani non potevano essere a lungo mistificati da dottrine asiatiche assurde e criminose nella loro applicazione pratica e concreta». La conquista del potere l'aveva conservato mflessibile contro la propaganda di Mosca. Certo, il suo vigilante realismo lo aveva avvertito che come Potenza europea, sia pure bastardamente europea, la Russia era una realtà insopprimibile e che bisognava tenerne ragionevole conto. Ma questa normalizzazione dei rapporti di politica estera tra Italia fascista e Russia sovietica non gli impe41


diva la più vigorosa vigilanza nel bloccare ferreamente tutte le manifestazioni esterne infettive del bolscevismo. Perciò, quando la manifestazione esterna infettiva assume le proporzioni grandiose di un insediamento bolscevico in Spagna e quindi in Mediterraneo, Egli misura fulmineamente la gravità del pericolo, e alla Nazione, indubbiamente provata dalla conquista etiopic:t e dall'assedio sanzionista, chiede senza esitare di portarsi in Spagna alla difesa e al contrattacco. Ed è appunto allora che lo scontro col vecchio avversario gli appare, come accennammo, non soltanto inevitabile necessità ma, anche e più, faustissimo di significato, chè non solo non lo distoglie dalla lotta contro le plutodemocra~ie, ma gli offre il destro di colpirle nel bolscevismo stesso. « Nessuna meraviglia (discorso di Milano I novembre rg36) se noi innalziamo la bandiera dell'antibolscevismo. Ma questa è la nostra vecchia bandiera ! Ma noi siamo nati sotto questo segno! Ma noi abbiamo combattuto contro questo nemico e lo abbiamo vinto attraverso i nostri sacrifici e il nostro sangue ! Poichè quello che si chiama bolscevismo e comunismo non è oggi, ascoltatemi bene, non è oggi che un supercapitalismo di Stato portato alla sua più feroce espressione. Non è quindi una negazione del sistema, ma una prosecuzione e una sublimazione di questo sistema». L'anno dopo (13 giugno 1937, Popolo d'Italia) riprende il motivo e lo sviluppo: «E questa Russia che noi vediamo sprofondare nel baratro delle sue utopie assurde, del suo supercapitalistico caos sociale, della sua miseria infinita, dei suoi crimini atroci e miserevoli che disonorano il genere umano, anche quello approssimativo e arretrato che li vede compiere... Questa Russia avrebbe voluto, con la complicità morale e materiale delle grandi democrazie, trasportare i suoi usi e costumi di autentica ancestrale barbarie nel Mediterraneo latino, e ci sarebbe riuscita se la parte migliore della Spagna non fosse insorta e se i legionari italiani non fossero volontariamente accorsi a lottare eroicamente nel nome di R oma contro Mosca u. 0

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Dalle barricate del Popolo d'Italia alle Si erre di Spagna, e oggi al cuore dell'Ucraina, dove le formazioni italiane potenti ed eroicissime piantano anche il gagliardetto nero della Milizia «presidio armato della Rivoluzione )), il cammino ideale e realistico del Duce continua irresistibile metodico e conseguenziale alle prime premesse. Quando, dunque, il 6 novembre 1937, a Palazzo Chigi, il Duce firma per l'Italia il Protocollo del Patto Anticomintern, sembra che non a caso il Protocollo registri che l'Italia entra nel Patto come firmataria originale dell'accordo contro la internazionale comunista, concluso tra Germania e Giappone il 26 novembre 1936. Con imprecisione diplomatica, ma con esattezza politica e morale, sarebbe stato legittimo dire che il Duce firmava l'Accordo come pioniere primissimo di una lotta ventennale condotta impegnando da solo le forze bolsceviche e sbarrando la strada alla loro conquista e quindi alla rovina dell'Europa e della sua civiltà.

*· * * Conclusasi la guerra di Spagna, il 1938 vede, dopo il Convegno Tripartito di Budapest - Italia, Ungheria, Austria- dove Ungheria e Austria votano piena solidarietà con la politica dell'Asse, risolversi (3 marzo) secondo logica e giustizia, cioè con l'unione alla Germania, la crisi austriaca. Sul solito allarmismo occidentale affiora soltanto un platonico e respintissimo sondaggio della Francia all'Italia per una iniziativa in comune. L'atteggiamento lealissimo dell'Italia provoca da Hitler il noto telegramma : « Mussolini, non lo dimenticherò mai )). Profonda delusione nelle logge, nelle sinagoghe e nelle cellule, che sempre misurando gli altri col metro della loro miseria morale, avevano sperato in una incrinatura «austriaca» dell'amicizia tra i due Regimi totalitari. Invece la saldatura, se possibile, si rafforza sul parallelismo col quale Italia e Germania, sia pure con diversa gradualità anche giuridica (gi ustificata dalla differenza di proporzioni e di ca-

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rattere del fenomeno nei due Paesi), hanno affrontato e risolto il problema giudaico. Parallelismo: non accodamento. Chi pretende di sapere o sì ostina a credere che nella lotta antigiudaica l'Italia sia stata rimorchiata, è pregato di compiere la lieve fatica di leggere quanto il Duce scriveva nel Popolo d'Italia il4 giugno I919. Partendo da alcuni dati statistici sulla partecipazione proporzionale degli ebrei al governo sovietico, il Duce risaliva al fenomeno generale della influenza ebraica nel mondo : « La finanza mondiale è in mano agli ebrei. Chi possiede le casseforti dei popoli dirige la loro politica. Dietro i fantocci di Parigi, seno i Rotschild, i Warburg, gli Schiff, i Guggenheim, i quali hanno lo stesso sangue dei dominatori di Pietrogrado e di Budapest. La razza non tradisce la razza. Il bolscevismo è difeso dalla plutocrazia internazionale. Questa è la verità sostanziale. La plutocrazia internazionale, dominata e controllata dagli ebrei, ha un interesse supremo a che tutta la vita russa acceleri sino al parossismo il suo processo di disintegrazione molecolare >>. In queste nette categoriche costatazioni sta la minacciosa identità ebraismo-plutocrazia-bolscevismo. Dato dunque che il Duce sin dall'inizio si era dichiarato avversario del bolscevismo e della plutocrazia, era logico che fosse avversario ab initio anche ·del loro elemrnto cementante: l'ebraismo . .Sorpassato, dunque, il così detto dramma dell' Anschluss, l'Europa sembra mettersi al riparo dai maestrali con una navigazione costiera di piccolo cabotaggio. e l'accordo italo-inglese di Palazzo Chigi (r6 aprile) sembra dare ai due Imperi «una base ferma e duratura» di rapporti. Anche il festeggiatissimo viaggio in Italia del F iihrer maggio 1 938) non offre alle cassandre democratiche alcun pretesto di ipocrito allarme. N ella prefazione ad un numero speciale della nostra Iivista ufficiale delle Forze armate, il Fiihrer scrive che «i soldati delle due Nazioni sono gli esponenti della volontà dei loro Paesi di essere 44


garanti di una pace giusta tra le Nazioni d'Europa)). Persino nell'amarissimo Adriatico, calma piatta dopo gli Accordi coi quali il Duce ha voluto nel marzo 1937 codificare la faticata distensione con la Jugoslavia. Improvvisamente, nella serenità settembrina, si accumulano, gonfie veloci minacciose, le nubi della questione Sudetica. I 3 milioni e soo mila tedeschi insaccati da Versaglia nell'indigeribile polpettone cecoslovacco, oppressi e seviziati dal regime penitenziario di Praga, premono risolutamente per unirsi alla Germania. Problema insopprimibile al quale con discretezza di tono ma con precisione di diagnosi, il Duce aveva più volte accennato. Problema del resto, di non ardua soluzione se Praga ascoltasse con minore credulità le suggestioni dei suoi patroni. Illusa e incitata dalle stesse forze negative che l'avevano artificiosamente creata e gonfiata ridicolmente, la. Cecoslovacchia si avvia all'abisso. Se oggi qualcuno dei suoi dirigenti di allora, rinsavito, rimeditasse le cronache di quell'anno decisivo, dovrebbe ammettere che soltanto dalla cattedra di Roma discese su Praga la parola del buon consiglio. Come infatti rivelò Galeazzo Ciano (vasto e chiaro discorso del 30 novembre 1938 alla Camera) già il r8 dicembre 1937 al ministro ài Cecoslovacchia a Roma- Chovalkoswky - che, forse per esser lontano dall'epicentro boemo dell'impazzimento, intravvedeva la realtà e preoccupato consultava il ministro Ciano, questi rispondeva: «Realizzate un accordo con Berlino, Budapest e Varsavia; realizzatelo presto, p·rima di esservi costretti dalla inesorabile spinta degli avvenimenti. Commettereste un grave errore se, chiudendo gli occhi alla realtà, continuaste a nutrire fallaci illusioni sulla consistenza della così detta sicurezza collettiva e sulle possibilità pratiche delle amicizie geograficamente lontane u. Parlando così, Ciano si riferiva sopratutto a] Patto ceco-sovietico del 1935 che aveva fatto della Cecoslovacchia

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una testa di ponte del bolscevismo nell'Europa orientale. Consiglio limpido, quello di Ciano, largito - oso dire affettuosamente a chi in un ventennio non aveva certo mostrato di meritare nè lealtà nè premura. Ma vi era stata, in più, la famosa« Lettera a Runciman » (Popolo d'Italia 15 settembre 1938) con la quale il Duce aveva offerto, del conflitto ceco-germanico, un piano risolutivo perfetto nello spirito e .nelle clausole e tale che, accettandolo, Praga H pa. cificamente deflazionata » dalle nazionalità ostili, resa quindi più forte e più sicura, avrebbe poi camminato più spedita. Nessuna seria obbiezione vi contrastava, perchè «frontiere tracciate con gli inchiostri, da altri inchiostri possono essere modificate, mentre altra cosa è quando le frontiere furono tracciate dalla mano di Dio e dal sangue degli uomini». Ma come Runciman non apprezzò la lettera del Duce, così Praga spregiò l'amichevole consiglio; gonfiandosi di burbanza come si era gonfiata di territori e di popolazioni, ad essa parimenti estranei; stupidamente fiera- forsedi tenere nella sua toga non certo romana il destino di guerra dell'Europa. È di quel tempo la prima fase del viaggio del Duce nella Venezia Giulia e del quotidiano contatto diretto con le popolazioni e le gerarchie del nordest d'Italia. Egli se ne vale per fare metodicamente il punto della situazione con una tempestiva chiarezza di commento e una spietatezza di previsioni che, mentre inseguono, sconcertano e denunziano i bellicisti del quadrilatero PragaMosca-Londra-Parigi sul terreno delle loro menzogne e delle loro trame, consentono alla Nazione italiana di conoscere giorno per giorno ciò che ancora si potrebbe fare per salvare la pace e quanto fatalmente accadrà se la psicosi di guerra avrà il sopravvento. Curioso rovesciamento ironico di situazioni morali e reali, dove l'abolizione della diplomazia segreta proclamata da vVilson e dal suo sinedrio versagliese trova nella dittatura l'applicazione e nei suoi antichi enfatici patroni il sistematico rinnegamento.


Deplorando a Padova (24 settembre) che l'accettazione da parte di Praga del così detto <<piano anglo-francese di Londra >> sia stata annullata dalle equivoche dimissioni del governo ceco, il Duce avverte che la legittima intromissione del Fiihrer concede « esattamente sei giorni di tempo ai governanti di Praga perchè ritrovino la via della salvezza; mentre sarebbe assurdo e criminale che milioni di europei dovessero scagliarsi gli uni contro gli. altri semplicemente per mantenere la signoria del signor Benès su otto razze diverse >>. E a Verona (26 settembre) ribadisce di volere ancora credere che << l'Europa non vorrà mettersi a ferro e a fuoco, non vorrà bruciare sè stessa per cuocere l'uovo imputridito di Praga n. Non una parola da Lui che poss3. comunque infoltire il roveto della già spinosissima situazione, nemmeno trovate la legittima riserva sulla realizzabilità di un accordo : si può ancora accordarsi, si può, si può ... E dal suo cuore ansioso della sorte del Continente sorge, pure imperterrito nel monito, il . grido augurale verso la non fatalità del conflitto : << È in questa settimana che può sorgere la nuova Europa, l'Europa della giustizia per tutti e della riconciliazione fra i popoli. Noi del Littorio siamo per questa nuova Europa». Nel frattempo, quasi a sottolineare la calma perfetta con la quale l'Italia segue gli eventi, egli inaugura il23 settembre in Roma l'Ara Pacis Augustea. Sembra che il vati~ cinio contenuto nel rito si avveri: la mattina del 28 settembre 1938 giunge al Duce l'invocazione allarmata e confidente di Chamberlain perchè il Duce interponga la propria mediazione nel conflitto sudetico. Era sincero il gesto di Cham berlain? Può essere che in quel momento il suo temperamento personale riflettesse davvero la sgoménta inquietudine delle grandi masse europee, le quali attraverso i discorsi del Duce avevano colto il segreto del tragico imbroglio per cui il diritto di autodecisione dei popoli - basilare del sistema democra-

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tico - era violentemente sconfessato dalle stesse Democrazie. Vi era in quello sgomento una indignazione latente: come buttarsi allo sbaraglio avendo contro di sè la coscienza del mondo? Ma può anche essere che la pur sincera inquietudine del Primo Ministro servisse involontariamente il gioco dei veri dirigenti segreti della politica inglese : mercanti di cannoni e banchieri ebraici, demagoghi settnri ed emissari bolscevichi. Per perfezionare la attrezzatura diplomatico-militare del loro sistema di accerchiamento e di aggressione, una dilazione poteva esser preziosa. Benvenuta dunque la pausa mediatrice! Comunque, da parte italiana l'appello è prontamente raccolto, e Hitler aderisce alla proposta del Duce di differire di ventiquattro ore l'inizio delle operazioni militari per rivedere la situazione in un convegno fulmineamente predisposto per il28 settembre tra il Duce, il Fiihrer, Chamberlain e Daladier. In quelle « giornate di Monaco>> che resteranno nella storia come un titolo di onore per i due Condottieri, il piano portato dal Duce è accolto, l'accordo è raggiunto e firmato. Con onestà e con saggezza, cosl come il Duce stesso ha proposto, accanto alla questione sudetica, sono risolte le questioni ceco-magiara e cecopolacca. Quando il Duce rientra in Roma, non è soltanto la folla italiana e straniera accalcata in piazza Venezia che lo acclama: è l'intero Continente, sono le masse anonime delle madri, delle mogli, dei figli, dei lavoratori che lo sàlutano salvatore dell'Europa. Lui, il Duce, dice semplicemente:« A Monaco abbiamo operato per la pace secondo giustizia. Non è questo l'ideale del popolo italiano? n. In realtà l'Europa si illude anche se non si illudono i Condottieri. Tuttavia, poichè 1a distensione è autentica e comunque salutare, ed è lecito sperare che la disvelata angoscia dei popoli renda perplessi ~Sli incendiari e li trattenga da immediati gesti fatali, il Duce se ne vale per accentuare nei confronti di Londra la espressione pratica della sua vo-


lontà di pace, e dà immediata esecuzione al cosidetto P atto di Pasqua, che pone le relazioni italo-inglesi sul piano di solida e amichevole collaborazione regolando sulla base della più assoluta parità morale politica e militare i rapporti tra i due Imperi. Naturalmente, nel rendere conto al Parlamento delle origini e degli sviluppi della superata crisi, il conte Ciano conclude affermando che la imperterrita volontà italiana di pace sarà affiancata « dalla circospezione indispensabile allorchè si intende tutelare con inflessibile fermezza gli. interessi e le naturali aspirazioni del popolo italiano >>. Affermazione onesta e virile, che provoca il formidabilé precisante consenso del Parlamento e del P aese. Tendere infatti alla pace rinnegando i fondamentali interessi di indipendenza e di vita, significherebbe escludere dalla pace la giustizia; e questa giustizia, per la quale si levò il primo grido della nascente rivoluzione fascista, non è più procrastinabile. Quanto al perfezionamento degli armamenti nazionali sufficienti contro ogni sorpresa, ciò è elementare. N on si procede nella giungla affidandosi al bastoncello da passeggio . .Si è che il conflitto sudetico è un episodio abbastanza circoscritto della totalitaria denegazione di giustizia da parte degli arbitrari padroni del mondo e, nei riguardi dell'Italia, dietro la complicità rafforzante di Mosca e di Londra, si ripara il silenzio burbanzoso di Parigi. Ora crede forse la F rancia, dove, nell'essere contro di noi, l'Action française e l'Humanité, i gigli e il triangolo sono solidarissimi; crede forse la F rancia che la umiliante e fraudolenta esclusione versagliese dell'Italia da ogni possibilità di indipendènza e di espansione abbia perduto in venti anni risonanza e gravità, proprio quando in questi venti anni la cres.ciuta potenza italiana demografica e strumentale esaspera le condizioni di prigionia e di sudditanza di un popolo destinato a salire? Già il 17 dicembre 1938 una Nota italiana aveva stabilito chiaramente i termini dei massimi problemi italianì,

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nei confronti della Francia. Problemi di carattere coloniale : intitolati a Tunisi, a Gibuti e a Suez. Da Parigi, nessuna risposta si era data se non si vogliano chiamare risposte certe smargiassate da DonChisciotte senza innocenza. Ed ecco che, richiamandosi a quella Nota, il Duce ne riafferma il categorico valore nel discorso tenuto il 26 marzo l938 al rapporto della Vecchia Guardia fascista: « Il Governo francese è perfettamente libero di rifiutarsi anche alla semplice discussione di questi problerrù come ha fatto sin qui attraverso i suoi troppo reiterati jamais. Non avrà poi a dolersi se il solco che divide attualmente i due Paesi ·diventerà così profondo che sarà fatica ardua, se non impossibile, colmarlo. Comunque si svolgano gli eventi, noi desideriamo che non si parli più di fratellanza, di sorellanza, di cuginanza e di altrettali parentele bastarde, poichè i rapporti fra gli Stati sono rapporti di forza e questi rapporti di forza sono gli elementi determinanti della loro politica ». Chiarezza politica e morale intonata alle intenzioni del Duce: « Noi non chiediamo il giudizio del mondo, ma desideriamo che il mondo sia informato ». La Francia tuttavia non risponde se non rimasticando quei jamais che la fanno - con Daladier - degna erede della cecità politica e della vergogna militare di Napoleon ~ III. E allora, allora soltanto, fallito ogni onesto tentativo di revisione riparatrice, bisognerà pure che il Duce riprenda il discorso e l'azione di Vittorio Amedeo II : cc La Francia è irremovibile nelle sue pretese; io non ho trascurato alcun espediente per risolvere pacificamente il dissidio : null~ bo potuto ottenere. Sono perciò risoluto a tutelare il mio buon diritto con le armi ». Ciò porterà ineluttabilmente le armi fasciste alla campagna del fronte occidentale e la Francia al più frettoloso se pure equivoco armistizio. 50


Intanto due problemi, direttamente pertinenti alla rispettiva politica di diTitto della Germania e dell'Italia, sono risolti con efficace speditezza. Nel marzo 1939 la Germania liquida i residui della questione cecoslovacca occupando la Boemia e la Moravia e ne istituisce il Protettorato. Nell'aprile successivo, poichè bande armate al soldo straniero e con la complicità dell'avventuriero Zog scorrazzano in Albania minacciando insieme i cittadini italiani e la sicurezza del Paese, le divisioni italiane al comando del generale Guzzoni occupano rapidamente il territorio albanese accolte come liberatrici da tutto il popolo skipetaro. Zog e Giraldina fuggono asportando il tesoro dello Stato. Il 12 aprile l'Assemblea Costituente Albanese offre la Corona di Albania al Re d'Italia Imperatore d'Etiopia. Anche la vergogna giolittiano-socialista del« via da Valana)) è cancellata, e l'Italia in Albania ritorna definitivamente, apportatrice delle più luminose feconde opere sociali. A sottolineare appunto il carattere soprattutto civile dell'evento, il Duce da Palazzo Venezia (r3 aprile) dichiara : «Il mondo è pregato di !asciarci tranquilli, intenti alla nostra quotidiana fatica ». Le due azioni, germanica e italiana, non sono nè interdipendenti nè concertate, ma le Democrazie occidentali che pure si sono costituite i rispettivi Imperi - checchè ne dica anche oggi il Ministro per l'India e la Birmania R. S. Amery -attraverso le più sfacciate usurpazioni e le più crudeli violenze (Tunisia e Rhodesia, In<iia e Madagascar, per essere brevi nel citare) organizzano a freddo una indif{nata insurrezione di stampa e, seminando nei Governi dtti'Europa orientale dollari e allarmi, tra il marzo e l'aprile (1939) moltiplicano le offerte e gli scam9i di garanzie : garanzia anglo-francese alla Polonia, a1la Romania e alla Grecia, trattato di mutua assistenza anglo-turco. inizio delle trattative anglo-francesi con Mosca. In questo martellamento di saldatura del sistema accerchiante, la Germania e l'Italia tra il 7 maggio (Milano)

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e i122 maggio (Berlino) concordano, annunciano e firmano quello che con felicissima definizione si intitola il Patto di Acciaio. Solenne e lineare nella impostazione, privo di clausole >egrete, il Patto si annunzia come promosso dalla suprema necessità di dirigere ogni sforzo per il mantenimento della pace e di procedere con intima collaborazione alla ricostruzione interna dei due Paesi e al perfezionamento delle rispettive attrezzature militari. In realtà, il Patto di Acciaio non è che la regolarizza1;ione normalissima di una situazione di fatto: la sempre crescente solidarietà soprattutto spirituale dei due Condottieri, dei due Regimi e delle due Nazioni; le quali ultime, già ravvicinate storicamente dal lungo similare travaglio per la costituzione in unità, avevano anche nella Grande Guerra 1915-I9I8, pur combattendo in due campi opposti, tcatto dalla vittoria italiana lo stesso faustissimo vantaggio: la eliminazione dall'Eur0pa cent.rorientale dell'assurdo Asburgico che !:>imilmente teneva prigionieri popoli e territori rispettivamente pertinenti ai complessi na1ionali Italiano e germanico. Del resto, come osservava il conte Ciano nel suo discorso del IO dicembre alla Camera, il Patto di Acciaio non faceva che portare i rapporti italogerrnanici sullo stesso piano in cui erano già i rapporti franco-inglesi. Se mai, esso non era che la legittima risposta a chi aveva per primo operato la frattura dell'Europa ~cindendola in blocchi opposti e contrari. Tanto poi chiara era, tuttavia e sempre la volontà di pace nel Duce, che quasi all'indomani della firma del Patto egli impostava e ordinava la esecuzione di tre complessi · .di opere che per vastità di mezzi e per prevedibile durata richiederebbero il lavoro e la tranquillità di lunghissimi anni. E cioè: la intensificazione dei lavori dell'Esposizione I942; la colonizzazione dell'Etiopia con trasferimento di imponenti masse di lavoratori insieme con le famiglie; la messa in valore dell'Albania e la bonifica del latifondo ;;iciliano. Curiosa preparazione sarebbe stata questa per

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una guerra (se Egli l'avesse meditata e voluta) quando essa avrebbe invece richiesto immediato concentramento metropolitano di uomini, di energie e di mezzi finanziari. Ma mentre Roma e Berlino contenevano la propria preparazione militare nei limiti <li saggezza del semplice provvedere alla sicurezza nazionale, gli esponenti democratici della plutocrazia e del giudaismo, ritenendosi ormai imbattibili per il moltiplicato sistema delle alleanze e dellE: garanzie, trovavano nella Polonia, idropica e fegatosa creazione versagliese, tragicamente acefala dopo la scomparsa del saggio Pildzusky, il brulotto più acconcio pe1 incendiare finalmente il centro di Europa c incenerirvi le preoccupanti energie rivoluzionarie dell'Asse. Danzica e il « corridoio » erano il pretesto; la guerra era la meta agognata. Invano il 27 maggio il Duce aveva ammonito l'Ambasciatore di Inghilterra essere pericoloso e insensato affidare alle mani inesperte della Polonia la tentatrice (se pur illusoria) garanzia incondizionata anglo-francese. Invano ancora il ZI marzo la Germania aveva invitato la Polonia a discutere. Invano e da Roma e da Berlino sì era discretamente consigliato a Varsa via di meditare sulla sorte toccata alla Cecoslovacchia. Altezzosa e provocante di fronte alle ragionevoli richieste germaniche e, nel tempo stesso, ingenua e ignara; ciecamente confidente, non si sa se più in sè stessa o nei sobillanti alleati- Varsavia ripercorreva lo stesso itinerario di follia che aveva tratto Praga alla perdizione. Decisa negli angiporti ebraico-bancari di Londra, di Parigi e di N uova York, la guerra era ormai un fatto irrevocabile anche se estenuanti conversazioni diplomatiche sembravano volerne ritardare lo scoppio. Tuttavia, ancora tra l'n e il I3 agosto, il Duce prende la iniziativa di quello che fu poi il Convegno di Salisburgo, meritorio tentativo ispirato però assai più dallo scrupolo di compiere anche l'ultimo sforzo per salvare la pace che non da fondata speranza che la pace potesse ormai 53


essere salvata. Comunque, calmo e sereno, ininfluenzabile dal crescendo delle violenze polacche, il Duce fino all'ultima ora prospetta tanto le possibilità risolutive quanto le incognite tremende del conflitto. Anche quando imponenti masse di armati sono ormai dalle due parti quasi in urto diretto, cioè il 31 agosto, il Duce - in pieno accordo col Fiihrer- fa conoscere ai Governi francese e inglese che, ove Egli ottenga previa certezza della adesione anglo-franco-polacca, potrebbe convocare una Conferenza internazionale « con lo scopo di rivedere le clausole del Trattato di Versaglia, causa del sovvertimento della vita europea ». In limine litis, a distanza di venti anni, il Duce ripete l'unica formula di salvezza e di pace : « rivedere » Versaglia. Risposte volutamente tardive, inaccettabili proposte britanniche (evacuazione delle forze germaniche dal territorio polacco già militarmente occupato!) fanno fallire anche l'ultimo sforzo del Duce, ma anche di questo sforzo i popoli e la Storia dovranno tenere conto e accreditarglielo nel gigantesco bilancio della sua opera di moderatore e di equilibratore della vicenda europea. La guerra, dunque; ma affìnchè dal settore polaccogermanico essa non dilaghi per tutta l'Europa, il Governo Fascista, superando anche la dichiarazione franco-inglese di voler portare assistenza militare alla Polonia, dichiara il I settembre che l'Italia « non prenderà iniziative militari >>. In questa decisione di non belligeranza concorda naturalmente il Fiihrer. Animato dalla stessa ansia mussolimana di arginare il conflitto, Egli ha dichiarato al Duce che « considerando sufficienti le forze militari germaniche per assolvere i compiti che si presentano, non rifiene la necessità di un sostegno milita re da parte dell'Italia». In quel frattempo un fatto clamoroso è avvenuto: la conclusione del Patto di non aggressione e di consultazione tra Mosca e Berlino. Noi sappiamo oggi in modo preciso che cosa si nascondeva dietro quel gesto di Mosca, ma che anche allora il P atto stesso fosse apparso limpido e sincero alle Potenze dell'Asse, nessuno può affermare. Lo 0

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stesso Fiihrer nel discorso del 6 ottobre 1939, parlando del Patto, ne distingue i limiti e la portata con la definizione eloquente nella sua sibillina apparenza : « La Russia ?Ovietica è la Russia sovietica e la Germania nazionalsocialista è la Germania nazionalsocialista ». In realtà, il Patto appariva alle Potenze dell'Asse accettabile e conveniente per neutralizzare la Russia e impedirle di entrare nel sistema accerchiante. Accantonata così la questione dei rapporti Asse-Soviety, ·da quel I settembre della «non belligeranza», gli sforzi del Duce appaiono convergere verso il delicatissimo compito di salvaguardare la pace almeno e soprattutto negli scacchieri balcanico e mediterraneo. Di questo «impegno in burrascosa navigazione» dal quale il pilota invita il popolo a non disturbarlo col chiedergli ad ogni istante notizie sulla rotta, resta espressione efficace un passo del discorso tenuto dal Duce il 23 settembre alla « Decima Legio »: << Liquidata la Polonia l'Europa non è ancora effettivamente in guerra. Le masse degli eserciti. non si sono ancora urtate. Si può evitare l'urto col rendersi conto che è vana illusione quella di voler mantenere in piedi, o peggio ancora, ricostituire, posizioni che la Storia e il dinamismo dei popoli hanno condannate .... In una situazione come l'attuale, piena di molte incognite, la parola d'ordine è : appoggiare ogni possibile iniziativa di pace e lavorare vigilanti Ì:1 silenzio. Questo è lo stile del Fascismo; questo deve essere ed è lo stile del popolo italiano ». A distanza di secoli, dalla stessa solenne cattedra di Roma, la Catoniana insistenza è qui riaffermata nella tenacia, ma capovolta nell'obbiettivo. Al delenda Carthago subentra il<< preservare la residua pace ». E finchè fu umanamente possibile, la residua pace fu preservata. Dal Duce e soltanto dal Duce. Le Cancyllerie nemiche possono fingere di ignorarlo; i popoli lo sanno e lo ricorderanno. Il IO giugno 1940, respinta con irrisione, 0

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come se fosse dettata da debolezza o da paura, la proposta di pace del « vincitore » Hitler, incamminata ormai la guerra per le sue strade fatali di continenti e di oceani, fu dovere e fu onore dell'Italia decidere « in tutta libertà » di scendere in campo. Pote' allora il Duce, come nessuno, ricevere dalla propria coscienza prima che dal giudizio del suo popolo, il riconoscimento illimitato della probità della energia e della passione con le quali Egli aveva disperatamente lottato per ventitrè anni, prima per evitare, poi per circoscrivere l'incendio delittuoso appiccato dai sordidi appaltatori qel mondo al tempio luminoso e operoso della Civiltà occidentale. EZIO MARIA GRA Y

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"SOLO UN POPOLO veramente forte e grande come il popolo italiano può reggere ad uno sforzo così prolungato, quasi ininterrotto dal 1935-36, facendo questa guerra seguito ad altre due." MUSSO LINI {Discorso pronunciato nel l'Annuale delle "Giornata della fede" il18 dicembre 1941-XX}

L'ITALIA IN GUERRA TRA l DUE CONFLITTI MONDIALI '

E

ORMAI provato che la nuova· guerra mondiale del 1939

è stata voluta, preparata e imposta dall'Inghilterra e dagli Stati Uniti. La Francia dei varii regimi al governo vi ha dato la sua collaborazione, prima volonterosa e provocante, poi all'ultima ora alquanto perplessa. :È pure provato che le due Potenze dell'Asse hanno fatto tutto quanto era possibile per salvare la pace senza tradire le leggi dell'onore e le necessità nazionali. La Germania di Hitler, pure sorta nella volontà della riscossa contro la servitù di Versailles, è stata pronta ad accettare nel 1933 il piano di Mussolini di un Patto a quattro fra le grandi Potenze occidentali le quali, in un franco armistizio impegnativo di dieci anni, avrebbero dovuto affrontare eri. solvere con spirito solidale i grandi problemi europei aperti ed esasperati. Ha poi proposto all'Inghilterra una, intesa di 25 anni che doveva fra l'altro garantire l'integrità dell'impero britannico con l'aiuto delle stesse forze armate germaniche. Ha assicurato alla Francia il rispetto dei suoi nuovi confini orientali, del fatto compiuto e pure ingrato dell'Alsazia e Lorena. H a tentato di risolvere in tranquilli accordi diretti con il governo polacco il problema di Danzica e gli altri problemi dei confini, contenuti in una somma minima e tollerabile di richieste accompagnate dagaranzie a lungo raggio.

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Dell'Italia di Mussolini la politica costante e operante per la pace è provata nella documentazione storica di venti anni. Mussolini è stato il primo uomo di Stato dell'Europa che abbia posto m termini realistici il problema della pace e della collaborazione europea. Ha denunciato, non per l'Italia solo, ma per tutte le nazioni dell'Europa, le ingiustizie intollerabili e i pericoli del sistema di Versailles; la impossibilità delle divisioni e delle gerarchie che esso aveva creato fra le nazioni vincitrici e vinte, tra le nazioni imperiali e quelle costrette alla rassegnazione. Per primo ha indicato e sospinto, con proposte concrete e concilianti, l'esame e la soluzione dei problemi più urgenti e minac-ciosi. Tali i problemi della pesante contabilità della guerra, debiti interalleati e riparazioni, che opprimevano i popoli debitori e mortificavano l'economia mondiale; del riarmo dei disarmati per la parificazione dei diritti della sovranità e della sicurezza dei popoli, e della generale limitazione degli armamenti, sui più bassi livelli possibili e con l'esclusione delle armi più offensive e micidiali, per disperdere con gli strumenti le prime premesse della guerra; della rettifica dei confini politici per riportarli a1l'armonia con quelli nazionali; della più giusta distribuzione delle colonie per assicurare ai popoli l'armonia tra i bisogni della vita e i mezzi. Ha sostenuto il problema del revisionismo come quello della vera pace ragionata con giustizia. Ha sostenuto per esso le rivendicazioni della Germania e degli altri paesi vinti o sacrificati perchè fossero comprese e soddisfatte con la buona volontà e l'intelligenza, in tempo, prima che si scatenasse sull'Europa divisa l'uragano delle incontcnibili forze naturali temerariamente represse. Le democrazie imperia li hanno voluto assegnarsi la €sclnsività del titolo di protettori della pace. Ma nulla veramente esse hanno dato alla pace fuor che i solenni e vuoti discorsi e il tentativo di una organizzazione armata per la meccanica difesa dell'ordine costituito. La vera pace tra i popoli non può essere. soltanto una formula

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verbale e convenzionale e neppure un sistema automatico creato dal di fuori con la forza della volontà dei pochi contro i bisogni e le aspirazioni dei molti. La pace è il risultato di stati e fatti concreti, che si riassumono nella raggiunta armonia degli interessi dei popoli, nella loro reciproca comprensione e tutela. Verso la Francia, l'Inghilterra e gli Stati Uniti, responsabili del sistema di Versailles e dell'incontenibile disordine europeo che ne è derivato, responsabili pure dello stato di mediocrità e di insufficienza nel quale a Versailles l'Italia era stata ridotta, Mussolini ha particolarmente rivolto, insieme agli appelli per le giuste e tempestive revisioni, i costanti e franchi inviti all'amicizia e alla solidarietà. Sin dal 1922 Mussolini manifesta chiaro, in pubbliche dichiarazioni, il suo proposito di una leale amicizia con la Francia per la pace sui confini e nel Mediterraneo. Dominata dalle correnti imperialiste e antifasciste, dalla ambizione de1l'egemonia europea, la Francia ha risposto con la diffamazione dell'eroismo dei combattenti italiani e dei loro risolutivi contributi dati alla vittoria comune, con la cospirazione dell'antifascismo, con l'intransigente rifiuto dell'esame e della soluzione di ogni vitale problema aperto con l'Italia, fino ai replicati jamais di Daladier pronunciati con stolta incoscienza dell'ora storica sul limite della nuova guerra. Verso l'Inghilterra la politica dell'Italia fascista ha voluto essere amica e collaborativa nonostante la prigionia imposta dai domini britannici nel Mediterraneo. L'impresa dell'Italia in Etiopia è stata preceduta da un franco invito rivolto al Foreign Office per un esame solidale del problema etiopico, che significava il desiderio del rispetto degli eventuali interessi britannici. n governo inglese ha lasciato cadere nel silenzio l'invito. Conclusa la guerra vittoriosa dell'Africa Orientale e proclamato l'Impero, Mussolini ha ancora offerto senza rancore, con spirito di conciliazione e larga visione europea, il ramo d'olivo al governo britannico, mentre fin dal luglio 1936 il Ministro 59


degli Esteri, Conte Galeazzo Ciano, ba promesso alla Società delle Nazioni, in un memorabile documento, la collaborazione volonterosa dell'Italia a condizione del riconoscimento del fatto compiuto e del ritorno della Lega ginevrina alia ragione e alia comprensione delle necessità europee. E però anche la Società delle Nazioni, governata dall'Inghilterra e dalla Francia, ha voluto ignorare il richiamo italiano. Agli Stati Uniti e al presidente Roosevelt, Mussolini ha diretto, prima che si iniziasse l'ultima fase fatale della crisi europea, un nobile appello per un intervento pacifìcatore che conciliasse le parti in contesa e riunisse i governi e i popoli d'Europa in un solidale lavoro civile, nel quale l'America avrebbe trovato i più sicuri benefici per quella espansione .commerciale che sostanzia il suo imperialismo dei dollari. L'appello è rimasto anch'esso senza risposta. Roosevelt ha dato allora la prima prova evidente che la sua misteriosa politica era diretta non verso l'Europa, ma contro l'Europa; non verso la pace, ma verso la guerra. La storia degli ultimi mesi della crisi europea, nei quali è maturata la guerra, non può del resto dimenticare l'intervento risolutivo di Mussolini, .sollecitato dal Primo Ministro britannico, che ha portato nell'ottobre 1938 al Convegno delle quattro grandi Potenze occidentali di Monaco per la prima soluzione del problema della Cecoslovacchia, n è l'estremo tentativo di Mussolini nell'agostosettembre 1939 per arrestare la guerra e ricercare una soluzione solidale dei più gravi problemi europei in una conferenza internazionale. La documentazione diplomatica e storica degli atteggiamenti e dei fatti lontani e vicini ha ormai individuato, di fronte al giudizio del mm1do, le dirette rcsponsa bilità della gue(ra nella politica delle tre grandi democrazie: insofferenti dell'ordine europeo, della giustizia e della revisione perchè contrari al loro egoismo di nazioni ricche e soddisfatte e aUe loro ambizioni di egemonia e dominio 6o


imperiale : decise anzi alla repressione e alla distruzione armata delle nazioni rinnovate dal Fascismo e dal Nazionalsocialismo, temibili soltanto per la loro più chiara çoscienza nazionale, per l'accresciuta potenza del loro lavoro e del loro commercio, per l'esempio dei loro più progrediti regimi. L'Italia e ]a Germania, come il Giappone, hanno dovuto riconoscere e accettare questa fatale ostilità delle tre democrazie imperiali e difendersene, non rassegnate e passive, ma nella fierezza del loro diritto alla vita e della loro missione storica e nazionale. Ma è singolare che nella difesa contro l'atteggiamento avverso dell'Inghilterra e della Francia, negli sviluppi naturali della sua politica nazionale, ansiosa di ordine e eli libertà attorno i confini, di espansione c di tranquillo spazio vitale, l'Italia quasi in ogni espressione della sua politica estera sia stata indirizzata ad azioni e reazionr che appaiono oggi, nel panorama storico dei venU anni fra le due guerre, altrettanU passi logici e progressivi, quasi delle necessarie premesse per il suo intervento nella guerra contro la Francia e l'Inghilte.rra. Come sospinta dal destino, l'Italia, respingendo la politica di guerra delle due democrazie egemoniche, operando con una ferma volontà di pace e di chiarezza, ha preparato spiriti e basi per la sua guerra, ha pure fornito ai suoi nuovi alleati aiuti essenziali per gli sviluppi della loro difesa e della preparazione al conflitto nel quale dovevano poi essere travolti. Si può allora dire che l'Italia, pure episodicamente e per diverse vie, ha combattuto fin dal 1922 per le stesse cause, con gli stessi indirizzi, con gli stessi vantaggi per sè e per i suoi futuri alleati contro gli stessi nemici che oggi nella guerra mondiale fronteggiano le Potenze del Tripartito. Si può dire che difendendosi, l'Italia già da venti anni ha iniziato la sua azione di resisfenza e di combattimento contro i dichiarati nemici di oggi. Una rapida rievocazione degli eventi dà la luminosa prova di tale verità storica che si incide con profondi segni nella storia complessa della guerra mondiale.

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Lo squadrismo e il mov1mento fascista, iniziati nel rgrg, divenuti attraverso lotte armate e politiche, con sacrificio di sangue, regime e nuova Italia nel 1922, una delle dominanti forze storiche dell'Europa nel seguente ventennio, sono la prima espressione di volontà e di forza organizzata dell'Europa contro il sistema di Versailles e contro il comunismo che si prepara a invadere e sottomettere l'Europa, esausta dal gigantesco sforzo della guerra, divisa negli spiriti e negli interessi, inerme di fronte all'oscura minaccia, pur suggestiva tra le masse popolari smarrite. Il fascismo è insomma, fino dal suo primo apparire, una protesta contro la dominatrice politica imperiale dell'Inghilterra e della Francia, una reazione contro il pericolo comunista della Russia. È la prima barriera europea, spirituale e combattiva, levata contro le tre forze che venti anni dopo si troveranno associate nella guerra mondiale contro l'Italia, la Germania e il Giappone. Rinnovando l'Italia, elevando le sue energie spirituali, produttive e guerriere, le sue capacità politiche e costruttive, il Fascismo ne ha fatto intanto una delle forze costruttive dell'Europa, una delle forze necessarie per la vittoria delle Potenze del l'ripartito. Gettando la nuova semente di idee, i nuovi fermenti di vita nazionale e di rivoluzione ricostruttiva, il Fascismo ha pure incoraggiato con l'esempio il grande movimento di riscossa interna del popolo tedesco, sollevato da Adolfo Hitler alla nuova fiducia in se stesso, alla volontà di ritrovare in una rinnovata visione storica le forze dell'ordine interno. del lavoro produttivo e della espansione, liberandosi dalla incrostazione dei nuovi partiti debilitanti, cresciuti con la rapida corruzione democratica, dalla penetrante minaccia del comunismo, dalle oppressive catene del sistema di Versailles, in una evoluzione parallela e solidale a quella italiana. Così già al suo nascere la nuova Italia Fascista di Mussolini determina in se stessa e in Europa le forze risolutive del rinnovamento continentale e crea le premesse dei loro indirizzi europei e della loro vittoriosa associ::.zione.


La prima impresa guerriera dell'Italia fascista è quella della riconquista della Libia e sopratutto della liberazione dcliPt Cirenaica. La Libia, minacciata nelle zone interne dalle tribù ribelli avanzate verso la costa mentre l'Italia tutta impegnata nel grande sforzo della guerra europea non ha mezzi per reprimerle, è anche insidiata dalla Francia e sopratutto dalringhilterra. Nel rgz6 l'Egitto, che figura di avere ottenuto la sua indipendenza dalle generose mani dell'Inghilterra, cede all'Italia il possesso dell'oasi interna di Giarabub, secondo un accordo già concluso fin dal 1920 tra Scialoja e Milner. Ma pretende in cambio la cessione della baia di El Sollum. La pretesa è ispirata dal governo britannico che, mosso dall'Ammiragliato, vuole avanzare le basi della sua marina da guerra verso la Cirenaica e il centro del Mediterraneo. Ma prima e dopo il cambio si inizia n ella Cirenaica la guerriglia contro le malferme posizioni italiane. La guerriglia è condotta sopratutto dalle bande della confraternita religiosa dei senussiti. Risulta da precisi accertamenti che i capi senussiti, i quali hanno stabiUto nell'alto Egitto il loro quartiere generale, ricevono ispirazioni, armi, finanziamento dal governo britannico, il quale tenta pure di rifornirli con il contrabbando attraverso la baia di El Sollum. La lotta che l'Italia deve sostenere per la liberazione della sua colonia e il consolidamento delle sue posizioni nell'Africa settentrionale, la mette dunque già contro l'Inghilterra che continua, nella nuova vicenda, la politica degli aiuti prima dati alla resistenza dei turchi nella prima guerra libica. L'Inghilterra vuole diminuire n· possesso, la forza, il prestigio dell'Italia nel territorio dell'Africa settentrionale per diminuire le sue naturali possibilità di intesa e di collaborazione con il vicino Egitto e il valore delle sue posizioni nel Mediterraneo che dovreqbe elevarsi con la sua presenza sulla quarta sponda. L'Inghilterra, che pure ha da tempo riconosciuto prima il diritto e poi la sovranità dell'Italia sul territorio libico, vuole anche !asciarvi una porta aperta per nuovi tentativi di penetrazione della


sua influenza e del suo dominio. L'occulta ma attiva complicità data ai ribelli senussiti è ispirata dagli stessi fini imperiali che m1:1overanno poi il suo aperto aiuto dato alla aggressiva politica dell'Imperatore di Etiopia contro l'Italia, prima e durante la guerra italiana dell'Africa Orientale. La guerra italiana per la riconquista della Libia e la dilatazione del reale possesso della Cirenaica anticipa la grande guerra dell'Africa e del Mediterraneo che l'Italia inizierà nel 1940 contro la prepotenza imperiale britannica e si muove sui confini dell'Egitto per le sue stesse direttrici. La vittoria italiana si risolve in una dimostrazione di forza e di risolutezza dell'Italia, in una diminuzione del prestigio dell'Inghilterra profondamente sentita in Egitto e tra le varie genti arabe. L'Italia può intanto organizzare le sue forze e i suoi mezzi difensivi sui confini dell'Egitto contro l'evidente minaccia dell'Inghilterra, creare il nuovo ordine in Libia, iniziarvi quella colonizzazione e quelle opere della civiltà, dalle strade ai pozzi, dai porti ai borghi e ai centri produttivi, che sono oggi la base essenziale della guerra dell'Asse nell' Africa Settentrionale contro la concentrazione delle forze imperiali britanniche e spiegano le possibilità della sua vittoriosa resistenza e dei suoi sviluppi offensivi. L'impresa italiana nell'Africa Orientale ritrova più apertamente di fronte l'Italia e l'Inghilterra e rivela agli italiani il vero volto della politica britannica. L'Inghilterra pretende di occultare la ·sua politica ostile, che si fa complice dello schiavismo di un barbaro e anarchico regime razziatore, dietro il paravento della Società delle Nazioni e della sua inconsistente legge, mai prima applicata, contro l'aggressore. I fatti provano che la sua politica è determinata soltan~o dai suoi interessi imperiali e si muove per quello stesso indirizzo che si rivelerà poi dominante nella maturazione della guerra europea. Tutto quanto avviene in questo tempo drammatico tra l'Italia e l'Inghilterra, che si trascina dietro la Francia, è la prima rivelazione della minaccia imperialista delle due grandi democrazie


europee coalizzate e l'anticipazione della guerra europea e mondiale. L'Europa può avere la prova definitiva della volontà egem0nica dell'Inghilterra, mai sazia di imperio e di conquista, che smentisce brutalmente la sua « tradizionale » e convenzionale amicizia per l'Italia per contenderle uno spazio coloniale, libero e necessario alla sua vita di lavoro, alla espansione dei suoi uomini crescenti, solo perchè lo ha già occultamente riservato agli inesausti disegni della propria espansione imperiale. Può allora riconoscere che l'oppressivo spirito di Versailles sopravvive intatto, anzi più prepotente e offensivo, e non v'è più alcuna speranza di ordine e di giustizia tra i popoli europei realizzata nella pace con la reciproca comprensione e protezione dei loro bisogni, con la rinuncia ai supremi egoismi, alle avide volontà di egemonia. Nella farsa della Società delle Nazioni e nella imposta coalizione degli Stati sanzionisti, obbedienti alle lusinghe o alle pressioni britanniche, può pure riconoscere la menzogna convenzionale e l'inconsistenza dell'istituto ginevrino, che si rivela non già lo strumento della giustizia e della conciliazione tra i popoli, ma soltanto un nuovo mezzo della politica britannica e francese, la quale figurando di servirne con disinteresse e pronti sacrifici gli alti plincipi, lo comanda e gli impone l'obbedieriza ai suoi esclusivi interessi. L'improvvisa intesa navale creata dal governo di Londra nel Mediterraneo, fuori della Società delle Nazioni, con la Francia, la Grecia, la Jugoslavia e la Turchia, conferma questa menzogna e rivela all'Italia e all'Europa gli indirizzi e i mezzi della politica mediterranea dell'Inghilterra, gli orientamenti di alcuni paesi europei nel grande problema dell' ordine continentale. Il conflitto europeo tra l'Italia e l'Inghilterra per la questione etiopica è certamente uno degli eventi più densi di significati politici e di essenziali conseguenze nella storia dell'Europa e dell'Asia degli ultimi venti anni e nella storia della fatale maturazione della guerra mondiale. Gli storici dell'avvenire potranno con precisione riconoscervi 6s


le elementari premesse della guerra, la definitiva individuazione delle forze e delle correnti destinate in essa a fronteggiarsi, gli sviluppi di tendenze e di m.ezzi creativi delle attuali posizioni dei belligeranti e sopratutto delle nazioni del Tripartito. Il conflitto tra l'Italia e l'Inghilterra e le sue molteplici rivelazioni valgono anzitutto a semplificare la visione del confuso quadro politico dell'Europa e a lumeggiarne in segni definitivi gli elementi essenziali e i pericoli. L'Europa appare veramente divisa in due gruppi di forze opposte e inconciliabili : da una parte, i due profittatori del sistema di Versailles, con la costellazione delle loro clientele, sopratutto nell'Europa orientale e sudorientale, anch'esse in parte indebitamente formate e arricchite dai trattati di pace, associate alle due grandi democrazie per averne la garanzia a protezione del mal tolto e l'aiuto per nuovi disegni ambiziosi, in cambio della loro servilità politica e militare; dall'altra, il gruppo delle nazioni mutilate o sacrificate dal sistema di Versailles e non rassegnate a languire nella miseria o nella mediocrità. Tra le due parti non vi sono più possibilità di accordo. I profittatori di Versailles sono decisi a reprimere con la forza qualsiasi tentativo delle altre nazioni diretto a rettificare le loro ingiuste posizioni di insufficienza e di inferiorità. Le vive nazioni sacrificate a Versailles comprendono allora la ineluttabilità della minaccia britannica e francese, che incombe sui loro destini nazionali, e sono sospinte ad una risoluta politica difensiva di armi e di accordi internazionali. L'effimera apparenza di una solidarietà europea creata dalla finzione della Società delle Nazioni è definitivamente e utilmente infranta. La Società delle N azioni, che ha tradito il suo nome e il suo statuto, passa nel rango dei molesti ingombri, degli istituti irreparabilmente svalutati. Presto si svuota di soci e di contenuto. Dopo il Giappone e la Germania, la disertano l'Italia e molti altri più realistici e indipendenti Stati. L'illu66


sione della sicurezza collettiva, della pace indivisibile ha un netto e salutare fine. Ma l'Italia ha pure infranto con la sua iniziativa, responsabile ma ardimentosa, il mito della intangibilità e della invincibilità della onnipotenza britannica, alla quale l'Europa e il mondo sembravano dovere passivamente sottomettersi come a una legge divina. Non ha meno infranto, nella sua coscienza e nella realtà dei rapporti internazionali, il mito della indistruttibile amicizia dell'Inghilterra, la quale si è rivelata soltanto una maschera rivolta a coprire un costante egoismo britannico. L'Italia tenterà ancora, dopo l'impresa etiopica, di chiarire i suoi rapporti' con l'Inghilterra e riportarli alla collaborazione, ma però con una nuov:a e più fiera coscienza dei suoi valori e dei suoi diritti, senza dimenticare l'oltraggio sofferto. Certamente questi fatti, di valore non soltanto morale, si riflettono con profonda risonanza sui popoli europei e asiatici che più sentono la pressione dell1 potenza imperiale britannica. Dalla prova di indipendenza e di forza data dall'Italia, l'Inghilterra trae intanto la conseguenza della concentrazione stabile nel Mediterraneo, tra le basi di Gibilterra e di .Alessandria di Egitto, di una grande parte delle sue forze navali. Questo fatto avrà profondi e fatali riflessi tanto sul sistema dello schieramento navale britannico nel ~are del Nord e sui còmpiti protettivi della navigazione atlantica, quanto sugli apprestamenti difensivi dell'impero britannico nel Pacifico e nell'Oceano Indiano. La conquista dell'Etiopia crea una nuova e vasta base italiana nell'Mrica Orientale tra l'Egitto, il Sudan angloegiziano e il Kenia, che fronteggia e impegna le forze imperiali britanniche di occupazione di quei territori. Dopo l'intervento italiano nella guerra, questa base opererà come centro di attrazione e di neutralizzazione di vaste masse di uomini e di mezzi anglosassoni. Isolata, senza avere potuto ancora crearsi una sufficiente autono-


mia bellica e produttiva, tagliata fuori da ogni rifornimento esterno, tra masse nemiche soverchianti di uomini e di mezzi liberamente rifornite, essa sarà alla fine condannata. Per oltre un anno di guerra essa tiene però arditamente e robustamente il suo posto di combattimento, impegna e disperde in diversi còmpiti le forze' imperiali britanniche e ne impedisce, nei mesi più difficili, il blocco concentrato contro la Libia per la grande battaglia dell'Africa settentrionale e del Mediterraneo. Gli stessi generali britannici confesseranno di non a vere potuto tentare l'estremo sforzo offensivo contro la Libia rovesciando tutte le forze, perchè trattenuti dalla presenza dei tre fronti italiani di combattimento dell'Africa Orientale. L'assedio sanzionista delle cinquantadue nazioni societarie, dominate dalla politica britannica nella lotta contro l'Italia, isola l'economia e la finanza italiana. Da questo isolamento, vittoriosamente superato dalla resistenza nazionale, l'Italia trae motivo per la sua autarchia economica, raggiunta con la ricerca e il razionale sfruttamento di tutte le risorse agricole e minerarie, produttive e organizzative nazionali e con la dedizione di tutte le energie creative e lavoratrici. La guerra mondiale ha sorpreso l'Italia in un avanza.to cammino verso questo nuovo regime di indipendenza economica. La mèta non poteva ancora essere raggiunta, ma era già vicina. Tutti i calcoli britannici per le possibilità dell'Italia in guerra erano fondati sulla matematica certezza della sua auto-insuflìcienza, della sua incapacità ad affrontare nel chiuso Mediterraneo una lotta contro l'Inghilterra e in ogni caso a sostenere per lungo tempo una efficiente e temibile resistenza. P er questa stolta certezza, preparando la guerra europea il governo britannico, se pure ha concentrato per scopi precauzionali tanta parte delle sue forze navali nel Mediterriweo, ha notevolmente trascurato, nei calcoli delle forze e delle possibilità, il fattore politico e bellico italiano. Ha pensato di potere sorprendere la Germania quasi isolata nelle posizioni e nei mezzi. Ha pensato di potere creare 68


sul suo fianco meridionale un grande fronte di guerra che avrebbe avuto per base i territori europei del Mediterraneo centrale e orientale e sarebbe stato rifornito per le sicure vie dell'Oceano Indiano e del Mar Rosso. Troppo tardi, alla prova dei fatti, l'Inghilterra si è accorta dell' errore. La Germania non è rimasta isolata; ha avuto al suo fianco, combattiva e infrangibile, l'Italia. Per l'Inghilterra l'Italia in guerra significa : un arduo e temibile nuovo fronte sull'Egitto e sul Canale; la chiusura del Mediterraneo; la pressione armata di un popolo disciplinato, produttivo e guerriero di 45 milioni di uomini che irnmobi· lizza ed esaurisce molta parte delle sue forze navali, aeree e terrestri; la possibilità di un blocco unico di combattenti, di risorse economiche, di possibilità difensive e offensive operanti per linee interne che si stende ormai dall'Oceano Glaciale Artico al Mediterraneo, separa l'isola britannica dall'Europa Orien~ale, ne minaccia per raggi sempre più vasti gli interessi, le influenze e le possibilità. La guerra delle sanzioni associa l'Inghilterra e la Francia, avviate dalla ferrea logica dei fatti, incautamente messi in movimento, verso l'alleanza e la guerra: ma associa pure l'Italia e la Germania e le avvia esse pure verso l'alleanza difensiva e vittoriosa. Il conflitto tra l'Italia e l'Inghilterra significa la frattura dell'Europa, la irreparabile divisione delle sue forze. La Germania può profittarne. Nel più intenso momento della crisi del 1936 qccupa la Renania e dichiara arditamente la fine della sua demilitarizzazione e delle ultime clausole militari proibitive sopravvissute nell'ormai declinante sistema di Versailles. Nella Renania rioccupata sorge presto la linea Siegfried, che fronteggia quella Maginot e sbarra il passo alla invasione della pianura prussiana indifesa sognata dallo Stato Maggiore francese. Può intanto ricostruirsi presto la libera e grande potenza militare germanica che comparirà nella guerra mondiale ben diversa da quella calcolata a Londra, Washington e ·Parigi. 6g


Il . Ma la rivelazione della divisione europea incoraggia pure il Giappone a riprendere in tutta la sua dinamica espansione la politica costruttiva del nuovo ordine nella grande Asia Orientale, sospesa dopo la creazione dell'indipendente impero del Manciukuo e minacciata dalla reazione degli imperi anglosassoni alla quale si era associata _ anche la Francia. È appunto nel 1936 che il Giappone inizia la sua nuova marcia in Cina, la quale dalle provincie settentrionali rapidamente occupate si estende sempre più verSo i mari asiatici del sud e crea quelle nuove posizioni che dànno la base preziosa alla guerra nipponica contro gli imperi anglosassoni. Così il primo conflitto tra l'Italia e l'Inghilterra si svolge per linee che avvicinano fino alla solidarietà della guerra gli interessi delle Potenze del Tripartito e ne rafforzano in forme essenziali le posizioni e le possibilità combattive. La guerra civile di Spagna, che segue immediatamente la conclusione della guerra etiopica, ravviva il conflitto non ancora sopito tra l'Italia e l'Inghilterra, conferma e sviluppa le tendenze e le divisioni dell'Europa già rivelate nel 1935. Per la prima volta appaiono associate sui campi delle battaglie e nell'azione diplomatica l'Inghilterra, ·la Francia e la Russia dei Sovieti, mentre d'altra parte si approfondisce, in un piano politico sempre più definito che si rivolge a tutti i grandi problemi europei, la solidarietà tra l'Jtalia e la Germania. Nel dramma della Spagna, creato dall'urto tra le correnti delle sinistre generate dalla rapida decadenza di un inconsistente regime democratico, e le correnti nazionali della restaurazione, ispirate all'esempio del Fascismo e del Nazionalsocialismo, si profila quello schieramento di opposte forze europee che si ritroverà poi negli sviluppi della guerra mondiale. Le democrazie imperiali e la Russia sostengono il movimento rosso di Spagna con diversi gradi eli prestazioni e diversi fini., ma con una eguale intenzione antifascista e antinazionalsocialista.

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La Russia ha preparato la rivoluzione rossa di Spagna nel piano del Komintern, calcolando sul terreno fertile creato dalla corruzione del « fronte popolare » spagnolo, e l'alimenta con agenti della propaganda, con larghi finanziamenti e rifornimenti di armi e munizioni. Il suo primo obiettivo è quello di creare nella penisola iberica, sulle rive occidentali del Mediterraneo, una nuova polveriera del comunismo, un nuovo centro di azione capace di riprendere la propaganda e la penetrazione rivoluzionaria nell'Europa, da ovest a est, dopo il fallimento dell'azione direttamente tentata nell'Europa orientale. Il suo secondo obiettivo è quello di dare guerra al Fascismo e poi al Nazionalsocialismo, che si sono rivelate in Europa le più efficienti e suggestive forze di resistenza all'invasione comunista, di neutralizzazione e dissolvimento della propaganda rivoluzionaria rossa. Per la prima volta nella guerra di Spagna l'azione sovvertitrice della Russia si rivela nel nuovo e più imponente aspetto che eromperà cinque anni dopo ne1la guerra europea : non più soltanto affidata a propagande sotterranee di piccole cellule, a tentativi di frammentari moti locali, ma organizzata e condotta direttamente dallo Stato sovietico che la sostiene con i mezzi forniti dalle sue casse e dalle sue regolari forze armate. Combattendo a fianco delle forze nazionali del Generale Franco con larghe prestazioni di armi e uomini, l'Italia non sviluppa soltanto, sul piano dell'azione europea, la difesa e la lotta anticomunista che è nello spirito stesso del Fascismo, ma affronta, insieme alla Germania, la più temibile potenza organicamente ostile alla ricostruzione civile dell'Europa, naturalmente associata a tutti i movimenti del disordine e delle divisioni europee dai quali calcola di trarre i più alti profitti per i suoi oscuri disegni. Nella difesa della Spagna rossa, raffigurata come una libera espressione della democrazia, la Francia cerca una nuova base per il suo dominio europeo e una nuova via 71


protetta per il trasferimento delle sue forze armate dalla grande riserva dell'Africa ai fronti della guerra europea. La Francia calcola di associarsi e sottomettere durevolmente la Spagna ros:;a, salvata con il suo aiuto: tenta di apprestare nella penisola iberica un nuovo mezzo utile al suo sistema politico e militare diretto alla guerra che ormai matura contro l'Italia e la Germania. Da un fine equivalente è guidata l'Inghilterra nella sua azione, più discreta ma non meno evidente e utile, svolta per il salvataggio della Spagna rossa. L'Inghilterra calcola di insediarsi da padrona non soltanto sul ricco sistema minerario del territorio spagnolo; ma anche sulle sue coste atlantiche e mediterranee. Calcola insomma di potere allargare il cerchio offensivo della sua base di Gibilterra per elevare le sue possibilità di dominio nel Mediterraneo e di controllo e di protezione sulle rotte atlantiche. Queste possibilità, delle quali si comprendono oggi tutti gli immediati significati, sono anch'esse collegate al piano di guerra che l'Inghilterra viene maturando contro la Germania e l'Italia. Il vasto sacrificio di uomini e mezzi che l'Italia ha offerto alla vittoria delle forze nazionali di Spagna è dunque non soltanto un decisivo aiuto dato alla liberazione e alla ascensione di quella nobile terra latina, ma anche un essenziale contributo dato alle posizioni difens.ive delle Potenze dell'Asse di fronte alla minaccia delle due democrazie imperiali. Non vi è dubbio che la vittoria della Spagna rossa e la sua sopravvivenza avrebbero creato, nel conflitto europeo, delle condizioni più difficili all'azione della Germania e dell'Italia e posto in ben diversi termini il problema della guerra nell'Atlantico e nel Mediterraneo. Nella guerra di Spagna intanto si approfondisce l'in... tesa tra l'Inghilterra, la Francia e anche la Russia, e si definiscono i loro piani ostili al Fascismo e al Nazionalsocialismo : ma si definisce pure, nell'Asse, la più intima soli~arietà di visioni e di indirizzi tra l'Italia e la Ger-

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mania. Nel suo profilo storic0 l'urto tra le grandi forze europee che accompagna la guerra civile di Spagna· appare veramente oggi quasi una prova generale della grande guerra europea. L'anno 1939 trova l'I talia di nuovo aspramente impegnata in un conflitto verbale, che tende a prendere anche sostanza diplomatica, con l'Inghilterra e la Francia. L'occupazione italiana dell'Albania è definita dalla propaganda anglosassone e francese, ormai alla costante ricerca di alibi destinati a coprire la preparazione della guerra complottata a Londra e a Washington, come una aggressione la quale dovrebbe provare la pericolosità del regime fascista per la pace e l'ordine europeo. L'occupazione italiana dell'Albania non è una conquista ma una difesa. Significa non la guerra ma la solidarietà con le genti albanesi. Tutto quanto avviene dai primi giorni dell'occupazione fino ad oggi ne è la luminosa prova. La politica dell'Italia verso l'Albania è ispirata da tre elementari obiettivi: assicurare l'integrità e l'individualità nazionale e territoriale di questo popolo adriatico contro i documentati tentativi di penetrazione e di spartizione della Jugoslavia e della Grecia, favoriti dai governi di Londra e di Parigi sin dalla vigilia della prima guerra europea : creare l'ordine e le basi di una vita civile progredita nei territori balcanici più vicini alla nazione italiana e più legati alla sua secolare tradizione di contatti e di scambi: assicurare un controllo italiano sull'altra sponda dell'Adriatico per allontanare le minacce sempre incombenti in questo mare sulla difesa nazionale italiana e sempre alimentate dalla Jugoslavia e dalla Grecia, avanguardie della Francia e dell'Inghilterra, le quali intendono di diminuire le posizioni e la libertà dell'Italia nel Mediterraneo mantenendo vivo il pericolo sul suo fianco adriatico. Preparando il sistema politico e militare della guerra, la Francia e l'Inghilterra hanno rivelato ormai chiaro il loro disegno di accaparramento dei paesi Lalcanici per 73


crearvi una. testat~ di ponte, una base di azione contro • l'Italia e la Germania sulle coste orientali dell'Adriatico -e su quelle nord-orientali del Mecliterraneo. Per reagire a questo piano offensivo, che rivolto contro l'Italia minaccia anzitutto di sommergere l'indipendenza e la pace del popolo albanese e conferma perciò le premesse di una naturale intesa tra l'Italia e l'Albania, il governo di Roma sbarca le sue forze armate sulla sponda dell'Albania e leva la sua bandiera, a fianco di quella albanese, tra la J ugoslayia e la Grecia sovvertendone il piano insidioso. Per questo appunto la vicenda dell' ~lbania provoca nei quartieri della guerra delle tre grandi democrazie imperiali di qua e di là dell'Oceano tanto iroso se pure sterile damore di reazione. L'Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti vogliono denunciare l'inesistente aggressione dell'Italia che è diretta soltanto ad arginare e sovvertire il loro più autentico piano di aggressione. Con la pacifica occupazione italiana dell'Albania e la ,n uova solidarietà creata fra i due popoli adriatici sono intanto costituite, nel sistema dell'Europa sud-orientale, nuove premesse alla guerra che le tre democrazie imperiali preparano contro le Potenze dell'Asse. Quando prima la Francia e l'Inghilterra e poi l'Inghilterra e gli Stati Uniti tentano di coalizzare e sollevare i paesi balcanici contro le Potenze dell'Asse, trovano incuneata sul territorio balcanico, tra la Jugoslavia e la Grecia, i più fedeli .associati delle democrazie imperiali, la potenza guerriera dell'Italia, che divide e vigila le loro forze e ritarda, per tutto il tempo necessario, la formazione della loro coalizione offensiva, presto poi repressa e annientata dalla azione dell'Asse operante sui diversi settori. Il fronte balcanico, preveduto dai disegni britannici nella lotta continentale contro la Germania, è così neutralizzato sin dal suo primo tentativo di formazione dalla presenza dell'Italia in Albania. Frattanto la guerra navale britannica trova chiuso l'Adriatico alle sue pericolose incursioni e perciò

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più libera e annata l'Italia nel Mediterraneo. Anche l'occupazione italiana dell'Albania si rivela allora un deciso contributo dato alla lotta contro la potenza imperiale dell'Inghilterra. Questa rapida rievocazione delle vicende politiche e guerriere dell'Italia Fascista dal 1922 al 1939 porta ad una evidente conclusione. In quasi ogni atto della sua lotta di difesa, di liberazione e di ascesa contro le democrazie imperiali, per singolari successioni e conseguenze di eventi l'Italia offre altrettante utili tappe di preparazione e collaborazione all'apprestamento delle forze del Tripartito nella guerra mondiale. Resistendo e combattendo contro le Potenze nemiche, l'Italia è dunque già per quasi un ventennio sulla via storica del grande conflitto. VIRGINIO GAYDA

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" Il PERIODO dei giri di valzer, se mai vi fu, è deffnitivamente chiuso. Il solo ricordar/o è offensivo per noi e per tutti gli italiani. l tenlativi di scardinare o di incrinare l'asse Roma-Berlino sono puerili... Dichiaro che se avvenisse la vagheggiata costituzione di una coalizione contro i regimi autoritari, questi regimi raccoglierebbero la sffda e passerebbero a/la difesa e al contrattacco su tutti i punti .del globo." MUSSOLINI Olsc:or~o

egli Squedristi pronunciato Il 26 m1rzo 1939

' COME SI ARRIVO ALL'INTERVENTO

del 1939, la volontà aggressiva delle N potenze plutocratiche si manifestò in modo chiarisELLA PRIMAVERA

simo. Pareva che la vittoria ormai nettamente raggiunta dalle forze della civiltà in Spagna, e che l'ingresso dei legionari italiani a Madrid e a Barcellona avesse esasperato tutte le tolleranze e tutte le sopportazioni e avesse fissato la determinazione intima di tutti gli uomini politici delle plutocrazie di definire ormai, con le armi, una volta per sempre, la grande contesa latente da anni con le potenze rivoluzionarie. La decisione inglese di procedere ad un riarmamento massiccio, annunciato da Chamberlain e spiegato nel Libro bianco, pubblicato il 25 febbraio, fu salutata con grida di entusiasmo; e da allora, tra Parigi e Londra, tra Londra e P arigi fu tutto un intrecciarsi di assicurazioni e di promesse che diventavano sempre più impegnative. L'8 marzo Hore Belisha prometteva a Daladier, in piena seduta dei Comuni, «l'appoggio illimitato» dell'Inghilterra, e Churchill, lo stesso giorno, assicurava ai suoi elettori di Chidwell: «Noi siamo abbastanza forti per usare parole che non ammettono replica ». L'effetto di questa assicurazione si aveva pochi giorni dopo, il 16 marzo, nel discorso di Daladier, che respingeva nettamente ogni riven-

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dicazione italiana: «Non cederò mai un palmo di territorio, nè dinanzi alla forza, nè dinanzi all'intrigo >>. Verso il2o di marzo, il Presidente Lebrun andava a Londra, per una grande manifestazione anglo-francese; e l'effetto di questi incontri era il discorso del 3 aprile di Chamberlain, in cui si proclamava la decisione inglese di rilasciare « una polizza di assicurazione a tutti gli stati dell'Europa orientale, e prima che ad ogni altro, alla Polonia»; nonchè lo annuncio, dato in una nota ufficiosa inglese, di aumentare il numero delle divisioni da mandarsi in Francia da 19 a 32. Contemporaneamente, stringevano i contatti con Washington e con Mosca; Roosevelt, dalla Casa Bianca, indirizzava il rs aprile il suo messaggio agli Stati totalitari. ch'era tutta una presa di posizione ostile; e la necessità di a.ccordarsi con Mosca era proclamata dal banco del 'Governo a Westminster. Il lavorio per l'accerchiamento delle potenze dell'Asse era in pieno sviluppo; ed oggi, dopo poco più di due anni, basta allineare i fatti e le date per vederlo in tutta la sua ampiezza. Di fronte a queste disposizioni di coloro, che tutti sentivamo essere i futuri nemici, la posizione dell'Italia non era agevole. I nostri legionari avevano vinto in !spagna, avevano salvato laggiù la causa della civiltà, e si preparavano a sbarcare e a sfilare in armi; ma le conseguenze del lungo sforzo bellico sostenuto in !spagna si facevano sentire nella consistenza dei nostri mezzi bellici. Noi, durante tre lunghi anni, avevamo mandato nella penisola iberica poco meno di duemila pezzi di artiglieria, quasi mille aeroplani, non meno di duemila mitragliatrici, non meno di mezzo milione di serie complete di equipaggiamento; avevamo, cioè sostenuto il grosso del peso logistico della guerra spagnola, contro un nemico - i « rossi » ch'era rifornito da mezza Europa, e per cui lavoravano, in mirabile accordo, fabbriche anglosassoni e fabbriche russe. Ora tutto questo materiale, mandato in !spagna, o non poteva più ritornare, o, se ritornava, non si poteva certo considerare in condizioni molto fiorite per un suo


immediato impiego. Alle cifre di questo materiale. così perduto o logorato in !spagna, bisognava poi aggiungere le cifre di quello che avevamo dovuto mandare nell'Impero, e che dovevamo continuare a mandarvi per le necessità, diciamo cosi, di ordinaria amministrazione. E si arriva cosi ad un complesso imponente di mezzi bellici, su cui l'Italia non poteva più contare, nel caso di un improvviso aggravamento della situazione in Europa. S'intende che la portata precisa di questa lacuna non era conosciuta che da pochissime persone: dal Duce, e dai suoi collaboratori immediati. Ma s'intende anche, che tutte le persone appena mediocremente informate capivano che ci doveva essere una lacuna di questo genere; non si poteva aver vinto, come avevamo vinto in !spagna, senza un grosso contraccolpo nelle disponibilità logistiche, o come dice il grosso pubblico, «nei magazzini». Per queste ragioni gravissime, l'Italia, nella primavera del 1939, si guardò bene dal mettere nuova carne al fuoco. Sbarcò, sl, un contingente in Albania; ma questo contingente essa lo sbarcò chiamata dal voto dei rappresentanti albanesi e per troncare uno stato di cose ormai vituperevole. Oltre a questo, l'Italia non prese altre iniziative. n Duce e il popolo italiano sentivano benissimo che si era ormai sul piano inclinato che conduceva al grande urto, ma sentivano anche che l'interesse italiano consisteva ne] guadagnare tempo, per reintegrare quello che s'era dovuto impiegare nella guerra spagnola, e per portare il livello della nostra preparazione al più alto punto possibile. E questa necessità era conosciuta ed era apprezzata pienamente dalla Germania; che- in parte almeno -la risentiva anch'essa. Si venne cosi alla stipulazione, a Milano, nel maggio del 1939, del « Patto di Acciaio ». Sicuro. Perchè questo accordo, presentato a suo tempo da tutti i giornali delle p]utocrazie, come la prova della premeditazione aggressiva italiana e germanica, fu proprio il contrario; fu il tentativo estremo, da parte di Mussolini e di Hitler, di 79


mettere un «alt>> alle manovre di accerchiamento anglosassone. Con esso, i due Capi, affermando pubblicamente la solidarietà assoluta ed automatica dei rispettivi paesi, miravano a far riflettere i managers della guerra, che erano all'opera; miravano ad ottenere almeno che questi, . preoccupati di ciò cui andavamo incontro, rinviassero di qualche stagione i loro propositi di aggressione. Al fondo del uPatto di Acciaio», c'era la speranza inespressa ma viva, di poter ancora «agguantare» almeno un paio d'ànni di pace e questo carattere del «Patto di Acciaio» è dimostrato dal fatto, ormai noto ai solo mediocremente informati, che esso non prevedeva una solidarietà armata immediata dell'Italia, ma la prevedeva soltanto a cominciare dal 1942. Questa precisazione è la prova migliore che le due potenze dell'Asse non volevano proprio aggredire nessuno; mirava solo a raggiungere, col loro accordo, un effetto morale sugli organizzatori della guerra, e a disgregare e a rallentare le loro macchinazioni. Questa data del 1942, così fissata, rivela negli stipulatori, da una parte la convinzione che l'attacco delle plutocrazie era ormai inevitabile, ma dall'altra parte la speranza, che esso poteva essere ritardato.

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Inutile speranza. Le plutocrazie, nell'autunno del '40, esaltate per una specie di automontatura sulle proprie possibilità militari, credettero di poter procedere subito ad una prova di forza nei confronti della Germania, impedendole di mettere piede a Danzica; e scoppiò la guerra. La posizione italiana, di fronte al fatto nuovo, era di una limpidità e di una precisione assolute. Noi non eravamo impegnati in nessun modo, in base alla lettera degli accordi, a scendere in campo accanto alla Germania. Noi eravamo padronissimi di limitare il nostro appoggio alla Germania al campo economico e diplomatico, senza trarre la spada. Provveduti della esplicita riserva che rinviava ogni nostra solidarietà militare al 1942, e d'altra parte giu-

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stificatissìmi a far così dalla situazione della nostra produzione bellica, noi potevamo restare in margine al conflitto, senza che nessuno potesse rimproverarci nulla. Ci fu difatti all'estero chi si illuse che l'Italia, in sostanza, avrebbe finito per fare così, e per comportarsi da << italietta >> giudiziosa, prudentina, « sennino d'oro>>. Noi abbiamo sfogliato, prima di scrivere questo articolo, e per rinfrescarci la memoria, la raccolta del Tem,ps dell'epoca della non-belligeranza. Quanti cauti inviti, quanti accenni, quanti calcolati sorrisi all'Italia, pcrchè essa facesse appunto questo gioco! Quanti elogi alla« saviezza italiana», intesa nel senso di non compromettersi e a non battersi l (Salvo poi, si capisce, a disprezzarci, se fossimo rimasti effettivamente in disparte, e non ci fossimo battuti ...). Ma questa linea di condotta, che pure, formalmente, il « Patto di Acciaio>> ci dava diritto di seguire, era la più lontana possibile dallo spirito della nuova Italia fascista, e da quello del Duce. Tutti, in realtà, in Italia- intendiamo dire tutti coloro che avevano vivo il senso della vita nazionale e delle sue necessità supreme - sentirono che la non-belligeranza, decisa dal Duce il ! settembre, era una posizione di attesa. che comportava un unico sbocco: l'ingresso in guerra accanto alla Germania. Perchè non si fosse «entrati» subito, non tutti sapevano; ma tutti sapevano che si sarebbe« entrati », appena si fosse potuto. E la piccola gente, che spesso nelle grandi crisi ama esprimere, con una «trovata » aneddotica, tutta una situazione, diceva - almeno nella città toscana dove noi abitiamo- che quella nostra posizione di «non-belligeranza n era tutta una cosa combinata, tra Mussolini ed Hitler; e che i due capi si parlavano ogni giorno, per filo diretto e segreto, al telefono, per decidere se farla durare ancora, e quanto. In fondo, non era una <<trovata» troppo lontana dalla realtà ... E poi, se qualcuno avesse avuto una esitazione, un dubbio sulla strada che l'Italia avrebbe seguito, gli bastava affisarsi nel Duce, ascoltare con intelligenza ciò che 0

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egli diceva; e sarebbe stato subito fatto sicuro. Perchè il Duce fu sempre di una chiarezza estrema su quello che erano i suoi propositi ben risoluti. Discorso alle gerarchie di Bologna, 24 settembre 1939: cc Quando apparirò al bal-

cone... sarà per ann·unciare decisioni di storica portata ». Discorso alla Commissione per l'autarchia, il 19 novembre: cc Il fatto immanente della guerra delle armi deve dominare l'economia >>. Discorso dr Orvieto, 1'8 aprile : ({Qualunque possano essere le vicende che ci saranno portate da questa primavera tardiva, t Italia vi farà fronte ». Ad ogni nuovo discorso, era un avvertimento sempre più preciso che veniva lanciato agli italiani. Ed oltre ai dis7orsi ufficiali, pubblicati dai giornali, v'erano le allocuZIOni pronunciate in occasioni di udienze collettive, più fervide, più franche ancora; in cui il Duce pareva volesse dare agli uditori prossimi, e a tutto il popolo lontano, una parola d'ordine guerriera; e v'erano gli scatti suoi di impazienza e di ira, nelle udienze private; quando Egli accennava ai tentativi inglesi circa i trasporti del carbone dai porti nordici, o circa le sevizie che il controllo navale inglese, annidato a Gibilterra, faceva subire alle nostre navi mercantili, pur munite di tutti i cc navicert >> possibili. Il Capo voleva che il vecchio sospetto verso l'Italia, ritenuta troppo abile a interpretare i trattati diplomatici, fosse a~nullato da un esempio di lealtà assoluta, che andasse al dt là della lettera del H Patto di Acciaio», e si adeguasse completamente allo spirito; e soffriva di pensare che forse, oltre Alpi e oltre mare, vi poteva essere chi credesse che l'Italia, l'Italia fascista, facesse in questo frangente della storia del mondo dei calcoli di opportunità; e aspettava ansiosamente il punto del tempo, in cui avrebbe pot~to dare all'Italia l'ordine atteso. Ah, mai, la politica italiana, tante volte accusata di tortuosità e di doppiezza. fu schietta e 'diritta come in questo periodo 'd i non belligeranza, in cui tutti gli italiani giovani, dal Duce all'ultimo a~anguardista, portavano scritta sulla fronte la risoluzione di combattere accanto alla Germania.

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E intanto, in attesa di potere intervenire apertamente accanto all'alleato, l'Italia, durante il lnngo inverno della non-belligeranza, adempì un compito importantissimo. Le potenze plutocratiche, sempre più incerte sul nostro atteggiamento - o meglio, sempre più certe della nostra volontà di guerra - dovevano premunirsi; e questo voleva dire mandare nel Mediterraneo, ai confini delle Alpi, in Africa, aliquote sempre più notevoli delle proprie forze. Così l'Inghilterra, tenne qui, immobilizzata una parte della propria flotta, la cui entità non può essere precisata, ma che certo comprendeva almeno quattro navi da battaglia, e naviglio sottile in proporzione. La Francia Cf. la tenne pressochè tutta; compresi i due colossi Dunkerqtee e Strasburg di cui tanto era orgoglios;:j, la sua Marina. La << Linea Maginot )) delle Alpi fu sempre più presidiata e vi furono inchiodate certo almeno una ventina di divisioni. Nell'Africa Settentrionale francese, il generale Noguès, residente generale al Marocco, il signor Le Beau governatore generale dell'Algeria, e il signor Labonne, residente in Tunisia, dedicavano tutte le loro cure più assidue alla chiamata e all'arruolamento dei contingenti indigeni; ma questi contingenti non salpavano più di volata, come nella guerra 0el '14-'18, verso la Francia; erano trattenuti in terra d'Africa, per parare a quanto poteva accadere da un'ora all'altra sul confine di Libia. Finalmente, gli anglo-francesi erano stati indotti a costituire, nel Medio Oriente, l'armata \Veygand. Questa armata fu, in quell'inverno, argomento di infinite induzioni; e chi diceva che essa fosse destinata a marciare nel Caucaso, e chi a sbarcare nei Balcani ; e chi la chiama va<< armata del petrolio H e chi <<armata del deserto 11. Ma in realtà, oggi, col senno di poi, si vede ch'essa era chiarissimamentc destinata a sorvegliare quanto l'Italia preparava nell'Africa Settentrionale, e ad esercitare una certa pressione sull'Italia stessa. E quando il generale \VC)'gand, il 7 febbraio, accompagnato dai generali inglesi \Vavcll c \Vilson, e da Sir Males Lampson, ispezionava nel deserto di Elio poli le


formazioni motorizzate inglesi; e quando il signor Eden, nello stesso febbraio, recava il saluto del sovrano inglese ai contingenti australiano e neozelandese sbarcati in Egitto, essi non pensavano punto che i soldati che passavano in rivista potessero essere davvero sbalestrati nel Caucaso, contro la Russia; essi pensavano piuttosto a quanto sarebbe potuto accadere alla frontiera libica. Naturalmente, queste forze franco-inglesi attirate dall'Italia nello spazio africano e mediterraneo, finirono per costituire una minaccia per l'Italia; una minaccia sopratutto per la colonia strategicamente più importante, cioè la Libia. E questa minaccia andò accentuandosi a mano a mano che l'Italia precisava il proprio atteggiamento, e da va chiaramente a vedere la propria inhmzione di scendere in campo, accanto alla alleata Germania. Il 3 maggio, infatti, un comunicato della « Reuter H annunciava che« la squadra franco-britannica era arrivata in rada di Alessandria,; e questo concentramento di forze navali aveva il carattere nettissimo di un ammonimento rivolto all'Italia, e come tale era presentato, con parole più o meno ipocrite, da Chamberlain ai Comuni, e dalla stampa ufficiosa anglo-francese. Nello stesso tempo, il Maresciallo Balbo, che aveva il comando in Libia, segnalava lo spostamento graduale verso i confini della colonia, di ingenti forze inglesi e francesi. Dalla parte di oriente, W a vell concentrava in Egitto un esercito di circa 70.000 uomini, composto di 45.000 inglesi, di Io.ooo neozelandesi, e di 15.000 indiani; cui, in caso di necessità, si poteva aggiungere l'esercito di Palestina, forte di 50.000 uomini. Dalla parte di occidente, il generale Noguès continuava a mandare in Tunisia battaglioni e battaglioni di tiragliatori algerini e senegalesi, e di Legione Straniera. Cosi è certo che l'Armata di Africa, potenziata dai provvedimenti di Mandel fin dal maggio 1938, si trovava in piena efficienza; e che Noguès, durante tutto l'inverno, non aveva fatto che reclutare H carne d'ebano » nel Protettorato, e che egli -


destinato eventualmente al comando delle forze d'Africa - disponeva di una massa valutabile a non meno di 300.000 uomini. Combinate queste forze di Noguès con quelle di Wavell; combinate questo concentramento di forze terrestri con il concentramento navale di Alessandria; e avrete una idea sufficientemente precisa della minaccia che incombeva sull'Italia, per quanto concerneva il Mediterraneo e la Libia. Tale minaccia, del resto, persisteva intatta alla data del IO giugno, in cui il Duce lanciò il suo grido di guerra. A questa dala, certo, la Germania aveva già riportato dei successi trionfali su tutti i teatri di operazioni di Occidente; aveva già occupato la Norvegia, il Belgio, l'Olanda, e le sue armate stavano straripando in Francia. Ma queste vittorie non interferivano ad attenuare la minaccia specificamente mediterranea e coloniale, alla quale si trovava esposta l'Italia. Le forze dell'impero britannico difatti a parte le batoste subìte a Narwick e a Dunquerckeerano ancora intatte; cominciavano a mobilitarsi allora. E le forze della marina e dell'armata coloniale francese del pari-: intattissime. Anzi, si può sostenere che il fatto che le divisioni tedesche, il ro giugno, si trovassero già a 45 chilometri da Parigi, non diminuiva per nulla il rischio italiano, specifico italiano; anzi, in certo qual modo, lo accresceva. Infatti, era possibilissimo, in quel momento, che il governo della Repubblica, sotto l'influenza di Reynaud e degli altri servitori dell'Inghilterra, si trasferisse nell'Africa Settentrionale; e noi sappiamo che questo era precisamente quanto Reynaud trama va, e quanto Reynaud stesso voleva proporre nel Consiglio dei Ministri del r6 giugno. Anzi, a Marsiglia, in quei giorni, si stavano facendo i preparativi a bordo del piroscafo Marseille. Ora, se questo trasferimento del governo legale francese in Africa, avesse avuto davvero luogo, non v'ha dubbio che tutta l'armata coloniale francese avrebbe attaccato la Libia. I professionisti della gloire, i generali tipo De Gaulle, gli ufficiali delle truppe di colore in cui più vivo si

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conserVò sempre il vecchio spirito aggressivo della « Première armée du monde >>, avrebbero cercato . proprio là, sulle sabbie d'Africa, una specie di compenso per le vergogne delle sconfitte continentali; e il risultato, con tutta verosimiglianza, sarebbe stato un attacco concertato con Wavell, e condotto con forze di gran lunga preponderanti... Il rischio, il ro giugno - data della entrata italiana in guerra- era dunque incombente e gravissimo. E adesso -in base alla conoscenza retrospettiva dei fatti - noi vediamo che esso si dissipò soltanto il giorno r6 giugno, quando Reynaud e Mandel venivano defenestrati, e si costituiva il Governo Pétain. Allora, soltanto allora, la minaccia era allentata; perchè la Francia acconsentiva ad uscire dal gioco. Ma allora, anche, si cominciò a delineare tutta una nuova costellazione di forze; e apparvero alposto della Francia, i due nuovi possibili « supporters >> - ci si passi il termine inglese, trattandosi appunto di cose inglesi dell'Inghilterra : e cioè l'Unione nordamericana e l'Unione sovietica. Quali fossero le disposizioni d'animo di queste due potenze nei confronti dei paesi dell'Asse si era già potuto vedere dalle visite e dai colloqui di Summer Welles (fine di marzo) e dal messaggio inviato personalmente al Duce da Roosevelt ai primi di giugno; ma, dopo lo sprofondamento della Francia, il processo che conduceva il Nordamerica e la Russia a prendere posizione contro di noi fu nettamente accelerato .

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Tutta questa rievocazione della storia dell'azione italiana, può aiutare a comprendere quali fossero i pensieri e le riflessioni di Mussolini, in quei lunghi mesi del nonintervento; in cui Egli, a chi era ammesso alla sua presenza, appariva volta a volta imperturbabilmente calmo od oscuramente tempestoso...

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Abbiamo detto: cc aiutare a comprendere n. Non più. Perchè in realtà, nessuno conoscerà mai, saprà mai tutta la lunga ponderazione in cui fu impegnata la mente eli Mussolini nei mesi invernali e primaverili, del 1940; nè tutto il drammatico contrasto che si svolse nel suo spirito tra la fredda valutazione del rischio cui esponeva il proprio paese, e l'impeto a rompere gli indugi, e a ricacciare in viso agli anglo-sassoni le loro prepotenze e le loro offese. Sono questi i segreti del genio politico, che sfuggono a tutte le analisi. Noi, uomini comuni, possiamo vedere soltanto il frutto del lungo travaglio: la decisione. Ebbene :dopo due anni, la decisione di Mussolini splende più che mai, nel cielo della nuova storia di Europa, come una decisione di freddo e ragionato ardimento. GIOVANNI ANSALDO



IL CONTRIBUTO DELL'ITALIA ALLA GUERRA TERRESTRE



" LA PATRIA può essere fiera di questi suoi figli in armi, lemprati nel c uore e nei muscoli da venti anni di Fascismo. " MUSSO LINI lettera eli' A. R. il Principe di Plemonle, 2 luglio 1940, dopo le Bolltglie delle Alpi

LA FASE OFFENSIVA INIZ IALE l'Italia dichiarava guerra all'Inghill terra e alla 1940, Francia uscendo dalla posizione di <<non L IO GIUGNO

belligeranza» assunta ai primi del settembre 1939 in pieno accordo coll'amica Germania, cui la legavano il Patto d'Acciaio, l'alleanza militare conclusa qualche settimana prima, e, soprattutto, la comunanza di ideali e di scopi. Ma il peso delle forze armate italiane si era fatto sentire, se pur solo potenzialmente, fin dal momento della predetta dichiarazione di non belligeranza : giacchè nostre truppe dislocate sulle Alpi, sulle due frontiere libiche verso. l'Egitto e la Tunisia, e sulle frontiere dell'Impero dell'Africa Orientale verso il Sudan, la Somalia francese, la Somalia britannica e il Chenia, avevano esercitato fin da allora un'azione divincolamento di numerose forze e mezzi bellici terrestri ed aerei dei due futuri avversari, già esistenti in quelle regioni, avevano costretto a farne affluire altre dai possedimenti non confinanti colla Libia e coll'Impero; in pari ten1po, le nostre forze navali avevano, pel solo fatto della lòro presenza e potenza, costretto gli avversari a sospensione o a misure prudenziali nei riguardi della navigazione commerciale nel Mediterraneo e nel Mar Rosso, nonchè in quelli del trasporto di truppe per via di mare dall'Africa settentrionale francese alla Francia continentale, o da questa ai territori di mandato dell'Asia Minore, e dalla metropoli britannica, per la via di Gibilterra, all'Egitto e alla Palestina : ed infine buona parte delle flotte inglese e francese era stata vincolata nel

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Mediterraneo, a danno delle possibili operazioni navali nell'Atlantico e nel Mare del Nord. L'intervento armato italiano, come è stato detto in altro capitolo di questo volume, si estrinsecò quando l'Italia non aveva raggiunto ancora la pienezza e completezza dei suoi mezzi d'azione : ciò nonostante, le forze armate italiane assunsero contegno offensivo ovunque possibile, dando inizio ad una fase che perdurò finchè furono raggiunti gli scopi verso la Francia, o fìnchè la preponderanza delle forze e dei mezzi dell'avversario britannico non rese necessario passare alla difensiva nell'oltremare libico e in quello dell'Impero dell'Africa Orientale. Esaminiamo le vicende di questa fase separatamente nei tre scacchieri delle Alpi, della Libia e dell'Impero. Nell'Europa occidentale, il nostro alleato germanico aveva assunto fin dal settembre 1939 uno schieramento puramente difensivo sulla linea di Sigfrido e davanti ad essa, di fronte alla linea Maginot propriamente detta, a protezione delle spalle delle armate germaniche operanti in Polonia: le Potenze occidentali non avevano osato attaccare quello schieramento, limitandosi invece ad effimere dimostrazioni nel terreno fra la Maginot e la Sigfrido. L'esercito italiano aveva assunto un analogo schieramento di vigilanza, di carattere puramente potenziale, di fronte alla Maginot alpina: la quale, pÙr essendo meno modernamente organizzata dell'altra e guarnita di forze molto meno nl:lmerose, era per lo meno altrettanto poderosa, grazie all'asprissima natura del terreno alpino, il più difficile eli quanti ne esistano in tutta l'Europa, ricco di successive posizioni di resistenza, organizzato a difesa mediante un sistema di fortificazioni costruite con un lavoro di vari decenni : un terreno nel quale non era mai avvenuto l'impiego di centinaia di migliaia di uomini operanti su tutta l'estesissima fronte, con concetto d'azione unitario, nè mai si era preventivato che potesse avvenire . . /

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E qui, è opportupo il ricordare che, se nei primissimi anni della Triplice Alleanza furono ventilate da parte dello Stato Maggiore italiano e germanico azioni concomitanti offensive attraverso le Alpi e i Vosgi, quel concetto era stato peraltro ben presto abbandonato, per effetto de11a cresciuta potenza dei mezzi di fuoco impiegabili dalla difesa francese, e in considerazione dei continui lavori di rafforzamento, mediante opere di sbarramento e campi trincerati, della regione alpina da parte dello Stato Maggiore francese .: lavoro mai cessato neppure dopo che nel 1902 i rapporti franco-italiani andarono migliorando, e che aveva avuto novello e poderoso impulso, dopo la guerra 19I4-18, negli ultimi anni precedenti lo scoppio delle ostilità nel 1939. Nella convinzione che un'offensiva attraverso le Alpi sarebbe costata troppo sangue, ed avrebbe offerto troppo scarse prospettive di successo, i due Stati Maggiori germanico ed italiano erano venuti nell'intesa che lo sforzo offensivo contro la Francia sarebbe stato esercitato dalle armate germaniche attraverso il Reno e i Vosgi, mentre sulla fronte alpina le forze italiane avrebbero avuto soltanto il còmpito di vincolare forze nemiche distogliendole dallo scacchiere franco-germanico : e poichè, per tale còmpito, le nostre forze terrestri sarebbero state di gran lunga esuberanti al bisogno, l'esuberanza sarebbe stata in buona parte impiegata per appoggiare sul Reno l'offensiva germanica. Tale concetto rimase immutato fin0 al momento in cui l'Italia assunse, nell'agosto del 1914, un atteggiamento di benevola neutralità verso la Francia : ed è a tutti noto quale respiro di sollievo abbia prodotto negli ambienti politico-militari francesi quella nostra dichiarazione di neutralità. Ma anche la Francia, dal canto suo, pur fanfaronando di un'invasione delle vallate piemontesi, di una marcia convergente su To.rino-Cuneo e poi su Milano, aveva da gran tempo rinunziato in realtà al concetto di un'offensiva attraverso le Alpi; sebbene- .a causa della speciale configurazione della frontiera alpina tutta a nostro danno, 93


della diversa ampiezza fra le d,ue f~scie montane (meno di so chilometri nel nostro versante, in confronto ai I50200 nel versante francese) e, soprattutto alla convergenza delle nostre vallate verso il piano, a vantaggio di una irruzione francese, in confronto all'andamento divergente ed all'esistenza di valli longitudinali da parte francese, ostacolanti una nostra analoga operazione a scopo d'invasione - un'offensiva in territorio italiano presentasse difficoltà di gran lunga minori, e prospettive molto più a portata e più allettanti di quelle offrentisi ad un'offensiva nostra oltre frontiera. D'altronde, anche da parte italiana, se pure in condizioni meno favorevoli, si era provveduto a fortificare i passi delle Alpi. In conseguenza, ed anche in relazione a11a forza intrinseca attribuita generalmente alle linee fortificate in guerra e particolarmente alla difensiva in montagna (concetto che venne corroborato dalle vicende della guerra 1914-18) nè da una parte nè dall'altra esistevano progetti di offensiva su vasta scala e con lontani obbiettivi : entrambe le parti si erano costantemente attenute al concetto di uno schieramento difensivo (non escludente peraltro, specie da parte nostra, azioni dimostrative vincolanti), appoggiandosi alle fortificazioni ed alla natura aspra del terreno. E tale fu infatti lo schieramento da noi assunto nel settembre 1939, dapprima come semplice velo, raffittcntesi poi a mano a mano che si delineava l'inelut~ tabilità di passare, o prima o poi, dalla non belligeranza all'intervento armato. E quest'era ancora il carattere, al IO giugno 1940, dello schieramento del gruppo di armate (I e IV. generali Pintor e Guzzoni) comandate dall'Altezza Reale il Principe di Piemont~. 1 Analogo carattere difensivo aveva anche. com'è ovvio, lo schieramento dell'armata francese delle Alpi (generale Olry) : e ciò sia per le ragioni generali sopraccennate, sia in relazione agli avvenimenti del maggio-primi di giugno 19-fO, in cui le armate germaniche, dopo le fortunate operazioni in Norvegia, in Olanda e nel Belgio, rivolsero il

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loro sforzo contro la fronte francese, dalla costa normanna fino all'Alsazia, obbligando le armate francesi a ripiegare, e dimostrando in pari tempo al mondo che anche il sistema artificiale di fortificazioni più poderoso. quale sembrava essere la linea Maginot. era tutt'altro che invulnerabile ed insuperabile a truppe che abilmente condotte, capaci di valorizzare i mezzi d'attacco moderni, e animate da audacissimo spirito, lo attaccassero frontalmente. Certamente, tali vicende nello scacchiere settentrionale francese avevano impedito di assegnare all'Armata delle Alpi ulteriori forze, quando la minaccia italiana andò assumendo « carne e ossa » : ma vi contribuì anche il preconcetto sulla forza intrinseca della Maginot alpina, e quello del mantenimento, da parte italiana, dell'atteggiamento difensivo. Ma, comunque, quell'armata aveva pur sempre (a detta dello Stato Maggiore francese) tre divisioni, 40 battaglioni di cacciatori da fortezza, numerose altre truppe di presìcli delle opere, oltre a quelle addette alle artiglierie; una quantità, dunque, considerevole di truppe da fortezza e mobili, appoggiate a munitissime difese permanenti accresciute da sistemazioni di carattere semipermanente e campale, dotate di poderose artiglierie di cui gran parte in caverne o in cupole corazzate, favorite per la loro manovra da linee d'arroccamento; e il loro morale era tuttora elevato, perchè si era posta ogni cura ed usato ogni accorgimento per nasconder loro quanto era avvenuto e stava avvenendo sulle fronti attaccate dalle 'armate germaniche : sì che gli avvenimenti in questione non le avevano intaccate nè materialmente nè moralmente. E pertanto le difficoltà per noi, in caso di attuazione di un disegno offensivo, non erano diminuite, in confronto al passato. Ma, pressochè contemporaneamente alla nostra entrata in guerra, i progressi inattesamente rapidi delle armJ.te germaniche nella Francia settentrionale e nord-orientale resero per l'appunto necessario il nostro passaggio dall'intendimento difensivo all'offensiva mai preventi~ata fmo

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ad allora, e con carattere di urgenza : sl che, nel volger di pochissimi giorni, si dovettero mutare i piani, e in conseguenza addivenire ad un dispositivo completamente nuovo, ad uno schieramento e funzionamento dei servizi orientato verso l'offensiva anzichè verso una guerra difensiva. Le difficoltà del passaggio dalla difensiva all'offensiva sono sempre gravi, come lo dimostra tutta la storia militare; di gran lunga più gravi, in regioni montane scarse di comunicazioni; divennero di gran lunga maggiori sotto l'assillo dell'urgenza, e soprattutto poi pcrchè il passaggio dovette compiersi in condizioni anormalmente ed e·ccezionalmente sfavorevoli, impreviste ed imprevedibili, di regime meteorologico; queste condizioni, che a detta dello Stato Maggiore francese influirono sull'attuazione della difesa, assumevano carattere addirittura proibitivo per l'attaccante. E così, le forze italiane si accingevano ora a quell'offensiva alpina che mai era stata contemplata dai nostri piani d'operazione: c, mentre le armate germaniçhe della Lorena sfatavano la leggenda dell'invulnerabilità delle linee fortificate di pianura, le due armate italiane si assumevano il còmpito di dare un'analoga dimostrazione nei riguardi della linea alpina, fortissima per natura, resa ancor più forte dall'arte, difesa da truppe non scosse: e ciò, nelle condizioni più difficili e sfavorevoli che si potessero immaginare. Potevano, per la nostra offensiva, attuarsi due soluzioni. L'una, improntata ad una più accurata preparazione, con raccolta di mezzi iJT~ponenti atti ad assicurare, almeno su qualche direttrice, una superiorità schiacciante : ma essa avrebbe richiesto tempo, in modo non rispondente alla situazione generale che imponeva un tipo di condotta di guerra a rapido corso. L'altra, improntata ad azione audace, spregiudicata, escludente ogni metodismo, col minimo di forze e di mezzi necessari, e basantesi sulla fiducia delle truppe in se stesse e sulla loro convinzione di poter osare anche l'impossibile, sull'iniziativa delle sin-


gole aliquote, sulla ferma volontà di u gettare l'animo al di là dell'ostacolo». E questa fu la soluzione prescelta, di puro stile fascista, rispondente ai criteri fondamentali -della nostra dottrina di guerra, e che dai capi e dalle truppe fu accolta con entusiasmo, nonostante ogni prevedibile difficoltà, sforzo e sacrificio. Donde un complesso di operazioni offensive : nel settore Baltea, lungo le direttrici del Piccolo San Bernardo; in concomitanza con questa, un'altra nel settore Moncenisio, lungo la direttrice omonima, coll'intendimento di riunir poi le due masse nella zona di Chamousset e procedere, con mezzi adeguati, verso Lione; nel settore Monginevro, mirante ad impegnare la maggior quantità possibile di truppe nemiche e a conquistare la piazza di Briançon; dall'alta val Maira a valle Stura, per la direttrice della Maddalena, allo scopo d'impadronirsi dell'alto bacino dell'Ubaye e con previsione di ulteriori sviluppi; infine, nel Nizzardo e in Provenza, gravitando sulla direttrice della Cornice. Non è qui il caso d'entrare in particolari sullo svolgimento delle operazioni, effettuatesi in due fasi successive : una iniziale, di azioni preliminari, dal 18 al 20 giugno, ed una seconda dal 21 giugno, che fu comunemente denominata «la battaglia delle cento ore». Lo Stato Maggiore francese, nel suo rapporto su11e operazioni militari nella fronte occidentale (riportato dalla nostra pubblicazione Relazioni internazionali), sforzandosi come al solito di sottovalutare e minimizzare l'operato e il rendimento delle truppe italiane, dirà bensì che u gli italiani vengono ributtati in complesso sulle loro posizioni di partenza e non riescono a prender contatto sulla linea di resistenza che in alcuni punti », e che u la maggior parte delle opere fortificate avanzate da loro oltrepassate ed accerchiate resiste ancora fino al25 giugno 11: ma, a parte l'evidente contraddizione insita in queste espressioni, la situazione finale al momento dell'armistizio dice inoppugnabilmcnte che, dappertutto, la Maginot alpina in quelle cento ore viene sgre-

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tolata; che nel settore Baltea-1\!oncenisio i due Corpi di prima schiera giungono a collegarsi sulla linea d'arroccamento francese fra Lanslebourg e Séez; che nel settç>re Maddalena viene assicurato il possesso dell'alta valle òell'Ubaye e dell'Ubayette: che anche nel settore Monginevro, nella valle della Tinea e della Vesubia e sulla direttrice della Cornice, le difese nemiche vengono profondamente intaccate dalle artiglierie retrostanti e ad una relativamente scarsa aliquota di truppe si sarebbe affidato il còmpito di far cadere - non diversamente da quanto hanno fatto i germanici e poi i giapponesi - le opere fortificate « oltr~passate e accerchiate» e di eliminare le resistenze residue, mentre la vittoriosa avanzata sarebbe stata continuata. La sua continuazione avrebbe minacciato dal rovescio l'intero schieramento avversario di seconda linea; alla estremità se_ttentrionale del teatro d'operazioni si sarebbe ben presto data la mano alle truppe germaniche in corso d'avanzata attraverso i monti dell'alta Savoia e discendenti la valle del Rodano: all'estremità opposta, dopo aver già conquistata Mentone, nulla avrebbe potuto impedire di giungere a Nizza. L'armistizio di Villa Incisa all'Olgiata, chiesto dalla Francia, non ci consentì di sviluppare le operazioni, e sfruttare i successi già ottenuti, fino al raggiungimento degli $COpi predetti: ma la « battaglia delle Alpi» diede a noi, agli amici ed agli avversari. modo di valutare effettivamente quanto le nostre truppe avevano fatto, ed erano in grado di fare, nonostante l'anormale avversità delle condizioni atmosferiche, e sebbene la resistenza da parte francese sulla fronte dal M. Bianco al mare fosse stata e fosse tuttora di gran lungà più tenace di quella opposta nei settori d'avanzatçt delle truppe germaniche. E a buon diritto il Duce, dopo aver ispezionato le truppe delle Alpi, riassumeva mirabilmente il loro operato, nella lettera indirizzata il 2 luglio all'Altezza Reale il Principe di Piemonte, colle espressioni seguenti :


«Altezza, u Tornato a Roma, desidero rinnovarVi l'espressione del mio profondo compiacimento per la disciplina, il comportamento, il morale delle truppe da Voi comandate. Le Divisioni e i reparti che ho avuto la fortuna di passare in rassegna si sono presentati in un modo che, senza ombra di esagerazione rettorica, si può definire superbo. «Gli italiani e gli stranieri devono sapere che ne1 . giorni 21, 22, 23 e 24 giugno si è svolta quella che sarà chiamata la battaglia del fronte alpino occidentale, impegnata su una estensione di 2~ chilometri, a quote fra i 2000 e i 3000 metri, in mezzo a incessanti tormente di neve. « Gli italiani e gli stranieri devono sapere che i francesi annidati nelle caverne, muniti di cannoni di ogni specie, hanno resistito acca.n itamente sino all'ultimo, sino cioè all'armistizio e anche alcune ore dopo, poichè, fra l'altro, erano stati tenuti letteralmente all'oscuro di quanto era accaduto nel resto della Francia. << Gli italiani e gli stranieri devono sapere che gli stessi francesi sono rimasti attoniti davanti alla tenacia, all'impeto ed allo sprezzo - veramente sovrano - del pelicolo, dimostrato dalle fanterie italiane di ogni corpo. e dalle artiglierie. I battaglioni del Genio sono stati efficaci collaboratori dell'assalto. u Gli italiani e gli stranieri devono sapere che la battaglia è stata dura e sanguinosa. Migliaia di uomini fuori combattimento lo testimoniano. Com'è nella regola del Regime, saranno pubblicati gli elenchi dei Caduti. Quanto ai feriti che ho visitato negli ospedali, dico che è difficile trovare nel mondo un'altra razza la quale, davanti alle più crudeli lacerazioni della carne, dimostri - come gli italiani - tanta calma e tanto stoicismo. ' u Altezza, u ScrivendoVi, a visita ultimata, ho creduto che non s1 dovesse ulteriormente tardare a precisare questi ùati /

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che già appartengono alla storia e accrescono il patrimonio di gloria dell'Esercito italiano. « La Patria può essere fiera di questi suoi figli in armi, temprati nel cuore e nei muscoli da venti anni di FaSClSIDO Il.

Mussoum

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Le perdite nella battaglia delle Alpi si concretarono per le truppe terrestri in 715 morti, 315 dispersi e ~982 feriti: fra i ricoverati negli ospedali, numerosi erano stati (nè poteva essere altrimenti) i casi di congelamento. Non è nostro compifo, in questo capitolo, l'entrare in particolari circa il concorso dato dall'Aviazione e dalla Marina da guerra : ci limitiamo a dire che la prima, sebbene ostacolata nel suo impiego dalle forme del terreno e soprattutto dalle condizioni atmosferiche e meteorologi~ che, aveva validamente contribuito, specie con audaci azioni nel cielo della Provenza; la seconda aveva raccolto allori nelle acque del Golfo di Genova, ed aveva altresì contribuito con treni armati all'avanzata delle truppe terrestri nel settore di Mentone. Nell'Mrica settentrionale, i concentramenti dei due avversari verso le frontiere libiche, tanto a tergo della tunisino-libica, quanto nella valle del Nilo, compiutisi nel periodo precedente all'apertura delle ostilità, miravano non soltanto a rintuzzare n.ostri atti offensivi, ma anche a preparare un attacco contro di noi su doppia fronte, per spazzarci dalla Libia ed acquistare dominio ininter~ rotto sulla sponda meridionale del Mediterraneo dallo Stretto di Gibilterra al Canale di Suez : lo stesso concetto, cioè, cui s'ispirarono poi le due offensive britanniche degli inverni 1940 e 1941, se pure in mutate condizioni. Da parte nostra, si erano bensì potenziate nella mag~ gior misura possibile le forze in Libia, tanto in fatto di truppe quanto di dotazioni, e il concetto d'azione si ispira va ad una condotta di guerra energica, di offensiva da 100


prendersi non appena esistessero le condizioni a ciò favorevoli : nel quadro particolare della nostra guerra, era ovvio che si mirasse a conquistare la Tunisia, e, tanto nel quadro generale della guerra del,l' Asse quanto nei riguardi degli scopi italiani, a scacciare i britannici dall'Egitto e sbloccare il Canale di Suez, a noi necessario per le comunicazioni coll'Impero dell'Africa Orientale : ma in primo tempo, e finchè perdurasse la miLaccia di attacco nemico su doppia fronte, era ovvio che dovessimo attenerci alla difensiva, non escludendo peraltro affatto il carattere di difensiva attiva. D'altra parte, sulla fronte tunisina disponevamo anche di sistemazioni difensive organizzate in relazione alla possibilità, da parte francese, di attaccarci immediatamente : sull'egiziana invece i nostri rafforzamenti si limitavano in .sostanza a capisaldi staccati, sia a causa dell'estensione enorme della frontiera, sia perchè il terreno non si prestava a poderose linee continue per le quali d'altronde sarebbero stati necessari lavori implicanti raffiuenza di una enorme quantità di materiale da farsi giungere per intero dall'Italia, e adeguate forze lavorative, sia infine perchè fra noi e il grosso dell'avversario britannico intercedevano centinaia di chilometri di terreno desertico, pur essendosi a contatto con elementi avanzati in vari punti. Inoltre, su entrambe le direttrici d'attacco, sia verso ovest sia verso est, avremmo urtato in sempre più poderose sistemazioni e in una resistenza crescente, a mano a mano che ci fossimo avanzati: per un'offensiva immediata, e che non avesse- come non doveva avere- semplice carattere dimostrativo, sia pure su una sola delle due fronti mantenendosi in atteggiamento difensivo sull'altra, sarebbero state necessarie forze e mezzi di gran lunga superiori a quelli di cui disponevamo, e sull'invio dei necessari rinforzi e dotazioni avrebbero sempre gravato i pericoli di attraversamento del Mediterraneo, contro poderose aliquote della flotta francese e della britannica. È qui opportuno mettere in evidenza una coIOl


stante caratteristica della nostra guerra nell'Africa settentrionale: e cioè l'impossibilità di accrescere le forze, e le loro dotazioni belliche, al di là di un certo limite, a causa delle limitate possibilità del loro potenziamento logistico : mentre ben diverse. erano le condizioni di entrambi i nostri avversari, aventi alle loro spalle regioni dotate di abbondanti risorse, e in grado entrambi di far affiuire forze dalle altre parti dei loro imperi: la Francia da tutta la sua Africa settentrionale, occidentale ed equatoriale; l'Inghilterra da tutti· i suoi possedimenti africani, dagli asiatici, dall'Australia e N uova Z.elanda e dalla madrepatria senza che ci fosse possibile impedirlo : le sole molestie che potessimo opporre a tali affiuenze erano quelle sulle eventuali rotte fra la Francia continentale mediterranea e i suoi possedimenti dell'Africa mediterranea, su quelle percorse da navi britanniche nel Mediterraneo in provenienza da Gibilterra, e, in misura scarsissima, sulle rotte percorrenti l'Oceano Indiano e il Mar Rosso. In conseguenza del forzato temporaneo atteggiamento difensivo iniziale, nelle giornate dall'n al 25 giugno l'attività terrestre di ambo le parti fu scarso : sulla frontiera tunisina si limitò - anche per l'avversario - ad avvisaglie, sull'egiziana furono respinti vari attacchi di elementi motorizzati e corazzati contro nostri capisaldi, specialmente nel tratto fra Porto Bardia e Ridotta Capuzzo, nonchè anche la lontana ed isolata Giarabub. Intensa fu invece la nostra attività aerea, specie contro Biserta e le opere portuali di Tunisi sul teatro occidentale, e molto più estesa e in profondità nel teatro orientale, sotto forma di attacchi su 1\Iarsa Matruh e Sidi Barrani, su concentramenti, movimenti e sistemazioni e depositi nelle retrovie, su aerodromi vari del territorio egiziano. In pari tempo, avevamo iniziato i bombardamenti contro l\1alta, punto di appoggio in pienissima efficienza per operazioni aeree e navali nemiche contro il nostro traffico colla Libia. Colla conclusione dell'armistizio con la Francia, il 25 102


giugno, scomparve il pericolo di un attacco in forze dalla Tunisia; ma non per questo ci fu possibile sguarnire completamente nè quella frontiera, nè la meridionale tripolitana; su entrambe ci fu necessario lasciare forze e mezzi non indifferenti, sia perchè «armistizio)) non significava ancora « pace )), sia per parare ad eventuali iniziative di elementi locali dissidenti dal Governo francese. Peraltro, l'eliminazione del pericolo suaccennato consentì al nuovo comandante superiore delle forze in Libia, Maresciallo Graziani, successore del compianto Maresciallo dell'Aria Italo Balbo caduto a fine giugno nel cielo di Tobruk, di rivolgere tutta la sua attenzione ai preparativi per l'offensiva contro il territorio egiziano: preparativi i quali,. com'è ovvio, richiedevano ancora accuratissima preparazione logistica, dato il carattere completamente desertico della regione marmarica, tanto nel nostro territorio quanto nell'avversario, ed il progressivo allontanamento, durante l'avanzata, dalle nostre basi di partenza: tanto più che, a differenza del nostro nemico, non ci era possibile fare assegnamento su rifornimenti lungo la costa marmarica. Ma già, ai primi di luglio, la reazione terrestre ad nn attacco britannico portava le nostre truppe fino a Musaid, al di là della frontiera prospiciente il Golfo di Sollum; nel luglio-agosto, avvenivano bombardamenti aerei su Gibilterra, su Alessandria, sul Canale di Suez, sugli impianti petroliferi di Caifa e su Giaffa, vivacissimi scontri aerei nel cielo marmarico, con nostro vantaggio, e si continuavano a logorare i mezzi e le sistemazioni dell'avversario a tergo della fronte. Da parte britannica, l'atteggiamento era essenzialmente difensivo, o per meglio dire, d'attesa: essendo venuto a mancare lo sperato e concordato concorso francese contro la Libia occidentale, l'avversario non si sentiva ancora in grado di prendere l'offensiva, ma già stava preparandola, mentre gli affiuivano nuove forze e mezzt. Il 13 settembre, il Maresciallo Graziani iniziava la propria offensiva: nostre avanguardie respingevano elementi 103


avversari di protezione, occupavano il 15 Sollum e lo oltrepassavano; il 16, fra aspri combattimenti, si ultimava lo sbalzo sino a Sidi Barrani e cioè sino a roo km. in linea d'aria dalla frontiera, sotto l'imperversare di un violento ghibli e con una temperatura di 50°. Nel suo rapporto al Duce, il Maresciallo riferiva, fra l'altro : «L'operazione, in complesso, è riuscita a realizzare la sorpresa in un teatro di operazioni che questa sorpresa, a priori, escludeva. Dal punto di vista logistico, si sono fatte cose imponenti : i critici militari anglo-egiziani giudicavano che fra il mare e il deserto avrebbero potuto transitare al massimo 15-20.000 uomini, e che il passaggio degli autocarri e delle autoblinde era difficilissimo, specie da agosto a metà ottobre : uno di essi concludeva testualmente : " Una simile spedizione avrebbe quindi cinque probabilità di successo su cento, e soltanto nella stagione da novembre a marzo". Il nemico, dopo aver fatto tutta la n;sistenza possibile, contrastando a palmo a palmo il terreno, è stato infine travolto dalla manovra che lo attanagliava, e si è precipitosamente ritirato ... >>. A questo successo, ottenuto dalle nostre truppe libiche e dai fanti metropolitani, dall'Esercito e dalle CC. NN., aveva contribuito l'instancabile attività dell'aviazione, accrescendo lo scompiglio delle colonne avversarie in ritirata. Ragioni imprescindibili d'indole logistica, specie nei riguardi idrici, non consentivano di spinger l'avanzata più a fondo: e pertanto le nostre truppe sostavano sulla nuova linea raggiunta, per la necessaria preparazione ad un nuovo sbalzo offensivo. E così, anche nell'Africa settentrionale, avevamo preso l'iniziativa, riportando indiscutibili successi in profondità, e in una direzione vitale per l'avversario. Il terreno conquistato venne mantenuto nell'ottobre e nel novembre contro attacchi di colonne corazzate, e nonostante azioni navali di molestia contro il nostro fianco appoggiantesi al mare. Ma il progettato nuovo sbalzo in avanti, ritardato


dalle esigenze della preparazione logistica, non pote' avvenire, giacchè nel frattempo l'avversario aveva predisposto, con poderosa organizzazione durata per mesi e ricorrendo a truppe delle varie parti del suo Impero e a truppe e soprattutto a mezzi della metropoli, la controffensiva che si sferrò ai primi di dicembre. Nell'Impero dell'Africa Orientale, le forze a disposizione del Vicerè, Altezza Reale Amedeo Duca d'Aosta, erano bensi state potenziate nella maggior misura consentita dalle nostre disponibilità patrie, e dalle esigenze inerenti ad altre fronti, metropolitane e libiche : ma, dal giorno in cui ebbero inizio le ostilità nel Mediterraneo, ogni affluenza dalla madrepatria venne costrittivamente a cessare. E di ciò ben erano consci i difensori dell'Impero: si che un atteggiamento assolutamente difensivo da parte loro sarebbe stato più che giustificato. La situazione era inoltre resa più difficile dal fatto che, nonostante i veri miracoli fatti nel campo delle costruzioni stradali, la rete camionabile era ben lungi dall'esser compl.eta, ed inoltre erano scarsi i mezzi di trasporto celeri per spostare rapidamente truppe dail'uno all'altro settore dell'immenso territorio, che poteva essere attaccato da ogni parte e contemporaneamente : infine, la pacificazione di talune regioni era tuttora in corso, si che una parte delle forze doveva essere ancora adibita a scopi di sicurezza interna, e molto probabilmente lo stato di guerra avrebbe dato nuova esca a ribellioni interne, fomentate dalla propaganda britannica attraverso le frontiere dell'Impero. Eppure, ad onta di tutti questi fattori sfavorevoli, l'Impero interpretò la sua missione nel senso di vincolare, mediante offensive parziali, la maggior quantità possibile di truppe e di mezzi avversari, a vantaggio della lotta in altri scacchieri, e di portare la guerra dappertutto in territorio nemico. • IOS


Pertanto, nello scacchiere eritreo-sudanese il 4 luglio veniva riconquistata Cassala, e nell'etiopico-sudanese si occupavano Gallabat, Kurmuk-Ghezzan, Ahobo sul Sobat, acquistando punti di sbocco per operazioni verso il Sudan; nel settore etiopico meridionale si occupava Mo:yale sulla frontiera del Chenia, e cori brillante manovra combinata si recideva il saliente del Chenia .spingentesi in direzione di Dolo e di Lugh, rettificando così la frontiera; reazioni avversarie dal Chenia venivano rintuzzate e - si noti- col concorso delle popolazioni locali. L'arma aerea bombardava la confluenza del Sobat col Nilo Azzurro, Port Sudan, Aden e Perim, le basi aeree e navali nemiche nella Somalia britannica. Nell'agosto si ampliavano le occupazioni oltre il confine sudanese, sulla fronte del Chenia si progrediva per circa 45 chilometri in profondità sino a Debel, e l'aviazione sferrava ripetuti attacèhi su Aden, sulla ferrovia Port Sud~n-Berber e sulla Sennar-Ghedaref, effettuando inoltre attacchi su aerodromi e su truppe in movimento nella zona BunaOagir (o Waij r) nel Chenia. Contro la Somalia britannica si iniziava il 3 agosto una violenta offensiva, che in appena 17 giorni costrinse gli inglesi ad abbandonare completamente quel possedimento. Tale operazione venne compiuta da sette brigate coloniali e da unità nazionali di fanteria e da reparti di carri armati, agli ordini del generale Nasi, op~ranti in tre gruppi, e si attuò in tre fasi : la prima dal 3 al 6 agosto, culininante nell'occupazione fulminea di Zeila e nell'occupazione di Hargheisa; dal 7 al 15, travolgendo il sistema difensivo avversario appoggiato alle forti posizioni organizzate su una fronte di più di 20 chilometri nella regione montuosa di Passo Karin e Passo Godajere; dal 16 al 19, conquistando la seconda posizione nemica a Lafaruk, e da Zeila per Bulhar, lungo la costa, operando in direzione di Berbera; il 19 veniva occupata Berbera, già abbando-. nata dalle truppe inglesi rèimbaicatesi. L'aviazione aveva

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validissimamente concorso appoggiando le truppe terrestri e bombardando navi nemiche nei porti di Zeila e di Berbera. Il Governo britannico tentò di giustificare lo scacco allegando che era venuto a mancare alle truppe del Somaliland il preventivato concorso delle truppe francesi dalla zona di Gibuti; sta peraltro il fatto che i britannici erano stati rinforzati da numerosi elementi militari dissidenti, i quali avevano sconfinato nel Somaliland. E cosl. per la prima volta nella storia, l'Inghilterra era stata obbligata per forza d'armi ad abbandonare un suo possedimento africano : e da parte nostra si era stabilita la continuità (salvo in corrispondenza della Somalia francese) del dominio sulla costa del .Mar Rosso e dell'Oceano Indiano, da Ras Casara Chisimaio. A fine agosto si effettuavano colpi di mano nella zona del Lago Rodolfo e si raggiungeva Buna, penetrando cosl per go km. nel territorio del Chenia; nel settembre e ottobre reazioni nemiche contro Buna venivano frustrate; tentativi d'incursione nell'Eritrea occidentale venivano rintuzzati; la nostra aviazione allargava il suo raggio di offesa fino a Cartum e intensificava i suoi attacchi contro Aden, Perim, Port Sudan e le ferrovie sudanesi. Pure nell'ottobre, con un volo complessivo di 4500 chilometri, venivano bombardati gli impianti petroliferi delle isole Bahrein nel Golfo Persico. In tal modo, le truppe dell'Impero, nel periodo dal ro giugno ai primi di novembre, avevano brillantemente adempiuto, al di là di ogni possibile previsione, al còmpito che si erano prefisse a vantaggio tanto della difesa locale, quanto della situazione generale di guerra; avevano conquistato l'intera colonia del Somaliland, erano profondamente penetrate in quella del Chenia, avevano acquisito posizioni vantaggiose e sbocchi offensivi sulle principali direttrici d'operazione verso il Sudan; avevano IO']


tenuto costantemente l'avversario sotto la minaccia di operazioni in direzione di Suakim, di Berber-Cartum e di Nairobi. Ma ormai già si delineava, tanto dall'Egitto contro la Libia in collimazione colle operazioni greco-britanniche nel settore greco-albanese, quanto dal Sudan e dal Chenia, la minaccia di una controffensiva avversaria, resa indispensabile sia dalle mire britanniche sul Mediterraneo, britannico-greche sullo Jonio, e (colla già preventivata partecipazione jugoslava) sull'Adriatico; sia dal pericolo incombente sul territorio egiziano e sulle regioni del Sudan e del Chenia. L'Inghilterra, impotente ad agire contro la Germania, dal luglio 1940 in poi (come è stato detto nel n. 8 della Aroi, in modo rispondente ai calcoli dei competenti organi informativi) aveva concentrato contro l'Italia tutta la potenza dei suoi mezzi : contro le nostre frontiere coloniali, circa 425.000 uomini, 1500 aeroplani, un migliaio di carri armati, e nel Mediterraneo e Mar Rosso più del so% delle sue forze navali: Churchill ha dichiarato apertamente, in occasione della prima offensiva britannica in Libia, che erano stati avviati in piccola parte ancora attraverso la pericolosa via del Mediterraneo, in grandissima parte per la lunga ma sicura via attorno al Capo di Buona Speranza, trasporti di truppe e convogli di prezioso ma;:eriale, specie in fatto di ottimi carri armati e di cannoni, sottratto persino alla difesa delle isole metropolitane. A queste affluenze dalla madre patria si erano aggiunte quelle di altre truppe reclutate e « scelte » it) tutte le parti dell'Impero, tanto verso l'Egitto quanto nel Sudan e nel Chenia: contingenti australini e neozelandesi, rhodesiani, elementi tratti dai possedimenti britannici dell'Africa occidentale e da possedimenti francesi degaul)isti, elementi reclutati nel Congo belga, ebraici ed arabi della Palestina, francesi e polacchi déll'antica « Armée d'Orient n del generale vVeygand basantesi sulla Siria. L'indùstria bellica metropolitana britannica, non ancora intaccata dai violenti bombardamenti aerei germanici, aveI08


va raggiunto il suo apogeo in fatto di rendimento nella produzione di mezzi bellici, e dagli Stati Uniti (se pure ancora in piccola proporzione) giungevano già materiali, sebbene il Governo di Washington non avesse ancora assunto un atteggiamento ufficialmente ostile; il tonnellaggio britannico, che finora ben poco aveva perduto per effetto della guerra subacquea, era tuttora in piena efficienza, e sussidiato da naviglio mercantile di ex-belligeranti o di servizievoli neutrali, nonchè da naviglio nordamericano, su rotte poco o nulla minacciate; le affluenze dal Vicino e Medio Oriente per via di terra attraverso il Canale di Suez erano sottratte, salvo occasionati azioni aeree, ad offese dal cielo. Ed infine, alle forze più o meno regolari di questo torrente d'umanità si aggiungevano le bande di fuorusciti etiopici in corso di raccolta e d'armamento nel Sudan. E pertanto doveva per necessità cessare la fase offensiva italiana nell'oltremare mannarico ed etiopico, convertendosi in quella fase difensiva che, attraverso vicende varie ma tutte gloriose per le nostre anni, ha perdurato fino al 1941 inoltrato. Di questa controffensiva avversaria nell'oltremare già si manifestavano i primi indizi nella prima quindicina del novembre in Africa ·Orientale, con ripetuti vani tentativi di attacco effettuati da varie migliaia di uomini coll'appoggio di carri armati leggeri e pesanti e di un'aviazione di gran lunga superiore numericamente alla nostra, contro le posizioni italiane nei monti Sein Sceib a nord-est di Cassala, e col complesso di attacchi svoltisi nella zona di Gallabat e vittoriosamente respinti. E ai primi di dicembre, si sferrava nell'Africa Settentrionale la controffensiva nemica, nel periodo più critico per le nostre truppe di Grecia ed Albania. L'Italia era dunque entrata animosamente in guerra contro la potenza francese ancora non debellata, e contro l'Impero britannico che, pur avendo riportato un grave scacco nelle Fiandre, era tuttora nella pienezza, per

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nulla intaccata, dei suoi mezzi dell'oltremare e in possesso di tutte le sue basi navali mediterranee, del Mar Rosso e dell'Oceano Indiano. Con la sua offensiva sulle Alpi, aveva poderosamente contribuito a far piegare la Francia e a metterla in condizioni tali da non poter continuare la lotta; colle sue offensive nell'Africa: settentrionale e dalle frontiere dell'Impero dell'A. O. aveva attratto su di sè tutto lo sforzo del colossale Impero britannico, di quell'Impero che essa già aveva sfidato, insieme a tutta la coalizione ginevrina asservita all'Inghilterra, durante il conflitto itala-etiopico. Generale AMBROGIO BOLLATI Senatore del Regno

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" NELLO SCO RSO INVERNO la nostra posizione fu soltanto difensiva, limitando l'offesa alle azioni degli aerei e dei sommergibili, -quali hanno in~itto perdite mo!to gravi al nemico. Nello scorso inverno il peso della polenza ing 1ese si riversò complefamenle sul nostro alleato italiano, il quale dovelle sopporl11re lufli gli allacchi sferra ti dall'Inghilterra." ADOLFO HITlER Discorso pronunciato al Reichslag 1"11 dica;n~re 1941

L'/TALIA DI FRONTE ALLA POTENZA IMPERIALE BRITANNICA ELL'AUTUNN0-INVERNO del 1940-4I l'Inghilterra, aven-

N do .ritirato le sue truppe dal continente europeo e non essendo impegnata dalle forze dell'Asse in altri settori terrestri, ritenne giunto il momento di tentare un colpo decisivo contro di noi, nel Mediterraneo e nell'Impero. Non avendo la possibilità di colpire la Germania, l'I mpero britannico si atteneva al partito di raccogliere e rovesciare la massima parte delle forze di cui poteva disporre contro l'Italia, che era la sola attaccabile su fronti terrestri ed in settori molteplici, privi, per di più, di continuità territoriale con la metropoli. Quest'ultimo coefficiente, anzi, era quello che doveva porre maggiormente in difficoltà l'Italia, costretta com'era ad affrontare le forze av· versarie al di là del mare insidiato dalla flotta più potente del mondo, m entre tali forze hanno alle spalle territori continui, ricchi e bene organizzati. Molte, poi, erano le ragioni- quali palesi, quali riposte - che rendevano sempre più urgente per l'I nghilterra cogliere un successo prima del ritorno della primavera. L'annientamento delle nostre forze nel Mediterraneo, anzitutto, avrebbe consentito di liberare quel mare dai còmpiti eccezionalmente gravosi che in esso pesavano III


sulle forze britanniche; di ridare la piena libertà di mo. vimento tra l'Inghilterra ed il suo Impero, attraverso Gi· bilterra e Suez; di provvedere ad un maggiore e più effi· cace concentramento di forze nell'Atlantico e nei mari del Nord, per la difesa diretta dell'isola e dei suoi rifornimenti. Aggiungasi a tutto questo la necessità di galvanizzare lo spirito interno e ridestare quella fiducia nel successo finale che fin da allora appariva molto scossa, non astante le ripetute assicurazioni del Governo di Londra, di stroncare o, almeno, di intimidire le correnti antibritanniche più che mai vive in Egitto, in India, nel mondo arabo, nell.Africa del Sud; di impedire il collasso, materiale e morale, della Grecia; di ostacolare l'azione degli elementi francesi favorevoli ad una collaborazione con l'Asse e di favorire quella dei seguaci di De Gaulle e compagni. Con l'intensificazione della lotta nel Mediterraneo, infine, l'Inghilterra - come faceva proclamare dalla sua stampa - riteneva di poter riuscire ad imporre agli alleati dell'Asse quella << guerra su due fronti » che fin dall'inizio delle ostilità, forse per la suggestione potente dei ricordi della prima guerra europea, è stata per Londra come una specie di idea fissa. Si. sperava, insomma, cb(' con l'allargamento delle operazioni nel settore Mediterraneo, si sarebbe potuto raggiungere lo scopo di costringere la coalizione avversaria sopra un fronte duplice, in settori molto lontani e richiedenti un dispendio enorme eli uomini, di mezzi, di energie. In effetti, però, era piuttosto l'Inghilterra che, per il fatto di spostare una parte considerevole delle sue forze in un settore periferico, veniva a creare a se stessa un :;econdo fronte, poichè, viceversa, neppure il successjvo invio di forze del Reich nel settore mediterraneo, dove fin allora il peso era stato sostenuto esclusivamente dall'Italia, sarebbe equivalso alla creazione di un nuovo fronte per l'Asse : basta pensare alla continuità territoriale tra Germania ed Italia e alla posizione geografica della .GerII2


mania, che le consente di sferrare e parare colpi in qualunque direzione. La verità è - com'ebbe a dire il Flihrer- che la Germania, anzi le potenze del1'Asse, si sono tenute e si tengono pronte a fronteggiare l'Inghilterra dovunque essa si presenti. Il fronte, quindi, è per noi sempre unico : quello, cioè, dove allinea le sue forze l'avversario. Infatti, come nel Mediterraneo, le forze armate dell'Asse banno collaborato o collaborano in Russia, nella Penisola Balcanica, nell'Atlantico, sulla Manica.

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Fin da quando il nostro Paese era sceso in campo, era perfettamente prevedibile e previsto che ]a guerra si sarebbe spostata verso Mezzogiorno, e che le operazioni si sarebbero trasportate e sviluppate nel Mediterraneo e nel Mar Rosso, con un impiego imponente di forze terrestri, navali ed aeree. L'Italia, le sue isole, lt sue colonie diventarono epicentro della lotta, ed in una situazione, all'inizio, del tutto sfavorevole. Ciò il1umina di viva luce la decisione dell'intervento, adottata in vista di un'assoluta lealtà verso l'Alleato e in una visione lungimirante del corso della guerra e dei suoi scopi mondiali. L'Impero rimaneva, fin dallo scoppio delle ostilità, praticamente isolato dalla Madre Patria e da qualsiasi importante fonte di rifornimento, ed avvolto per contro da territori nemici lungo uno sviluppo enorme di frontiere (circa 8.700 chilometri, dei quali 4.8oo terrestri e 3.900 marittimi). Inoltre, la vastità enorme del territorio (quasi cinque volte l'Italia), la lunghezza delle comunicazioni, le asperità del terreno, la povertà logistica, particolarmente accentuata nelle zone confinarie per lo più vaste, aride. malsane, avrebbero inevitabilmente sottoposto le nostre truppe a difficoltà e sforzi eccezionali. La brevità del periodo, poi, intercorso tra l'occupazione dell'Africa Orientale I tali a na e lo scoppio del conflitto europeo, non aveva consentito di dare all' Impero l

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che un minimo di autosufficienza, in luogo di una completa autonomia, atta a far fronte, entro determinati limiti di tempo, alle necessità più essenziali; questo programma minimo ebbe la sua attuazione prevalentemente durante l'anno di non belligeranza, ma pur sempre- a causa soprattutto delle grandi distanze e delle difficoltà di trasporto - in misura inadeguata alla vastità dei bisogni. Si aggjunga che il primo atto di un attrezzamento dell'Impero non poteva non essere quello stradale : il quale, in caso di invasione, avrebbe però reso più rapido lo spostamento avversano. Nel corso delle ostilità, furono bensì effettuati brillanti ed ardui rifornimenti aerei, ma essi, data la limitata potenzialità .di tal genere di trasporti, non poterono migliorare sensibilmente la nostra situazione in confronto di quella del nemico, il quale era in grado di rifornirsi agevolmente e senza limiti. Era inevitabile, quindi, che ad un dato momento il nostro potenziale· bellico dovesse fatalmente declinare, mentre quello del nemico ogni gjorno si accresceva, e che tali condizioni di fatto facessero sentire il loro peso sulla condotta delle operazioni in Africa Orientale.

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Per lf. Libia, i problemi stratcgjci e logistici erano meno proibitivi che per l'Africa Orientale, ma rimanevano tuttavia ardui e complessi. Anche la regjone Libica, infatti, non era suscettibile per le sue caratteristiche naturali di raggjungere una pur relativa autonomia, così da poter far fronte alle esigenze belliche con le sole sue risorse, ma doveva essere sempre alimentata dall'Italia per le vie del' mare e, in misura molto minore, per quelle del cielo. Si trattava cioè di raggiungere un'autonomia continuamente rinnovantesi per mezzo di trasporti marittimi ed aerei, i quali vennero assumendo uno sviluppo sempre maggiore, in ragione dei considerevoli aumenti di forze resi necessari dalla situazione. Occorreva, poi, mantenere

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continui ed efficienti quei trasporti contro le insidie aereonavali del nemico; còmpito, questo, che fu assolto dalle forze della nostra R. Marina e dalla R. Aeronautica col concorso, più tardi, di forze aeree tedesche - con sforzo lungo e gravoso e con pieno complessivo successo.

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La nostra avanzata nel deserto marmarico, fino a Si di el Barrani, aveva destato negli inglesi un allarme vivissimo per la minaccia che veniva ad incombere sull'Egitto, posizione-chiave delle loro comunicazioni mediterranee e della loro potenza nel Medio Oriente; onde essi decisero subito di raccogliere tutte le truppe ed i mezzi possibili per passare alla controffensiva, e, puntando su Tripoli, estrometterei dal Nord Africa. Raccolsero, particolarmente, un nerbo di unità meccanizzate, quantitativamente ed anche qualitativamente superiori alle nostre per corazzatura, velocità e potenza di fuoco. Truppe e mezzi furono reclutati, oltre che in Inghilterra, in Australia, in India, Nuova Zelanda, Africa e fra gli alleati europei, così da rappresentare lo sforzo imperiale inglese di quattro continenti. Favoriti da giornate violente di ghibli, che rendevano assai difficile l'osservazione della nostra arma aerea, e dalla superiore mobilità confenta loro dai mezzi di cui disponevano, i britannici poterono compiere la loro marcia di avvicinamento alle nostre posizioni, senza essere avvistati, e sferrare quindi il loro attacco. Questo ebbe inizio il mattino del 9 dicembre, e nonostante la tenace resistenza dP.lle nostre unità dislocate in prima linea due divisioni libiche ed il raggruppamento Maletti, il cui prode comandante, generale Pietro Maletti, cadde gloriosamente combattendo - pote' celermente infiltrarsi nell'interno del nostro primo dispositivo e, con il valido concorso delle forze di mare ed aeree, scompaginarlo e soverchiarlo. Il campo trincerato di Sidi el Barrani fu gradualmente sommerso, con la maggior parte delle truppe

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che vi erano state proiettate in avanti per l'ulteriore azione offensiva. Una seconda posizione di resistenza, organizzata nella zona di passo Halfaya-Sidi Ornar-ridotta Capuzzo~Sollum, dovette essere anch'essa, dopo tre giorni di lotta, abbandonata dalle nostre truppe, che ripiegarono, il 15, ordinatamente sulla piazza di Bardia. Questa, che non poteva esser certo considerata una vera H piazza >>, di quelle che ritraggono forza e valore da masse imponenti di cemento e di acciaio, aveva inoltre il difetto costituzionale di essere troppo ristretta e facilmente vulnerabile dal mare. Pure, benchè tagliata fuori da ogni comunicazione col resto delle truppe, essa resistette per ben tre settimane ad attacchi concentrici dalla terr(:l., dal mare, dall'aria; da Bardia pareva diffon~ersi un ardore eroico, che correva lungo tutta la nostra linea di difesa, fin laggiù, ne!Je profondità del deserto, fino a Giarabub -la Santa, anch'essa dai primi giorni dell'offensiva soggE-tta a ripetuti attacchi nemici, che la valorosa guarnigione costantemente respingeva. Ma il miracolo non poteva durare indefinitamente. Il 4 gennaio, gl'inglesi riprendevano, dopo una breve sosta, l'attacco in forze contro la piccola piazza : << Le nostre truppe- soggiungeva il nostro comunicato- al comando del generale Bergonzoli, resistono con stren uo accanimento, infliggendo al nemico perdite rilevanti >>. Per la prima volta compariva nei nostri comunicati il nome del comandante cui era affidata la difesa di Bardia : il generale Annibale Bergonzoli, valoroso soldato, che già nella campagna di Somalia e nella guerra di Spagna aveva creato attorno a sè una specie di leggenda eroica. La preponderanza dei mezzi avversari era tale da soverchiare qualsiasi eroismo umano: ad uno ad uno i caposaldi della difesa, benchè sempre e strenuamente contesi fino all'ultimo, caddero in mano del nemico, fìnchè fu giocoforza cedere. Costringendo, però, l'avversario a segnare. il passo per

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tanti giorni ed incessantemente logorandolo, Bardia aveva già assolto il suo còmpito ed aveva, inoltre, offerto al mondo un'altra fulgida prova dell'eroismo italiano. ~ Dopo Bardia, Tobruk. Era, si può dire, dal primo giorno della guerra che, quasi ininterrottamente, questa nostra sentinella avanzata del fronte cirenaica, alta e solitaria fra il mare ed il deserto, era sottoposta ad offese avversarie continue, accanite, implacabili, e nulla aveva potuto piegarla: nè i bombarda!lle.u.~ dal largo, nè gli attacchi dal cielo, che si ripetevano quasi ogni notte, aprendo sempre nuove ferite nelle poche case, dilacerate e slabbrate. Pure, i difensori di Tobruk segui~avano a fronteggiare con saldo cuore l'accanimento avvers.ario; annidati fra le rovine della città, fermi al loro posto di vedetta e di combattimento sulla linea fortificata, ad ogni colpo rispondevano impassibilmente e da ogni nuova ferita parevano attingere uù novello ardore. Dal giorno, poi, che attorno alle mura della città levò le sue fiamme la battaglia rifluita da Bardia, Tobruk visse una grandiosa agonia. A differenza di Bardia, la piazza di Tobruk era troppo ampia, in relazione alle forze che la difendevano : una divisione di fanteria, la « Sirte >>, un battaglione di « Guardie alla frontiera n, un battaglione di Camicie Nere e reparti di marinai e d'artiglieri; in tutto, circa zo.ooo uomini. Ad essi si aggiungeva la San Giorgio, la vecchia nave che, trasformata in una specie di enorme pentone galleggiante per batterie e mitragliatrici, aveva tenuto il suo bravo posto in linea, diffondendo, anch'essa, attorno a sè un'aura leggendaria, per la sua invulnerabilità; gl'inglesi stessi la chiamavano «la nave misteriosa» o <<la nave fantasma n, e si diceva ch'essi avessero promesso un premio a chi fosse riuscito ad affondarla. L'attacco decisivo contro Tobruk ebbe inizio il zr gennaìo: vi partecipavano forze di gran lunga superiori alle nostre, sostenute, come a Bardia, da unità navali e dalla aVIazwne. Ciò non astante, occorsero due giorni di lotta

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durissima, perchè le fanterie australiane riuscissero ad aprirsi il passo TlelJe difese ad oriente della città, penetrando alfine nell'abitato, dove tutto era stato, frattanto, dato alle fiamme. Pure, Tobruk non era ancor morta. Per due giorni ancora, i difensori di essa seguitarono ad opporre una estrema, disperata resistenza fra gli ultimi caposaldi ad occidente della città, e fino all'ultimo proiettile le nostre artiglierie continuarono a far fuoco, aprendo vuoti ingenti nelle file avversarie. Solo dopo il quarto giorno, la lotta ineguale si andò spegnendo. I mezzi per un'ulteriore resistenza del valoroso presidio si erano ormai esauriti, e ben duemila feriti attendevano di essere sgombrati dagli inglesi; nel porto i marinai avevano fatto saltare la San Giorgio, al posto di combattimento ch'essa aveva tenuto con onore fino all'ultimo momento, assurgendo come a protagonista e simbolo della difesa eroica. Caduta Tobruk, le colonne motorizzate britanniche poterono lanciarsi verso occidente, qua e là contrastate da nostre sporadiche difese. Abbandonata da noi Derna, per sottrarla a sicura rovina, la lotta si trasportò sull'altopiano del Gebel, per quindi raggiungere la zona bengasina. In Bengasi il nemico poneva piede il 30 gennaio. A sud del capoluogo della Cirenaica si combatte' ancora per due giorni, disperatamente, contro le colonne avversarie che tendevano a rescindere la corda dell'arco costiero, dirigendosi ad El Agheila. In queste giornate di combattimento trovò morte eroica il generale Giuseppe Tcllera, già capo di Stato Maggiore del Comando Superiore e da pochi giorni comandante delJa ro• Armata. Questa Armata, così duramente provata nella grande battaglia, aveva ormai perduto quasi tutti i suoi effettivi, e quasi al completo; parimenti, si era sacrificata la s· Squadra aerea, che durante i due mesi di lotta aveva prodigato, senza risparmio, sangue ed eroismo. A fianco delle

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nostre forze esauste, intanto, nuovi rinforzi si facevano affluire. Il 7 febbraio, l'offensiva britannica, esaurita dallo sforzo compiuto e dalle perdite subìte a causa delle nostre eccessive resistenze, veniva da noi definitivamente arrestata nel deserto sirtico. La Tripolitania era salva, e, con essa, la possibilità della riscossa. Giova aggiungere che, per esplicita dichiarazione nemica, una parte delle forze avversarie dovette essere deviata in aiuto agli anglo-greci in Grecia : e fu, ai nostri fini, uno degli effetti salutari di quella campagna. Tutta la Cirenaica era in mano del nemico. Pure, in un drammatico e veramente splendido isolamento, seguitavano a resistere ancora i presìdi isolati di Cufra e di Giarabub. Semisperduti nelle lontananze del deserto, assediati da forze agguerrite e preponderanti, non collegati ai nostri Comandi che dagli apparecchi radio, quei nostri esigui presìdi seguitavano da settimane e settimane a resistere a tutti gli attacchi avversari, sdegnosamente rifiutando ogni intimazione di resa e facendo pagare ben caro all'avversario ogni tentativo di penetrare nelle loro poSlZlonL

Cufra dovette cedere, alfine, il 1° marzo; Giarabub, invece, protrasse la sua resistenza fino al 20 marzo. Da quel lontano fortilizio non giungevano ai Comandi che parole di fede e di romana fermezza, che meritano di essere un giorno conosciute dagli italiani, così come alla loro ammirazione fu giustamente segnalato il nome del valoroso comandante del presidjo, il maggiore di fanteria Castagna, per merito di guerra promosso durante l'assedio al grado di tenente-colonnello. Questi episodi di eroica difesa- Bardia, Tobruk, Cufra, Giarabub- sono altrettante pagine di storia, che non possono morire.

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I risultati dell'offensiva britannica in Africa settentrionale, come sempre accade per sforzi offensivi accurata-

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mente preparati e con grande sfoggio di mezzi, parvero tali da giustificare, in un primo tempo, i clamori della stampa e della radio inglesi. Nè noi cercammo di attenuarli: come· disse il Duce nel suo storico discorso del 23 febbraio, «noi siamo soliti di dire pane al pane e vino al vino, e quando il nemico vince una battaglia, è inutile e ridicolo cercare, come fanno, nella loro incommensurabile ipocrisia, gl'inglesi, di negarla o minimizzarla ll. Avere stornato, almeno per allora, la nostra minaccia dall'Egitto e dal Canale, aver occupato la Cirenaica ed inflitto a noi la perdita di un'armata, costituiva certo un successo considerevole. Ma l'obiettivo d'importanza veramente decisiva per il nemico, nello scacchiere libico, sarebbe stato Tripoli, e per il raggiungimento di esso, indubbiamente, era stato preordinato. lo sforzo offensivo. Con il forzato arresto nella regione sirtica, invece, il disegno di eliminarci dalla Libia tramontava senz'altro. Un successo di diversa portata sarebbe potuto derivare solo dall'occupazione integrale del litorale nord-africano, ciò che non era avvenuto; dalla completa distruzione delle forze nostre o dei mezzi, ed anche questo, non ostante le rilevanti perdite italiane, lealmente accusate, non si era verificato; da effetti deprimenti sullo spirito pubblico italiano, così da farne prevedere un possibile collasso, e l'Italia e gli italiani erano in piedi più fieramente che mai. Al passivo dell'avversario, inveçe, bisognava registrare il logorio considerevole che l'operazione libica aveva fatalmente prodotto nelle forze britanniche;. la dispersione di forze e di mezzi, a distanze sempre più rilevanti dalle basi, che imponeva un considerevole sforzo logistico, cui erano connessi tutti i pericoli della navigazione nel mare di Sicilia, ancor più intensal'!lente controllata dalle forze navali ed aeree dell'Asse. Nè quel successo parziale conseguito dagl'inglesi in I20


Africa settentrionale poteva sensibilmente alterare il quadro strategico generale. Le linee di questo quadro le tracciò, com'Egli solo poteva farlo, il Duce nel suo grande discorso def 23 febbraio, traendone ancora un presagio sicuro di vittoria. Con la sua lucida parola Egli spazzò le nubi di quello scorcio d'inverno, mostrando come la grande avventura tentata dall'Inghilterra in Libia non a v esse il valore eccedente quello di un episodio della guerra, senza alcun carattere risolutivo, e facendo balenare dinanzi agli occhi ansiosi delle moltitudini la visione di una primavera foriera di altri e ben diversi avvenimenti bellici, con fiducia attesi e pienamente meritati dal popolo italiano e dalle nostre valorose forze armate.

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Il fatto di avere - con l'offensiva cirenaica - allontanata nel tempo la minaccia italiana sulle posizioni inglesi in Egitto, permetteva altresì all'Inghilterra di portare a fondo l'azione contro il nostro isolato impero, privo ormai di speranze di congiungimento. Fin dai primi di novembre erano incominciati gli attacchi britannici in Africa orientale. Nei mesi antecedenti, mentre le forze avversarie erano andate aumentando di giorno in giorno, le nostre, non potendo ricevere rinforzi di sorta, si erano sensibilmente logorate. Tale logorìo era particolarmente notevole nelle forze aeree, le quali per cause molteplici - la loro stessa natura, il ritmo intenso del loro impiego, le non favorevoli condizioni del clima, le limitate possibilità di ricovero e di manutenzione- erano le più soggette a rapida usura. Questo declinare della potenza delle nostre ali, cni non si poteva porre altro riparo che quello del lieve afflusso di pezzi di ricambio, di carburante e perfino di aerei da caccia smontati, effettuato, con grande perizia e spinto di sacrificio, per mezzo dei nostri aeroplani da trasporto, doveva costituire il più grave pregiudizio nella lotta che sta va per accendersi, e nella 121


quale noi ci saremmo presentati senza più avere il dominio del cielo. Fu il 6 novembre 1940, che gl'inglesi sferrarono il loro primo attacco contro Gallabat, ma dopo un primo cedimento di terreno, la situazi~me pote' essere dai nostri ristabilita. Altrettanto accadde, il giorno 17, a El Uach, al confine della Somalia. Di fro"nte all'ad.densarsi della minaccia britannica, moltiplicata da una generale mobilitazione di forze nell'Africa inglese, e ben sapendo che la parziale rete stradale e gl'insuf-ficienti mezzi di trasporto non avrebbero consentito quei generali e rapidi spostamenti di truppe e di mezzi che avrebbero potuto essere imposti dalla situazione, il Comando dell'A.O.I., presumendo che l'attacco più potente sarebbe venuto dal nord, concentrò in quello scacchiere il maggior nerbo delle forze disponibili, pur non trascurando, s'intende, gli altri settori. Tale previsione non fu errata. Ai primi di gennaio, le masse avversarie concentrate intorno a Cassala iniziavàno un'offensiva a tenaglia contro le nostre forze concentrate nel bassopiano nord-occidentale, puntando verso Agordat prima, e quindi verso Cheren ed Asmara. Il giorno 17 gennaio ebbe inizio il nostro ripiegamento. Tentò il nemico di coglierci in crisi, sferrando notevoli attacchi di forze meccanizzate, ma le nostre retroguardie, pur subendo perdite dolorose, poterono assolvere valorosamente il loro còmpito, rattenendo l'impeto avversario e .consentendo al nostro grosso di schierarsi prima sulle posizioni di Agordat-Barentù e poi su quelle ad ovest di Cheren, ove si iniziò, il 3 febbraio, la vera battaglia decisiva per la difesa dell'Eritrea. Con alterna vicenda, la lotta proseguì accanitissima fino al giorno 27. Alla fine i nostri soldati, premuti da forze preponderanti, fulminati dal cielo, non più appoggiati dalla nostra aviazione, che nel corso della battaglia aveva compiuto gli ultimi ardimenti e perduto gli ·ultimi apparecchi, dovettero, pur dopo aver compiuto prodigi di valore, ripiegare su Asmara. Ancora altre resistenze furono 122


opposte sulle posizioni intermedie; ma il I aprile, per non sottoporre la popolazione civile alle inevitabili distruzioni, si dovette cedere al nemico il capoluogo dell'Eritrea. I nostri reparti superstiti vennero avviati parte verso Adigrat-Amba .Aiagi, parte su Massaua, la quale cadeva, anch'essa, il 9 aprile. L'Eritrea, così, era perduta, ma la conquista della nostra colonia primogenita era costata al nemico perdite considerevolissime di uomini e di mezzi, tanto che verso la metà di marzo il ministro degli esteri inglese Eden ed il generale Dill, recatisi in Africa Settentrionale, avevano · consigliato o imposto di alleggerire lo schieramento bellico inglese nell'arco sirtico, per mandare appunto rinforzi in Africa Orientale; ciò che doveva poi avere effetti fatali, al momento della controffensiva italo-tedesca in Libia. In concomitanza, frattanto, con l'attacco contro l'Eritrea, le truppe britanniche avevano preso l'offensiva anche contro la Somalia, sulla linea del Giuba. Contenuti dapprima anche qui, non astante la tattica degli attacchi multipli e contemporanei su tratti vari del nostro fronte ch'era loro consentita dalla superi01ità in mezzi meccanizzati, poterono, verso il 17-18 febbraio, passare il fiume e dilagare verso Giumbo e Brava. Data la natura del terreno e la nostra mancanza di reparti anticarro e di aviazione, là. Somalia non poteva più costituire una zona di resistenza valida, onde l'avversario si può dire che avesse via libera verso Harrar ed il Galla Sidamo sud-orientale. Il IO marzo, punte blinàate avversarie giungevano a Sassabaneh, e nel frattempo truppe inglesi sbarcarono a Berbera. Lo scopo della manovra era evidente : puntare su Addis Abeba. Dopo accaniti, strenui combattimenti ai passi di Mardà, di Babilè, di Fiambirò, di Bisidemo, il 26 marzo Harrar dovette essere ceduta al nemico; il 28 sgomberata Dire Daua. 0

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La situazione si faceva sempre più precaria: gli elementi coloniali somali abbandonavano le nostre file, per correre alla difesa dei loro averi e delle loro famiglie; le nostre esigue truppe superstiti erano logore e stanche dalle lunghe marce e dai combattimenti; Addis Abeba, ov'erano concentrati donne e bambini, esposta a] pericolo di bombardamenti aerei. Di fronte a tale situazione, il Vicerè decideva di sgomberare la capitale, dando ordini per la prosecuzione della resistenza « il più a lungo possibile e dove possibile, per l'onore della bandiera » : nei ridotti dell'Amba Alagi, del Galla Sidamo e dell'Amara. Sull'Amba Alagi le nostre forze, rifluite in parte da Dessiè ed in parte risalite da. Addis Abeba, al comando diretto del Vicerè, che si accingeva a rinnovare su quella storica altura la gesta leggendaria del maggiore Toselli, opposero ancora una strenua magnifica resistenza al nemico incalzante. Per un mese esattamente - dal 27 aprile al 27 maggio - quel pugno di valorosi si mantenne intrepido sull'Amba, non astante i ripetuti violenti attacchi nemici, l'intenso fuoco di artiglieria, i bombardamenti e mitragliamenti dall'alto. Alla fine, venuti a mancare viveri, acqua, munizioni e non essendovi più neppure la possibilità di curare i feriti, fu giocoforza cedere. All'eroico presidio il nemico concesse l'onore delle armi, e la Maestà del Re telegrafava al Duca d'Aosta, protagonista dell'epica difesa: «Ti ho confetito la medaglia d'oro al valor militare, desiderando premiare in te coloro che com battendo ai tuoi ordini hanno bene meritato dalla Patria». Anche il Duce inviava al prode Principe alte parole di riconoscimento e di fede nella riscossa. Il Principe aveva voluto rimanere sul posto, dividendo coi suoi soldati una sorte di gloria e di morte. Aviatore, aveva scelto il caposaldo più nudo e dirupato, privo di ogni possibilità di

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ulteriori spostamenti aerei. La sua salute già scossa predestinava la sua prigionia in terra d'Afri~ a una fine esemplare, arra della rivincita. La lotta era ridotta nel Galla-Sidamo e nell'Amara. Contro queste due regioni, al comando rispettivamente dei generali Gazzera e Nasi, si volgevano, dopo la caduta dell'Alagi, le armi avversarie. Nel Galla Sidamo il generale Gazzera, di fronte alla minaccia che da ogni direzione si pronunciava contro il territorio, provvide ad arretrare le sue difese su posizioni più forti e su fronti più ristretti, per una difesa ad oltranza, ma nel corso del maggio la pressione nemica, alimentata anche da formazioni di ribelli, andò facendosi sempre più difficilmente contenibile, non ostante i prodigi di abnegazione e di valore delle nostre unità nazionali e coloniali, soggette ad ogni sorta di disagi, di fatiche, di intemperie. Gimma, dov'erano stati concentrati fanciulli e donne, dovette essere ceduta al nemico proprio all'anniversario della nostra entrata in guerra, il 10 giugno: i resti delle nostre truppe, col generale Gazzera furono costretti ad arrendersi, con l'onore delle armi, il 5 luglio, a Dembidollo, dopo aver combattuto, si può dire, fino all'ultimo momento. Nell'Amara, le nostre difese erano disposte lungo un semicerchio, che aveva per centro Gondar: caposaldi avanzati erano, ad est, Debra Tabor, a nord Uolchefit. IJ primo attacco avversario si ebbe il 23 maggio, centro Debra Tabor, ma fu nettamente respinto dai 6.000 uomini del colonnello Angelini. Da allora gli attacchi non si contarono più, e (]Uasi ogni giorno giungevano al comandante del ridotto intimazioni di resa, da parte dei capi ribelli e del comando inglese. Un messaggio, ad esempio, diretto al comandante delle truppe dell'Amara, così si esprimeva: <<Avvertite le vostre forze di Debra Tabor di arrendersi; altrimenti uccidiamo fino all'ultimo uomo>>. 125


T uttavia, il valoroso presidio protrasse la sua resistenza fino al 4 luglio, giorno in cui l'assoluta impossibilità di reintegrare comunque le scorte dei viveri, costrinse il comandante di Debra Tabor ad accettare le condizioni proposte dal comando britannico, includenti l'onore delle armi : le funzioni fin allora assolte dal caposaldo venivano assunte da quello di Culquaber. Il ridotto di Uolchefit. invece, del quale il comandante, tenente-colonnello Gonnella, aveva potuto fare in breve tempo una posizione veramente formidabile, presidiata e difesa da un'armonica e salda compagine di forze, pote' opporre, ancora, per oltre tre mesi, una vigorosa resistenza, inframezzata da audaci nostre sortite, che inflissero al nemico perdite e danni durissimi. In uno di questi nostri attacchi, anzi, il 20 giugno, fu catturato il noto ras Ajaleu Burrù, esponente principale della rivolta dell'Amara. ed in un altro, nei giorni 13 e 14 luglio, toccò un deciso scacco il degiacc Negiasc, che aveva sostituito il ras prigioniero. Dopo circa tre mesi di blocco, il presidio di Uolchefit aveva di già ben meritato, per le azioni compiute, i successi riportati, i disagi e le privazioni sofferte, l'ammirazione non soltanto degli Italiani ma anche dello stesso nemico. Il 21 luglio, infatti, il maggiore inglese Ringrose indirizzava al tenente colonnello Gonnella le seguenti parole : u La bravura e l'eroismo della resistenza opposta dai vostri ufficiali e soldati, di fronte al fuoco d'artiglieria, agli attacchi aerei, alla fame ed alle privazioni, sono già oggetto di ammirazione per l'armata britannica, e per me almeno sarà un onore incontrarvi, quando questa guerra sarà finita ,,. Ma la situazione, anche ad Uolchefit, andava facendosi sempre più grave, sopratutto a causa della progressiva riduzione dei viveri, con inevitabile pregiudizio per la resistenza di organismi già indeboliti e costretti a vegliare, faticare e combattere a 3000 metri circa di altitudine. Consumato l'ultimo chilo di farina, e non senza aver dato ancora una prova estrema del loro spirito guerriero, sfer1 26


rando due forti attacchi - il r8 ed il 25 settembre contro lo schieramento avversario e sgominandolo, i difensori di Uolchefit furono obbligati a chiedere la resa. Questa anzi - con tutti gli onori alla nostra bandiera ed alle truppe - venne firmata proprio il giorno seguente all'ultimo nostro attacco, e fu portata a conoscenza delle truppe dell'Amara con il seguente, fiero messaggio del generale Nasi : «Dopo r6o giorni di blocco, esaurite le ultime risorse, il presidio dell'Uolchefit ha ceduto alla fame, non al nemico, che deliberatamente, poche ore prima di chiedere l'armistizio, andava a cercare ed attaccare fuori del ridotto. Trecento caduti, nazionali e coloniali, restano all'Uolchefit a montare la guardia, fino al giorno della nscossa ». Il ridotto centrale era, così, investito direttamente anche dal nord : la difesa estrema di esso rimaneva affidata ai due ridotti di Culquaber (facente sistema con le posizioni di Fercaber, sul Lago Tana) e di Ualagh, al comando, rispettivamente, del tenente colonnello Ugolini e dei colonnello· Polverini. Anche le forze presidianti questi due caposaldi, animate dall'energia e dalla sagacia dei loro comandanti, non soltanto seppero rintuzzare gli attacchi dell'avversario, ma spesso andarono alla ricerca di esso, attaccandolo e battendolo sulle stesse sue posizioni. Così, notevoli danni materiali e morali inflisse al nemico il presidio di Culquaber nelle sortite dei giorni 9 e 14 agosto e 14 settembre, e specialmente in un'energica azione di polizia, compiuta il 14 ottobre da una colonna composta da tre battaglioni coloniali e da un gruppo di squadroni di cavalleria, al com ando del ten. col. D~ Sivo; parimenti, una colonna del presidio di Ualagh, 1'8 ottobre, irrompeva nella locali tà di Amba Ghiorghis, a circa rs chilometri dalla nostra posizione, vi incendiava la residenza inglese e distruggeva un deposito· munizioni e la stazione radio. Il nemico, però, deciso acl aver ragione, ad ogni costo, 127


della tenace resistenza dei nostri, faceva affluire continuamente nuove truppe e mezzi, intensificava la sua preparazione logistica ed infieriva sulle nostre posizioni col tiro delle artiglierie e coi bombardamenti aerei. D'altra parte, anche se il morale delle truppe si manteneva elevato. le scorte dei viveri e delle munizioni si andavano approsc;imn.ndo all'esaurimento. Pure, fino all'ultimo momento, i difensori di Gondar, insonr:i, malnutriti. implacabilmente soggetti ad ogni sorta di offesa, mantennero un contegno veramente superbo, respingendo ancora furiosi assalti némici, nei giorni 8, 13, 14 novembre. Il mattino del2r, però, il nemico, con forze soverchianti e con larga partecipazione di aerei, artiglierie e bombarde, tornò all'attacco di Culquaber; con particolare accanimento contro il fronte nord, tenuto da un battaglione di Carabinieri Reali. il quale, esaurite le munizioni, si gettò all'arma bianca contro le schiere avversarie, riuscendo, a costo del quasi completo proprio olocausto, a contenerne, almeno per il momento, l'irruenza. Ma il numero doveva finire con l'imporre la sua legge, onde nel pomeriggio del 23 gli eroici presìdi di Culquaber e di Fercaber erano costretti entrambi a desistere dalla lunga, strenua resistenza. Oramai, la via era aperta al nemico verso le ultime difese disposte sui rilievi circondanti Azozò e Gondar. Le prime furono sopraffatte il 27 novembre, così che il capoluogo dell'Amara venne a trovarsi esposto al tiro delle artiglierie ed alla diretta minaccia di reparti blindati, lanciati verso la città. Di appostamento ~n appostamento e fin per le vie stesse, ove già erano penetrati i carri armati avversari, si cercò di imbastire ancora, con estremo ardimento, una difesa : constatato, quindi. l'esaurimento di ogni mezzo per una ulteriore, efficace resistenza, ed allo scopo anche di evitare a ltri danni alla popolazione, il generale Nasi ordinava, alle ore 14 del 17 novembre, la sospensione delle ostilità. 128


Si concludeva, cosi, dopo oltre un anno, la lotta nel nostro Impero, che è destinata a lasciare un ricordo incancellabile nella storia, per le prove mirabili di valore e di sacrificio sostenute dai soldati italiani e per le condizioni eccezionali di ambiente, nelle quali la lotta stessa si svolse. Come in Cirenaica inglesi e australiani dettero prova insigne di barbarie e di crudeltà, durante la parentesi della occupazione di Bengasi e del Gebel, così in Africa Orientale i britannici si assunsero il còmpito invero inglorioso di riportare la barbarie negra e schiavista al posto della civiltà di Roma. Invano si attese, a Londra ed a vVashington, che gli eventi, pur dolorosi, svoltìsi nelle nostre terre Africane piegassero gli animi nel nostro Paese. L'Italia era e rimaneva in piedi, più fieramente che mai, e faceva sue le parole indimenticabili pronunziate dal Duce nel suo grande discorso del 23 febbraio '41, due mesi dopo l'untuoso ed insidioso radiomessaggio di pace, che il primo ministro Churchill aveva creduto di indirizzare al popolo italiano, in occasione del Natale: «È supremamente ridicolo speculare su un eventuale cedimento morale del popolo italiano. Questo non accadrà mai. Parlare di paci separate, è da deficienti ... Gli eventi vissuti in questi mesi esasperano la nostra volontà e devono accentUare contro il nemico quell'odio freddo, cosciente, implacabile, odio radicato in ogni cuore, diffuso in ogni cosa, che è un elemento indispensabile per la vittoria n. AMEDEO TOSTI

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"NOI SIAMO CONSAPEVOLI che il merito di questi successi spetta in gran parte al/a nostra Alleata, /'Italia, che in una lotta di sei mesi, sostenuta in condizioni difficilissime e con grandi sacrifici contro la Grecia, non soltanto immob•lizzò la massa principale delle . formazioni greche, ma sopratullo le indebolì a tal punto da renderne il crollo di per sè inevitabile." ADOLFO HITLER Oiscouo pronuncielo el Reicluleg il 4 moggio 1941

LA GUERRA IN GRECIA 28 OTTOBRE 1940 l'Italia mosse guerra alla Grecia. I motivi della decisione erano stati esposti nell'ultimatum che il nostro ministro in Atene aveva presentato al Presidente Metaxas alle tre del mattino, e che il Governo ellenico si era affrettato a respingere. Ma soltanto più tardi i documenti del Libro Bianco tedesco, le rivelazioni della stampa ateniese sui criminosi retroscena della politica greca, e la piega presa dagli avvenimenti balcanici mostrarono quanto quella nostra iniziativa fosse legittima, tempestiva, necessaria, e quale importante funzione strategica fosse destinata ad avere negli sviluppi ddla guerra sul Continente. Se i nostri servizi d'informazione avevano saputo, malgrado le astuzie ateniesi, scoprire in parte gli intrighi che si tramavano contro di noi, fu l'intuito di Mussolini a renderei avvertiti della gravità della minaccia e della urgenza di pararla. cc Mi convinsi - Egli ha detto - che la Grecia costituiva veramente una posizione-chiave dell'Inghilterra nel Mediterraneo centro-orientale, e che anche la Jugoslavia aveva un atteggiamento quanto mai ambiguo. Era una situazione che aveva bisogno, per dirla nel linguaggio dei chimici, di essere decantata a scanso di terribili sorprese >>. Ciò che si ordiva in Grecia era la preparazione di quel

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<< secondo fronte)) che costituisce anche oggi la costante e ossessionante preoccupazione dei nostri nemici. E vi si adoperavano agenti britannici ed americani, agenti bolscevichi, generali serbi afflitti da rozza megalomania, politicanti greci serviti e venali, mossi da ambiziose mire alle terre albanesi e da un opaco odio contro l'Italia. Il territorio greco, così importante per la sua posizione mediterranea e per il complesso insulare di cui dispone, si trasformava in una vasta base di manovre offensive: le acque territoriali, le coste, i porti offrivano rifugio e rifornimenti alla flotta inglese; aeroporti e campi di fortuna erano al servizio della Royal Air Force. Lo stesso esercito greco, nutrito armato e largamente equipaggiato dagli inglesi, aveva raggiunto un alto grado di preparazione e di efficienza bellica; e già in Ciamuria e sulla frontiera albanese si svolgeva una insopportabile attività provocatrice. Il piano era appunto quello di attaccare di sorpresa le poche forze che presidiavano l'Albania, di conquistare le basi navali e aeree albanesi, e di là sferrare contro l'Italia una vasta azione, contemporaneamente all'altra che Wavell preparava in Marmarica. Più tardi, messa in ginocchio l'Italia ed as.s icurata alla flotta inglese la più ampia libertà di manovra nel Mediterraneo, sarebbero affluiti nei Balcani gli uomini e le armi adatti a portare una decisione, col concorso dell'esercito russo, nella guerra continentale. ~ alla luce di codesti progetti che la campagna di Grecia - questo breve e intenSo episodio della nostra guerra - va giudicata. Avevamo in Albania soltanto sei Divisioni, e i po~ti albanesi possedevano un'attrezzatura appena adeguata alle necessità di quei reparti. Non era stato fatto di più, perchè non avevamo nessuna intenzione di attaccare la Grecia. Furono gl'intrighi greci a metterei inopinatamente nella necessità di agire, e senza indugio. Se, insomma, ci permettemmo di svegliare nel cuore della notte il capo del Governo di Atene, non lo facerrtrrio per la deliberata volontà di essere scortesi con lui; e se

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muovemmo contro la Grecia con le sole forze che presidia vano l'Albania, lo facemmo perchè occorreva prevenire un attacco greco e sventare subito l'insidia che si veniva macchinando. Le nostre truppe attaccarono risolutamente, varcarono il confine nel tratto da Erseke al mare, e malgrado le enormi difficoltà del terreno e l'imperversare del maltempo, avanzarono fino alla « Linea Metaxas » le cui opere si distendevano dalla catena del Pindo fino alla costa. La '' J ulia )) giunse sin quasi a Metzovo. Arditi reparti di cavalleria si spinsero sulle rive del Vavos e a P aramythia. Quelle audaci puntate rivelarono l'imponenza delle forze che i greci, con la complicità degli inglesi, ammassavano contro di noi. Di fronte alle nostre se1 divisioni binarie, erano quattordici divisioni elleniche, alcune su tre, altre su quattro reggimenti. Era un grosso esercito bene equipaggiato, dotato di armi moderne, generosamente rifornito di materiali britannici. Britanniche erano l'aviazione e l'artiglieria contraerea; e nel corso dei primi mesi di ostilità, non meno di sessantamila inglesi dei vari servizi e specialità vennero a fianco delle truppe greche. La cospicua sproporzione delle forze avverse indusse il comando ellenico a tentar di dividere le nostre truppe operanti nel Corciano da quelle impegnate in Epiro. Una furibonda offensiva fu sferrata sul fianco sinistro del nostro schieramento, ove sette divisioni nemiche reiterarono i loro attacchi sul fronte d'una nostra divisione. La manovra era senza dubbio ben concepita e ben condotta; ma non raggiunse i suoi scopi. Se, tuttavia, l'eroica resistenza dei nostri impedi che il fronte venisse spezzato, emerse la necessità di assumere un atteggiameFJ.to temporaneamente difensivo per consentire l'arrivo di forze adeguate. Da alcuni tratti della costa pugliese le alture d'Albania sono facilmente visibili ad occhio nudo. Ma la vicinanza delle due terre non evitò alla nostra campagna di Grecia le caratteristiche e gli svantaggi della u guerra d'oltremare )). L'afflusso dei reparti e delle armi - specialmente

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a causa delle scarse capacità dei porti albanesi, i quali soltanto con nuovi apprestamenti vennero progressiva-· mente messi in grado di permettere lo sbarco di quattromila tonntllate al giorno - fu necessariamente lento. E intanto il nemico, gettando tutto il suo considerevole potenziale bellico i~ una incessante azione offensiva, ci imponeva l'impiego immediato delle forze che riuscivamo a trasportare oltTe Adriatico, e ci impediva la formazione di rilevanti riserve. Il comando italiano prese le decisioni che la situazione consigliava. La verde conca di Corcia fu abbandonata, ed anche la linea della IX ·Armata fu portata più indietro, in modo da raccorciare il fronte e da permettere agli effettivi disponibili di contenere la pressione avversaria su posi~ioni meglio adatte alla difesa. Il ripiegarnento avvenne in perfetto ordine, dietro un velo di copertura che durante ventiquattr'ore trasse in inganno il nemico. I reparti si ritirarono con le loro armi e il lor·o equipaggiamento al completo, seguendo i crinali delle montagne o il fondo delle valli ove i sentieri erano trasformati in orrendi fiumi di fango nei quali i muli delle salmerie affondavano fino al garrese. 1

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Presto l'inverno, con le sue nevi, si abbatte' sui monti d'Albania. Fu un rude, durissimo inverno. Fu un'aspra guerra : forse la più difficile, sotto l'aspetto logistico, che sia mai stata intrapresa. Fu una lotta inumana, combattuta tra disagi inenarrabili, sostenuta con prodigi di tenacia e di v:alore. Varie grandi azioni offensive furono sferrate dal nemico, con impeto risoluto e con ricchezza di mezzi, nel corso di quell'inverno. Ma la resistenza delle nostre truppe si organizzò e consolidò fino a diventare incrollabile sulla linea che era stata prescelta : Pogradec, Monti Kamia, Stretta di Devoli, Massiccio del T omori, Valle dell'Osum, Klisura, Tepeleni, Kurvelesc, Monte Kalarat. 134


Ognuno di codesti capisaldi fu testimone di battaglie furibonde nelle quali rifulsero costantemente le magnifiche qualità del soldato italiano. L'obiettivo delle iniziative avversarie fu quasi sempre Valona., la cui conquista ci avrebbe tolto una base navale ed una base aerea importantissime, di dove la flotta e l'aviazione britannica avrebbero potuto facilmente intercettare i rifornimenti attraverso l'Adriatico e compromettere le sorti della nostra impresa. Dapprima i greci tentarono di raggiungere Valona per il litorale e la Val Sciusciza; ma i loro tentativi vennero frustrati dalla mirabile difesa manovrata del Corpo d' Armata speciale. Nella seconda quindicina di gennaio essi tentarono per altra via, e con forze maggiori : una violenta pressione si delineò in direzione di Berati, ma una nostra azione controffensiva, sferrata da Tepeleni verso Klisura, inferse al nemico un violento colpo nel fianco che valse a paralizzarne lo slancio. Un nuovo tentativo compiuto nel febbraio, per la Val Desnizza, si frantumò contro le difese di Quota 731 : la Quota famosa, che per volere di Mussolini è stata dichiarata ((.zona sacra )) a memoria dei luminosi episodi di eroismo fioriti nell'epica lotta svoltasi tra le rovine di Monastero e tra gli alberi spettrali, mutilati dai proiettili e riarsi dai lanciafiamme. Più tardi il nemico cercò invano di superare le difese del solco di Tepeleni-Klisura : fu arrestato sul Golico, sul Trebiscini e sullo Scindeli. << Si può - ba detto il Duce - considerare il periodo della iniziativa greca concluso con la conquista di Klisura e della cosidetta Linea dei Mali, dal Chiarista allo Spadarit. Da quel momento ogni sforzo per raggiungere i veri obiettivi strategici - Elbassan, Berati, Valona, sopratutto Valona, come volevano gli inglesi - venne infranto dalla tetragona resistenza dei nostr~. Si era fatto il muro. E il muro, per il coraggio e la decisione dei nostri soldati. era ormai inespugnabile n. 135


Mussolini seguì, visse ora per ora le vicende di quella tremenda lotta combattuta nel fango e tra le nevi. Egli stesso sorvegliò la preparazione e diresse poi la battaglia che doveva decidere delle sorti della guerra. In quell'inverno un immenso lavoro fu compiuto: 56o.6o3 ufficiali e soldati, 15.951 automezzi, 8:1.072 quadrupedi, 704.150 tonnellate di armi, di proiettili e di materiale vario furono trasportati sulle coste albanesi in 1360 traversate, sotto la protezione del nostro naviglio sottile che fece 1070 azioni di scorta. V elivoli italiani e tedeschi, con 24.414 ore di volo, portarono attraverso l'Adriatico 70.667 uomini e 5-939 tonnellate di materiale. E tutti- aviatori e marinai delle navi da guerra e di quelle da trasporto, ferrovieri, autieri, lavoratori dei porti - tutti seppero essere ardimentosi ed infaticabili. Venne la primavera. Al generale Cavallero, che il 22 febbraio gli comunicava di aver stroncata l'offensiva sferrata dal nemico contro Tepeleni, il Duce aveva ordinato di affrettare la preparazione della controffensiva. <<Quando ai primi di marzo mi .recai in Albania - ricordò poi Mussolini parlando il ro giugno alla Camera dei Fasci e delle Corporazioni - sentii nell'aria il preludio della vittoria. Attraverso l'opera instancabile del generale Cavallero l'esercito di Albania si era organizzato, fortificato, preparato all'offensiva. Il morale delle truppe era splendido, l'ordine nelle retrovie perfetto ». Con il riordinamento delle grandi unità della riserva, e lo schieramento delle artiglierie di rinforzo affluite dall'Italia, l'ingrata situazione che avevamo dovuto subìre nei mesi invernali appariva capovolta. Noi potevamo, fra l'altro, mettere in azione 400 bocche da fuoco ed altrettanti aeroplani. . Fu in queste circostanze che all'alba del 6 marzo· il nemico attaccò di nuovo, e con ogni violenza, nella zona della Vojussa. Avvertito dell'affluire dei rinforzi e del progressivo consolidarsi del nostro fronte, saggiata in varii


settori la resistenza delle nostre linee e .constatato lo spirito offensivo delle nostre truppe, il comando greco immaginò di prevenire la nostra iniziativa compiendo uno sforzo eccezionale per rompere il nostro schieramento. Ai cospicui effettivi ammassati in quel settore vennero aggiunte tre divisioni - due delle quali prelevate al confine bulgaro - ed alcuni elementi d'una divisione celere di nuova formazione. Ai reparti fu data la consegna : (,< Tepeleni ad ogni costo». . Durante tre giorni, una vivace serie di attacchi, condotti con un rilevante numero di mortai e di armi automatiche, si infranse sulle posizioni saldissimamente tenute dai nostri soldati. Il 9 marzo prendemmo noi l'iniziativa, in due punti, con l'intervento di forti masse d'artiglieria d'ogni calibro e di grosse aliquote d'aviazione. Attaccammo nel settore di Berati, cogliendo in crisi di preparazio.t:le le unità cui il comando greco av:eva affidato il còmpito di aggirare Tepeleni dal Nord. Contrattaccammo nel settore della Vojussa e di Val Desnizza. · Occorre dire che i greci si batterono bene, e con una decisione ancora maggiore che nei mesi precedenti. La campagna del 1940-41, pur col suo prevedibile catastrofico epilogo, dette all'esercito ellenico l'occasione di riscattarsi da-lla spiacevole fama che si era procurata nel corso dell'altra guerra, e che gli era rimasta anche dopo le buone prove fornite in Anatolia. Tratti in inganno dai politicanti di Atene circa le vere intenzioni dell'Italia e circa i veri scopi della « amicizia » e degli « aiuti » inglesi, i soldati greci credettero davvero di combattere una guerra santa, e lottarono con un impeto, una tenacia, una bravura che è doveroso riconoscere. Anche i loro capi esercitarono lodevolmente il comando, e i servizi funzionarono bene. Màlgrado tutto ciò, i greci non riuscirono mai ad aver ragione del valore del soldato italiano, neppur quando le eondizioni della lotta, in ragione della preponderanza 137


numerica che nei primi tempi era schiacciante, risultarono decisamente a loro vantaggio. Ma nel marzo, mutato il rapporto dci potenziali bellici, il loro tentativo offensivo non poteva chiamarsi che disperato. Esso fu nettamente stroncato dai nostri contrattacchi, che si svilupparono in un'azione vasta e potente. La battaglia si· protrasse, sotto lo sguardo del Duce, fino al giorno 16. La poderosa organizzazione del terreno, compiuta dai greci con abilità e larghezza di mezzi, permise loro di evitare il totale sfondamento del fronte. Ma le loro perdite furono spaventose. I vuoti fatti dalle nostre artiglierie, dalla nostra aviazione, dalle nostre fanterie nelle file greche furono tali da costringere il nemico a portare in linea le classi anziane non ancora istruite, e ad ordinare l'arretramento dei comandi e dei magazzini. Le condizioni fisiche e morali delle truppe peggiorarono rapidamente : le diserzioni divennero assai frequenti. Insomma, la battaglia di marzo, se ci permise soltanto guadagni territoriali scarsamente rilevanti, portò al nemico un colpo decisivo. «Nella settimana che va dal 9 al r6 marzo, e che segna la ripresa della iniziativa italiana - disse il Duce - l'esercito greco cessò praticamente di esistere come forza ancora capace di combattere. Ciò fu confessato in seguito dallo stesso Governo greco. È assolutamente matematico che in aprile, anche se nulla fosse accaduto per variare la situazione balcanica, l'esercito italiano avrebbe travolto ed annientato l'esercito greco)). Una chiara riprova della prostrazione in cui il nemico era ormai ridotto si ebbe pochi giorni dopo. Il comando italiano preparava una seconda azione offensiva destinata ad av:ere caratteri risolutivi, quando si determinò la minaccia jugoslava alle spalle del nostro schieramento. I generali serbi avevano ammassato sulle frontiere settentrionali dell'Albania forze valutate a duecentomila uomini, e si preparavano ad attaccarci nel settore di Scutari. Fummo perciò costretti a sottrarre una considerevole


massa di effettivi e di armi al fronte Sud per assicurare la difesa di 150 chilometri di frontiera al Nord. E si doveva pensare che i greci, profittando delle circostanze, si sarebbero affrettati a gettare tutte le forze di cui disponevano in un attacco combinato con quello serbo. Ma non ne fecero nulla: il loro esercito, sfìancato, non era più in grado di intraprendere una seria azione offensiva. Nella lettera-rapporto che il generale Cavallero mandò al Duce alla fine della campagna, e che fu pubblicata dal ten. colonnello di Stato Maggiore Silvio Bitocco nel suo lucido, prezioso volumetto La guerra contro la Grecia, è detto : « Avevamo notizia che l'azione principale jugoslava doveva pronunciarsi nel settore di Scutari, e che sulla conquista di questa città i serbi contavano fermamente per poscia procedere su Durazzo e Tirana; e che conseguentemente l'esercito greco avrebbe dovuto agire dal Sud. Se l'esercito greco avesse conservata una minima capacità di offesa, certamente esso non si sarebbe lasciata sfuggire una simile occasione. Invece, verificatasi l'azione jugoslava, noi non avemmo che una limitata azione greca sul fronte della IX Armata, condotta bensì accanitamente, ma con forze insufficienti : una sola divisione, con lo scopo evidente di rompere il nostro fronte e porgere la mano alle forze jugoslave affluenti da Dibra e Struga. Del resto, sin dalla fine di marzo, cioè prima dello sforzo germanico, dopo la nomina del nuovo presidente del consiglio greco, il comando aveva espresso al suo governo la convinzione che l'esercito era arrivato oltre i limiti estremi del logorio e nulla vi era più da attendersi. :R dunque in seguito alla battaglia svoltasi, secondo le Vostre direttive e sotto la Vostra guida, dal 9 al 16 marzo, che l'esercito greco aveva ricevuto il colpo decisivo)). Nel precipitare degli avvenimenti in seguito al colpo di Stato di Belgrado, i nostri nemici apparivano perfettamenti sicuri della imminente catastrofe delle nostre Forze Armate d'Albania : a Londra e a Mosca se ne parlava

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nei giornali e alla radio come d'un evento logico, fatale, sul quale si potesse matematicamente contare. Le cose si svolsero in tutt'altra maniera. Mentre da Nord e dall'Est le formazioni germaniche dilagavano in Jugoslavia, e dal confine giulio le nostre unità muovevano a presidiar la Croazia e le coste e le isole dalmate, il generale Cavallero dava inizio alla realizzazione del piano operativo che aveva formulato tenendo conto delle circostanze e dei mezzi disponibili : colpire e rompere l'ala destra greca alla testata dello Skumbini, puntare su Ponte Perati e Kalibaki per tentare l'aggiramento dello schieramento nemico. L'azione predisposta per infrangere alla giuntura la tenaglia entro le cui branchie i comandi serbo e greco pensavano di rinserrare il nostro esercito d'Albania, fu affidata alla IX Armata. All'attacco frontale condotto con estrema violenza dalle divisioni « Venezia n, « Forli)), (( Taro » e u Tridentina >> sulla robusta linea stabilita dai .greci tra il lago di Ocrida e la conca di Corda, fece riscontro il veloce movimento aggirante d'una colonna autocarrata (divisione « Pinerolo >>) che per Struga e Ocrida, percorrendo la rotabile orientale del lago, piombò sul rovescio delle posizioni greche di Ciafa Blace. Ancora nna volta i greci si erano difesi bene; ma, aggirata la loro ala destra, furono costretti ad arretrare in fretta. Corcia fu raggiunta ed oltrepassata dai nostri fanti, che in ventiquattr'ore percorsero combattendo una sessantina di chilometri, mentre nel settore di Scutari le divi~ioni serbe, contenute e duramente provate in lotte violente durate più giorni, venivano finalmente ricacciate oltre confine. I nostri avanzarono su Cettigne, Cattaro e Ragusa. Naufragarono così le ultime velleità offensive del neuuco. Il 14 aprile l'XI Armata era intanto scattata dalle sue posizioni tra il massiccio del Tomori e il mare. Nuove epiche battaglie si accesero nei luoghi che avevano legato il loro nome al ricordo dei durissimi combattimenti inver140


nali: Mali Spadarit, Quota 731 di Monastero, Trebiscini, Scindeli, Golico, Valle di Sciusciza. Tutta la cerchia delle montagne albanesi fu in fiamme. La gran massa dei combattenti, dall'una parte e dall'altra, aveva sulle spalle cinque mesi di lotta. Ma nei greci la vanità degli sforzi compiuti e dei sacrifici consentiti non lasciava più posto a nessuna illusione, e rendeva piil profondo il senso della stanchezza. Le residue capacità di resistenza furono dal comando ellenico convogliate a tener ferma l'ala sinistra dello schieramento: se quell'ala avesse ceduto, nulla avrebbe potuto impedire l'aggiramento e lo sfacelo. Nei nostri, invece, l'entusiasmo vinceva la stanchezza. Anche i reparti che avevano maggiormente sofferto nell'atroce inverno si battevano con l'impeto di truppe fresche. Mentre le unità della IX Armata, assieme ad elementi della XI operanti nella valle della Vojussa, convergevano su Ponte Perati, il grosso della XI e le 'forze del litorale puntavano su Borgo Tellini. Il 22 aprile entrambe le località- i due soli varchi che consentissero il deflusso dell'esercito battuto - furono conquistate. Le truppe italiane irruppero in territorio greco; e l'esercito nemico in rotta si trovò insaccato tra le nostre divisioni che lo incalzavano dal Nord e le divisioni tedesche che, annientate le forze anglo-elleniche nella piana della Tessaglia, avevano raggiunto con mezzi corazzati, attraverso il passo di Metzovo, l'abitato di Gianina e la Ciamuria settentrionale. << Gli eserciti dell'Asse- ha detto il Duce - agirono di conserva con rapidità fulminea.. Mentre la II Armata delle AJpi scendeva lungo il litorale dalmatico con marce forzate che hanno saggiato la resistenza dei nostri soldati, i greci si ritiravano con combattimenti di retroguardia, e cercarono aU'ultimo, con un trucco di autentico stile ulissidico, di femarci ai confini del-· l'Albania offrendo l'armistizio ai tedeschi e non a noi. Furono da me richiamati energicamente alla ragione e finalmente si arresero senza condizioni ». ·


La sera del 22 aprile, quando la nostra ala sinistra era a 150 chilometri dalle posizioni di partenza e la destra ad oltre 70, e quando le divisioni « Venezia », << Bari n, <<Lupi di Toscana», « Ferrara », «Casale», << Brennero », << Cun~o >>. «Pusteria n, << Tridentina » si trovavano già tutte in territorio ellenico, il comandante delle armate della Macedonia e dell'Epiro offrì la capitolazione delle proprie truppe al comando italiano. 11 giot:no seguente le ostilità cessarono; ed ebbe termine, dopq 178 giornate di lotta, la guerra itala-greca. Trasformato dalla disfatta in folla miserabile e tumultuosa, l'esercito ellenico sciamò verso il Sud lasciandosi dietro una scia di relitti, di armi gettate nei fossi della strada, di carri fuori uso, di carogne di quadrupedi che si decomponevano al sole, sotto il negro volo dei corvi, nei campi di giunchiglie e di asfodeli. I bersaglieri mandati a presidiare la città e il porto di Prevesa incontrarono i resti di quell'esercito nei pressi di Nea Philippias. Erano cinquanta e forse sessantamila uomini stremati dalla dura guerra, dalla rapida disfatta, dalla faticosa marcia compiuta per oltre dieci giorni sotto l'incalzare dei nostri. Per via, durante le soste nelle cittadine e nei villaggi, la povertà degli abitanti li aveva illuminati sullo stato di estrema miseria in cui la Grecia era ridotta, e le notizie delle gesta del corpo di spedizione britannico li avevano convinti dell'inganno subìto. Ora se ne stJY:!.no senza più armi e senza più illusioni, fra le loro tende mimetiche, che sorgevano disordinatamente sulle scoscese pendici della valJe del Luros, in un sudiciume che aumentava ogni giorno. Nulla più li accomunava se non il colore di quei loro panni che andavano rapidamente perdendo ogni caratteristica di divisa militare. Ma a Nea Philippias avevano trovato una << intendenza >> che disponeva ancora d'una qualche riserva di viveri, e vi si erano avvinghiati. Sembravano naufraghi

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che non sapessero più da quale parte aspettarsi la salvezza. In tutta la Grecia continentale e insulare, che fu gradatamente occupata dalle nostre truppe, d'accordo con i nostri alleati, era la stessa miseria e lo stesso disorientamento. Soltanto Creta, ormai, rimaneva in mani britanniche. Duramente battuti sui più famosi campi di battaglia dell'antichità (le stesse Termopili avevano loro ispirato soltanto un'azione dì retroguardia destinata a migliorare le condizioni della fuga) gli inglesi si erano ben fortificati nella grande e bella isola di Minosse e di Arianna; nè pensavano si potesse mai scacciarli da quella preziosa chiave del Mediterraneo orientale, ove disponevano di truppe numerose, di armi modernissime, di abbondanti depositi di v'ettovaglie e di materiale bellico, e della protezione della loro superba flotta. In dieci giorni strappammo loro anche Creta. Alla magnifica conquista - nella quale il valore degli uomini e la potenza dei mezzi si adeguarono all'audacia della concezione strategica - le nostre forze armate parteciparono fin dal primo momento. Gli alpini tedeschi che a bordo di motopescherecci tentarono uno sbarco di sorpresa sulle coste dell'isola, furono scortati da siluranti italiane che con memorabile ardimento affrontarono grosse formazioni navali britanniche. Quattro incrociatori.furono affondati dalle nostre torpediniere e dai nostri aerosiluranti dell'Egeo. E fu in seguito a questo grave èolpo, e alle perdite ancora maggiori subìte ad opera dell'aviazione tedesca, che la flotta britannica s'indusse a disertare le acque cretesi. Il 28 maggio truppe italiane sbarcano nella baia di Seteja travolgendo le resistenze del presidio greco, ed occuparono rapidamente la parte orientale dell'isola prendendo contatto con le truppe tedesche che incalzavano gli ultimi reparti inglesi in fuga. I H Mas n e gli spaz'. :tamine itàliani penetràrono nella baia di Suda, e vi tro143


varono le carcasse delle navi da guerra e da trasporto che, a suo tempo, erano state colpite dai mezzi speciali d'assalto della nostra Marina. Invano gli inglesi tentarono di svalutare la gesta. Lo stesso Churchill vi si adoperò con la sua abituale disinvoltura. Ma senza successo. Tutti ricordavano quel che egli aveva detto pochi giorni prima, 1'8 maggio: « Difendiamo e abbiamo l'intenzione di difendere fino alla morte, senza pensare ad alcuna ritirata, i posti avanzati altamenti offensivi di Creta e di Tobruk >>. E il 23 maggio, quando ancora le vicende della singolare lotta potevano permettergli qualche illusione sulle sorti dell'isola, aveva detto : « Io manderò il mio augurio e il mio incoraggiamento agli uomini che combattono in quella che è una importantissima battaglia, che influirà sulla intera campagna del Mediterraneo». Nello stesso giorno ·il primo lord dell'Ammiragliato, Alexander, parlò anche lui della lotta che si svolgeva a Creta come di « una delle maggiori battaglie di qnesta guerra». E Radio-Londra disse: (( Creta rappresenta il cancello di entrata nell'Egeo. La conquista dell'isola darebbe al nemico la possibilità di un'utile e importante avanzata verso le basi egiziane. La posizione della nostra flotta nel Mediterraneo diverrebbedifficile, e Alessandria stessa sarebbe minacciata >> La conquista di Creta concluse la campagna balca- · oica, e ne consolidò e arricchì i risultati. La pace adriatica, la soluzione del problema dalmata, la creazione dello Stato croato, e la nuova sistemazione politica e territoriale degli altri Paesi balcanici in conseguenza del crollo jugoslavo e della sconfitta greca, rappresentano soltanto una parte dei vantaggi che la vittoria ci ha assicurati. Se negli ultimi tempi la situazione nel Mediterraneo ha segnato per noi così fà.vorevoli evoluzioni, lo si deve in cospicua misura alla conquista di tante importanti basi navali ed aeree, allo sbloccamento delle isole del Dodecaneso, al sicuro predominio delle acque

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dell'Egeo, alla liberazione delle vie dei traffici verso il Mar Nero. Ma il risultato più prezioso, ai fini generali della guerra dell'Asse, fu la eliminazione delle influenze nemiche dalla penisola balcanica. Nei Balcani cominciava ad imbastiisi la mostruosa collaborazione- militare, oltre che politica - delle democrazie col bolscevismo. Gli intrighi di strani <<diplomatici >> che nelle loro fughe solevano portare valigie piene di bombe, e le tenebrose e non disinteressate attività di politicanti e di generali, andavano creando nei Balcani un'insidia che avrebbe potuto manifestarsi con conseguenze imprevedibili. L'iniziativa italiana del 28 ottobre 1940 fu la provvidenziale, tempestiva, necessaria premessa all'azione con cui l'Asse doveva, attraverso una rapida serie di vittorie militari, assicurare la tra~quillità alle spalle e sul fianco degli eserciti parte-cipanti alla crociata antibolscevica. Nel suo discorso del 6 maggio 1941 il Fiihrer, felicitandosi del naufragio dei progetti nemici di costituzione d'un <<secondo fronte>> nei Balcani, diceva : « Noi siamo consapevoli che il merito di questo successo spetta in gran parte alla nostra alleata 1 tali a, che in una lotta di sei mesi sostenuta in condizioni difficilissime e con grandi sacrifici contro la Grecia, non soltanto paralizzò la massa principale delle formazioni greche, ma le indebolì al punto da rendere il loro crollo di per sè inevitabile n. Col passar del tempo, e con l'incessante determinarsi di nuove situazioni politiche e strategiche, la storica importanza della nostra guerra alla Grecia non fa che confermarsi. SALVATORE APONTE


"

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"QUESTA BATTAGLIA influenzerà lutto il corso della guerra... L'Esercito del deserto può aggiungere agli annali della sloritt un• pagina eguale a quelle di Blenheim e di Waterloo." W . CHURCHILL Mesnggio all'uercito e alla Flotte del 20 novembre 19.o(l

LE OPERAZIONI l N A F Rl C A SE TTEN TRl O N A L E DALL'INIZIO DELLA CONTROFFENSIVA ITALOGERMANICA DEL MARZO 1941 -XIX AD OGGI

libico è stato uno dei più movimentati di questa ldeiguerra. Su di esso l'Italia ha sostenuto da sola il peso suoi potenti avversari per ben nove mesi di aspra lotta, L FRONTE

e cioè dal ro giugno 1940 al febbraio 1941 quando a.rrestò decisamente l'offensiva del generale Wavell. Da tale epoca, alle forze italiane si aggiunsero in Libia quelle degli alleati germanici, trasportate attraverso il Mediterraneo ad opera della nostra Marina. La pressione delle forze dell'Asse su quel fronte obbligò i britannici ad impegnare contro di noi una grande quantità di forze « sceltissime » che vennero perciò a mancare in altri scacchieri con grave danno per l'Inghilterra. Offensive britanniche e controffensive dell'Asse si ripel terono sul suolo cirenaica senza che il nostro avversario riuscisse a raggiungere il suo scopo di espellerci dalla Libia e di dominare nel Mediterraneo. I più importanti avvenimenti bellici che si svolsero in Libia, dall'epoca sopra indicata ad oggi, furono rappresentati dalle seguenti operazioni : 1" controffensiva itala-germanica, dal 23 marzo al 13 aprile 1941-XIX; - 3" offensiva britannica, dal 15 al 17 giugno I94I-XIX;

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- 4" offensiva britannica, dal 19 novembre 1941 all'n gennaio 1942-XX; 2" controffensiva itala-germanica, dal 21 gennaio al 4 febbraio 1942-XX. Fra una operazione e l'altra si verificarono periodi di <<relativa n sosta caratterizzati da azioni a piccolo raggio, da colpi di mano, da ricognizioni, movimenti logistici ecc. Ciascun belligerante ne approfittò per rimettere « a punto ,, il proprio dispositivo bellico e per ostacolare con tutti i mezzi la preparazione del nemico. Con fierezza e riconoscenza rievochiamo qui di seguito in una breve sintesi l'opera eroica dei nostri soldati e dei camerati germanici durante gli avvenimenti predetti. /

l. - CoNTROFFENSIVA IT ALO-GERMANICA.

Per effetto della seconda offensiva britannica contro la Libia (9 dicembre 1940-7 febbraio 1941) il fronte di guerra si era spostato dalla zona di Sidi el Barrani al fondo della Sirtica. . Gli inglesi erano stati definitivamente arrestati, dalle nostre truppe, ad occidente di El Agheila. L'offensiva dei britannici- dato il loro scopo principale di annientare le nostre forze e conquistare anche la Tripolitania- era perciò da considerarsi strategicamente fallita. Essi ritenevano però di avere inflitto all'esercito italiano in Libia danni così gravi da renderlo, materialmente e moralmente, incapace di qualsiasi efficace reazione <<a breve scadenza)). Ritenevano altresì che la «strapotente flotta britannica,, avrebbe saputo impedire alla nostra Marina di far giungere in Tripolitania qualsiasi apprezzabile rinforzo. Prevedevano, per conseguenza, di avere tutto il tempo necessario per riorganizzarsi ed anche di poter distrarre forze dalla Cirenaica a favore della Grecia, prima che


nostre importanti iniziative si manifestassero sul fronte c1rena1co. Facevano infine assegnamento sul tempestivo sbarco in Egitto delle loro forze ancora impegnate contro i valorosi soldati del Duca d'Aosta. Ma tali calcoli erano assolutamente errati. Essi non si basavano sullo spassionato esame di fatti concreti o di situazioni ben conosciute, ma derivavano invece da una infondata svalutazione delle nostre possibilità materiali e sopratutto morali. La realtà era infatti ben diversa. Le truppe italiane, se per un complesso di circostanze sfavorevoli avevano dovuto sgombrare la Cirenaica, con perdite di effettivi e di mezzi, erano tuttavia ben salde, contrariamente a quanto volle far credere al mondo, per finj propagandistici, la stampa britannica. Fanti,_ artiglieri, avieri, anelavano ardentemente la nscossa. Tutti erano impazienti di misurarsi ancora col nemico per liberare il sacro suolo della Cirenaica e riportare il tricolore oltre le verdi terrazze del Gebel. La, nostra Marina - instancabile, silenziosa, eroica moltiplicò le proprie energie oltre ogni limite di possibilità umana e, nonostante la presenza in Mediterraneo di ingenti forze navali britanniche accorsevi da ogni dove e dalla stessa Inghilterra, seppe far giungere in Tripolitania numerosi convogli di truppe e di materiali italiani e germanici. I nostri marinai seppero « superare » le loro più gloriose tradizioni e scrivere sul nostro mare, insieme ai camerati dell'aria che dall'alto condivisero i loro rischi e le loro fatiche, pagine superbe di perizia, di sacrificio e di ermsmo. Per opera della nostra Marina il corpo tedesco d'Africa - guidato dal generale di C. A. Erwin R ommel, già distintosi per le brillanti vittorie riportate sui campi di battaglia d'Europa e che doveva, in terra d'Africa, confermal

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re le sue altissime doti strategiche e tattiche al comando delle truppe operanti dell'Asse - raggiunse la Tripolitania portando sul fronte libico tutta la sua potenza di grande unità sceltissima, altamente specializzata e addestrata per la lotta fra masse corazzate. Contemporan_eamente alle truppe germaniche affluirono sulla quarta sponda altri notevoli rinforzi italiani rappresentati da nuove unità, da complementi e materiali di ogni genere. L'opera di riorganizzazione pote' esser~ svolta con ritmo accelerato. Comandante superiore delle Forze Armate dell'Africa Settentrionale era il generale di C. A. comandante designato d'Armata Italo Garibaldi, già comandante della s· armata. Egli era noto per avere ricoperto importantissime cariche, in pace ed in guerra, in Europa e in Africa. Tra esse quella di comandante della divisione « Sabauda n durante la campagna italo-etiopica (battaglie dell'Endertà, di Mai Ceu e del Passo Mecan e marcia su Addis Abeba) e di capo di stato maggiore del Governo generale dell'A. O.l. durante la occupazione dell'ovest etiopico e le contemporanee operazioni di polizia in altri settori dell'Impero. ll nostro strumento bellico in Africa Settentrionale era, verso la metà di marzo, saldamente in piedi, accanto alle sopraggiunte forze germaniche, mentre gli eroici difensori dell'A.O.I. continuavano ad impegnare ingenti forze britanniche impedendo il loro afflusso in Egitto. La sorpresa dei britannici fu inevitabile.

n 24 marzo reparti itala-tedeschi conquistarono, con un colpo di mano, El Agheila e ne fecero base di partenza per l'ulteriore avanzata. Il comando inglese non dette importanza a tale operazione che rappresentava invece l'inizio della nostra nscossa. rso


Il dispositivo bellico itala-germanico era ormai in movimento per la controffensiva. A questa parteciparono una divisione corazzata germanica, la divisione corazzata «Ariete», la divisione di fanteria «Brescia» ed altri reparti italiani delle varie armi. Il r• aprile fu occupata Marsa Brega. Il 2 Agedabia e Zuetina, dopo vivaci scontri, caddero nelle mani delle truppe dell'Asse, che proseguirono verso oriente, su quattro colonne principali di cui facevano parte elementi italiani e germanici (*). Nella notte del 4 fu liberata Bengasi, dopo 57 giorni di dominio inglese. n 5 le colonne dell'Asse raggiunsero Zavia Msus, El Abiar e Tocra. Il 6 si accesero accaniti combattimenti presso El Mechili, dove forti unità corazzate nemiche furono fortemente agganciate. Nella stessa giornata fu occupata Barce. n 7. dopo altri duri combattimenti ai quali parteciparono anche ~eparti dell'« Ariete», furono conquistate El Mechili e Derna. Gravi difficoltà logistiche furono superate grazie allo spirito di sacrificio ed alla resistenza delle truppe italiane e germaniche e di tutti i servizi. Ai trasporti concorse efficacemente anche l'aviazione che scaricò i rifornimenti nelle stesse zone di combattimento. Il 9, una colonna italo-tedesca raggiunse, dopo aver travolto altre resistenze avversarie, la stretta di Hain El Gazala. Il giorno I I fu iniziato l'investimento della piazza di Tobruk ove si erano asserragliate non meno di tre grosse divisioni inglesi munite di imponenti mezzi di artiglieria; altre truppe dell'Asse proseguirono verso oriente. I11.2 fu occupata Bardia che invano i britannici tentarono di riconquistare con violenti contrattacchi di reparti corazzati appoggiati dall'aviazione. (•) V . schizzo n. 1 .


Il 13 le truppe itala-germaniche sboccarono in territorio egiziano e conquistarono Sollum, mentre altre unità completarono l'accerchiamento eli Tobruk da cui il nemico iniziò invano una serie eli potenti contrattacchi per aprirsi il varco verso oriente. Dopo soli 12 giorni dall'inizio della controffensiva, le forze dell'Asse avevano, in cameratesca ed ardimentosa collaborazione, liberato un territorio che gli inglesi, pure essendo allora formidabilmente appoggiati dalle navi da battaglia, da una potente aviazione e disponendo di numerosi reparti corazzati moderni, avevano conquistato in cinquantacinque giorni. Superbo il comportamento dei soldati italiam e germanici, anche contro le avversità del clima, specialmente nella fase conclusiva della manovra. Un ghibli di estrema violenza aveva avvolto, per intere giornate, in nembi di sabbia infuocata, uomini e cose, rendendo difficilissimi la vista e l'orientamento. Ma i soldati dell'Asse seppero dominare. sulla terra e nell'aria, anche gli elementi della natura. Essi avevano saputo percorrere, combattendo e mano:vrando, i mille chilometri, che separano El Agheila da Sollum, in 12 giorni. I primi 700 chilometri di territorio. da El Agheila a Derna, furono conquistati in soli 7 giorni. Si trattò veramente di una manovra H lampo ,, che rimarrà nella storia fra le più brillanti del genere. I britannici vi perdettero ingenti ·quantità di materiali e più di 2000 prigionieri fra cui 6 generali, senza contare i caduti e 1dispersi. Da allora il fronte si fissò provvisoriamente all•attezza eli Sollum e intorno alla piazza di Tobruk dove i britannici avevano concentrato abbondanti forze ben provviste di mezzi, assai numerosi in relazione all'ampiezza del fronte da difendere, ben trincerate ed efficacemente appoggiate. nei rifornimenti e nei combattimenti, dalla flotta. Gli inglesi tentarono insistentemente di sfondare il no-



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stro fronte d1 Sollum-Halfaya e di Tobruk, ma furono sempre respinti, con gravi perdite, dalle forze dell'Asse che frattanto ricevettero altri rinforzi italiani e germanici. I britannici intensificarono allora la loro preparazione per mettersi in grado di liquidare definitivamente la partita in Libia. Approfittando della loro libertà di navigazione nell'Oceano Indiano e nel Mar Rosso, essi organizzarono l'afflusso di imponenti forze in Egitto. Tra esse figuravano specialmente reparti corazzati provvisti di materiali- inglesi e americani - di tipi recentissimi e particolarmente studiati per la lotta nei terreni desertici. Nel giugno il comando britannico ritenne di aver raggiunto una potenzialità idonea al conseguimento del successo e sferrò un nuovo attacco nel quale impegnò tutte le sue migliori forze corazzate. Il .

LA TERZA OFFENSIVA BRITANNICA CONTRO LA LIBIA (*) .

Questa offensiva durò soltanto tre giorni, perchè il più potente strumento bellico britannico- rappresentato dalle masse corazzate - si infranse contro la saldezza incrollabile e l'abilità manovri~ra delle truppe i taio-germaniche. Primo obiettivo dei britannici era senza dubbio quello di distruggere la massa di manovra delle truppe dell'Asse e di sbloccare il forte presidio di Tobruk. Secortdo obiettivo : quello di impadronirsi della Libia. Alle 4 del I5 giugno il nemico lanciò le sue masse corazzate all'attacco, con estrema violenza e grande decisiOne. Lo sforzo principale fu rivolto contro Sidi Ornar e Halfaya. Le principali direttrici di attacco furono due: una. costiera, puntò da Bug Bug su Halfaya; l'altra, più in(*} V . schizzo n . z .

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terna, si diresse contro il centro del nostro schieramento, da Bir el Kreigat verso la Ridotta Capuzzo. Ancora più a sud, una colonna leggera nemica manovrò a largo raggio in. direzione di Sidi Ornar, verso l'ala destra del nostro schieramento, per avvolgerlo. Tali direttrici si spezzettarono durante la lotta in numerose altre direzioni di attacco che furono seguìte dai reparti minori in relazione ai còmpiti particolari di ciascuno. • I combattimenti furonq di estrema violenza. Alla fine della prima giornata i britannici, nonostante le ingenti forze corazzate lanciate nella lotta, non ottennero successi proporzionati alle perdite. Infatti essi : furono arrestati dinanzi alle nostre posizioni di Halfaya che resistettero con incrollabile saldezza alla marea nemica e costituirono sin dal primo morp.ento il «pilastro » più saldo dello schieramento itala-germanico. I valorosi soldati di Halfaya dettero uri glorioso esempio della importanza che possono assumere, nella economia generale della manovr~, le estreme resistenze degli « elementi fissi » di un sistema difensivo, anche quando essi, nelle alterne vicende della battaglia, restino isolati dalle truppe amiche; fecero qualche progresso, al centro, verso la Ridotta Capuzzo, che fu da essi sorpassata, ma non riuscirono a rompere il nostro schieramento. Più di sessanta carri armati britannici di medio e grosso tonnellaggio furono distrutti. Il giorno seguente ebbe inizio la controffensiva delle truppe dell'Asse le quali, su due colonne principali, passarono al contrattacco e, con una ardita manovra, aggi· rarono le masse avversarie che erano riuscite ad incunearsi nel nostro schieramento. Accaniti e rapidi combattimenti continuarono a svolgersi su tutto il fronte fino alla sera del 17 contro le forze


corazzate britanniche, che invano cercarono di riapn"Si la strada verso oriente. La colonna di destra riuscì a progredire da Sidi Ornar a Sidi Suleiman mantenendo nel frattempo in iscacco le forze della colonna avversaria più interna, comparse a sud di Sidi Ornar. Proseguì poi su Halfaya dove si collegò con le .nostre eroiche truppe di quel presidio che, per quanto isolate, avevano continuato a combattere strenuamente, contro forze assai superiori, senza perdere terreno. La colonna di sinistra, proveniente da Capuzzo, riuscì pure a raggiungere, combattendo, Sidi Suleiman ed a collegarsi con la predetta colonna e col presidio di Halfaya. Molte forze britanniche rimasero così chiuse in un cerchio di ferro e di fuoco, a nord di Sicli Suleiman. Esse tentarono invano, con accaniti contrattacchi, di apnrs1 un varco. Contro di esse le truppe dell'Asse combatterono una violenta e vittoriosa battaglia a cc fronte rovesciato ,, con direzione sud-nord. Una colonna meccanizzata britannica che tentò di sfuggire verso sud dalla cc sacca ,, di Alam bu Dibach, fu costretta da truppe germaniche a deviare verso est in una direzione di marcia lungo la quale erano stati opportunamente schierati numerosi reparti anticarro,· i quali le inflissero altre gravissime perdite. Fu questo un bellissimo esempio di perfetta cooperazione fra mezzi corazzati ed armi anticarro. Gravi furono le perdite del nemico. Tra esse più di 240 carri armati, rimasti sul terreno della battaglia, senza contare quelli danneggiati. Alla sera del 17 i britannici avevano perduto la partita. Essi erano rimasti privi della maggior parte dei mezzi corazzati che avevano concentrati in Egitto per l'offensiva. Dovettero perciò interrompere le operazioni. Le cause dello scacco britannico risiedettero, da parte inglese, nella errata valutazione delle possibilità morali e

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4A OFFENSIVA INGLESE CC BATTA GLI A DELl

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LEG.ENL>A lrufJpE> des/inale al 6/occo d/ Tobruc/1 t'allei di/eh~ del/a zona di IJarclla-S.'Omar 5oltvm-flat/aya

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materiali delle forze italo-germaniche, le quali in ogni circostanza si mostrarono superiori a quelle nemiche per valore, resistenza, addestramento, potenza di mezzi, ma specialmente per lo spirito combattivo. Gli inglesi però non vollero rinunciare alloro progetto di conquista ben valutando l'importanza che il possesso della Libia avrebbe potuto assumere per essi nell'anda. mento della guerra. Intensificarono dunque la loro preparazione facendo affluire in Egitto altre forze e rifornimenti da tutte le parti del loro ~m pero, dall'America e dalle stesse isole britanniche. Contemporaneamente essi cercarono, con tutti i mezzi, di ostacolare la nostra preparazione facendo, come sempre, particolare affidamento sulla loro flotta per bloccare le coste libiche e condannare le forze dell'Asse ad 1m ·p rogressivo indebolimento che avrebbe dovuto avere per noi gravissime conseguenze il giorno in cui i britannici avessero nuovamente tentato la grande prova. A tale scopo essi non esitarono a concentrare in Mediterraneo nuove forze navali a detrimento di altri scacchieri importantissimi nei quali formidabili interessi britannici erano in gioco. L'Inghilterra, pur di fare « la massa >> contro l'Italia, c< facilitò » i propri disastri in Estremo Oriente. Come si vede, sulle forze italiane e germaniche e specialmente sulla nostra Marina, aiutata validamente da sottomarini tedeschi, venne a cadere un altro gravissimo peso, che iffipose notevoli sacrifici. La Marina italiana fu anche questa volta all'altezza della situazione conseguendo risultati che, nelle stesse condizioni, nessuna altra marina del mondo avrebbe potuto mai superare. Le forze italo-germaniche dislocate sulla quarta spo,nda continuarono a ricevere i rifornimenti indispensabili per attendere con fiducia il nuovo urto britannico. Era ormai chiaro infatti che l'avversario stava !62


preparando la ~ua << quarta offensiva » contro la Libia con una tale imponenza di forze, da avere in mano- secondo i suoi calcoli errati- tutte le probabilità del successo. Durante questa fase di attesa e di preparazione, il Comando superiore delle Forze Armate dell'Africa Settentrionale era stato assunto, nel luglio, dal generale d'armata Ettore Bastico, governatore generale della Libia. Egli aveva già assolto, in situazioni anche assai difficili, numerosi ed importantissimi incarichi di pace e di guerra, in Europa ed in Africa. Tra essi : quelli di comandante della r• divisione CC. NN. << 23 Marzo » e del III Corpo d'Armata A. O. durante la campagna italaetiopica {battaglie del Tembien, dell'Amba Aradam e conquista di Socotà), di comandante del corpo di truppe volontarie in Spagna (battaglia di Santander) e di governatore delle isole italiane dell'Egeo durante l'attuale campagna. TJl. - LA QUARTA OFFENSIVA BRITANNICA CONTRO LA LIBIA.

Fu sferrata il 19 di novembre. Le manovre ed i combattimenti che ne derivarono possono considerarsi ripartiti, per quanto riguarda il fronte principale, fra le seguenti « fasi operative » : ~fase: battaglia della Marmarica; dal 19 novembre al 9 dicembre; 2• fase : arretramento strategico delle forze dell'Asse. dal r6 dicembre 1941 all'n gennaio 1942. La battaglia della Marmarica (*) ebbe inizio con un potentissimo attacco di truppe corazzate avversarie che, dalla zona di Sidi Ornar puntarono su Bir el Gobi con l'evidente scopo di travolgere le unità di manovra dell' Asse, attaccare alle spalle le truppe itala-germaniche impegnate nell'assedio di Tobruk, sbloccare questo presidio e proseguire rapidamente verso occidente fino alla frontiera tunisina. (*) V. schizzo n, 3.


Ciò fu confermato dalla stessa stampa anglo-americana e persino da Churchill, che non esitarono a preannunciare al mondo la famosa battaglia delle H due ore,, e la strepitosa vittoria dei « tre Cunningham >>. La parte fondamentale di questa manovra doveva consistere dunque -secondo il concetto d'azione del comando inglese - nel successo iniziale e decisivo contro le unità corazzate dell'Asse : tutto il resto sarebbe crollato automaticamente. Per assicurarsi al cento per cento la riuscita del H primo colpo n, il comando britannico destinò in prima schiera forze e mezzi sceltissimi che lanciò prevalentemente nella direzione di Bir el Go bi da esso ritenuta più agevole e redditizia. Ma le cose andarono in modo assai diverso. La massa di acciaio britannica incontrò anzitutto, salda ed incrollabile, la nostra divisione corazzata <e Ariete n che arrestò il nemico, gli inflisse gravi perdite, lo contrattaccò decisamente e lo respinse, col concorso di altre unità, verso oriente ove esso cadde sotto l'azione delle divisioni corazzate germaniche accorse frattanto alla battaglia. D superbo comportamento dell' «Arieten impose dunque il primo colpo d'arresto aJ nemico e gli impedì di conseguire la «sorpresa n sulla quale esso aveva fatto capitale assegnamento. Le valorose divisioni corazzate germaniche poterono cosi intervenire« a ragion veduta n nella lotta portandovi, a .pieno rendimento, il peso della loro potenza e della loro spiccatissima capacità manovriera. Ebbe così inizio una serie di manovre e di combattimenti accanitissimi che si ripeterono a brevi intervalli nel quadrilatero marmarico compreso fra Sidi Ornar, Sollum, Tobruk e Bir el Gobi e che si estesero anche più ad oriente, in terra egiziana. Questa battaglia superò senza dubbio, per durata, movimento, impiego di mezzi corazzati, intensità e persisten-



4À OFFENSIVA INGLESE C (16 dicembre 1941 • 11 gennaio 1942 · ·

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za di sforzi, tutte quelle combattutesi in Africa nell'attuale guerra. Le situazioni mutarono rapidamente, da una parte e dall'altra, di ora in ora; le unità si frammischiarono; i reparti operarono spesso isolati «in mezzo al nemico n; la lotta si spezzettò in minutissimi episodi. Non è perciò agevole ricostruire nei particolari e in ordine cronologico gli avvenimenti, fino a che le relazioni ufficiali non siano rese dì pubblico dominio. Sembra comunque sufficiente accennare che questa battaglia fu caratterizzata da tenacissime resistenze su posizioni che assolsero la funzione di u pilastri di manovra ,, e da un complesso di manovre arditissime, compiute da reparti corazzati, che si ricercarono, agganciarono, inseguirono, instancabilmente, quasi senza sosta, per giorni e giorni, sino all'annientamento dell'avversario oppure alla sua fuga dal campo della lotta. Nel loro insieme, gli avvenimenti più importanti della battaglia si svolsero: 1• intorno alla piazza di Tobruk; 2• sul confine orientale; 3• nel quadrilatero. Per molto tempo gli attacchi britannici, dall'interno e dall'esterno della piazza, contro le nostre truppe incaricate del blocco, fallirono di fronte alla saldezza dei reparti italiani e germanici, i quali arrestarono il nemico e lo contrattaccarono respingendolo con forti perdite. Si distinsero in quei combattimenti, da parte italiana, fra le altre truppe, quelle della « Bologna », della « Brescia n, della « T rento,, e della (( Pavia,,. Sul confine orientale gli attacchi nemici si rivolsero contro la nostra ferrea divisione u Savona ); e reparti germanici, schierati nella zona Sollum-Halbya-Sidi OmarBardia. Tutte quelle truppe, per la maggior parte frazionate in una vasta organizzazione di piccoli caposaldi, si copri-

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rono di gloria. Esse sostennero l'urto di forze cinque volte superiori e non cedettero neppure quando ebbero esauriti i viveri e l'acqua e continuarono a combattere sino all'arrivo dei rifornimenti che, affrontando gravi rischi, l'aviazione dell'Asse riusciva loro a far giungere sul terreno stesso della lotta. Col fuoco mirato dei loro pezzi anticarro inflissero al nemico gravissime perdite e l'obbligarono a mantenere su quel fronte notevoli forze, a detnmento delle sue operazioni verso occidente. Nella battaglia manovrata svoltasi al centro del quadrilatero si distinsero, da parte italiana, oltre all'« Ariete » -che scombussolò sin dall'inizio la manovra dell'avversario e gli distrusse ben 250 mezzi blindati -, la « Trieste», la «Trento>> e reparti di tutte le armi dell'esercito, nonchè un battaglione di autoblindate del Corpo dell'Africa Italiana e reparti della G.I.L. I servizi assolsero con grande abnegazione i loro compiti, assai difficili in quella particolare situazione. Queste truppe si impegnarono decisamente e persistentemente nella lotta dove ebbero parti di primissimo piano. Esse dimostrarono elevatissimo spirito offensivo, grande capacità manovriera e ferrea disciplina. Dal più agguerrito veterano al più giovane volontario della G.I.L, tutti i nostri soldati gareggiarono in ardimento con i valorosi camerati germanici infliggendo gravi perdite all'avversario ed intaccando seriamente le sue possibilità operative. Alcune brigate britanniche furono annientate; altre dovettero essere inviate nelle retrovie per riordinarsi; tutte le altre furono menomate notevolmente negli effettivi e . . ne1 mezz1. Mentre infuriava la battaglia in Marmarica, una colonna motorizzata britannica, largamente provvista di mezzi specializzati per la guerra desertica, si diresse da Giarabub verso la Sirtica. Gli inglesi ritennero che, per effetto della minaccia che tale colonna esercitava sulle lontane retrovie delle truppe I70


dell'Asse, il comando italiano fosse indotto ad abbandonare precipitosamente la Cirenaica. · Anche in questo il nemico si ingannò. La colonna desertica britannica, non osando « sboccare» da sola nella Sirtica, si limitò ad attaccare le oasi di Gialo dove il piccolo nostro reparto che le presidiava si batte' coraggiosamente infliggendo gravi perdite al nemico che continuò poi ad essere battuto quasi giornalmente dalla nostra aviazione. I soldati di Gialo furono degni di quelli di Giarabub e di Halfaya. l

In Marmarica l'avversario, nonostante le gravi perdite subìte, fu in grado di fare affluire sul campo di battaglia truppe fresche dalla zona di !\farsa Matruh. Altre truppe fresche furono, dalla zona del Delta, avvicinate alla frontiera occidentale egiziana. Evidentemente l'intenzione del nemico era quella di lanciare nella fornace ardente della lotta tutti i mezzi da esso portati <e a pie' d'opera>> in Egitto, allo scopo di annientare definitivamente le forze dell'Asse in Libia. n Comando delle truppe dell'Asse allora, pur avendo ancora nelle mani uno strumento di lotta ben saldo e capace di dare del filo da torcere al nemico, ritenne conveniente neutralizzare con la «manovra » la superiorità numerica dei britannici. Esso decise cioè di effettuare un arretramento strategico in modo da guadagnare « spazio n e «tempo » per riorganizzare e completare le proprie forze «fuori della pressione avversaria» emetterle in grado di passare al più presto alla controffensiva. Tale mossa, mentre avrebbe accorciato della metà la distanza fra lo schieramento italo-germanico e la base di Tripoli, ove intanto affluivano personale e mezzi dall'Italia, avrebbe invece raddoppiato la lunghezza delle comunicazioni britanniche, influendo senza dubbio ed in senso negativo sulle possibilità operative dei nostri avversari. !71


In definitiva, gli italo-germanici, approfittando delle gravissime perdite inflitte al nemico, vollero interrompere la battaglia in corso, per << riprenderla » più tardi ma in condizioni più favorevoli. Prima di iniziare la manovra vera e propria di arretramento, fu però necessario sganciarsi dal campo di battaglia e dal blocco di Tobruk. L'operazione, di natura assai delicata e difficile, fu effettuata fra il 9 e l'n di dicembre. Le truppe dell'Asse riuscirono ad assumere un nuovo schieramento all'altezza della stretta di Ain el Gazala trasportando alloro seguito la totalità dei loro mezzi, compresi quelli pesanti. Tale manovra sarà senza dubbio ricordata dai testi di arte militare come una delle più brillanti del genere. Basti considerare infatti che per effetto delle vicissitudini della lotta, reparti e unità dell'Asse erano profondamente incastrati nello schieramento dell'avversario e viceversa. Alcune nostre unità, come ad esempio quelle impegnate nel blocco orientale di Tobruk, stavano combattendo su due fronti : verso la piazza e verso l'esterno. Ciononostante, esse riuscirono a sfilare lungo uno strettissimo corridoio e a raggiungere le nuove posizioni. I movimenti di queste truppe, i loro stratagemmi e i loro contrattacchi per ingannare il nemico, oppure tenerlo a bada con eroiche retroguardie, furono talmente bene ideati ed attuati, che i britannici non riuscirono ad impedire la delicatissima manovra. Le truppe dell'Asse, dal nuovo schieramento, più « raccolto ed economico » rispetto a quello precedente, furono in grado di iniziare, in ottime condizioni di << sicurezza n, l'arretramento previsto. Le truppe italiane e germaniche schierate tra Sidi Omar-Bardia-Halfaya-Sollum furono lasciate invece sulla frontiera orientale alloro posto d'onore e di gloria. Esse continuarono ad assolvere il còmpito importantissimo e difficile di tenere impegnato il nemico da quella 172 /


parte impedendogli di lanciare tutte le sue forze verso occidente, contro la nostra massa di manovra. L'azione di queste truppe ebbe indubbiamente una influenza grandissima sul corso degli avvenimenti bellici in Cirenaica. Italiani e germanici seppero mantenere fino all'ultimo la dura consegna. Essi affrontarono per lunghe settimane il nemico contrastandogli il terreno palmo a palmo, in una nobilissima gara di eroismo e di sacrificio. cc I presìdi di Sollum e di Halfaya, accerchiati e ininterrottamente battuti da artiglierie di ogni calibro e dall'aviazione, rimasti da tre giorni, causa il maltempo, privi dei rifornimenti aerei, specie d'acqua, anche per i soli feriti, dopo due mesi di eroica lotta, sono stati costretti a desistere da ogni ulteriore ormai impossibile resistenza )). Queste sono le parole del Bollettino n. 595 del nostro Quartier Generale. Ad esse è superfluo ogni commento. La nostra divisione <<Savona)) ed i reparti germanici che combatterono al suo fianco, nei caposaldi sconvolti dai bombardamenti nemici ed arroventati dal ghibli, fra Bardia, Halfaya e Sollum, seppero ben meritare dalla Patria. L'arretramento strategico (*) delle truppe italo-germaniche si effettuò in perfetto ordine, secondo i piani prestabiliti. II nemico tentò insistentemente di scardinare il nostro dispositivo di manovra per annientarlo, ma fu sempre respinto con notevoli perdite. Anche nei numerosissimi scontri che ne seguirono, in tutte le manovre e contromanovre che furono effettuate sul Gcbel o nella zona pregebelica, le nostre truppe sostennero, in cameratesco concorso con quelle germaniche, parti importantissime. La divisione « Ariete)), nonostante illogorìo subìto in cento scontri e combattimenti, fu sempre presente nei punti più difficili. Essa confermò la sua fama leggendaria di divisione corazzata dallo spirito bersaglie(*) V. schizzo n. 4·

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resco e dagli uomini d'acciaio, capaci di qualsiasi ardimento. Le forze dell'Asse raggiun')ero il 15 di dicembre la zona Derna-Mechili; i12o quella Cirene-Barce; il23 quella di Bengasi-Sollum ed il 25 quella di Agedabia dove furono respinti numerosi altri attacchi di forze blindate inglesi che cercarono invano di chiudere alle nostre colonne la via della Sirtica. L'undici di gennaio il nostro schieramento raggiunse le posizioni prestabilite, fra Marsa Brega e Marada, sulle quali doveva essere definitivamente fermato il nemico e preparata la riscossa. · L'avversario infatti non passò. Anche la sua quarta offensiva era fallita e si era arenata, come un anno prima, davanti alla Sirtica. lV. - SECONDA CONTROFFENSIVA ITALO- GERMANICA. La nostra sosta nella Sirtica fu di breve durata. Il 21 gennaio, e cioè a soli 9 giorni di distanza dal termine del ripiegamento, le truppe italo-germaniche iniziarono la controffensiva (*). Esse dettero in tal modo la migliore conferma della H volon~arietà » del loro ripiegarnento. La sorpresa dei britannici fu completa. Essi ritenevano infatti di aver ridotto a mal partito le forze dell'Asse ed erano in procinto di riprendere le operazioni verso occidente. A tale scopo avevano già «spinto avanti» magazzini e depositi, i quali caddero subito nelle nostre mani, con grave danno per il nemico. Violentissimi combattimenti, tutti vittoriosi per l'Asse, si accesero nella zona di Agedabia, fra il 23 e il 25 gennaio. Ad essi parteciparono, in cameratesca collaborazione, truppe italiane e germaniche. Tra quelle italiane si distinse ancora la divisione << Ariete>> che portò nella lotta, col suo altissimo spirito offensivo, nuovi tipi di mezzi · blindati. 1*) V. schizzo n.

.s. 174


Sotto la sp:nta irresistibile delle truppe dell'Asse, i britannici dovettero rifare in senso inverso, ma assai più velocemente, il cammino percorso durante la loro offensiva. Contemporaneamente alle divisioni germaniche, ripresero la marcia verso oriente le truppe delle nu)Tierose divisioni italiane, i cui nomi erano ormai familiari ai nostri operosi coloni del Gebel che, per la seconda volta, avevano saputo affrontare con fierezza fascista il giogo dell'incivile nemico. Il 26 le colonne itala-germaniche occuparono Zavia Msus, il 29 Bengasi, il 30 Barce ed El Abiar, il 31 Maraua, il 1° febbraio Circne, il 3 febbraio Martuba e il 4 raggiunsero, sempre combattendo, la zona di Ain el Gazala in territorio marmarico, dove esse sostarono, secondo gli intendimenti operativi del nostro comando. Frattanto nostri reparti specializzati, e fra essi quelli della Polizia dell'Africa I taliana, iniziarono il rastrellamento del territorio gebelico per dare sicurezza alle retrovie e tranquillità alle operose popolazioni nazionali e libiche della Cirenaica. L'avversario perdette complessivamente, ne11e operazioni terrestri, dall'inizio della sua H quarta offensiva n, non meno di I.Ioo mezzi blindati: il che equivale, in carri armati, agli effettivi di ben tre divisioni corazzate. La ripercussione di tale scacco fu senza dubbio gravissima anche nel campo morale, tanto più che la propaganda nemica e lo stesso Churchill avevano in precedenza asserito che i britannici si erano esposti agli insuccessi dell'Estremo Oriente pur di vincere «con certezza>> le battaglie della Libia e del Mediterraneo. Ma anche queste battaglie erano state da essi perdute. Dal febbraio 1942 ad oggi il fronte orientale libico si è mantenuto all'altezza della stretta di Ain el Gazala, su posizioni che iJ nostro Comando ha ritenuto più convenienti in relazione ai propri concetti operativi. Sul fronte meridionale, negli estremi territori del Fezzan, due attacchi sferrati dal nemico contro alcuni nostri

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• presìdi, sono miseramente falliti sotto i colpi dei nostri va- • lorosi reparti sahariani della terra e dell'aria. Italiani e germanici hanno continuato a tenere fortemente agganciato l'avversario costringendolo a dislocare in Egitto imponenti forze, a detrimento di altri scacchieri dai quali giungono a Londra insistenti invocazioni di soccorso. Per opera delle forze italo-germaniche, gli anglo-americani concentrati in Egitto non possono accorrere alla frontiera dell'India dove gli inglesi sono gravemente minacciati. Gli sforzi dell'Asse sulla quarta sponda del Mediterraneo continuano ad avere la loro profonda ripercussione anche in oriente a vantaggio dei valorosi alleati nipponici. Al termine del nostro secondo anno di guerra, malgrado i rabbiosi tentativi e gli sforzi immensi fatti dai britannici per eliminarci dall'Africa, la Libia è sempre in nostro saldo possesso. Il nostro strumento bellico è sempre più forte. Attraverso il Mediterraneo esso continua a ricevere rifornimenti e rinforzi. La flotta britannica non è mai stata. capace di interrompere questo afflusso di uomini e di mezzi che marinai cd aviatori d'Italia. sanno far giungere regolarmente sull'altra sponda.. Le nostre superbe divisioni fronteggiano fieramente il nem1co. Esse anelano la. battaglia, decise ad impegnarvi tutte le loro forze, accanto ai camerati germanici, per la nostra vittoria e quella. del Tripartito. Col. ARTURO FERRARA


"LE TRE DIVISIONI ITAUANE sono rimaste per tuffo l'inverno salde al loro posto. " ADOLFO HITLER Oiscorao pronunci•to •l Reichst•g il 26 eprile 1942

L'EPOPEA DELLO C. S. l. R. 1941 scoppiavano le ostilità fra la GermaN nia e la Russia. I precedenti storici e politici di queEL GIUGNO

sta guerra son ben noti. Il patto d'amicizia firmato fra i due Governi nell'estate del 1939 era stato concepito da parte sovietica senza nessuna lealtà; esso anzi doveva essere una lustra che permettesse al Governo di Mosca di portare in tempo accelerato la propria preparazione militare ad un maximum di cui solo più tardi ci siamo potuti formare un'idea. A un certo punto le forze bolsceviche si sarebbero scatenate contro l'Europa per sommergerla. Ma il tenebroso disegno, per quanto ben dissimulato, venne scoperto. Il Governo del Reich ebbe tempestivamente l'impressione del pericolo, e, com'è buona norma, corse al riparo prendendo l'iniziativa delle operazioni. L'attacco germanico trovò un'enorme massa di divisioni sovietiche già schierate in prima linea, con intenti offensivi; ciò che permise alle armate germaniche, abilmente guidate, di distruggerla e di rompere anche la famosa u Linea Stalin », sistema fortificato formidabile a cui quelle divisioni si appoggiavano. Se non che la campagna era tutt'altro che finita. Le forze sovietiche si rivelarono assai maggiori di quanto i calcoli più accurati avessero fatto pensare. Si parlava di 250 divisioni complessivamente; si vide in pratica che Stalin poteva contare su almeno 450 divisioni, delle quali una metà dislocate in regioni lontane vennero fatte affluire via via per colmare i vuoti. La guerra, dunque, si do-

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veya protrarre, nonostante il carattere fulmineo delle prime vittorie germaniche. E cosi è stato. A questa guerra antibolscevica non poteva mancare la partecipazione italiana. I motivi ne sono ovvii. Si trattava di dimostrare ancora una volta la nostra solidarietà d'alleati con la Germania; si trattava di prendere ancora una volta posizione contro il bolscevismo; quel nemico d'ogni civiltà che l'Italia fascista aveva per prima affrontato e debellato. C'era inoltre l'occasione di mettere alla prova, in condizioni nuove ed estremamente interessanti, la nostra preparazione militare e la tempra dei nostri combattenti. Intervenendo in Russia, l'Italia di Mussolini ritornava là dove era andato l'esercito italico di Napoleone e dove si era battuto il piccolo esercito sardo di Vittorio Emanuele Il. L'occasione di distinguersi era ottima e non poteva esser lasciata cadere. Di fronte al formidabile schieramento delle forze germaniche, il nostro contributo non poteva a vere un rilevante valore quantitativo; ma ciò non vuoi dire che dovesse essere insignificante o puramente dimostrativo. Non si tratta va di mandare contro i bolscevichi una « legione di rappresentanza 11 o un corpo di volontari, per un.semplice fine d'affermazione morale. Si voleva, giustamente, che il peso delle nostre anni si facesse realmente sentire, nei limiti della possibilità materiale, imposti dalla lontananza e dalle altre esigenze della nostra guerra. Venne decisa pertanto la formazione di un Corpo Speciale d'Operazioni che avesse l'entità d'un corpo d'annata ordinario con qualche particolare adattamento suggerito dallo speciale scacchiere in cui era destinato a combattere. L'apprestamento fu rapidissimo. Le ostilità tedescosovietiche erano incominciate il 22 giugno, e già il 26 giugno, in una località della Valle Padana, Mussolini passava in rassegna la prima divi:;ione motorizzata che doveva far parte del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (C.S.I.R.) come fu chiamato. Le altre due unità vennero pure rapidamente approntate. Si trattava di tre belle dir78


visioni in totto : la «Torino n, la «Pasubio» e la divisione celere «Duca d'Aosta». Esse avevano la formazione consueta, che aveva dato, in tante altre circostanze di guerra o di manovre, ottima prova; solo si era provveduto a una più ricca motorizzazione e si era assicurato al comando del Corpo una certa quantità di complementi destinati a supplire alle prime perdite prevedibili senza aspettare che affluissero dalle lontane basi italiane. L'equipaggiamento delle truppe era stato molto curato; abiti e calzature specialmente fecero eccellente prova, nonostante che le circostanze superassero in durezza quanto si poteva umanamente prevedere. Lo stesso deve ripetersi per quanto riguarda l'armamento. Le nostre unità ricevettero l'armamento ordinario delle divisioni italiane, che si dimostrò all'altezza di ogni necessità; il munizionamento, nonostante le difficoltà dei trasporti, fu sempre sufficiente ed anzi assicurato con larghezza, tanto per quanto riguarda va le artiglierie, che le armi portatili. Il Duce aveva voluto che anche la M.V.S.N. partecipasse alla gloriosa impresa di Russia. Una Legione di Camicie Nere d'Assalto venne da Lui passata in rivista all'ippodromo di Mantova e parti subito dopo per la fronte orientale. Quei baldi battaglioni vennero tosto impiegati a fianco delle unità dell'Esercito e scrissero pagine bellissime d'ero~smo durante tutta la campagna, affermando ancora una volta la fraternità d'intenti e di spiriti tra le Forze Armate dell'Italia fascista. Al Corpo di Spedizione venne assegnato per comandante il generale di Corpo d'Armata Giovanni Messe, un antico bersagliere ed ex ardito della guerra italo-austriaca, le cui gesta sul Col della Beretta e altrove sono rimaste leggendarie. Più di recente, in ! spagna e oltremare, questo generale, uno tra i più giovani del nostro Esercito, aveva dato prove insignì di intelligenza, di valore, di capacità di comando e tali doti doveva confermare nel modo più brillante durante la campagna di Russia, ottenen179


do per sé e per le sue truppe replicati e co~diali riconoscimenti da parte dei superiori comandi germanici. Lo C.S.I.R. doveva essere e fu impiegato nel settore meridionale della fronte orientale; esso doveva pertanto coordinare le sue mosse col gruppo d'armate meridionale germanico, al comando del maresciallo von Rundstaedt, comprendente l'Annata von Reichenau, l'Armata von Stuelpnagel, il gruppo corazzato von Kleist, un contingente slovacco. A fianco dei nostri si trovavano anche il contingente ungherese e il gruppo d'armate tedesco-romeno al comando del maresciallo Antonescu, comprendente la terza e quarta Armata romena e l'Armata mista von Schobert, poi von Manstein. Di fronte ai nostri si trovava il formidabile gruppo di armate sovietiche. al comando del maresciallo Budienny, schierato alla difesa dell'Ucraina e della Crimea, appoggiato a fortissime posizioni ed a linee naturali difensive di primo ordine, come quelle che consistevano in corsi fluviali imponenti, disposti di traverso alle nostre direttive di marcia. Il lavoro da compiere era pertanto assai duro per le forze degli eserciti alleati antibolscevichi; c'era da fare per tutti. Lo C.S.I.R. si prodigava subito, richiamando l'attenzione per lo zelo, la rapidità, l'efficacia delle sue iniziative. Esso aveva veramente bruciato le tappe per arrivare al più presto ad affiancarsi agli altri corpi alleati. Aveva percorso già più di 1000 chilometri, di cui grandissima parte a piedi, quando prese contatto col nemico, nei primi giorni d'agosto. Si doveva procedere al forzamento del Nistro, e la tenace resistenza nemica sul grande fiume venne infranta dopo una grandiosa azione d'artiglieria, alla quale partecipavano le nostre batterie pesanti facendo massa con quelle germaniche. Ma venne subito l'occasione di mettere alla prova lo slancio delle nostre fanterie, quando gli Alleati passarono all'inseguimento del nemico fra Nistro e Bug, nella battaglia detta «dei due fiumi». Nei giorni II e 12 agosto 180


la nostra divisione « Pasubio » impegnava in duri combattimenti le retroguardie sovietiche, le ributtava su Nicolaiev, ne catturava gran parte conquistando anche un ricco bottino di armi, munizioni e materiale vario. Senza attardarsi, nei due giorni seguenti, con una resistenza meravigliosa, i nostri superavano la distanza tra il Bug e il Nipro, respingendo oltre questo fiume gli ultimi nuclei avversan. Ai primi di settembre tutto lo C.S.I.R. si era attestato sul Nipro, assumendosi la responsabilità di un vastissimo settore che aveva per centro Dniepropetrosk. Bisognava ora passare il fiume, su cui non esistevano ponti : i nostri meravigliosi genieri si misero all'opera, e dopo essersi spostati dal Bug al Nipro in sole 24 ore, riuscivano a gettare un ponte su questo fiume nonostante la violentissima reazione avversaria, che li aveva costretti a ripeterne per ben undici volte la costruzione ! . Per avere un'idea delle distanze superate dallo C.S.l.R. basti osservare che per giungere sul Nipro esso aveva dovuto compiere ben 8oo chilometri dalle basi romene, le quali alla loro volta si trovavano a una distanza più che doppia dalle basi italiane di partenza. Ciò fornisce anche la misura dello sforzo logistico, veramente colossale, che importavano i rifornimenti di materiale bellico e di gran parte dei viveri, nonchè i servizi : sanitario, postale e simili. Tuttavia, per la buona volontà di ciascuno e per l'ottimo funzionamento dei comandi, nulla è mai mancato ai nostri soldati, ai quali sono giunti anche, come conforto materiale e morale, i doni mandati dall'Italia in larga misura e sempre così graditi ai combattenti. Alla metà di settembre l'alto comando germanico svolgeva le operazioni conclusive per l'occupazione di Poltava. Ad esse partecipavano i nostri con brillante azione di reparti celeri. Ma la prima operazione in grande stile, che lo C.S.I.R. svolse con sicurezza e genialità d'azione, contribuendo ef-


fi.cacemente alla buona riuscita d'una grandiosa manovra d'avvolgimento condotta dal gruppo von Rundstaedt, è quella che prese il nome di battaglia di Petrikowka, durata tre giorni (28, 29 e 30 settembre) e terminata con una piena vittoria dei nostri. n compito affidato allo C.S.I.R. era di eliminare un poderoso cuneo che i sovietici avevano creato in un'ansa del fiume Oriol e che si opponeva ad ogni possibile a vanzata delle forze alleate sulla linea del Nipro. P erciò la « Pasubio », dopo aver forzato il passo dell'Orio! creando una testa di ponte di là dal fiume e dopo aver ricacciato il nemico nel violento combattimento di Zaritschanka, aveva fino dal 27 settembre creato le condizioni indispensabili per procedere oltre, assicurando al tempo stesso il fianco delle forze corazzate tedesche del von Kleist. Il 28 mattina la Divisione «Torino» si moveva dalle posizioni di Dniepropetrosk per respingere il nemico lontano dal Nipro. Dopo una forte azione d'artiglieria e con la collaborazione delle forze aeree, sempre attive nel cielo di Russia come dovunque le aveva portate la sorte della guerra, la «Torino» prima di mezzogiorno aveva raggiunto i suoi obbiettivi. Nel frattempo anche la « Pasubio>> iniziava il movimento oltre il corso dell'Orio!; e il giorno seguente presso Petrikowka le due unità si congiungevano, bloccando in modo irreparabile le forze sovietiche rimaste nella sacca. Per decidere l'esito trionfale della brillante manovra, la divisione celere « Duca d'Aosta » traghettava il Nipro e con punte audaci, travolgendo le resistenze nemiche, prendeva anch'essa contatto con le altre due unità, iniziando quindi rapidamente il rastrellamento dei reparti avversari circondati nella zona. Questo veniva compiuto il giorno 30, assicurando ai nostri la cattura di ro.ooo prigionieri, oltre un grosso bottino; le perdite dei russi in morti e feriti erano certamente state anche maggiori; mentre relativamente minime erano quelle dello C.S.I.R., data l'abilità con la quale era stata concepita ed eseguita la manovra avvolgente.


Bisogna notare che la resistenza delle forze bolsceviche si era mantenuta vigorosissima dal principio alla fine, ed era stata condotta con larghissimo impiego di mezzi, specialmente carri armati e mine sparse sul terreno, che ostacolavano grandemente l'avanzata dei nostri. Ma tutto fu superato di slancio, in tre giorni di fortunati combattimenti. Instancabili, i nostri inseguivano il nemico e lo sconfiggevano ancora presso Paulograd, superando le difficilissime condizioni del terreno paludoso e intersecato da fiumi e torrenti che, nell'autunno avanzato, già cominciavano ad allagare il paese trasformandolo in un immenso pantano. Si vide allora come la resistenza fisica e l'ingegnosità dei nostri soldati permettesse loro di vincere non solo le tenaci resistenze nemiche, ma anche le peculiari difficoltà del clima e del terreno, aggravate dalla pessima manutenzione delle strade e dal bassissimo livello di civiltà in cui il regime bolscevico aveva abbandonato la disgraziata Ucraina. L'azione di Paulograd torna dunque ad alto onore del nostro C.S.I.R. La marcia d'avvicinamento verso questo importante caposaldo rosso cominciò il IO ottobre in mezzo al fango vischioso e sotto una pioggia insistente; gli automezzi affondavano sulle pessime piste, tanto che più volte le truppe li lasciarono indietro e proseguirono a piedi trasportando a spalle anni e materiali. Infine vennero le prime nevi e i primi geli, che non impedirono alle nostre unità di raggiungere Paulograd ed espugnarla dopo violenti scontri catturando altri prigionieri e molto materiale (15 ottobre). Il successo incoraggiò i nostri a proseguire oltre senza interruzione. L'obbiettivo più importante che si presentava nella regione era la città industriale di Stalino; centro abitato notevole, nodo ferroviario prezioso, sede di grandiose fabbriche e di grandi magazzini e depositi militari. Per giungervi, bisognava passare altri fiumi e torrenti profondi, il Mokjie, lo Schije ed altri ancora; la funzione ri-


tardatrice di questi ostacoli era tanto più incomoda, in <:IUanto a noi premeva di arrivare sull'obbiettivo prima che i rossi, secondo il loro costume, avessero svqlta la barbara opera di distruzione a cui essi sottoponevano ogni' centro abitato prima di abbandonarlo. I campi minati, le interruzioni stradali, il brillamento dei ponti rendevano oltremodo faticosa l'avanzata; tuttavia la divisione celere, fra il I8 e il Ig, riusciva ad espugnare Masimilianoska, mentre la << Pasubio » teneva agganciato il nemico presso Grishino. Un altro gruppo di formazione si lanciava con· tro Novopauloska occupando anche questa località. Infine, la sera delzo ottobre alle ore 20 le nostre avanguardie raggiungevano i sobborghi di Stalino; nella notte e il giorno dopo si combatteva per le vie della città, che veniva alfine totalmente occupata. La vittoria coronava così l'abile condotta dei comandi e la ferrea resistenza delle truppe, mentre costituiva anche un degno premio all'organizzazione d'insieme che aveva superato in modo magnifico tutti gli ostacoli. Si vide infatti in quelle settimane quanto valore avesse il criterio adottato, di dare allo C.S.I.R. ed ai suoi singoli reparti il massimo dell'autonomia. Infatti il Corpo di Spedizione aveva assunto, pur nella sua limitata consistenza, la struttura di una forza armata veramente completa e capace di adattarsi a tutte le esigenze ed a tutte le combinazioni del combattimento, con le sue grandi unità di fanteria motorizzata, le truppe celeri d'esplorazione e eli assalto, la cavalleria e i carri armati, le artiglierie divisionali e quelle di corpo d'armata, le specialità del genio e infine una forte e audacissima aliquota d'aviazione, il cui contributo fu sempre prézioso e che seppe sempre, benchè inferiore di numero a quella nemica, dominare completamente il cielo. L'occupa.zione di Stalino, avvenuta mercè un'ampia mossa aggirante operata dal corpo celere, mentre la «Pasubio» scaglionata sulla sua sinistra proteggeva il fianco esterno delle nostre colonne marcianti, fu un vero


capolavoro tattico; essa fu inoltre scrupolosamente sincronizzata con le mosse delle colonne alleate germaniche, le quali appunto in Stalino s'incontrarono con le nostre avanguardie. Il comando germanico espresse la sua ammirazione per la rapidità della nostra avanzata, che oltre tutto ci era costata solo perdite relativamente lievi, perchè il nemico, sorpreso, si era precipitosamente ritirato col grosso verso est. Terminava così, press'a poco, la prima fase operativa dello C.S.I.R., il quale tuttavia non sostava e ampliava la sua occupazione nella regione del Donez, che doveva quanto prima assumere un'importanza enorme nel quadro generale delle operazioni.

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L'inverno era alle porte. Esso recava seco i più complessi problemi, specialmente logistici. Bisognava sistemarsi per la cattiva stagione la quale, oltre ad essere precoce, si annunzia va di un eccezionale rigore. Il gelo atroce immobilizzò presto le fronti contrapposte, ma non assicurò affatto ai combattenti il riposo a cui avrebbero avuto diritto. Esso anzi creò una situazione tattica singolarmente ardua, a causa della ripresa controffensiva delle forze sovietiche, rinnovellate e accresciute per l'afflusso di nuove unità provenienti dalle varie regioni del Caucaso e della Siberia; unità non solo ben allenate contro il freddo, ma equipaggiate per la campagna d'inverno con straordinaria cura, fomite di mezzi di trasporto meccanici eccellenti, con carburante e lubrificanti atti a resistere alle più basse temperature: un complesso, insomma, veramente pericoloso e tale da imporre a qualunque avversario gli sforzi più eroici. Ma l'avversario che stava di fronte ai bolscevichi, cioè il Corpo di Spedizione italiano, fu all'altezza del suo còmpito. Il Comando, seguendo le istruzioni generali dello Stato Maggiore germanico già convintosi della necessità di assumere uno schieramento difensivo, provvide a riti-


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rare in tempo alcune punte troppo avanzate e a sistemarsi sopra una linea di resistenza che, oltre ad avere la maggior solidità possibile, fosse anche tale da assicurare alle truppe un minimo di conforto e di riparo durante il terribile inverno che stava per sopraggiungere, che anzi era giunto. La fredda stagione non aveva còlto i nostri comandi impreparati. L'equipaggiamento delle truppe, con abbondanti indumenti di lana e la pesante pelliccia, nonchè le ottime calzature, costituiva quanto di meglio si potesse umanamente fare in proposito. Gli italiani avevano fatta un'eccellente esperienza di guerra invernale nel precedente conflitto, che aveva tenuto impegnate intere unità, e non solo d'Alpini, sulle vette del Cevedale e dell'Adamello, dove le temperature di 15-20 gradi sotto lo zero potevano considerarsi ordinarie. lvi si era constatato con compiacenza come anche i soldati meridionali, avvezzi ai miti inverni delle loro terre, potessero benissimo sostenere il freddo più rigido. Ma sulla fronte russa ogni precedente esperienza fu sorpassata; il termometro scese spesso e si mantenne a lungo a 35 gradi negativi, spingendo alcune punte fino a 40 e 45 gradi; fra le più basse temperature, dunque, constatate a memoria d'uomo l Si ricordi, per fare un confronto storico eloquente, che durante la disastrosa ritirata di Napoleone da Mosca, la temperatura più bassa fu di 25 gradi sotto zero. A tali intensi freddi l'organismo umano non resiste senza adeguati ripari. Non è possibile pertanto tenere truppe all'aperto o sotto le tende; occorre ricoverarle in case o in capanne, per quanto modeste, tali da permettere di accendervi un po' di fuoco. Pertanto la linea di schieramento prescelta doveva coincidere col maggior numero possibile di villaggi o altri centri abitati minori, mentre nelle retrovie era necessario che si trovassero centri più importanti per sistemarvi i comandi e dare una qualche maggiore comodità ai servizi e alle· truppe in riposo. Si sa che nell'altra guerra in generale furono evitati i villagr86


gi, come obbiettivi troppo facili al tiro delle artiglierie e dell'aviazione; in questa guerra si è fatto spesso il contrario; i centri abitati, convenientemente sistemati, sono divenuti appigli difensivi importanti. D'altronde, sulla fronte russa, in pieno inverno, non c'era che da scegliere fra lasciare assiderare i soldati in trinceramenti scoperti, oppure dar loro per ricovero le capanne dei miseri villaggi ucraini. La seconda soluzione evidentemente s'imponeva.

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Ma la guerra non è stasi; essa non permette ad un esercito di restarsene fermo sopra una linea preordinata; occorre rifornirlo; occorre preservar!o da sorprese; occorre, qualora siano state perdute posizioni importanti, ri- • conquistarle. Perciò lo C.S.I.R., con tutti i suoi elementi, nonostante la sua apparente immobilità, fu invece sempre in movimento; movimento logistico, per il funzionamento dei servizi; movimento tattico, in quanto gli fu necessario difendersi e contrattaccare per mantenere saldo e integro lo schieramento più volte minacciato dall'irruente controffensiva bolscevica. Tutto ciò richiese ai combattenti, come al personale addetto ai servizi, sforzi veramente sovrumani. Le lunghe colonne di automezzi furono sostituite dal traino animale, perchè il freddo incantava i motori, sconnetteva i congegni più delicati, inceppava talvolta le armi. Nella neve profonda, che celava scoscendimenti paurosi, i carri armati non potevano avanzare. La stessa aviazione era costretta ad accorgimenti speciali, lunghi e penosi, per mettere in azione i suoi apparecchi bloccati dal gelo, mentre i ghiaccioli che si formavano sulle ali costituivano un continuo pericolo e imbarazzo durante il volo. La sistemazione difensiva della fronte impose altre dure fatiche, per la necessità di collegare, con camminamenti scavati nel suolo indurito dal gelo, i principali capisaldi difensivi. Per settimane intere i nostri soldati, confermando la fama che godono gli italiani di abilissimi ter-

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razzieri, lavorarono a costruire quella rete di corridoi che permetteva di spostarsi al coperto da un punto all'altro della fronte, per meglio resistere agli attacchi che si prevedevano violenti. Frattanto il freddo cresceva. Ma il nostro soldato mostrava, nell'affrontarlo, la stessa salda natura che gli aveva permesso di sopportare il caldo intenso del clima africano. La facoltà di adattamento dell'italiano ha brillato in questa guerra in modo veramente stupendo, poichè egli ha saputo muoversi, vivere e combattere con lo stesso mirabile slancio sulle ambe abissine, sotto torrenti di pioggia in Libia, sotto il soffio impetuoso del ghibli; in Russia sotto il tormento di temperature glaciali, rese ancora più terribili dal fortissimo vento della steppa. Ciò potrà stupire, del resto, solo chi non conosce la storia; solo chi ha dimenticato o ignora le alte capacità fisiche e morali de] nostro popolo, avvezzo a emigrare e a lavorare con superbo rendimento sotto tutte le latitudini e nelle condizioni più avverse di clima e d'ambiente. Così nei tristi villaggi dell'Ucraina liberata dal bolscevismo, nelle isbe dove spesso accanto ai nostri seguitavano a vivere le povere famiglie di quei contadini, neJle città industriali dove la barbarie russa a v eva lasciato solo squallide tracce di distruzione, i soldati italiani si apparecchiarono ad affrontare le ire dell'inverno e gli assalti del nemico. La situazione strategica del Gruppo d'Armate del Sud . era buona. Ma, come sempre accade, dopo le offensive più audaci, che si sono dovute interrompere per ragioni estrinseche (in questo caso il sopravvenire dell'inverno) c'è sempre da prevedere un periodo di crisi dovuto alla controspinta che l'avversario, se è ancora valido, ha tutto l'interesse di sferrare durante la fase di assestamento. Alla fine d'ottobre tutta la regione del Donez era stata occupata dagli Alleati, i quali, conquistata anche l'intera Crimea tranne· Sebastopoli, si erano spinti con l'ala sinistra fino a Carchov, con la destra fino a Taganrog; una

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punta, costituita da poche migliaia di soldati tedeschi, aveva potuto occupare di sorpresa perfino Rostov, importantissima testa di ponte sul Don. Quest'ultima conquista non fu però mantenuta; la controffensiva sovietica, condotta con enorme prevalenza di numero e di mezzi, indusse il comando germanico a lasciare Rostov; ma su tutto il resto della fronte lo schieramento nel suo complesso resiste'. Come tutti ricordano, anche i tentativi furiosi e ripetuti dei russi di riconquistare la Crimea fallirono sanguinosamente, benchè condotti con grandi forze e sostenuti dalla flotta da guerra sovietica. In questa vicenda, quale fu la parte sostenuta dallo C.S.I.R.? Non è esagerato asserire che essa fu importantissima; maggiore senza dubbio di quanto poteva presumersi, data la relativa esiguità delle forze a disposizione. Il nostro Corpo di Spedizione non solo ha potuto in questo duro inverno affermarsi moralmente, ma ha, in modo effettivo, contribuito a salvare una situazione, che più volte pote' sembrare pericolosa .

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Fino dal 20 dicembre la nostra ricogmz10ne aerea, sempre infaticabile, nonchè altre informazioni raccolte per diverse vie, diedero la conoscenza, al nostro Comando, di imponenti addensamenti di forze sovietiche nelle posizioni antistanti. La burrasca si profilava specialmente grave contro la divisione« Duca d'Aosta H, già molto provata per i recenti spostamenti e combattimenti. I rossi si erano accorti che la divisione celere serviva per saldare il nostro schieramento con quello germanico; sopraffacendola, essi avrebbero separato bruscamente le forze alleate e avrebbero potuto incunearsi fra di esse, aggirandone quindi i tronconi, con pericolo manifesto dell'intera fronte difensiva. Infatti, dietro alle unità di rottura sovietica stava già pronta una grossa massa di cavalleria destinata a sfruttare il primo successo, sul quale l'avversario pareva contare in modo assoluto l '

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L'offensiva si sferrò la mattina del Natale, forse per un cinico calcolo dei comandi sovietici, i quali s'illudevano che quel giorno trovasse i nostri immersi in una deprimente nostalgia. La valanga si scatenò specialmente, com'era previsto, sulla divisione celere, la quale si trovò a dover resistere contro forze almeno cinque volte sùperiori. Ma l'insieme tenne duro, e qualche caposaldo a vanzato che era rimasto isolato, resiste' fino al momento in cui fortunati contrattacchi vennero a liberarlo. Le dense formazioni d'assalto sovietiche subirono ingentissime perdite sotto il fuoco preciso delle nostre armi; fuoco che era stato accuratamente predisposto e che venne regolato e diretto con grande abilità dai comandi. Il giorno successivo la divisione « Duca d'Aosta », benchè stanchissima, passava al contrattacco, mentre altre unità nostre sul suo fianco tenevano impegnato il nemico con utili azioni di alleggerimento. Cosi, dopo tre giorni di battaglie, non solo tutte le nostre posizioni erano state riprese, ma si erano in più punti raggiunte le posizioni di partenza dell'avversario. Questo si era battu~ con grande ostinazione e coraggio; la cavalleria, non più tenuta in riserva, era stata dai comandi bolscevichi gettata più volte nella battaglia, col risultato di procurarle perdite spaventose. Il 29 dicembre cominciava la nostra vera controffensiva. Tutte e tre le divisioni dello C.S.I.R. avanzavano, conquistando posizioni tatticamente importanti, parecchi chilometri dietro il primitivo schieramento dei rossi. Opportunità logistiche e d'insieme consigliarono ai nostri di limitare qui la riscossa, apprestandosi a sostenere validamente altri urti, che non mancarono; specialmente ostinata fu la seconda offensiva invernale sovietica, che durò sporadicamente per tre settimane in febbraio, senza ottenere alcun resultato. Ma la « battaglia del Natale ~>, come fu chiamata, resta sempre fino ad oggi la più bella pagina dello C.S.I.R., per le condizioni estremamente difficili in cui fu combattuta e vinta. Di fronte ad un nemico allenato ai grandi freddi, equipaggiato con grande ricchezza, buon I <)O


cùnoscitore del paese, spinto all'attacco dal fanatismo t dal terrore, sostenuto dalla consapevolezza della propna superiorità numerica, i nostri ripeterono le eroiche gesta dei fanti del Grappa, del Piave, di Cheren e dell'Halfaia, dimostrando che la tempra del soldato italiano è sempre la stessa. Si noti che i rossi, oltre al vantaggio del numero, godevano anche di quello logistico, perchè alle loro spalle esisteva una ricca rete di strade trasversali alle loro retrovie, che permettevano facili arroccamenti e sicuri rifornimenti. Ma il nemico fu veramente « surclassato » dalla nostra capacità tecnica, dalla superiorità dei comandi, dal superiore addestramento delle nostre truppe nel campo morale come in quello puramente militare. Durante tutta la campagna d'inverno, che col febbraio poteva dirsi più o meno chiusa, si ebbero episodi brillantissimi di valore individuale e collettivo, di cui qui è possibile ricordare solo i principalissimi. Famose sono rimaste le gesta della colonna Chiaramonti, durante l'inseguimento delle forze russe cacciate da Stalino. Mentre l'Unità Celere e la H Pasubio» incalza vano per via ordinaria i rossi, la colonna speciale del colonnello Chiaramonti doveva avanzare direttamente per la campagna solcata da pessime piste, a fine di proteggere il fianco sinistro delle maggiori unità. Preso contatto con l'avversario, la colonna si trovò a dover combattere contro forze più che doppie. Duri scontri si ripeterono, spesso più volte in una stessa giornata. Una volta una nostra semplice pattuglia d'arditi riusciva a catturare un intero plotone di esploratori russi, dai quali si apprese che il nemico stava per sferrare un attacco in forze. Per avere più sicure informazioni, il comandante la colonna faceva uscire allora due plotoni di arditi, comandati da due giovanissimi sottotenenti; ma appena usciti, i nostri prodi erano attaccati da due compagnie sovietiche; dopo un'intera giornata d'impari lotta, i nostri riuscivano di viva forza a rompere il cerchio, respingendo il nemico. 191


Poco dopo l'episodio si ripeteva su p il\ larga scala per l'intera colonna Chiaramonti, alla quale stava di fronte tutta una divisione sovietica rinforzata da artiglieria e da reparti speciali; la lotta durò ben cinque giorni; i nostri, accerchiati, tenevano duro, fìnchè, accortisi di un primo cedimento del morale dei rossi, passavano al contrattacco travolgendone le forze di tanto superiori l Sempre in quel brillante periodo operativo, l'intero C.S.l.R. si distingueva lottando contro ben quattro divisioni sovietiche; i suoi successi gli procuravano gli elogi del generale von Kleist; ed al generale Messe veniva conferita la croce di ferro di prima classe. Altri episodi magnifici di valore si ebbero naturalmente durante la battaglia di Natale, in cui si distinsero, nelle circostanze più critiche, specialmente il 3o reggimento bersaglieri e la 63" Legione Camicie Nere. Gli ufficiali superiori si prodigarono anch'essi dal principio alla fine, ed anche i capi più elevati confermarono sul suolo russo la norma del sacrificio che è sempre stata seguìta dai generali italiani; infatti il generale De Carolis, antico e brillante cavaliere, ora comandante di grande unità, cadeva da prode alla testa delle sue truppe. Durante gli ultimi vani conati del nemico nel freddissimo febbraio, si distinse in modo particolare il gruppo Musino, così chiamato pcrchè comandato dal colonnello Musino, veterano dell'arditismo. Era un gruppo composto con reparti di tutte le armi : cavalieri, carabinieri, lanciafiamme, artiglieri, genieri. Ad esso era affidato il delicato còmpito di proteggere le posizioni arretrate italo-geimaniche del bacino del Don; e questo còmpito eseguiva infatti combattendo per dodici giorni ininterrotti contro fortissime unità nemiche, tra le quali numerosi e irruenti i reggimenti di cavalleria cosacca. Molto spazio occorrerebbe per illustrare il funzionamento dei servizi dello C.S.I.R.; funzionamento sempre tanto importante per assicurare la vita e l'efficienza di un esercito, specialmente quando questo è dislocato in paesi 192


lontani e diversi sotto ogni aspetto da quello d'origine. È stato dunque magnificamente collaudato sùl suolo russo il nostro Servizio Sanitario, che ha potuto evitare epidemie, che ha ovviato ai pericoli del congelamento (non molte nè generalmente molto gravi sono state le vittime di questo terribile nemico dei soldati in zone ultrarigide), che ha seguìto coi suoi ospedali mobili le mosse del Corpo di Spedizione anche nelle fasi di più rapidi spostamenti. Ha funzionato nel modo migliore, nonostante difficoltà apparentemente quasi insuperabili, il Servizio Postale; che se non poteva pretendere a regolarità, e tanto meno a celerità, ha potuto se non altro evitare che ai soldati venisse meno del tutto il conforto della corrispondenza con le famiglie. Le Case del Soldato, i Posti di Ristoro e tutte le altre opere di assistenza e di conforto per le truppe, sono state curate dal comando dello C.S.I.R. con grande amore, contribuendo a mantenere i nostri combattenti in una condizione di spirito elevatissima anche nelle lunghe settimane d'inazione. A ciò hanno contribuito anche le distribuzioni dei doni giunti dall'Italia, specie per iniziativa del Partito Fascista; doni che, oltre al conforto materiale, apportavano al soldato la eco diretta e desideratissima del continuo affettuoso interessamento del Paese per i suo1 figli lontani. Il consuntivo del primo anno di guerra dello C.S.I.R. è, come si vede, più che soddisfacente. Quale il preventivo per la campagna che sta per incominciare quando la tardiva primavera russa lo consentirà? Possiamo fino da ora esser certi che l'importanza del contributo italiano nella lotta contro il mostro bolscevico sa1'à sempre maggiore. Si tratta ormai di assestare al grande nemico della civiltà europea l'ultimo poderoso colpo; e gli italiani saranno in primissima linea per compiere questa salutare operazione. Il nostro Corpo d'Armata si trasformerà in armata, con l'afflusso di nuovi contingenti, già pronti per essere avviati sulla fronte russa, o in arrivo. Naturalmente il segreto militare vieta di specificare l'entità e la formazione

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esatta di questa grande e forte unità, il cui comando verrà affidato - com'è risaputo - al generale Italo Gariboldi, un antico combattente di tutte le nostre guerre, che si è distinto contro gli austriaci, in Etiopia, in Libia; dovunque e sempre. Questa Armata di Russia sarà dunque un potente strumento di guerra, studiato e preparato con ogni cura facendo tesoro delle antiche e recenti esperienze; il suo equipaggiamento sarà il più adatto ai còmpiti specifici che gli competono; il suo armamento e munizionamento sono stati calcolati con la larghezza richiesta dalla natura e dalla complessità degli obbiettivi che gli si possono offrire, lasciando anche largo margine per l'imprevisto. Anche questa volta l'Arma aerea collaborerà attivamente alla vittoria. Compagna infaticabile dello C.S.I.R ., essa eseguirà su più larga scala i suoi insostituibili còm-· piti nei cieli della Russia, per guidare e tutelare dall'alto le mosse del nuovo e più forte esercito operante che l'Italia di Mussolini manda nel lontano Oriente slavo, per un'opera nobilissima di affermazione nazionale e di redenzione umana. ALDO VAlORl


" LA RUSSIA Sl PREPARA V A a venire in <Jiulo dell' lnghilterriJ ... Noi <Jvemmo conoscenza e fummo tenuti continuamente al corrente di questi fatti. lo ne trassi le conseguenze. La prima fu la liberazione del nostro fianco sud-orientale. lo posso dire che oggi, dopo la conoscenza di tuffo ciò che è avvenuto, dobbiamo veramente ringraziare Mussolini per avere egli già nell'anno 1940 affondato il bisturì e inciso questo bubbone." ADOLFO HITLER 015corso pronunclelo el Reich1teg l' 8 novembre 1941

LA GUERRIGLIA NELLA BALCANIA ' italia fascista, imponendo nell'autunno del 1940 un processo di chiarificazione alla tormentata penisola balcanica, ha reso un cospicuo servigio all'Europa. I vincoli etnici e culturali, che per lunga tradizione legavano alla Russia taluni popoli del sud-est europeo, avrebbero infatti costituito un serissimo pericolo per l'Asse allorchè questo fu più tardi costretto ad affrontare il colosso bolscevico. n mortale duello accesosi nello scorso giugno, fra Occidente ed Oriente, sarebbe stato reso ancor più grave e più duro dalla minaccia che al fianco e al tergo delle armate germanjche ed alleate avrebbero portato, con la loro apprezzabile forza e più ancora con la loro insidia, quegli Stati balcanici d'origine slava che dalla Russia traevano norma ed esempio. ·Se questo pericolo fu sventato, lo si deve alla tempestiva iniziativa italiana e al conseguente successo delle armi dell'Asse che dovevano dare, con la folgorante vittoria conseguita, nuovo volto e nuovo assetto al mondo balcanico. I germi del contagio comunista non poterono tuttavia essere totalmente eliminati; .e allorchè il conftitto scoppiò

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con la Russia, trovarono, in un terreno reso propizio dal disagio materiale e morale, rinnovato vigoroso impulso. Due elementi diversi sono così venuti a sommarsi : prevalente certo quello politico-economico a sfondo comunista; non trascurabile quello politico-tradizionale per il quale la Russia - quali che fossero il suo regime e la sua struttura interna - si considerava la protettrice di tutti gli slavi. Di qui fermenti di rivolta e impeti di ribellione che hanno dato luogo non già ad una guerra intesa nel senso moderno, ma ad un'attività di bande, operanti con caratteristiche proprie, alle quali gli ·ordini di Mosca e il denaro di Londra conferiscono scopi comuni e finalità unitarie. L'ambiente favorisce singolarmente questo tipo di guerriglia: boschi e montagne costituiscono uno sfondo ideale per una lotta di tal genere che bene corrisponde alle attitudini di popolazioni agitate da tradizionali rivalità di razza, di religione, di lingua. Ciò non significa che tutti gli abitanti dell'ex Jugoslavia aderiscano al movimento in atto : molti sono coloro che ne dissentono e molti coloro che vengono costretti con la forza, dai più facinorosi, a disertare i focolai e i campi per arruolarsi nelle bande e combattere; questa brava gente nulla di meglio in verità desidererebbe che tornare alla propria casa e alle pacifiche occupazioni, ma purtroppo manca spesso ad essa l'energia di opporsi alla prepotenza dipochi spregiudicati. D'altra parte, la fulmineità del crollo jugoslavo, impedendo agli eserciti vittoriosi di porre subito al sicuro il materiale bellico nemico, ha reso disponibile grandi quantità di armi sulle quali è stato facile mettere le mani da parte di chi meditava ulteriori resistenze. Tali, nei suoi essenziali elementi, la situazione determinatasi in alcune regioni limitrofe alla Dalmazia, nella zona della Lika, nella Slovenia, nel Montenegro, nella Bosnia, nell'Erzegovina, regioni - queste ultime - di cui a suo tempo anche l'impero austro-ungarico, pur cosi duro I~


nei suoi metodi di governo e cosi addestrato all'arte delle repressioni, ebbe a sperimentare i bellicosi atteggiamenti nei decenni seguiti all'occupazione del 1878. A questa situazione le forze armate italiane hanno fatto e fanno fronte con calma fermissima e tenacia esemplare. n dovere, divenuto particolarmente duro nello scorso inverno, allorchè la tormenta flagellava- ad una temperatura discesa sovente a 40 gradi sotto zero e talvolta ancora più in basso - per montagne e per foreste, è stato adempiuto dalle nostre valorosissime truppe con quella stessa serenità in cui dettero prova nel corso della campagna albanese. Il clima e l'ambiente nulla hanno potuto contro il morale di questi soldati, che hanno resistito, quando era necessario resistere, a elementi soverchianti e che sono mossi rapidi al contrattacco appena la stagione lo ha consentito. inseguendo il nemico fin nei luoghi più impervi, imponendogli il combattimento, battendolo ovunque. Aliquote di truppe germaniche, unità dell'esercito croato, gruppi di abitanti stanchi di essere terrorizzati e taglieggiati dai ribelli, hanno spesso coadiuvato i nostri reparti alla cui azione la primavera ha permesso di dare più ampio respiro tattico. Le operazioni di grande polizia e di rastrellamento attualmente in corso tendono appunto a restituire serenità di vita a regioni doppiamente sconvolte dalla guerra e dalla ribellione. Il nemico, per quanto astuto, rotto ad ogni fatica, conoscitore eccellente di ogni bosco e di ogni forra, sa come il suo destino sia ormai segnato: gradatamente la sua sfera di movimento si riduce. Mentre decine di villaggi vengono liberati dal triste incubo, le vie di comunicazioni riacquistano l'indispensabile sicurezza, i traffici ritornano normali, la vita riprende il suo ritmo. Tutto ciò non si ottiene senza sacrifici, e gli elenchi di perdite subite nei mesi scorsi dal nostro esercito dicono

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come questo sia stato chiamato a tinger di sanguigno una terra alla quale già le nostre armi vittoriose ebbero ad assicurare un migliore destino. Lo sforzo dei soldati italiani è reso più meritorio dal silenzio e dall'austerità che circondano la loro aspra e cruenta fatica : la soddisfazione di vedere il proprio operato quotidianamente ricordato dal Bollettino del Comando Supremo o illustrato dalla stampa, non è loro consentita dalla natura stessa delle operazioni, ma appunto per questa ragione particolarmente fervida deve andare ad essi la riconoscenza della Patria. Poichè, in realtà, la missione alla quale i nostri reparti attendono nella Balcania è di ben alta importanza : una pietra fondamentale dell'Europa nuova viene colà posta e l'Italia - per il valore dei suoi combattenti - prende. a questo arduo còmpito, grande decisiva parte. Ten. col. SILVIO BITOCCO


. IL CONTRIBUTO DELL'ITALIA ALLA GUERRA NAVALE



" IL MEDITERRANEO è chiuso e tuili i nostri trasporti debbono seguire la rotta attorno al Capo di Buona Speranza. " W. CHURCHill Discorto pronunc:iolo il 16 f~bbr~lo 1942

LA GUERRA NAVALE IL MEDITERRAllo"'EO : ZONA CRUCIALE. del conflitto i piani delle democrazie facevano essenziale assegnamento sul dominio del D Mediterraneo. L'attitudine di non belligeranza assunta ALLO SCOPPIO

dall'Italia costituiva per la Germania un valido aiuto, attenuando gli effetti del blocco; perciò gli anglo-francesi esercitavano il controllo sulle importazioni italiane in modo estremamente oppressivo, fino a esercitare un vero blocco economico, per raggiungere attraverso le vessazioni contro l'Italia lo scopo di bloccare la Germania. Queste crescenti gravi provocazioni, che determinavano per il nostro traffico una situazione insostenibile, erano inspirate al presupposto che, se l'Italia avesse osato di intervenire nella lotta, sarebbe stata rapidamente costretta alla resa a discrezione. Durante l'impresa etiopica, la GranBretagna aveva fallito nell'intento di imporre la sua volontà, ma l'alleanza anglo-francese minacciava l'Italia di completo soffocamento. Da quando il crollo della Polonia rese impossibile l'accerchiamento della Germania, gli anglo-francesi si prepararono ad attaccarla attraverso i Balcani; a tale scopo conclusero patti di alleanza con la T urchia, la Romania, la Grecia e la J ugoslavia, mentre era in corso l'ammassamento di truppe francesi e di truppe imperiali britanniche nel Medio Oriente. L'attua?.ione di quella offensiva ag~­ rante era necessariamente subordinata alla libertà d'azio201


ne nel Mediterraneo e quindi alla possibilità di costringere l'Italia, con un'azione virtuale o con un'azione effettiva, a rimanere schiava delle Potenze dominatrici del mare. Il dirottamento dèl traffico britannico dal Mediterra neo, prestabilito nell'eventualità di conflitto con l'Italia. era previsto di breve durata; la conquista della libertà di transito da· Gibilterra a Suez era considerata dalla Gran Bretagna come primo essenziale obiettivo, per mantenere per la via più breve il collegamento fra la metropoli e il Medio Oriente, centro vitale della potenza dell'Impero britannico. La capacità dell'Italia di contrastare il dominio del Mediterraneo avevà quindi capitale importanza. Il Mediterraneo assumeva carattere di zona cruciale; carattere destinato ad accentuarsi con l'estendersi e col prolungarsi della gigantesca lotta. LA SITUAZIONE INIZIALE E GLI OBIETTM MARITTIMI DELL'ITALIA.

L'influenza esercitata dall'Italia sulla situazione marittima si manifestò con rilevante anticipo sull'intervento. Dalla terza decade di aprile 1940 gli anglo-francesi cessarono il traffico nel Mediterraneo e concentrarono in questo mare la maggior parte delle loro forze navali, che furono così vincolate per effetto dell'attitudine dell'Italia, mentre nel settore nordico infuriava la battaglia per Ia Norvegia. La Francia c la Gran Bretagna avevano il grande vantaggio di poter dislocare le loro flotte lontano dalle basi aeree italiane, disponendo di basi navali alle due estremità del Mediterraneo. Gli anglo-francesi concentrarono 7 corazzate nel Mediterraneo occidentale (2 inglesi a Gibilterra e 5 francesi a Orano) e 5 nel Mediterraneo orientale (3 inglesi e 2 francesi ad Alessandria), quelle forze disponevano di navi portaerei e di numeroso naviglio leggero, mentre a Tolone, a Biserta e a Malta si trova202


vano reparti di forze leggere con numerosi sommergibili. In posizione centrale fra dette forze stava la Marina italiana con numerosi sommergibili, incrociatori e navi minori; ma le principali unità erano limitate alle due corazzate Cavour e Cesare, navi antiquate di tipo rimodernato. Queste condizioni di inferiorità navale, e quelle derivanti dalle difficoltà della situazione strategica, imponevano all'Italia una condotta di guerra marittima ispirata alle necessità di economizzare le forze, per poter sostenere una guerra lunga. La situazione strategica dell'Italia si può riassumere nei seguenti punti essenziali. Le condizioni di posizione geografica consentono all'Italia di dominare la strozzatura del Mediterraneo nel canale fra la Sicilia e la Tunisia, così da rendere difficile il traffico nemico fra i due bacini del Mediterraneo; in questa interdizione consiste uno dei principali còmpiti della Marina italiana, di estrema importanza per l'andamento generale del conflitto. Le acque del canale di Sicilia per la poca profOI1dità si prestano al largo impiego di mine ~ubacquee. Ma le mine non bastano per interdire un passaggio; gli sbarramenti di mine devono essere sorvegliati e difesi; pur quando il nemico non possa aprirsi la via con apparecchi di dragaggio, gli sbarramenti costituiscono un ostacolo di carattere geografico, necessario ma non sufficiente. Inoltre la vicinanza delle coste della Tunisia determina possibilità di transito; la chiusura del canale di Sicilia è quindi un problema complesso di cooperazione fra velivoli, ~ommergibili e le altre varie specie di mezzi marittimi. Oltre all'azione contro il traffico del nemico, la nostra Marina deve assolvere, in condizioni di inferiorità di forze, il difficile còmpito di proteggere un ingente traffico marittimo di importanza vitale. Per la necessità di mantenere le comunicazioni con i territori oltremare, nella guerra marittima dell'Italia ha 203


capitale importanza la potenzialità della Marina mercantile. Per la difesa della Libia, che nella guerra contro la Francia e la Gran Bretagna era minacciata su due fronti, occorreva di mantenere con quella Colonia un continuo flusso di truppe e di rifornjmenti. La protezione di quei trasporti costituiva un obiettivo marittimo essenziale, poichè il possesso delle coste libiche avrebbe potuto consentire al nemico la libertà di transito I!el Mediterraneo e anche la possibilità di attacco alle isole maggiori. La Marina italiana doveva quindi eseguire una spedizione oltremare in condizioni ardue, per l'inferiorità delle sue forze navali rispetto a quelle anglo-francesi e per la vicinanza di basi nemiche (Biserta e Malta) alle rotte obbligate dei trasporti. Questa necessità gravava sulla condotta della guerra marittima, al punto che al traffico con la Libia doveva essere subordinato il conseguimento di ogni altro obiettivo. La Marina italiana doveva altresì proteggere un importante traffico con l'Albania, testa di ponte nella penisola balcanica. In situazione particolarmente delicata si trovavano i possedimenti italiani dell'Egeo, per la libertà d'azione della flotta nemica nel Mediterraneo Orientale e per l'attitudine della Grecia e della Turchia. Da tutto ciò si comprende come la situazione strategica imponesse alla flotta italiana la dislocazi.one nelle basi meridionali della Penisola e in Sicilia, facendo assegnamento sull'azione delle forze aeree e sulle difese locali e sui treni armati per contrastare eventuali tentativi contro le coste tirreniche. La situazione nel Mar Rosso e nell'Oceano Indiano aveva importanza secondaria, ma interdipendente con quella del Mediterraneo. L'Italia aveva dislocato nel Mar Rosso un gruppo di naviglio sottile di tipo antiquato e alcuni sommergibili, per contrastare al nemico la libertà di traffico in quel teatro di operazione. La base navale di Massaua e l'arcipe204


lago delle isole Daklak consentiva alle nostre forze di operare vantaggiosamente nella zona centrale del Mar Rosso; analogàmente Assab era una buona posizione strategica rispetto allo stretto di Bab el Mandeb, alla Somalia francese e britannica e al Golfo di Aden; Kisimaio costituiva un punto d'appoggio per l'azione nell'Oceano Indiano. Il rendimento delle forze navali in tali scacchieri risulta va però assai limitato dalla ristretta disponibilità delle forze, dalle condizioni di isolamento e dalle difficoltà d'azione delle unità subacquee in quelle condizioni di clima. In sintesi, la condotta di guerra marittima dell'Italia era inizialmente stabilita con i seguenti criteri : 1) agire offensivamente nel Mediterraneo centrale con mezzi marittimi e aerei ; 2) assicurare le comunicazioni con la Libia e con l'Albania; 3) contrastare al nemico la libertà di uso del mare nel Mediterraneo Occidentale e nel Mediterraneo Orientale con azioni di sommergibili ed eventualmente con forze navali di superficie in circostanze vantaggiose; 4) contrastare il traffico marittimo del nemico nel Mar Rosso e nell'Oceano Indiano; 5) cooperare con la Marina tedesca all'attacco del traffico nemico nell'Atlantico per mezzo dei sommergibili, subordinatamente alle necessità del Mediterraneo.

LA PRIMA FASE L'andamento del conflitto impose l'intervento dell'Italia prima dell'epoca prevista, in un momento nel quale una rilevante aliquota della Marina mercantile si trovava fuori del Mediterraneo; quelle navi furono quindi nella impossibilità di rientrare in Patria. Il piano anglo-francese era prestabilito col criterio di bloccare l'Italia; logorarne la capacità di resistenza con una serie di azioni aggressive; conquistare il dominio del mare infliggendo alla flotta italiana decisi~ colpi. 205


I1 blo,cco dell'Italia era assicurato dalla prevalenza delle forze navali nemiche e dalla loro dislocazione alla estremità del Mediterraneo; ma per la situazione in cui avv:enne la partecipazione dell'Italia al conflitto, i nemici non furono in grado di dare all'offensiva marittima lo sviluppo previsto. L'unica azione compiuta dalla Marina francese fu il bombardamento di Genova, eseguito a)l'alba del 13 giugno da una squadra d'incrociatori leggeri e di cacciatorpediniere. Una nostra antiquata torpediniera, per quanto si trovasse ad agire isolatamente, sj spinse contro la formazione avversaria attaccandola col siluro e affondando un cacciatorpediniere. L'azione di quella piccola unità costituì la. prima prova dell'altissimo spirito aggressivo della Marina italiana. Il 25 giugno, in seguito alla conclusione dell'armistizio, cessarono le ostilità fra le Potenze dell'Asse e la Francia; l'armistizio stabiliva la smilitarizzazione delle piazze marittime e delle basi navali di Tolone, Biserta, Aiaccio e Orano, fino alla cessazione delle ostilità contro l'Impero britannico. La perdita dell'uso delle basi e della cooperazione della flotta francese costituiva per la Gran Bretagna una grave menomazione di potere marittimo, attenuata però dal fatto che l'armistizio non produceva nel Mediterraneo un capovolgimento di situazione, quale si sarebbe verificato se l'Italia avesse potuto disporre delle basi francesi. Il crollo della Francia diminuiva le possibilità d'azione della Marina britannica nel Mediterraneo occide~tale e centrale, ma lasciava inalterata la situazione nel Mediterraneo Orientale, che manteneva per ia Gran Bretagna i seguenti aspetti estremamente favorevoli : 1) amicizia con la Grecia, con la Turchia e con la Romania; 2) libertà del traffico con il Mar Nero e con le basi britanniche in Egitto e in Palestina; 3) impossibilità della flotta italiana di svolgere una ... e:ffi~ace azione nel-Mediterraneo Orientale per la distanza


fra le basi navali italiane del Mediterraneo Centrale e le acque del Levante; 4) i possedimenti italiani dell'Egeo si trovavano molto esposti alle iniziative avversarie e quasi isolati per le difficoltà delle comunicazioni marittime con l'Italia; 5) fra l'Italia e i porti della Cirenaica i trasporti di truppe e i rifornimenti erano facilmente esposti alle offese aeree e navali. LA STRATEGIA BRITANNICA NEL MEDITERRANEO.

All'entrata in guerra dell'Italia, la forza navale dislocata a Gibilterra era formata da due corazzate, una nave portaerei e unità minori; il grosso della flotta britannica del Mediterraneo, che comprendeva 3 corazzate e una nave portaerei, stava ad Alessandria. Dopo il crollo della Francia, la squadra di Gibilterra fu rinforzata da altre due corazzate. Cosi nel complesso le forze navali nemiche nel Mediterraneo ascendevano a 7 corazzate (4 a Gibilterra e 3 ad Alessandria) e 2 navi portaerei, mentre nelle acque metropolitane la Gran Bretagna aveva 5 corazzate e 2 navi portaerei. L'entità delle poderose forze navali dislocate nel Mediterraneo dimostrava l'importanza che la Gran Bretagna attribuiva al nostro mare, nonostante la gravità della minaccia che in quel tempo direttamente sovrastava sulla Madre Patria. In quella situazione, il 4 luglio Churchill dichiarava: 1<Tutto è predisposto per acquistare il predominio nel Mediterraneo ». Era così dichiarata l'offensiva marittima britannica contro l'Italia, che doveva fronteggiare la.massima parte delle forze della più grande potenza marittima del mondo. Nei tre campi della terra, dell'aria e del mare attualmente la guerra si svolge in intima correlazione; ma, per comprendere la strategia britannica, si deve tener presente che la Gran B(etagna conduce la guerra con obiettivi essenzialmente marittimi. La difesa dell'Egitto costi-

20'J


tuisce la difesa della via imperiale; l'azione contro la Libia è un mezzo per il dominio di quella via, cioè le operazioni terrestri e quelle aeree strettamente convergono con quelle marittime allo scopo di conquistare il dominio del Mediterraneo. È a questo che la strategia britannica tenacemente tende; soprattutto la distruzione della flotta italiana è lo scopo a cui mira la Gran Bretagna, poìchè, se quell'obiettivo fosse raggiunto, tutto il resto diverrebbe facile. La situazione delle flotte contrapposte nei riguardi della manovra strategica è principalmente determinata dalle seguenti condizioni : r) la situazione geografica, la potenza dell'aviazione italiana e i mezzi marittimi insidiosi non consentono alla flotta britannica di chiudere la flotta italiana in acque ristrette; 2) la posizione strategica di 'Malta, per la sua vicinanza alle basi aeree italiane, è svalutata come base di operazione per il grosso della flotta. ma ha grande importanza come base aerea e come eventuale punto d'appoggio per sommergibili e naviglio sottile, in modo che costituisce un serio disturbo per il traffico italiano con la Libia e facilita le operazioni britanniche di forzamento del canale di Sicilia; 3) la flotta britannica è costretta a tenere le sue forze suddivise fra le basi alle due estremità del Mediterraneo, cosicchè i movimenti di tali squadre verso il Mediterraneo centrale sono noti con anticipo. P er effetto di tale situazione e della vigilanza esercitata da sommergibili e aerei sulle linee d'operazione del nemico, la flotta italiana possiede libertà di manovra strategica. In conseguenza, si verifica che la manovra delle forze navali britaimiche consiste sopratutto nella coordinazione dei loro movimenti per la protezione di convogli da Gibilterra ad Alessandria. Le due squadre simultaneamente c~nvergono verso il Mediterraneo centrale; la squadra di Gibilterra ha il còmpito di scortare il convoglio fino al limite occidentale del canale di Sicilia; in quella zona 2o8


il convoglio deve procedere in compagnia di unità minori per il dragaggio delle mine e per la protezione contro i sommergibili e gli altri mezzi insidiosi. Dalla zona di Malta il convoglio prosegue sotto la protezione della squadra di Alessandria. T utte le forze navali britanniche del Mediterraneo sono così messe in movimento per la protezione di un convoglio di pochi piroscafi; giova tuttavia rilevare· che il nemico, oltre all'obiettivo difensivo, cioè alla protezione del convoglio, mira a provocare la flotta italiana a decisiva battaglia. La manovra tipica suaccennata fu eseguita la prima volta per il transito di 5 piroscafi nel luglio 1940, ed ebbe per conseguenza (il 9 luglio) la battaglia di Punta Stilo, in cui il nemico dimostrò di ispirare la sua condotta a criteri di prudenza; l'obiettivo di imporre un'azione risolutiva non fu menomamente raggiunto, tanto che da parte britannica l'andamento dello scontro fu giudicato non soddisfacente. Finchè la flotta italiana è in efficienza, il tentativo di forzamento del canale di Sicilia non può essere rinnovato a brevi intervalli, costituendo un'operazione di forza, difficile e rischiosa quanto poèo redditizia; perciò tale operazione viene limitata ai casi in cui è necessario di proteggere il transito di convogli di speciale importanza e urgenza. Oltre che con le azioni anzidette, l'azione navale britannica consiste nella protezione del traffico fra la Turchia, la Palestina e l'Egitto; in quelle acque il traffico può essere contrastato soltanto da sommergibili. Col prolungarsi del conflitto, a misura che l'azione contro Malta diviene più intensa, la squadra di Gibilterra ha il còmpito di proteggere qualche piroscafo per il rifornimento di detta isola e di proteggere altresì la nave portaerei per trasportare velivoli da caccia, fino al punto da cui possono raggiungere in volo l'isola assediata. 20C)


Per completare il quadro delle forme di attività navale

del nemico, si deve aggiungere : I) l'azione contro il traffico marittimo, in stretta interdipendenza con la guerra terrestre e con l'azione intesa alla conquista del dominio del mare; 2) l'appoggio della flotta alle operazioni terrestri in ' Cirenaica; 3) le azioni dì bombardamento navale eseguite da grandi navi contro Genova, Tripoli e Valona; 4) gli aiuti alla Grecia per armare l'esercito e poi per rinforzarlo durante le ostilità italo-greche. Queste operazioni, oltre a cqstituire la ripresa del piano balcanico, avevano dirette finalità marittime in virtù dei vantaggi strategici consentiti alla flotta britannica dal possesso delle basi greche. In sintesi, la guerra marittima è essenzialmente caratterizzata dalla difesa e dall'attacco del traffico. La lontananza della base di Alessandria dalle acque in cui si svolge il traffico italiano, limita le possibilità dì azione del nemico, che per l'attacco al traffico impiega velivoli bombardieri e siluranti, nonchè unità navali sottili e sommergibili. La lotta sul mare assume quindi carattere di intensa continua guerriglia, a cui a intervalli partecipano le forze LÌa battaglia. CARATTERI DELL'AZIONE MARITTIMA DELL'lTALIA.

Il traffico italiano si svolge in acque ristrette, che consentono poca variabilità delle rotte, offrendo quindi facilità all'attaccante. La traversata del canale di Sicilia potrebbe essere compiuta in una notte da navi veloci, se le navi italiane potessero approdare ai porti della Tunisia. Ma per giungere a Tripoli le navi sono esposte agli attacchi diurni e not2IO


turni; la necessità di tenersi lontani dall'isola di Malta produce un notevole allungamento dei percorsi. La scarsità del naviglio mercantile rispetto alle esigenzedel traffico, impone una intensa utilizzazione del materiale e del personale; analogamente una gravosa attività è imposta alla Marina da guerra dal còmpito protettivo. Nella guerra 1915-18 la protezione del traffico nel Mediterraneo era limitata a quella contro i sommergibili, perchè l'azione delle forze nemiche di superficie era impedita dalla vigilanza allo sbocco dell'Adriatico. Nelle attuali condizioni il traffico deve essere protetto contro le azioni dei sommergibili, contro le offese aeree e contro l'azione di forze di superficie; questa complessa protezione deve essere assicurata contro una Marina avente superiorità di forze. In condizioni così difficili, il passaggio di ogni convoglio costituisce una delicata impresa; · è quindi altissimo titolo di onore delle Marine da guerra e mercantile, strette in cooperazione fraterna, l'aver fatto fronte simultaneamente alle necessità delle due grandi spedizioni oltremare. Mentre la difesa del traffico italiano costituisce un problema arduo, l'attacco al traffico nemico presenta poche probabilità favorevoli, essendo quel traffico deviato dal Mediterraneo. La Marina italiana dispone di una poderosa flotta subacquea; ma i sommergibili nel Mediterraneo trovano rare occasioni di successo, dovendo affrontare formazioni di n a vi da guerra e convogli fortemente scortati. Alle peculiari difficoltà che il Mediterraneo oppone all'azione e al rendimento dei sommergibili si aggiunge la forte preparazione del nemico contro la minaccia subacquea, in virtù dei perfezionati mezzi di scoperta (eco-goniometri) e dei mezzi di attacco. Inversamente, da parte italiana in primo tempo era risentita la mancanza di strumenti capaci di rivelare alle navi la vicinanza dei sommergibili, nonchè la scarsità di unità navali con caratteri e mezzi adatti al compito di cacciasommergibili. 2II


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Questa situ::tzione, che si è modificata durante il conflitto, deve essere tenuta presente per comprendere l'eroismo e il valore del personale dei nostri sommergibili, che si manifesta in tutta la sua pienezza nell'azione oceanica, in cooperazione con la Marina tedesca. I sommergibili italiani adibiti al còmpito oceanico devono affrontare le massime difficoltà, a cominciare dal forzamento dello Stretto di Gibilterra, dove il nemico esercita la più intensa vigilanza, disponendo di perfezionati mezzi per l'ascoltazione idrofonica e per l'attacco. L'invio di sommergibili nell'Atlantico cominciò dai primi giorni dell'intervento dell'Italia, riuscendo poco redditizio perchè i sommergibili operavano isolati e in zone di scarso flusso del traffico. I risultati ott-enuti sono stati crescenti a misura che si è sviluppata l'azione coordinata dei sommergibili operanti in una stessa zona, e che l'attacco si è esteso fino alle acque amencane. Si è ottenuto in tal modo un alto rendimento di ogni sommergibile, cioè una rilevante cifra del tonnellaggio affondato da ogni unità. Il 20 maggio 1942 segna la data memorabile del successo riportato dal sommergibile Barbariga, che allargo delle coste brasiliane sul parallelo di Fernando di Noronha è riuscito ad affondare nelle ore notturne una corazzata statunitense del tipo Maryland, benchè fosse fortemente scortata. Giova ricordare che alla cosiddetta battaglia dell' Atlantico la guerra nel Mediterraneo porta un potente contributo, inquanto il dirottamento imposto al traffico nemico lo costringe a un fortissimo allungamento delle rotte. Per fissare le idee a questo riguardo, devesi tener presente che il percorso da Gibilterra a Suez risulta più che triplicato per la via del Capo di Buona Speranza; per tale via il percorso da Gibilterra a Ceylon aumenta dell'Bo%. Gli effetti di quest'allungamento delle rotte fa sentire al ne212


mico la sua scarsità di tonnellaggio, i cui effetti divengono sempre più rilevanti col prolungarsi del conflitto. Il rendimento dell'azione contro il traffico nemico nel Mediterraneo non può quindi valutarsi soltanto con criteri aritmetici, éioè in base al tonnellaggio distrutto, perchè quelle cifre rappresentano una minima parte dei risultati; gli effetti maggiori sono quelli che derivano dal persistente dirottamento, a cui la Gran Bretagna è ancora obbligata dopo due anni di guerra. Affinchè si mantenga questa situazione, che efficacemente concorre all'inevitabile sconfitta della Gran Bretatagna, è necessario che la guerra nel mditerraneo sia condotta con la massima intensità, con la cooperazione delle varie specie di mezzi. È per questo che la Marina italiana mantiene nel Mediterraneo la maggior parte dei suoi sommergibili, a cui a un dato momento si è aggiunta l'azione di sommergibili e di forze aeree tedesche. L'attacco al traffico nemico non ha soltanto per obiettivo le navi da trasporto. L'azione contro le navi da guerra di una Marina che ba larga prevalenza di forze è in apparenza secondaria rispetto alla distruzione del naviglio mercantile, che ha effetti diretti e immediati sull'andamento della guerra terrestre; però, col prolungarsi del conflitto, le perdite inflitte alla Marina nemica e il suo logoramento hanno la massima importanza. A questo scopo la Marina italiana concorre con tutte le sue forze, con i sommergibili e con l'azione delle forze di superficie che attivamente contrastano le operazioni dell'avversario. L'azione contro la flotta nemica culmina con quella dei mezzi d'assalto, che vanno a colpire le grandi navi nemiche nelle basi di Suda, Gibilterra, Malta e Alessandria, scrivendo pagine di eroismo leggendario. Per completare il quadro sommario della condotta della guerra marittima dell'Italia, conviene in particolar modo fissare l'attenzione sulle alterne vicende della guerra balcanica e sulla situazione conseguente. 213


LA CAMPAGNA BALCANICA E LA LOTTA IN CIRENAICA NEI RAPPORTI CON LA SITUAZIONE MARITTIMA.

Al principio della guerra contro l'Italia, la Marina britannica era in una situazione estremamente vantaggiosa nelle acque greche: essa aveva nell'Arcipelago numerose stazioni di vedetta e poteva liberamente valersi degli ancoraggi, perchè la Grecia non si atteneva menomamente ai doveri di neutralità. Per effetto di tale situazione, il mantenimento delle comunicazioni marittime fra l'Italia e i porti del Dodeca,neso e della Cirenaica esponeva le nostre forze a essere attaccate di sorpresa da forze prevalenti; si verificavano altresì serie difficoltà per i trasporti marittimi 'che facevano capo a Bengasi. ~ell'ottobre 1940, quando il Governo fascista stimò necessario di rompere gli indugi, l'azione contro la Grecia dovè essere intrapresa, pur mancando il tempo per portare in Albania le forze sufficienti ad assicurare una rapida vittoria. Il còmpito della nostra Marina si aggravò in modo assai rilevante nei riguardi logistici, per la necessità di intensificare al massimo grado i trasporti con l'Albania. A ciò si aggiunse il mutamento di situazione; le forze aeree e navali della Grecia erano assai limitate, ma l'~lleanza con la Grecia da va alla Gran Bretagna i seguenti vantaggi: ~) assoluto controllo nelle acque dell'Arcipelago; 2) rafforzamento del predominio navale britannico nel Mediterraneo Orientale, in conseguenza della libera disponibilità della bàse navale di Suda; 3) possibilità di valersi delle basi aeree nel territorio greco e delle importanti basi navali nelle isole ioniche. Della nuova situazione approfitò la Marina inglese per infliggere un fiero colpo alle nostre forze navali concentrate a Taranto; nella notte sul I2 novembre un attacco di velivoli siluranti contemporaneo a un attacco di velivoli bombardieri avente scopo diversivo, riuscì a danneg214

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giare tre nostre corazzate di cui una gravemente. Cercando di sfruttare quel temporaneo successo, il nemico dopo pochi giorni tentò di far passare un convoglio nel canale di Sicilia: ma nel combattimento di Capo Teulada (27 novembre) il nemico pote' constatare che, contrariamente alle affermazioni fatte a scopo propagandistico, la Marina italiana era ben lungi dall'essere annientata. In quel combattimento due incrociatori nemici furono avariati dal tiro dei nostri incrociatori maggiori; la ·forza navale nemica si sottrasse al combattimento quando nell'azione di incrociatori intervenne la corazzata Vittoriq Veneto. Nel periodo dell'iniziativa greca, per l'inferiorità delle nostre forze acquistò sempre più importanza vitale l'ingente traffico di uomini, di quadrupedi, di mezzi e di rifornimenti fra i porti di Bari e Brindisi con quelli di Durazzo e Valona. Il traffico presentava molteplici difficoltà per le condizioni meteorologiche nella stagione invernale, nonchè per le modeste risorse nei porti di sbarco; a queste difficoltà si sommava l'energica azione di ·contrasto del nemico (offese aeree contro i porti d'imbarco e sbarco, azioni di sommergibili e di velivoli siluranti durante il transito). In quel critico periodo, se il nemico fosse riuscito a sfondare il fronte arrivando a Valona, avrebbe ·potuto raggiungere un risultato di carattere decisivo. Infatti il porto di Durazzo, per la sua modesta capacità e scarsa attrezzatura, non avrebbe potuto riuscire sufficiente alle necessità della spedizione. Inoltre, se la Gran Bretagna avesse ottenuto il possesso della base di Valona, si sarebbe assicurato il dominio del canale di Otranto e quindi dell'Adriatico. Questo piano mira va a prendere l'Italia alla gola; la resistenza fu assicurata dal costante flusso dei trasporti marittimi in Albania, nonostante le difficoltà di ogni specie. Mentre in Grecia si combatteva strenuamente, il ne-215


NAVI INGLESI AFFONDATE DALL NEL MEDITERRANEO E NEL MAR

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ABILMENTE AFFONDATE Ali ANT • Navi portaerei : EAGLE - IUUSTR!OUS , FORMIDABLE · AU RORA- CA PETOWN • Cacciator pediniere: GALLANT - NUBIAN


mico preveniva l'avanzata italiana contro l'Egitto, sferrando il 9 dicembre la grande offensiva con i poderosi mezzi che il dominio del mare nell'Oceano Indiano gli aveva consentito di far affluire da ogni parte del mondo. Cominciava così in Cirenaica una gigantesca battaglia, in cui la superiorità marittima consentiva al nemico di appoggiare con le forze navali l'avanzata delle truppe sulla, via litoranea. La nostra flotta si trovava invece nell'impossibilità di prestare diretto aiuto all'Esercito, per le condizioni d'inferiorità e per l'impossibilità di operare in quelle acque lontane dalle proprie basi, poichè la flotta sarebbe stata esposta a combattere senza la protezione di velivoli da caccia, per la mancanza di navi portaerei. La importanza del fat~ore marittimo fu sintetizzata dal Duce nel discorso del 23 febbraio 1941, constatando che <e le vicende della guerra divennero avverse da quando i velivoli siluranti inglesi fecero il colpo su Taranto n. Nell'Africa Settentrionale, alla fine di marzo 1941, si verificò il rapido capovolgimento della situazione, con la vittoriosa e fulminea ripresa di iniziativa dell'Asse; ciò fu possibile perchè la Marina italiana con inauditi sacrifici, con indomito valore, aveva potuto alimentare le due spedizioni oltremare. La rapidità del crollo della Jugosl~via nel termine di rz giorni non permise alla flotta britannica di sfruttare le possibilità d'azione consentite dall'arcipelago dalmata; nè il potere marittimo britannico fu in grado di consentire alla Grecia un'estrema resistenza nella Mo rea. All'occupazione della · Grecia le forze dell'Asse facevano seguire l'occupazione delle isole Ionie e delle isole Egee; tutto ciò costituiva un radicale mutamento nella situazione mediterranea. Rimaneva tuttavia ai greco-britannici l'isola di Creta, ·che essi volevano difendere ad ogni costo; Churchill dichiara va che il possesso di Creta aveva carattere ((eminentemente offensivo)). 218


LA CONQUISTA DI CRETA.

Dopo la perdita della Grecia, il vantaggio che la Gran Bretagna poteva trarre dalla posizione strategica di Creta era diminuito; la baia di Suda diveniva alquanto malsicura come base navale, essendo esposta a intense offese aeree; sussisteva tuttavia il fatto che Creta, come base avanzata, conservava ancora una funzione tutt'altro che trascurabile, costituendo una buona base specialmente per l'aviazione da caccia e consentendo alla flotta britannica di contrastare all'Asse la libertà di navigazione nell'Arcipelago. Inoltre, in virtù del possesso di Creta e della prevalenza navale, nonchè del vantaggio assai rilevante costituito dalle navi porta-aerei, gli inglesi disponevano del pieno controllo delle acque fra Creta e la Cirenaica, utilissimo per alimentare la resistenza di Tobruk e per l~ operazioni navali ·verso il Mediterraneo centrale. Ciò determinava da parte dell'Asse la necessità assoluta e impellente di impossessarsi di Creta. La Marina italiana diede all'impresa di Creta un valido essenziale ·contributo di sublime eroismo; nonostante la vigilanza delle divisioni navali britanniche, le nostre torpediniere osarono l'inosabile, riuscendo a far approdare i convogli provenienti dalle isole dell'Egeo; esse coprirono i convogli lanciandosi all'attacco delle navi nemiche e riuscirono ad infliggere all'avversario la perdita di due Ìncrociatori.

IL PREDOMINIO !TALO-TEDESCO NEL .MEDITERRANEO ORIENTALE Con la conquista di Creta, le forze dell'Asse fecero un passo decisivo verso il dominio del Mediterraneo orientale. Nel quadro generale della guerra, l'importanza del Mediterraneo cresce grandemente dall'epoca in cui comincia la guerra contro la Russia; nella seconda metà del I94I 2I9

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la Gran Bretagna intensifica i suoi sforzi per vincere la battaglia del Mediterraneo. La libertà di traffico nell'Oceano Indiano e nel Mar Rosso consentiva di accrescere gli eserciti dell'Impero Britannico nel Medio Oriente, per tentare l'azione decisiva contro la Libia, che nei piani nemici avrebbe dovuto costituire la premessa per la sconfitta dell'Italia. Quei preparativi erano lenti, perchè - come Churchill ebbe a dichiarare alla Camera dei Comuni - « le spedizioni marittime necessarie per alimentare i grandi eserciti del Medio Oriente devono fare il giro del Capo di Buona Speranza; perciò le navi possono fare soltanto tre viaggi in un anno». Nel frattempo l'azione delle forze navali dell'Asse otteneva risultati di somma importanza. Nel novembre 1941 la Squadra britannica del Mediterraneo orientale subiva una gravissima perdita, quando un sommergibile tedesco al largo di Sollum affondava la corazzata Barham. li colpo decisivo a quella squadra fu inflitto dai nostri mezzi di assalto, che superando le difese della munita base di Alessandria, gravemente danneggiarono le due corazzate Queen Elizabeth e V aliant. Quelle navi non furono affondate, ma subirono danni così gravi, che la V aliant dopo lunghi mesi di riparazioni sommarie ha preso recentemente la via del Canale di Suez, dirigendo in America per le riparazioni definitive. L'altra nave è ancora ad Alessandria, ma si trova nel bacino di carenaggio in attesa di poter seguire la stessa via della nave sorella. La Squadra britannica del Mediterraneo Orientale rimase così priva di corazzate. Il disastro navale subìto dal nemico e l'attività della nostra flotta per la protezione del traffico, resero possibili gli ingenti trasporti in Libia, che permisero la vittoriosa controffensiva in Cirenaica. La prevalenza navale acquisita dalla nostra flotta e l'offensiva aerea contro Malta, hanno sempre più aggravato la situazione del nemico nel Mediterraneo Centrale e Orientale; le forze dell'Asse hanno perciò conquistato 220


un deciso predominio, mentre sempre più difficile è divenuto il rifornimento di Malta, dove il nemico, per le cresciute difficoltà di forzamento del Canale di Sicilia, è ridotto a inviare rifornimenti per via aerea. Questa è la situazione strategica dopo due anni di ostilità.

LA SITUAZIONE NÈL MEDITERRANEO E L'ESTENSIONE DEL CONFLITTO.

Sugli avvenimenti mondiali che hanno posto le due principali Potenze marittime in condizioni di inferiorità navale, l'andamento della guerra nel Mediterraneo ha avuto una grande influenza, perchè la Gran Bretagna considerava il Mediterra11eo come il principale teatro di guerra, al punto di trascurare le necessità navali negli altri scacchieri. Reciprocamente le sconfitte subìte dagli angloamericani nel Pacifico hanno reso impossibile ai nemici di rinforzare la flotta del Mediterraneo. In ciò essenzialmente ~i manifesta l'interdipendenza fra i vari teatri della guerra marittima. La superiorità navale del nemico rispetto alle forze dell'Asse era inizialmente enorme; ma per effetto della estensione del conflitto e delle perdite subìte, gli angloamericani si sono venuti a trovare in difficoltà rapidamente crescenti, in rapporto alle molteplici esigenze da fronteggiare nei diversi mari. La guerra è una; quindi ogni perdita di navi inflitta al nemico ha ripercussioni lontane. La durissima lotta sostenuta dalla nostra Marina con silenzioso eroismo in du~ anni di. guerra, costituisc;,e un apporto di importanza essenziale 'per la vittoria delle Potenze det Tripartito; questo apporto è segnato da largo tributo di sangue. Alla memoria dei gloriosi Caduti e a coloro che combattono sul mare va l'ammirazione e la riconoscenza della Patria. ROMEO BERNOTII Ammiraglio deJignalo d 'Armolo

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IL CONTRIBUTO DELL'ITALIA ALLA GUERRA AEREA


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"L 'AVIAZIONE ilaliana si è prodigata sino al limite umano, nel rischio, nel sacrificio, nell'offerta suprema. " MUSSO LINI Obeorso pronunciato il 28 m•rzo 19.42

LA G UERRA AEREA I. UE ORE restano incancellabili nella nostra memoria, e

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fra due visioni si inquadra, con la folla dei guoi perr sonaggi, con il susseguirsi dei suoi vari eventi in terre vicine o lontanissime, la grande pagina dei due anni guerrieri che l'Aviazione d'Italia compie il ro giugno accanto alle altre Armi d'Italia. La prima è un'ora che può .sembrar lontana, una delle tante del torrido scorcio dell'estate 1938. La terribile parola dei Fati - Guerra - batteva con le sue ali sull'Europa. I nodi annodati a Versaglia si erano fatti intricatissimi. Il capestro gettato al collo dei due popoli giovani e fecondi di Europa- Germania e Italia- si faceva sempre più stretto. Una spada scintillava, e la sua lama si preparava a recidere il primo di quei nodi. Un balenìo d'armi correva su tutta l'Europa, già spiritualmente e militarmente divisa da una frattura che si palesava incolmabile. Su un tema di giustizia, quale quello della salvezza delle sue minoranze nei Sudeti, la volontà della Germania era incrollabile. Il primo bubbone della politica accerchiante versaglista stava per scoppiare: lo Stato cecoslovacco, creato e battezzato nel Salone degli Specchi per costituire, in una zona che era un mosaico di razze sul fianco meridionale della Germania vinta, la piattaforma di operazioni per il giorno in cui il popolo getmanico si fosse risvegliato, doveva scomparire, visto che i mercenari politici di Praga

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avevano accettato di portare il loro popolo in prima linea nello schieramento antitedesco, e, rifiutando ogni accordo, avevano spinta all'estremo la ormai ventennale sopraffazione delle minoranze germaniche comprese nei loro confini. Da qu.ello che poteva esser chiamato l'episodio dei Sudeti poteva determinarsi la prima scintilla di quella autoaccensione delle polveri che avrebbe fatto saltare l'Europa intera come un solo campo minato. L'Italia aveva già scelto il suo posto nell'eventuale combattimento. La tensione era estrema. La corda stava per spezzarsi. Il cannone stava per parlare. Le armate di Van Buck, il futuro conquistatore di Parigi, il generale che doveva nell'autunno del 1941 giungere di fronte a Mosca, e che nel maggio del 1942 doveva battere Timoscenko di fronte a Carcov, erano già schierate sulla linea di confine con la Cecosloyacchia. Sull'altro lato del continente europeo Inghilterra e Francia minacciavano la mobilitazione. Oltre Atlantico l'America di Roosevelt prometteva e garantiva aiuti. La guerra era alle porte. I chiari cieli del settembre pareva dovessero essere di li a poco solcati dagli sfreccianti stormi della caccia, dai più lenti e gravi stormi dei bombardieri. Ali di guerra, grigie ali già siglate con il distintivo del combattimento, si allineavano negli aeroporti di tutta Europa. I motoristi erano pronti ad avviare le eliche. La grande crisi del secolo, quella di cui la guerra del 1914-18 non era stato che il preludio, era giunta al suo acme. I problemi cento volte portati sul tappeto, i problemi del superpopolamento, quelli della distribuzione più equa delle materie prime, quelli della espansione coloniale, e quelli più complessi dello stile morale di vita politica e spirituale di tutta la razza europea minacciata a Occidente dalla tabe disfacitrice delle teorie democratiche e a Oriente dal virus bolscevico, dovevano essere risolti una volta per sempre anche se l'ostinato malvolere e la insaziabile cupidigia dei popoli conservatori e detentori della ricchezza di tutto il mondo vi si opponevano con una folle e cieca ostinazione. F~~iva l'èra dello statu quo che operava invariabilmente 226


ai danni delle nazioni povere e le costringeva a un destino di indiretto servaggio. Fascismo e Nazionalsocialismo dovevano prepararsi a continuare la loro rivoluzione nel più vasto campo della giustizia internazionale. Il Duce era, in quei giorni, nel Veneto. L'aggravarsi della crisi non gli aveva fatto rinunciare a quel viaggio da lungo tempo promesso alle forti, laboriose e guerriere genti del Veneto. Egli era, anche se lontano da Roma, continuamente in contatto con le capitali straniere. Le folle si adunavano attorno a lui in attesa della sua parola, ed egli, intanto, di minuto in minuto era informato d'ogni vicenda, d'ogni intenzione, d'ogni estremo progetto delle diplomazie. Il conflitto poteva iniziarsi da un'ora all'altra: e da un'ora all'altra poteva crearsi anche per noi la necessità di procedere alla mobilitazione. Le adunate delle milizie parevano già adunate da vigilia di combattimento. L'ora era pesante di fati. Staffette in motocicletta raggiungevano ogni momento, dovunque egli fosse, l'automobile del Duce, recando i rapporti raccolti dalla stazione radiotelefonica e telegrafica del treno presidenziale rimasto in attesa su un lontano binario ferroviario. Il Duce prendeva il foglio recato, lo apriva, lo leggeva mentre le persone del seguito si scostavano. Questo avveniva in aperta campagna, sul margine di una via qualunque, in piazzette di paesi dove egli si trovava a passare per giungere all'una o all'altra adunata di popolo: avvenne in vista del P asubio, mentre egli visitava i luoghi dell'altra guerra; avvenne mentre, ignari dell'evento che batteva alle porte, si allineavano in un·a piazza di Verona i colorati e canterini gruppi folcloristici del Dopolavoro: avvenne mentre, nelle sale di una vecchia villa veneta nella verde campagna di Treviso, egli visitava le raccolte di una mostra artigiana, e si soffermava davanti é:l un ricostruito esemplare focolare trevigiano, adorno di lucidi rami, di colorate conocchie rurali, di bambole intantili intagliate nel legno. Quei fogli -noi che lo seguivamo lo indovinavamo - parlavano della guerra. Il programma del Duce non poteva variare. 227


Egli non la voleva. Con uno di quei fogli fra le dita lo vediamo ancora entrare nel salone del Palazzodei Signori di Vicenza, dopo aver salita rapidamente la scala disegnata daAndreaPalladio. Un artista gli parlava della necessità di restaurare le fondamenta di un'ala del palazzo che minacciavano cedimenti. Egli ascoltava e prometteva di attua re subito il restauro. Intanto la guerra era vicina, e a noi che lo seguivamo, pareva di sentir già il rombo del lontano cannone ripercuotersi negli echi delle volte del Palladio. Alle porte di Treviso, sulla vastissima prateria di un aeroporto con le erbe arse dal sole, in un'ora del pomeriggio, il Duce passò in rivista le forze aeree della squadra, cui era affidata la eventuale difesa delle terre venete se il conflitto che minacciava avesse coinvolto immediatamente l'Italia e se si fosse costituito un fronte orientale. Erano, su due lati del campo, due lunghe file di apparecchi da bombardamento e da caccia; disposti ala ad ala, ciascuno con il suo equipaggio schierato. Il sole vicino al tramonto batteva sui profili delle ali color d'alluminio e rifletteva nei vetri delle cabine di pilotaggio con macchie rosse che pa revano fuochi e sangue. Gli equipaggi- dalla destra, piloti, armieri, motoristi, in brevi file che si ripetevano interminabilmente per ogni apparecchio - aspettavano, sull'attenti, il Duce che veniva rapido, a piedi, fra le erbe del campo, rallentando appena per guardar tutti negli occhi, uno per uno, i veterani di ormai tante prove guerrieri.! in Africa e in Libia e in Spagna, o addirittura nell'altra guerra, e i giovani che potevano da un'ora all'altra - essi lo sapevano, ma lui lo sapeva molto più chiaramente di loro - essere portati alla prova del cimento guerriero. Il sole batteva nelle pupille. Il Duce aveva il sole alle spalle, mentre procedeva nella silenziosa rivista. Ma, nell'ombra, i suoi occhi dicevano anche più chiaramente la loro breve .e silenziosa parola. Egli contava armi e cuori. La guerra che ormai si annunciava vicina sarebbe stata guerra di tutte le armi della terra, del mare e del delo: ma sopratutto avrebbe costituito la prima grandiosa 22~


prova dell'impiego guerriero dell'arma novissima. Tutto quello che l'aeroplano aveva fatto fino allora nelle azioni di guerra, ci ripassava rapidissimo e intero nella fantasia, e tutto ci appariva come una prova di vigilia per questo n!lovo e gigantesco collaudo che stava per incominciare. Meno di trent'anni prima l'arma del cielo non esisteva. Accanto a noi, nel gruppo che seguiva il Duce, camminava, alto, scarno, un generale il cui nome ci riportava alla lontana giovinezza della prima impresa libica e alle primissime prove di impiego dell'arma aerea. Tornavano alla mente tre nomi dei tre primi soldati del cielo, volanti sulle oasi e sul deserto, a lanciare con la mano, come si lancia una sassata, piccole bombe: Moizo, Gavotti, Piazza. L'uomo che portava il primo nome era li, era ·quel generale che appunto porgeva ogni tanto al Duce uno di quei fogli recati in motocicletta da uno dei suoi motociclisti. Il cielo sotto il quale camminavamo era quello delle imprese di Baracca. L'erba sulla quale camminavamo era la stessa che era stata solcata dalle rincorse dei primi SVA.. Gli uomini che il Duce guardava negli occhi erano quelli che avevano combattuto nei cieli di Etiopia e in quelli di Spagna. Ad essi, se l'ora fosse suonata, spettava l'onore di aprire la nuova immensa pagina della guerra aerea. Trenta anni di vita eroica della aviazione, ripeto, parevano passare, con un misterioso epico vento, sul campo di Treviso, mentre nella stessa ora l'Europa attendeva l'inizio della guerra che avrebbe schiuso le soglie al Nuovo Tempo. Qualche giorno dopo l'aereo che andava al convegno di Monaco parve un messaggero di pace. La prova non doveva invece che essere rimandata di un anno. E più che mai quella lontana ora sul campo di Treviso ci parve giornata di vigilia.

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L'altra ora è più recente; e mentre la prima era illuminata dal color di tramonto dell'autunno, questa è illuminata dal sole di questa primavera romana che ora declina verso l'estate, verso la terza estate di gueiTa. 229


La scena che si ridisegna nella memoria non è più quella della piana veneta, là. a Treviso, dopo il lungo viale fra i platani, mentre a destra mormorano le verdi veloci acque del Sile e mentre là, oltre ai pioppi, si indovina sui ghiaieti lo scorrere delle sacre acque del Piave. Ma siamo anche qui in riva a un fiume sacro, invisibile dietro il suo spalto : siamo sulle rìve del T evere, nell'ansa dove al tempo dei tempi le sue acque si impaludavano nella valle dominata dal greppo del Campidoglio e chiusa alle spalle dal basso e lungo baluardo del Gianicolo. Siamo nella valle romulea, sulla terra delle antiche lupe, sotto il cielo delle aquile propiziatrici. Alle nostre spalle sta il Tempio di Giano, di fronte a noi la corona delle brune colonne del Témpio di Vesta. Di fronte, di là dal fiume invisibile, è l'antica terra d'Etruria. La via è quella che porta al mare, a quel Mediterraneo che fu il sogno e il dominio del popolo nato pastore fra questi colli e fattosi marinaro con Caio Duilio su quelle prossime rive. Gli antichi avreb.bero chiamato questo l'ombelico del mondo. Noi lo chiamiamo il Quadrivio dei Fati. Ancora una volta, come quattro anni prima, Du~e e aviatori sono di fronte. La guerra è cominciata da due anni. Un battaglione di avieri forma un quadrato di elmetti e di moschetti davanti al Tempio di Vesta. Invisibili battaglioni sono presenti nell'aria, mentre avanzano nel cielo gli stormi dei nuovi bombardieri da vasto raggio. Sono i battaglioni dei Caduti. La giornata che in clima di guerra celebra i fasti della nuovissima arma è dedicata a loro, si illustra col nome degli eroi. :È il momento in cui il Duce consegna le medaglie d'oro. Tre soli i viventi. Gli altri sono uno stormo di anime che si allineano nel cielo del sacrificio. . Avanzano dei fanciulli a ricevere le medaglie dei padri.

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Fra queste due ore si inquadra la grande pagina dei due primi anni guerrieri delle ali italiane.


II. Un'arma nuova, abbiamo detto, appare l'aeroplano nella guerra moderna : un'arma in continuo progresso e in continua trasformazione, che crea ad ogni giro d'elica, si"direbbe, la sua strategìa e la sua tattica. L'intervallo che era corso, in quel periodo di cosidetta pace che fu invece il lungo periodo di maturazione del nuovo conflitto, fra il 1918 e il 1939, aveva visto la vecchia aviazione di g1.1erra affermare nuove teorie di combattimento che avrebbero potuto essere messe praticamente alla prova solamente nello scatenarsi di un nuovo scontro fra i popoli. In venti anni il mezzo tecnico -·l'aeroplano - aveva subìto trasformazioni continue e gli aerei erano diventati sempre più veloci e sempre più potenti. Nella gara di creazione dei nuovi tipi e nel susseguirsi della loro costruzione, si erano affermati principi sempre nuovi, che conquistavano velocità, distanze, e capacità di trasporto sempre maggwn. Il fante - oscuro ed eroico sovrano delle battaglie avrebbe avuto, nella nuova guerra, tutto un nuovo armamento, con una distribuzione sempre più larga di artiglierie, di mortai, di mitragliatrici. Era un'arma- quella delle fanterie- che aumentava costantemente di potenza, preceduta dalla massa d'urto dei carri armati, destinati ad aprire il varco nello schieramento avversario. Il motore -che lo trasportava velocemente nei vari settori del campo di battaglia -aumentava le sue possibilità di spostamenti almeno in rapporto alla autonomia degli automezzi e alla possibilità dei rifornimenti di combustibile. La trasformazione dei mezzi bellici dell'esercito e della sua dotazione di armi era però sempre basata su uno scopo unico e ben determinato: lo sgretolamento delJe forze avversarie e la conquista di un territorio. L'Esercito restava sempre, per così dire, legato alla terra, e se si rinnovavano le sue anni d'urto, l'armamento dei singolo individuo, del fante che rappr~nta la prima cellula de11'entità grandis23I


sima che si identifica nel binomio soldato-nazione, era sempre costituito dalle armi classiche del combattt!nte di terra: il moschetto, la bomba a mano e l'arma bianca. Con uno sforzo immenso gli eserciti dovevano rinnovare le proprie dotazioni di armi d'urto: ma i prototipi di queste non potevano variare così intensamente come,. invece, da una stagione all'altra, variavano i mezzi tecnici offerti alla nuova Arma della Aviazione. La Marina, per suo conto, proprio per la gigantesca complessità del suo problema costruttivo, - cinque anni di ininterrotto lavoro per la costruzione di una nave da battaglia - non poteva rinnovarsi integralmente di anno in anno, e per questo, come la strategia della ~guerra navale pareva dovesse obbedire ancora alle regole della strategia imposte nell'ultima guerra, così i concetti informativi delle nuove costruzioni potevano essere stabiliti secondo programmi che spaziavano nel giro minimo di un quinquennio o di un decennio. Un variare di velocità, un'aumentata resistenza delle corazzature, un aumentato calibro dei proiettili e una accresciuta potenza esplosiva, una sempre più attenta distribuzione dei compartimenti stagni antisiluro, un miglioramento costante degli strumenti di segnalazione, di mira, di ascolto e di indagine d'ogni eco che venga dall'aria o dal fondo marino erano gli elementi rinnovatori delle grandi e delle piccole navi, frutti di lunghe ricerche e di complesse esperienze che potevano trovare la loro applicazione solamente nel giro di lunghi anni, e che non permettevano di rinnovare la totalità di una flotta in meno di venti o trent'anni di lavoro. Corazzate di venti e di venticinque anni sono validamente in linea, con opportune modifiche, nelle Marine di tutto il mondo. Il gruppo delle navi «giovani>> è, relativamente, esiguo in ogni Marina, e anche queste, anche se entrate in linea oggi, nascono da progetti che hanno ormai vari anni di età. Tutto, invece, si rinnova nell'arma aerea in un giro rapidissimo di mesi, e nulla è più inutile, nel combattimento, dell'apparecchio di un tipo sorpassato Un lieye variare 232


di velocità, una più agevole manovrabilità, una anche

lieve maggiorazionè nelle possibilità di carico e nell'autonomia costituiscono, nell'arma aerea, una vera e propria rivoluzione alla quale occorre uniformarsi subito. Se la aviazione civile può rimanere fedele per lunghi anni ai suoi prototipi, l'aviazione eli guerra è in costante trasformazione e deve, alla trasformazione di cui è capace l'aviazione di un determinato paese belligerante, aggiungere, con immediatezza assoluta, le trasformazioni necessarie per opporsi a quelle che, di stagione in stagione, sono apportate al mezzo aereo dell'avversario. Di qui, dunque, nel confronto con le armi della terra e del mare, un costante e insonne dinamismo costruttivo che impegna non il singolo aeroplano e il singolo prototipo, ma addirittura l'intera compagine dei mezzi dell'armata dell'aria, che impegna le forze della scienza e del lavoro nella preparazione e nella costruzione i cui sistemi devono talvolta rinnovarsi «in massa» da un mese all'altro, e che in pari tempo impegna a un continuo miglioramento e affinamento la massa dei combattenti, con la creazione di sempre nuovi gruppi di specialità. Il principio può essere definito così: una grossa aviazione vecchia, comé prototipi, di tre anni non regge al confronto con una aviazione che disponga della metà dei mezzi, ma che li presenti di nuovissimo tipo. Di qui si comprende come, per quanto la sua preparazione debba essere perenne e instancabile, l'arma del cielo debba far di tutto per presentarsi all'ora della battaglia con uno scbieramento di mezzi, per cosi dire, odorosi ancora di officina. Essa deve trasformarsi di anno in anno, essere estremamente vigile ad ogni progresso tecnico, disporre di impianti industriali che consentano l'acceleramento improv· viso dei tempi di costruzione a seconda delle necessità belliche, istruire e rinnovare stagionalmente i suoi uomini, intuire e precorrere le capacità tecniche dell'avversario. Una grande Marina si fa, in un certo senso, una volta per sempre : e sia detto questo « sempre >> relativamente, in

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quanto una armata del mare può sfidare i decenni. Una grande aviazione deve, invece, avere in sè la capacità, per così dire, di rinnovarsi di ora in ora.

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Come si rinnovano i mezzi, cosi si rinnova, di stagione in st2.gion~, la strategìa e la tattica del mezzo aereo nei suoi svariatissimi e complessi impieghi. In previsione del conflitto, anche l'arma aerea ha, a seconda dei vari settori su cui sarà chiamata ad operare, i suoi piani di battaglia, per le sue dirette e indipendenti azioni, e per quelle che si inquadrano con il complesso delle azioni di guerra svolte dalle armi sorelle della terra e del mare. Variano i mezzi, e varia l'impiego. La strategìa e la tattica devono uniformarsi a questo criterio di estrema mobilità che si accompagna all'estrema possibilità di trasformazione del mezzo tecnico aereo. L'aviazione deve dunque, anche dal punto di vista strategico e tattico, anche, diremo così a tavolino, possedere una estrema elasticità di.concetti e di idee. I suoi « riflessi H, per dirlo con un termine medico, devono essere, in ogni campo, istantanei. Come 1'aviatore dev'essere un uomo senza alcuna tara fisica e psichica, così il complesso cui egli appartiene - l'Aviazione - deve, alla pari di un giovane corpo umano, avere, in ogni sua azione, sia di studio, che di preparazione, di allestimento, di costruzioni, di esperimenti, di impieg9, di disegno strategico e di azione in combattimento una rispondenza che chiamaremo fisica e psichica immediata, tale da consentirle di affrontare delle vere e proprie rivoluzioni, se è necessario, nei suoi concetti di impiego, a· seconda cl)e vengano imposte o si voglia imporle al nemico. La strategia- anche per le armi della terra e del mare- non deve mai invecchiare. Si è visto nella pratica della guerra come la «senilità», per quanto proclamata illustre, dei concetti dello Stato Maggiore francese abbia pesato nei confronti della giovanilità e della agilità di concetti dello Stato Maggiore germanico. Ma, meno che mai, è permesso di invecchiare ai concetti strategici dell'aviatore. 234


III. Non faremo .qui la storia dell'Aviazione italiana, come preludio al quadro che vogliamo tracciare delle sue azioni nei due anni dell'attuale conflitto. Basterà ricordare che la rinascita dell'Aviazione, la sua costituzione in Arma, la creazione delle sue nuove forze e dei suoi nuovi mezzi, la rigenerazione del suo spirito, la organizzazione del suo potenziale industriale, l'affluire degli uomini delle nuove generazioni a seguire l'esempio eroico dei combattenti della passata generazione quando l'applicazione dell'arma aerea alle battaglie era stata, per così dire, ancora sperimentale, la creazione della « massa » dei piloti, il collaudo dei mezzi in imprese che passarono al libro d'oro del rinnovamento e del progresso dell'aviazione, sia nelle sue prove individuali che in quella di massa, furono costante attività del Fascismo. L'Italia seppe essere, in vari settori aeronautici, all'avanguardia sia come mezzo che come uomini. La sua potenza aerea fu ~ffermata con un progresso continuo nelle costruzioni : l'ardire dei suoi combattenti fu provato nei cieli di battaglia d'Africa e di Spagna. L'aviazione italiana fu perennemente mobilitata. Con sacrificio economico la cui gravità può essere solo compresa da un popolo la cui economia è jugulata dal diretto o indiretto assedio economico straniero, e che il nostro popolo ha affrontato con quella comprensione che gli veniva appunto dalla esatta coscienza della necessità di svincolarsi un giorno, se occorreva anche con le armi, dalla indiretta forma di servaggio imposta dagli Stati egemonici possessori dP-lle ricchezze del mondo e negatori del lavoro, l'aviazione italiana- per quanto sostenuta da fondamenta finanziarie che non potevano competere lontanamente con le risorse di quello che di anno in anno si comprendeva sempre più chiaramente essere il futuro nemico - è riqscita a mantenersi sempre ad un livello che le permetteva, se non il trionfo, almeno il degno confronto con le forze che l'avversario avrebbe un giorno allineato in cielo.


Questo non significa però - e non poteva significare per lo squilibrio economico di cui soffrivamo nei confronti con lo straniero- che l'aviazione nostra avesse, il giorno in cui l'ora fatale d'el combattimento non poteva essere più procrastinata, toccata l'efficienza massima. Abbiamo detto più su che l'aviazione è, per la sua stessa natura organica, arma in continuo divenire, in continuo progresso, in cootinua trasformazione. La storia, per dare il segnale d'inizio dei suoi confronti guerrieri, non aspetta che l'uno e l'altro combattente abbiano portato alla perfezione dei rendimenti le loro armi, quando queste mutano, si può dire, d'ora in ora. Essa getta il dado. Il combattente deve accettare il segnale. Gli eventi lo impongono. Non si rivela un segreto, e si esalta anzi la virtù morale dei nostri combattenti che non hanno menomamente vacillato nel momento in cui l'urto non poteva essere più rimandato anche se sapevano di scendere in campo non essendo nella piena efficienza dei mezzi, se si ricorda che, al IO giugno del 1940, l'aviazione italiana non aveva la sua efficienza massima. Due guerre le avevano richiesto uno sforzo di cui si sentiva il peso. Due grandi vittorie militari e politiche in Etiopia e in Spagna - avevano coronate le due imprese, che avevano visto in combattimento l'Esercito, i Legionari e gli aviatori. Ma queste due vittorie avevano logorato molto materiale, ne avevano diminuita la quantità, e gli insegnamenti di due guerre, nelle quali l'applicazione del mezzo bellico aereo era cosi differente da quella che sarebbe stata più tardi la sua applicazione nei più vasti campi del conflitto europeo, non avevano influito sull'evoluzione della qualità, per quanto riguardava i mezzi tecnici. I tempi si affrettavano. Da un conflitto all'altro, dal 1935 in poi, le battute del terribile dialogo fra i popoli andavano facendosi sempre più serrate e minacciose, l'incomprensione degli avversari sempre più aspra, la congiura demoplutocratica sempre più stretta. Ogni concilia-

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zione era impossibile. Ogni aspirazione di giustizia irrisa. Fermi nei loro concetti di assedio, di affamamento. di bloc~ co, Londra e i suoi stati vassalli, sorretti dal suggerimento e dalle promesse di Washington, spingevano l'Europa alla guerra. Di mese in mese le sorti premevano dure alle soglie. L'Italia affrettava l'allestimento delle sue nuove navi, affrettava il potenziamento del suo Esercito, affrettava la trasformazione dei mezzi della sua Armata del cielo, che si sapeva chiamata a combattere su una eccezionale vastità di fronti, e in un complicatissimo frastagliamento delle sue forze e in una ancor più complicata variegazione di specialità. Per buona parte. all'inizio delle ostilità, il nostro materiale aeronautico era ancora in trasformazione. Una oculata prudenza esecutiva doveva dunque accoppiarsi, come avvenne, alla decisione di operare. Ma la prova non poteva essere più rimandata. L'aviazione italiana entrava dunque in guerra, coraggiosamente, con lo svantaggio, nei confronti dell'avversario, di tre crisi: quelle dovute all'aver partecipato, nella immediata vigilia, alle imprese d'Africa e di Spagna, e quella della sua trasformazione tecnica, che era in gran parte in atto. Bisognava, nella stringente ora della vigilia, operare in tutti i campi per ripristinare e aumentare, sia quantitativamente che qualitativamente, le forze dell'Armata del cielo. Questo fu fatto con estremo impegno e con estrema coscienza. Il tempo, in questa opera, non ci fu amico. Passavano, con rapidità di vertigine, i mesi, travolgendo popoli e destini. Le nostre possibilità industriali erano in rapporto alle nostre possibilità economiche di popolo da anni ed anni assediato e respinto dalla tavola della convivenza economica cui sedevano gli epuloni del capitalismo anglo-franco-americano; nè si poteva forzarne la produzione per difetto di materie prime. Ma quando è mai accaduto nella storia che un popolo possa scegliere per sua elezione l'ora del combattimento? La guerra non era voluta nè da noi, nè dai nostri alleati.

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La coalizione avversaria voleva, appunto, coglierci e sopraffarei in quella ch'essa credeva una situazione di crisi. Il nemico sapeva che l'Italia usciva dalla gravissima prova delle sanzioni, dal peso di una grande guerra coloniale combattuta a seimila chilometri di distanza, e da tre anni di partecipazione intensissima alla guerra iberica. Esso - come lo provano le recenti parole dell'ammiraglio Cunningham -contava di colpirci e di schiacciarci con un solo colpo di tallone, unendo all'azione delle navi della gigantesca marina alleata anglo-francese all'azione aerea che contro la nostra penisola avrebbe potuto essere svolta da tutti i settori continentali e costieri del bacino del Mediterraneo. La sua minaccia e il suo sopruso provocatorio erano giunti al colmo. Differire il confronto non era più possibile. Quello che non aveva potuto essere realizzato, del potenziamento del nostro schieramento aereo, nei mesi della estrema vigilia, sarebbe stato realizzato sul piede eli guerra. L'Italia doveva raccogliere la sfida. La sorte del suo popolo, attraverso i secoli, era in palio. Le operazioni incominciarono.

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Gettiamo uno sguardo al panorama strategico che si apriva innanzi alle carlinghe dei nostri apparecchi alla mezzanotte fra il dieci e l'undici giugno del 1940. Mai forse nella storia di un conflitto armato si vide un maggior frazionamento di fronti e di còmpiti. . Sulle Alpi, nello scacchiere continentale occidentale, la nostra aviazione, impegnata contro quella francese che disponeva di tutto il semicerchio di aeroporti che vanno dalla valle del Rodano alla Provenza, doveva fare fronte alla necessità offensiva contro gli obiettivi tipici suoi in territorio francese : basi aeree, basi navali, centri industriali, vie di comunicazione; e collaborando con le forze di terra e di mare, doveva intervenire, con la ricognizione, il bombardamento, la caccia, sia in appoggio delle truppe che in appoggio delle eventuali azioni delle nostre navi,

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sorvegliando lo specchio di mare interessante la zona e preparandosi a intervenire, se fosse stato necessario, contro le forze avversarie che dal cielo avessero tentato delle incursioni sui nostri territori. Su tutto il vasto scacchiere orientale, tanto sulle Alpi Giulie che sull'Adriatico e alla frontiera dell'Albania con la Grecia e con la Jugoslavia, doveva stare in posizione di allarme per fronteggiare ogni eventuale mossa ostile proveniente appunto - come doveva accadere più tardi - dal settore balcanico. In tutta la penisola, inoltre, l'aviazione doveva essere pronta a rispondere all'offesa delle incursioni avversarie che potevano mirare ai più vari bersagli, nessuno dei quali doveva essere indifeso. Alla attività richiesta dai cosidetti fronti continentali si univa l'attività ben più vasta richiesta dall'immenso teatro di guerra del Mediterraneo, da Gibilterra alla Palestina e alla Siria, da Malta alla Corsica, da Biserta alle basi navali dell'Egitto: attività che doveva svolgersi, volta a volta, autonomamente, per quanto riguardava l'offesa da portare sulle basi nemiche, o in collaborazione con la Marina, quando questa lo richiedeva, e sempre quando questa aveva bisogno degli «occhi lontani» della aviazione per osservare i movimenti del nemico. Nel Mediterraneo, inoltre, si doveva svolgere la costante azione protettiva dei nostri convogli e del nostro traffico con le isole e con le coste dei nostri possedimenti oltremare. Un terzo fronte era quello libico, diviso in due settori, l'uno rivolto verso la Tunisia, l'altro rivolto verso l'Egitto, divisi l'uno dall'altro dalla sconfinata landa desertica della Sirte. Bisognava essere pronti a parare l'offesa che fosse pervenuta dai due settori avversari, difendere la costa dagli assalti aerei provenienti dalle munitissime basi di Malta e di Biserta: provvedere alla sorveglianza dell'insidiatissimo tratto di mare che va dalle coste sicule alle coste libiche: mantenere aperti gli occhi su tutto il settore saha-

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riano meridionale da cui potevano provenire puntate offensive. Essere, su tutti i fronti, preparati ad agire autonomamente, e in collaborazione con le altre forze armate : essere pronti, ovunque e sempre, per il bombardamento, per la caccia, per la ricognizione terrestre e marittima, per il mitragliamento a bassa quota, per la diretta partecipazione alla battaglia, sia col martellamento delle retrovie avversarie, sia per reagire contro gli analoghi tentativi di molestia ai nostri movimenti e al nostro schieramento che venissero fatti dal nemico. La guerra si svolgeva qui, per la maggior parte, in pieno deserto, in condizioni di speciale fatica sia per gli apparecchi che per gli uomini: con la costante minaccia di vedere anemizzata la vena dei rifornimenti attraverso il mare, e col còmpito essenziale di «tener duro» sulla sponda da cui il nemico, avanzando, avrebbe potuto aprire un fronte aereo in quasi diretto contatto con tutti i nostri territori insulari e peninsulari del Mezzogiorno. Il quarto fronte di combattimento, totalmente avulso dalla Madre Patria, isolato nel cuore dell' Mrica, assediato da tutta una ininterrotta serie di territori e di mari su cui il nemico era padrone e da cui gli potevano giungere a piacere suo i rifornimenti a noi invece negati, era quello dell'Africa Orientale Italiana dove l'attrezzatura a terra (campi, officine, depositi di carburanti e di parti di ricambio) era ancora, come era inevitabile a tre soli anni dalla conquista dell'immenso territorio, in uno stadio di preparazione. L'arma aerea- per evitare il fraZionamento delle sue forze che era già notevole data la necessità di essere presenti contemporaneamente su tanti linee di combattimento - aveva dovuto limitare la dotazione stessa dei velivoli al minimo necessario per una azione difensiva, per non gravare troppo su una organizzazione a terra che non poteva essere più alimentata se non per via aerea (con apparecchi da trasporto che superavano in volo metà dell'Africa) dei necessari rifornimenti. Su tutti e quattro i fronti l'aviazione doveva inoltre


provvedere alla difesa interna dei vari territori, tenendo pronte le sue squadriglie da caccia per cooperare nel cielo alla difesa che, da terra, sarebbe stata svolta dalle armi della difesa contraerea. Senza entrare in troppi particolari, è facile a chiunque immaginare quale immensa somma di lavoro organizzativo dovesse, nei vari fronti e nei vari settori, dalle Alpi piemontesi all'Egeo, dall'Albania alla Sirte, dalla Sardegna alle isole del Dodecanneso, dall'interno sahariano all'estremo lembo dei territori di Somalia, accompagnarsi a terra all'attività dei combattenti, per tutti i vari servizi indispensabili che, per l'Aviazione come per la Marina, formano un complesso organizzativo operosissimo e del tutto indipendente da quello normale dell'Esercito; così come è facile comprendere: quale somma di alacre attività fosse richiesta alla nostra industria, impegnata nel sempre più rapido accrescimento dei nostri contingenti, e impegnata a fornire d'armi, per tonnellagi che presto dovévano diventare colossali, i combattenti del cielo.

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Dei quattro fronti principali sui quali doveva svolgersi 1' azione dell'arma aerea, il primo, quello francese, venne a cedere dopo due settimane di combattimento. Ma, per due settimane, particolarmente dure e intense, il piano strategico dell'arma del cielo dovette, come si è detto, affrontare la battaglia su ben quattro fronti, e ciò fu fatto con una contemporaneità di azioni che dette subito al nemico la sensazione precisa della nostra decisione e della nostra capacità di superare con lo strenuo coraggio e con la intelligente distribuzione dei mezzi anche quella iniziale crisi che, per la trasformazione in atto dei nostri mezzi aerei, pareva dovesse tanto gravare sulla nostra efficienza. Sei attacchi a Malta, sette attacchi a Biserta, un attacco a Tolone, a Marsiglia e ad Alessandria d'Egitto, oltre a varì attacchi a basi della Corsica, del Kenia e del Sudan, portarono i nostri apparecchi sugli obiettivi delle basi navali.


Le basi aeree del nemico furono sottoposte al nostro martellamento nel territorio francese, con azioni contemporanee di fin settanta velivoli da caccia lanciati a mitragliare e a spezzonare e a incendiare gli aerodromi avversari di Cannet des Maures, di Hyeres, e di Pierrefcu, Malta, Tunisi, gli aeroscali della Corsica, Marsa Matruh e di Sidi el Barrani nell'Africa Settentrionale, Aden, Zeila, Gibuti e Berbera nell'Africa Orientale, sentirono sui propri impianti aviatorii il rombo dei bombardieri italiani. Gli impianti militari di Tolone e di Fayenne in Provenza, le opere militari in Tunisia e gli apprestamenti bellici nell'Alto Sudan furono sottoposti alle martellate delle nostre bombe di grosso calibro. In quattordici giorni i nostri aviatori non conobbero limitazioni nei loro raggi di azione, e, come la Marina in quelle due settimane ebbe schierate di fronte le flotte unite di Francia e di Inghilterra, che avevano, nei confronti con la nostra Squadra, una superiorità di 4 a I, così l'aviazione nostra affrontò le forze aeree riunite dei due alleati; e i notri reparti aerei coloniali si avventarono vittoriosi contro le due aviazioni coloniali, fino allora intatte e conservate integre per il combattimento, di Londra e di Parigi. In pari tempo, sul fronte alpino, l'aviazione conosceva il suo primo impiego in diretto concorso con l'armata terrestre, e sul mare, dove cominciava a svolgere, innanzi tutto, il suo lavoro di ricognizione che doveva rendersi sempre più minuzioso e prezioso ai fini della guerra aeronavale, affondava un incrociatore e due sommergibiH nemici. Il crollo della Francia, concluso con la firma dell'armistizio, liberava i nostri aviatori in un settore che andava dalla valle del Rodano alla Corsica e alla Tunisia, ma non risolveva - è bene ricordarlo - il problema del fronte occidentale, perchè, posta in mezzo al Mediterraneo, l'I talia doveva, con le azioni aeree, mélntenere sotto il suo controllo tutto il bacino orientale di quel mare, da Gibilterra a11e coste tunisine e al tratto di mare che si af-

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faccia al golfo di Genova. Se la scomparsa della Francia dal conflitto significava l'immobilizzazione dei suoi stormi da bombardamento e delle squadriglie da caccia, il fronte occidentale marino era sempre da considerare un aperto fronte di battaglia. Se ne doveva sapere qualche cosa nei vari attacchi che la nostra aviazione portava, in una varia successione di tempi, contro le navi inglesi - e in uno di questi, con volo eroico, perdeva la vita uno dei nostri più valorosi piloti, il generale Cagna, travolto dall'ala della morte mentre si avventava su una corazzata nemica, così come, poco tempo prima, sul fronte di Tobruk aveva donato la vita il Maresciallo dell'Aria Italo Balbo - da quelle basi aeree della Sardegna di cui bombardieri e aerosiluratori hanno fatto la pedana dei loro voli che hanno, per due anni, inchiodato la flotta inglese entro limiti di movimento estremamente prudenti sino a rasentare quasi la paralisi. Diminuito -con la scomparsa dell'aviazione francese - il contingente delle forze nemiche, erano rimasti dunque quasi identici i campi d'azione e la vastità del raggio delle imprese e la complessità .dell'impiego dei nostri mezzi e dei nostri uomini.

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Si iniziò, nel luglio del 1940, quello che i tecnici dell' arma aerea chiamano la fase di espansione delle nostre armi areee, fase che continuerà fino al novembre, con l'inizio delle nostre operazioni nel cielo della Grecia .. Si allarga il raggio d'azione delle armate terrestri- sono i giorni in cui le truppe di Amedeo di Savoia avanzano nella Somalia britannica e verranno i giorni in cui dalle montagne albanesi, si inizierà l'offensiva contro la Grecia, resa necessaria per precludere al nemico la creazione di un «secondo fronte» balcanico che avrebbe alla lunga portato all'accerchiamento del nostro Paese dal lato orientale, - e contemporaneamente si allarga il raggio d' azione delle nosfre forze dell'aria. Basterà una sehlplice enumerazione cronologica, an243


che senza fare una descrizione delle varie azioni e degli infiniti combattimenti che affollano il calendario bellico. Il comunicato del ro luglio segnala che l'aviazione abbia avvistate le forze navali inglesi in navigazione fra Creta e le coste dell'Africa settentrionale. Per tutto il giorno i nostri bombardieri si sono susseguiti sui bersagli, instancabilmente. L'aviazione segnava così il preludio di quello scontro navale che doveva prendere il nome di Punta Stilo, partecipava alla susseguente battaglia, non abbandonava il nemico quandq questi si ritirava sconfitto. Nello stesso giorno, a sud delle Baleari, altre formazioni nostre tormentavano col bombardamento una seconda squadra inglese in rotta verso levante. Il giorno seguente le navi inglesi, attorno a Malta, ancora una volta subivano il nostro attacco dall'aria, e il 12 e il 13 luglio,. partendo in massa dalle basi dell'Italia meridionale, dell'Egeo e della Libia, i nostri stormi battevano ancora una volta il naviglio britannico in navigazione verso levante. Furono settimane e mesi in cui, si può dire, non passava giorno senza che i nostri aerei non intervenissero contro le preponderanti forze navali dell'av.versario. Erano ore di impegno pesantissimo per la nostra Marina, le cui: unità maggiori del tipo Littorio erano alle ultime prove di tiro, e la nostra squadra non comprendeva che la serie delle corazzate rimodernate del tipo Cesare. Gli ammiragli inglesi, forti della potenza delle loro squadre e della superiorità numerica delle loro unità e della superiorità dei loro calibri, cercavano di conquistare il successo che facesse vacillare l'Italia· sul mare. La cooperazione dell'Aviazione fu completa. Altre tre volte - due nel Mediterraneo orientale e una volta ancora nel settore delle Baleari, a sud di Formentera -le sagome dei nostri bombardieri apparvero, con fuoco devastàtore, nel cielo della flotta nemica. Nello stesso tempo, obbedendo contemporaneamente al programma di offendere le basi avversarie e a quello di affermare, con impresa di alto prestigio morale, la nostra iniziativa e il nostro addestra-

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mento tecnico, si realizzavano le azioni di bombardamento delle lontanissime basi di Caifa e di Gibilterra, - in successive azioni ci si doveva spingere addirittura alle Baleari, nel golfo Persico, - mentre per cinque volte si bombardava il porto di Malta, per quattro volte si ritornava nel cielo della base navale di Alessandria, altre numerose volte si scaricavano bombe su Aden, Berbera e Porto Sudan. Intanto, in cooperazione con l'Esercito, si susseguivano senza interruzione le azioni contro le truppe nemiche e contro i loro apprestamenti, in Africa settentrionale e in Africa orientale. Si registrano, in quell'agosto del 1940, i primi attacchi a volo radente e il primo impiego della aviazione d'assalto. La Somalia britannica è occupata con l'intervento quotidiano dei nostri sia pure esili ma infaticabili reparti. Nell'avanzata su Sidi el Barrani l'aviazione è in prima linea.

IV. Abbiamo detto, più su, che l'aviazione è arma che si rinnova continuamente e che, come rinnova e migliora costantemente i suoi mezzi di combattimento, così vede rinnovarsi la sua tattica di impiego e vede, così, sorgere continuamente nuove specialità. Si erano già compiute, nel campo della tecnica di combattimento, le prime prove di azione a volo rasente. Doveva iniziarsi adesso la prova della nuova tecnica - con apparecchi idonei - del horn bardamento in picchiata, sopratutto contro le navi sulle quali il bombardamento o1'izzontale in quota non dava sempre risultati precisi, e, soprattutto, della tecnica dell'aerosiluramento. Era l'ora in cui si iniziavano, nei cieli che sovrastano alle coste della Cirenaica, i voli dei primi manipoli di aerosiluratori, che dovevano in seguito moltiplicarsi e costituire, nelle varie zone del Mediterraneo, le fiere pattuglie di guardia del nostro mare e di costante tormento delle unità avversarie I siluratori dell'aria segnano le loro prime smaglianti vit245


torie, proprio mentre la nostra azione bellica, in Cirenaica, subiva un periodo di crisi che doveva portarla, dalla primitiva fase offensiva, alla fase difensiva. Due incrociatori - il Kent e il Liverpool - venivano affondati dai siluri lanciati contro di loro dai nostri primi equipaggi di aerosiluranti. La nuova specialità cominciava ad affermarsi. Il suo successivo sviluppo doveva essere fatale per i movimenti delle forze nemiche in mare, sia che si trattasse di navi da guerra che di piroscafi naviganti in convoglio. Da quel momento le cronache della nostra guerra registrano sempre più numerosi gli interventi delle aerosiluranti, che rispondono nel tempo con un continuo e crescente martellamento all'operazione di massa compiuta dagli analoghi apparecchi britannici contro le nostre navi alla fonda negli ancoraggi di Taranto, operazione che, secondo la propaganda di Londra, doveva aver spezzato definitivamente le reni alla nostra Marina e da cui invece, con ricupero di straordinaria energia, la nostra flotta doveva risorgere a tale potenza da capovolgere, in breve giro di mesi, la situazione del Mediterraneo dove le navi inglesi erano finalmente costrette alla immobilità nei rifugi dei loro porti dove le andavano a inchiodare i nostri «mezzi d'assalto», iniziando la serie di quelle meravigliose imprese che dovevano essere più tardi prese a modello dai giapponesi negli attacchi a Pearl Harbour, a Sidney e Diego Suarez. Per quanto la nostra situazione cominciasse a presentarsi come critica nei possedimenti dell'Africa Orientale e per quanto non fosse lontano' il momento in cui dall'Egitto il nemico avrebbe sferrata la sua controffensiva, la situazione dei fronti continentali, dove l'atteggiamento della Grecia indicava imminente il tentativo britannico di costituzione di un secondo fronte nella penisola balcanica, costringeva l'Italia a prendere una decisione nei confronti del Governo di Atene che si mostrava pienamente asservito a Londra. Un nuovo fronte si apriva dunque al nostro esercito e alla nostra aviazione nelle immediate zone


ad oriente della nostra penisola. Un nuovo campo di battaglia si apriva fra Albania ed Epiro. I nostri aerei sono chiamati non solamente alle azioni di bombardamento delle basi aeronavali nemiche, da Creta al Pireo, ma ad una diretta partecipazione alla battaglia terrestre. L'aviazione- che a un certo punto dovrà assumersi anche l'impegno del trasporto di grossi contingenti di truppa attraverso l'Adriatico, mentre, con voli di eccezionale lunghezza e audacia, provvedeva anche a mantenere aperta la via aerea di comunicazione coi nostri presìdi dell'Africa Orientale, e dimostrerà così la sua estrema adattabilità alla utilizzazione nelle più variate circostanze deve intensificare all'estremo il suo nuovo impiego di combattimento. Martellare le retrovie nemiche e le sue basi aeree lontane e vicine non basta. I voli su Salonicco, sul Pireo, e sul labirinto montano delle vie di comunicazione dell'intera Grecia non bastano. Bisogna impegnare la caccia in costanti azioni di difesa delle nostre truppe, contro le quali, i bombardieri avversari, greci ed inglesi, esercitano i loro attacchi, e in difesa delle nostre basi albanesi e in protezione dei porti dove l'aviazione nemica interviene nel tentativo di ostacolare i nostri sbarchi. Durante le fasi più aspre dei combattimenti gli aerei intervengono a volo radente e in picchiata. Così l'aviazione dà il più valido e continuo appoggio all'esercito fmchè la pressione delle divisioni greche è contenuta, fermata, esaurita. L'offensiva ellenica era stata concretata e concordata con l'altra offensiva che andava intanto preparandosi contro il nostro schieramento in Cirenaica. I due alleati Grecia e Ingrulterra - obbedivano a un piano comune : colpire l'Italia su quei due fronti terrestri dove, per il fatto di esser separati dalla Madre Patria da ampi tratti di mare, le nostre posizioni erano più vulnerabili. La difficoltà dei rifornimenti alle armate dislocate sulla quarta sponda e sulla sponda albanese, la crisi, ma pur temporanea m cm si trovava la nostra Marina per il colpo di

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Taranto, concorrevano a rendere la situazione particolarmente favorevole all'avversario. Il nemico era contenuto e immobilizzato in Grecia; ma in Cirenaica bisognava accettare la sua iniziativa e, innanzi al suo colossale schieramento di mezzi, ripiegare su posizioni dalle quali come avvenne- passare poi, non appena ricevuti i rinforzi, al contrattacco. Si iniziava l'undici dicembre 1940 quella prima grand~ battaglia della Cirenaica che, durata :fino all'aprile, si concludeva infine con il nostro ritorno vittorioso alla frontiera egiziana. Pesante, sui due fronti, l'impegno che era affidato all'esercito, e non meno pesante quello della aviazione~ in quello scorcio del 1940 e all'inizio del 1941. La nostra aviazione, già, come abbiamo detto, impegnata in tanti settori, aveva inoltre voluto da parecchi mesi essere presente su un altro fronte aereo, quello contro l'Inghilterra. Il corpo Aereo Italiano (C.A.I.) aveva dato lassù, a fianco dei camerati aviatori tedeschi, altissime prove di eroismo, di spirito di sacrificio, di pronto adattamento alle difficilissime situazioni locali sia belliche che organizzative e meteoriche. Il comunicato germanico ne da va varie volte testimonianza. ~a le vicende della guerra avevano, in quei primi sette mesi di guerra, logorate notevolmente le nostre forze aeree, e per questo, mentre rientravano dagli aerodromi delle Fiandre i piloti del C.A.I., in cameratesco ricambio di quanto le forze aeree nostre avevano voluto fare sul fronte della Manica, cominciavano ad affluire in Italia i primi reparti della Luftwaffe. La battaglia della Cirenaica vedeva svolgersi in combattimenti a·acan~tissimi le varie fasi che dovevano portare le nostre truppe sulle posizioni di difesa sulla Sirte da cui avrebbero poi sferrato il contrattacco. L'aviazione era impegnata sopratutto contro le colonne delle forze corazzate nemiche per ostacolarne la marcia, per spezzare la coesione della loro manovra, per frenare la loro corsa di spinte. Sono le ore del combattimento dell'aeroplano contro il carro armato e contro l'autoblinda, duelli per la


terra e il cielo a colpi di bomba e a colpi di cannone. Nella prima fase dell'offensiva inglese, quel che veniva fatto dalla V Squadra aerea in Cirenaica veniva definito dal Duce al suo comandante come « semplicemente ammirevole)). Con pari ardire si operò durante la seconda fase, anche più dura, non più ai confini dell'Egitto, ma, questa volta, in piena Marmarica e nei pianori e sugli acrocori del Gebel cirenaica. Il nemico avanzava, ma la resistenza era tale che, alla fine della sua azione, egli si sarebbe trovato, come accadde, stremato a tale punto da consentire la riorganizzazione dei nostri mezzi e la nostra implacabile e vittoriosa rapidissima controffensiva. L'aviazione da caccia, in quel periodo, scrisse pagine fulgide. Essa era già oberata dal suo tipico compito, che era quello del duello aereo: bisognava che essa ne accettasse un altro, e cioè quello dell'impiego in offesa contro obbiettivi a terra - mitragliamento e spezzonamento di reparti nemici e dei loro mezzi motorizzati e corazzati - perchè gli aeroplani di assalto erano numericamente scarsi e i bombardieri non potevano operare agevobnente e con efficacia a volo rasente. La caccia fu sempre eroica e infaticabile anche ai nuovi compiti. Il nemico avanzava, ma, per quanto riuscisse a conquistare la Cirenaica, non riusciva a quello che avrebbe dovuto essere il suo compito: l'annientamento delle nostre armate : ed anzi, mentre queste potevano schierarsi a difesa nell'arco Sirtico e riorganizzarsi, il logoramento da noi imposto al nemico era tale da rendere la sua posizione, in breve tempo, talmente critica da dovere, con una precipitosa ritirata, perdere poco dopo tutto il territorio conquistato per riportarsi in contatto con· le proprie basi. S'iniziava in quel tempo la collaborazione del corpo aereo tedesco. Tutte le forze del nemico sono impegnate, in quel duro inverno, contro di noi : nell'Africa settentrionale, in Grecia, nell'Africa Orientale, nel Mediterraneo. Bisogna dunque prodigarsi in tutti gli scacchieri, e non c'è specialità dell'arma aerea - dalla caccia al trasporto

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- che non sia chiamata a prodigarsi quotidianamente con un eroico ardore che alla lunga porta al logoramento, ma che non per questo rallenta il suo slancio. Si sa che la primavera riporterà per noi condizioni favorevoli, e che i piani degli Stati Maggiori sono pronti per una formidabile ripresa. Lo sa anche il nemico, e per questo cerca di accelerare i tempi della sua azione, tentando di aumentare la sua pressione contro la «muraglia di mare)), in Albania, sia insistendo alla sua offensiva libica, sia moltiplicando le sue azioni nel Mediterraneo per mantenere vitale la piazzaforte di Malta e per consentire 11 passaggio dei convogli di rinforzi. Su un solo fronte, qualche mese dopo, al termine di una resistenza che avrà pagine leggendarie a Cheren, sull'Amba Alagi, a Gondar, a Culquabert, si è costretti, per l'esaurimento d'ogni arma e per la mancanza di viveri, a cedere. Ma in Albania si prepara l'offensiva, sulla Sirte ci si prepara al contrattacco, nel Mediterraneo i nostri convogli passano. Il nemico ricorre a tutto: al terrorismo del bombardamento navale contro la popolazione inerme di Genova; a una presuntuosa apparizione di paracadutisti in Calabria. Tutto si dimostrerà inutile. Malta è bombardata. Sono le prime operazioni svolte dal Corpo Aereo Tedesco, che, in seguito, svolge altre azioni, sempre più numerose, contro le navi da guerra nemiche, e infine, al nostro fianco, in Libia. Bengasi è caduta; i velivoli inglesi attaccano Addis Abeba mentre gli ultimi nostri velivoli dell'Etiopia compiono prodigi di valore. Ma la fase più critica sta per essere superata. Lo sbarco inglese all'isoletta di Castelrosso nell'Egeo si conclude con la fuga, dopo tre giorni, dei reparti che vi erano sbarcati; e anche in questa occasione l'arma aerea dà il suo validissimo concorso. Il nemico è giunto alle soglie dell'arco sirtico. Addis Abeba e Massaua sono evacuate. Aspre battaglie navali si svolgono nel Mediterraneo. Ma lo sforzo del nemico è stato esaurito dalla nostra resistenza. La Tripolitania è saldamente nelle nostre mani, e nelle 250


sue basi, dove affluiscono nuovi mezzi italiani e tedeschi, si organizza la controffensiva. Il fronte albanese è passato al movimento in av:anti, dopo i duri sacrifici che hanno permesso di resistere nell'inverno. Le basi dell'Egeo hanno resistito ad ogni attacco. Il momento della ripresa si avVlcma.

v. Abbiamo detto che nelle basi della Tripolitania, per quanto tormentate dagli aviatori della R.A.F. affluivano nuovi mezzi. Fu il « miracolo organizzativo >> di quell'inverno. In Libia arrivarono non solamente le nuove armi e i nuovi reparti dell'esercito, a rinsanguare le armate affaticate in tre mesi di battaglie : arrivavano sempre nuovi aerei, italiani e tedeschi, da bombardamento, da picchiata e da assalto. Arrivava, con ogni me,zzo, la bènzina; arrivano tonnellaggi altissimi di esplosivo; arrivavano carichi preziosi e mortali di siluri. Tutta la costellazione degli aeroporti, sino a quelli avanzatissimi, brulicava di uomini al lavoro. Il nemico, che era avanzato fino ad Agedabia, sentiva ogni giorno ogni suo movimento controllato dalla nostra ricognizione. Il caposaldo di Malta, indispensabile perno di manovra -di ogni sua azione e di ogni suo trasporto nel Mediterraneo, era sottoposto al nostro controllo aereo. Il canale di Sicilia era vigilato in modo da rendere onerosissimo il pedaggio a chi vi voleva transitare. Da un'ora all'altra la situazione di vantaggio del nemico doveva capovolgersi. Esso aveva creduto che quell'inverno fra il 1940 e il I94I dovesse essere come quello della nostra disfatta. I primi dieci giorni dell'aprile bastarono perchè egli dovesse, in fuga rovinosa, retrocedere sino alla frontiera egiziana, mantenendo solo l'approdo di Tobruk. In dieci giorni, la nostra aviazione di Libia - rinata più forte di prima dalle estreme fatiche dell'inverno, fiancheggiata dagli aviatori tedeschi, il cui afflusso era stato consentito dalla rallentata pressione aerea sull'Inghilterra 251


rovescia sul nemico in fuga cateratte di esplosivo: si avventa cento e cento volte a mitragliarlo; lo perseguita su tutte le carovaniere; non lascia senza osservazione un suo solo movimento: parte per silurare le sue navi in alto mare; schianta le sue navi attraccate nei porti per l'imbarco dei fuggiaschi: si spinge agli estremi limiti a tormentare le basi egiziane. Pertanto si è iniziata l'offensiva in pieno, e, in pari tempo, per rispondere al colpo di stato dei congiurati di Belgrado, la nostra aviazione organizza fulminea le schiere dell'aria che si abbatteranno distruttrici contro gli jugoslavi. Più che la nostra rievocazione e la nostra analisi, sono limpidi, nella loro storica concisione, i brani dei comunicati che si riferiscono alle azioni di quelle giornate. Il comunicato del 7 aprile dice : « Iniziatesi ieri le <<ostilità contro la Jugoslavia, nostre squadre aeree hanno cc attaccato obiettivi aeronautici navali e terrestri, sui c< fronti greco e jugoslavo». È tutta una serie di operazioni ardite, condotte per la maggior parte a volo rasente contro aeroporti, idroscali, opere portuali, vie di comunicazione; spesso in concordanza a vasto raggio con le operazioni terrestri, e spesso coadiuvando direttamente l'azione delle truppe. Il comunicato del 14 aprile dice_: cc Le colonne gre« che in ritirata sono di continuo mitragliate dai nostri cc aerei da caccia; nostre formazioni da bombardamento cc agiscono su posizioni, baraccamenti e vie di comunica<< zioni del nemico ». E più in giù : « La base aerea di u Mostar è stata ripetutamente attaccata con particolare << intensità da nostre formazioni da bombardamento e da «caccia; sono state incendiate due aviorimesse e un depo<< sito di carburante e danneggiati gli impianti aeropor<< tuali; sessantadue velivoli nemici sono stati distrutti ed cc altri 15 danneggiati». Il comunicato del 20 aprile dice : <<Numerose unità aeree da caccia, da bombardamento e « da attacco in picchiata, per un totale di 450 velivoli, « hanno compiuto intense continue azioni contro l'esercito << greco in ritirata. Sono stati colpiti concentramenti di


«truppe, baraccamenti, postazioni di artiglierie, e inter« rotti ponti e rotabili. Centinaia di automezzi carichi di « truppe e di materiale sono stati distrutti. L'aeroporto di u Katsika (Gianina) è stato attaccato a volo rasente». L'armata greca dell'Epiro era costretta a capitolare il 23 aprile. Il 20 aprile i tedeschi entravano ad Atene. Il 30 aprile i paracadutisti italiani occupavano Cefalonia e Zante, mentre fin dal 27 aprile un gruppo di nostri idrovolanti aveva compiuta la prima occupazione di Ceisa, in collaborazione con le Camicie Nere. Nello spazio di un mese la Cirenaica era stata riconquistata, e la Grecia e la Jugoslavia erano state vinte, stroncando il progetto anglosassone di costituire nei Balcani un secondo fronte continentale contro l'Italia e la Germania. Così si era risposto alle minacce di Londra, costretta alla disastrosa fuga anche dalla base di Creta, da cui aveva sperato fino all'ultimo di mantenere gli approdi per le sue navi e le basi per i suoi aerei. Da quel momento doveva palesarsi per l'Impero britannico, la gravità della crisi che per lui si preparava a maturare nel Mediterraneo, in quella zona che rappresenta per lui, nel grande quadro del conflitto che ormai andava investendo tutti i contraenti, un settore di vita o di morte. L'aviazione diventava padrona dei punti di appoggio della Grecia e di Creta, che venivano ad aggiungersi a quelle della Libia e della Sicilia. La flotta britannica veniva avviata alla paralisi. Si stringeva l'assedio sul cielo di Malta. Nel solo settore dell'Etiopia gli inglesi alleati allo schiavista Ailè Selassiè riuscivano a cogliere un alloro, non certamente glorioso, perchè anche il presidio dell'Amba Alagi, con 1'eroico suo condottiero, era costretto a porre termine alla sua resistenza, ormai impossibile per la mancanza di ogni risorsa anche per la cura dei feriti. Amedeo di Savoia seguiva la sorte delle sue truppe, verso quella prigionia di Nairobi dove egli infine doveva conoscere l'estremo olocausto. Ma la fine, che ormai era vicina, della resistenza in Etiopia

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non valeva a compensare lontanissimamente la paurosa gravità della sconfitta in quel settore del Mediterraneo che, ai fini generali della guerra, si dimostrava sempre più uno dei fulcri del colossale conflitto. Con la caduta di Creta venivano a cadere tutte le isole dell'arcipelago greco, rendendo sempre più larghe per noi le possibilità di controllo nel Mediterraneo orientale. La nostra azione aerea della primavera e dell'estate veniva dedicata nella maggior parte a una sempre più intensa affermazione della nostra vittoriosa presenza sul mare. Nel giugno veniva replicatamente battuta la base di Cipro. Il 23 luglio il Mediterraneo centrale vide in una grande battaglia i nostri aerei impegnati contro un convoglio nemico scortato da corazzate, incrociatori, navi portaerei e · siluranti. Mentre la caccia nostra batteva i cacciatori britannici levatisi dal ponte di volo delle contraerei per opporsi alla manovrata azione dei nostri aerosiluranti, questi si buttavano all'attacco con una aggressività che doveva portare a risultato clamoroso. La battaglia continuava il 24 e il 25 luglio con l'intervento di bombardieri, apparecchi da picchiata e aerosiluranti che non dettero tregua al nemico in ritirata verso occidente. Il nemico non voleva accettare la sconfitta subita jn Cirenaica, e, concentrando tutti i suoi mezzi preparava per l'autunno un nuovo tentativo offensivo. Per questo dov e~ va, in ogni modo, tentar di ostacolare, coi sommergibili, con puntate navalj, e con l'azione aerea che partiva dai ricoveri blindati di Malta, il traffico dei nostri convogli, e doveva tentare parimenti - ora che poteva disporre delle masse da manovrare e dei mezzi resi disponibili con la fine delle ostilità in Etiopia, e subito trasportati in Egitto - di alimentare in ogni modo i rifornimenti via mare per Malta e Tobruc, su cui doveva imperniarsi la sua nuova offensiva. Questo suo proposito era evidente sempre più mentre si avvicinava l'autunno. Le armate germaniche avanzavano in Russia con una celerità e una potenza che sfrancava per enormi settori di territori; si era in vista di 254

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Mosca, le armate sovietiche, gli alleati anglo-russi avevano una sola speranza : quella di aggiungere un altro inverno a quelli già trascorsi dall'inizio del conflitto, contando sugli elementi sfavorevoli che la stagione porta con sè. Anche in Libia e nel Mediterraneo si cercava di «agganciarsi» all'inverno per una nuova fase offensiva. Di qui l'impegno messo dall'Inghilterra, a costo di cruenti sacrifici aerei e navali, per superare le difficoltà che si opponevano ai suoi movimenti nel Mediterraneo. Da parte nostra Malta e Tobruk venivano, in risposta, bombardate continuamente. I concentramenti n.emici in Egitto e in Marmarica subivano martellamenti continui. In una sola azione - i l 3 settembre - dopo un attacco a volo radente, i velivoli italiani facevano precipitare in fiamme r8 apparecchi avversari: 22 ne venivano abbattuti il 4 settembre nel cielo di Malta: 12 il rs settembre sul fronte Marmarico, e intanto, alla fine di settembre, quattro successive ondate di velivoli partite dalle basi della Sicilia e della Sardegna davano una durissima lezione a un convoglio inglese scortato da una nave da battaglia, da una portaerei, da vari incrociatori e da dieci · cacciatorpediniere.

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L'avvicinarsi dell'inverno doveva. far credere ai comandi inglesi giunta l'ora adatta per sferrare quella nuova offensiva che Churchill chiamò, con ben precipitosa esaltazione, cc l'offensiva di due ore ». Per prepararla:, Londra aveva aggiunto alle truppe dell'armata accampata in Egitto, le truppe che avevano concluse le operazioni in Etiopia, aveva attinto nuove riserve dall'India e dall' Australia sguarnendo quel punto dell'Estremo Oriente su cui doveva irrompere 1'8 dicembre, violentissima, l'offensiva nipponica; aveva insomma mobilitate tutte le forze dell'Impero, dei Domìni e delle colonie, con lo scopo di giungere, con una marcia travolgente, addirittura a Tripoli e al confine tunisino. Il 19 novembre, all'alba, la grande

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macchina di guerra preparata fra il Delta del Nilo e la Marmarica iniziava la sua azione. Ma le « due ore>> non bastavano: nè bastavano i giorni e le settimane per realizzare il superbo programma anglosassone. Con una manovra di ripiegamento strategico che fu esemplare per l'ordine e per l'eroismo dei reparti impegnati, le truppe di Bastico e di Rommel si portarono all'arco della Sirte donde, poche settimane dopo, dovevano muovere in un contrattacco che può definirsi fulmineo. Le truppe della colossale armata imperiale britannica, che avevano impiegati 40 giorni per spingersi dall'Halfaya alla soglia della Sirte, in meno di una settimana, riperdevano tutto il territorio occupato, e, dopo la riconquista di Bengasi, dovevano riparare oltre Ain El Gazala, appoggiandosi ancora disperatamente alle fortificazioni del settore di Tobruk. Il 5 febbraio la battaglia della Cirenaica era conclusa, ancora più rapidamente che la prima volta, con la nostra vittoria. Con le colonne motorizzate, con i reparti di ogni corpo dell'esercito, con la valorosissima Marina che, alla vigilia della battaglia, aveva inchiodate nel porto stesso di Alessandria due fra le maggiori corazzate inglesi (mentre una terza corazzata veniva inabissata innanzi alle çoste della Marmarica dai siluri di un sommergibile germanico), la nostra aviazione, in unione a quella tedesca, dette il suo concorso inesauribile alla grande vittoria che doveva portarci in quei territori da cui, in queste prime roventi giornate d'estate, le truppe dell'Asse si sono mosse nuovamente all'attacco. Siamo così giunti, tracciando le linee principali degli avvenimenti di questi due anni di guerra, a questi giorni che vedono appunto il compimento di due anni di azioni. Gli avvenimenti che si stanno ora svolgendo appartengono alla storia che potrà essere scritta solo più tardi : la cronaca deve limitarsi a notare come essi mostrino .di nconnettersi, anche in ogni minima azione, sempre più strettamente al complesso delle azioni belliche che interessano ormai tutti i continenti e tutti gli oceani. Per conto nostro,


mentre anche nelle prove che si svolgono in queste giornate, l'aviazione mostra il suo ardire e la sua strenua combattività- le perdite finora inflitte all'aviazione avversaria in Marmarica sono ingenti - un altro degli epicentri di azione è ancora una volta, come sempre lo è da mesi e mesi, Malta. Il Mediterraneo è ancora al centro della nostra attività. Ma questo non ha impedito che, anche in settori che chiameremo laterali, la nostra aviazione aveva voluto e saputo prodigarsi. È stato affidato alla aviazione dislocata nei settori dei Balcani soggetti alla nostra operazione lo svolgimento delle operazioni di « grande polizia n che controllano le zone dove gruppi di ribelli istigati dalla propaganda anglo-comunista tentano azioni di perturbamento e di molestia. Ma, sopratutto, è da ricordare l'altissimo contributo di valore dato. dai nostri aviatori del Corpo italiano di spedizione in Russia alla nostra partecipazione armata alla guerra contro i Soviety. Sia durante l'avanzata dell'estate scorsa in Ucraina e verso il bacino del Donez, che durante il gelido e tormentoso inverno nel settore affidato alla difesa delle nostre truppe, gli aviatori d'Italia hanno, in quei cieli lontani, portato i loro apparecchi in vittoriosa prova contro i piloti bolscevichi, seminando gli sterminati campi di neve e di fango di quelle zone di rottami degli apparecchi rossi abbattuti in numerosissimi duelli aerei. Anche li ogni specialità dell'arma, rappresentata nelle squadriglie dislocate a tante migliaia di chilometri dalla Patria, ha fatto, con esemplare slancio, il suo dovere : assicurando trasporti e rifornimenti nella stagione più inclemente, martellando le divisioni nemiche, spingendosi quotidianamente nel territorio avversario per la ricognizione, mitragliando e spezzonando aeroporti, respingendo e facendo precipitare al suolo i bombardieri nemici. Il prestigio delle ali d'Italia, anche in quei lontanissimi settori, è affidato a cuori che ardono di fede e di ardire impareggiabile. La guerra entra, il IO giugno 1942, nel suo terzo anno. Trova la nostra aviazione avvantaggiata dal non essere

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più costretta a disseminare le sue forze su infiniti fronti, la trova potenziata nella massa e nella qualità degli apparecchi i cui nuovi tipi, per ogni categoria, offrono notevoli miglioramenti in confronto a quelli di cui si disponeva due anni or sono, quando appunto si dovette entrare in guerra in un periodo di trasformazione del materiale. La trova sempre più salda nei cuori, inorgogliti dall'esempio eroico dei Caduti e dalla passione superba delle infinite vittorie individuali e collettive. Anche là dove i nostri soldati, vinti dalle privazioni e dalle ferite, hanno dovuto cedere, in Etiopia, l'ala d'Italia è tornata, nel giorno dell'Impero, a recare la infallibile promessa della vittoria e del ritorno. La guidava uno che fu compagno di volo di un altro glorioso Caduto dell'Aeronautica, il transvolatore di oceani Bruno Mussolini. Quella premessa di vittoria, recata sulle ambe africane, passa gagliarda, incitatrice, elettrizzante, su tutti i fronti, vicini e lontani, dovunque è un'ala d'Italia, dovunque un pilota d'Italia dà il segno di avvio alle eliche perchè solchino i cieli, su ogni terra e su ogni mare, con la bomba, con la mitraglia e col siluro, per fare sempre più ampia e luminosa la via della vittoria e della giustizia. ORIO VERGANI


fiNI IO DI Sì AMPAH P~R l TIPI DI "NOVISSIMA" NEl GIUGNO 1942-XX


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