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La Divisone di Fanteria "Acqui" sull'isola di Cefalonia

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LA DIVISIONE DI FANTERIA «ACQUI» SULL’ISOLA DI CEFALONIA

Cosa avvenne a Cefalonia nel settembre del 1943? Una lotta pazzesca e inutile, così la definirono, tra l’altro, il Maresciallo Alexander e l’Ammiraglio Cunningham, inglesi. Undicimila Italiani contro duemila Tedeschi. Novemila morti. «A Cefalonia - scrive don Luigi Ghilardini, un testimone - nessuno scelse la morte per la morte. Sulla bilancia la decisione, da una parte fu messo il ragionamento, dall’altra il peso dell’Onore. E questo fu troppo grande perché si decidesse altrimenti».

Cefalonia: 760 Kmq di superficie, 280 Kmq di sviluppo costiero. L’isola è percorsa in senso longitudinale da catene montuose di natura carsica. Il terreno è aspro, brullo, rotto da rapidi avvallamenti. Stesso

aspetto presentano le coste orientali, che scendono quasi a picco sul mare, ad eccezione di un tratto centrale, dove il defluire montagnoso s’addolcisce nell’ampio bacino di Sami. Più confortevole è la vista

delle coste sul versante occidentale: basse, corrono con lunghe strisce lungo il mare; l’attracco con mezzi da sbarco è facile, essendo favorito tra l’altro da una discreta rete stradale che s’irradia verso l’interno. Centri abitati degni di rilievo: Argostoli e Luxuri, l’uno di fronte all’altro sulle opposte estremità della grande baia di Argostoli. Questa è l’antica «Kefallenia», che significa appunto «isola elevata». Cantata e maledetta, si erge nel mezzo del mitico mare di Ulisse, circondata da isole cariche di leg-


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genda e di storia: Santa Maura, Zante, Itaca, l’arcipelago delle Echinadi. In quelle acque girovagò Telemaco in cerca del padre; vi sospirò, dall’alto del monte Ermeo che domina Itaca, Penelope in angosciosa attesa dello sposo; si diedero battaglia i Turchi e i Cristiani nella memorabile battaglia di Lepanto. Cefalonia è la più grande delle Isole jonie e con queste essa fa da antemurale al continente greco, di cui praticamente comanda l’accesso. Le chiavi di Corinto - si diceva - sono a Cefalonia. Praticamente le chiavi della Grecia, per l’ingresso da Occidente. Per questa sua funzione antemurale della Grecia, nel corso della storia, Cefalonia non fu dimenticata da nessuno. Non la dimenticheranno gli Ateniesi e i Romani: il Console Marco Fulvio vi arrivò verso il 180 a.C. (verso la fine della guerra etolica) e impose alle quattro città che allora vi fiorivano di arrendersi senza condizioni. Tutte capitolarono, meno una: Sami. Dopo un assedio di quattro mesi, fu espugnata; la città rasa al suolo, i suoi abitanti portati a Roma e venduti come schiavi. Non dimenticarono Cefalonia i Macedoni, i Bizantini, i Normanni, i Veneziani, i Turchi. In tempi più recenti vi furono anche Francesi e Inglesi. Infine, nel giugno 1941 vi giunsero gli Italiani. Dallo Stato Maggiore italiano l’isola era considerata una potente avanstruttura difensiva del lembo sud occidentale della penisola balcanica. La Divisione di fanteria «Acqui» giunse a Cefalonia il 18 gennaio 1943, proveniente da Corfù, dove aveva stazionato un anno e mezzo a curarsi le ferite contratte sul fronte greco, che erano gravi. I reggimenti fanteria 17° e 18° erano dissanguati. Il salasso era avvenuto nei settori di Dhermi-Vunoij-Himara e in quello di Telepeni. Situazione drammatica: si trattava di arrestare l’offensiva greca che stava per dilagare lungo la linea del litorale sino a raggiungere Valona. La Divisione vi era stata scaraventata per arginare la falla,

Sopra. Benedetto di Savoia, Duca di Chiablese.

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«De sury», dai nomi dei diversi Comandanti. Nel 1774 assume il nome di «reggimento del Chiablese», dal Duca di Chiablese, fratello del Re Vittorio Amedeo III: è in questa circostanza che nella Bandiera del reggimento viene introdotto lo stemma del Chiablese, che diventerà poi quello della «Acqui». Nel 1796 il reggimento passa alla Francia, accresce il numero dei suoi effettivi, che recluta prevalentemente nella provincia di Alessandria. Di qui il suo nome di «Brigata di Alessandria». Nel 1821 la «Brigata di Alessandria» è sciolta in seguito ai moti rivoluzionari. Si scopre che alcuni Ufficiali erano implicati. L’unità rivela già il suo caratterino, non è la solita Brigata sorniona; già manifesta nelle sue arterie le prime tracce di quel «male» nobile, che un giorno la sublime-

A destra. Il Generale di Divisione Antonio Gandin. A sinistra. Le isole di Cefalonia e Itaca.

dopo essere stata prelevata dal fronte occidentale dove aveva combattuto contro i Francesi in Val di Stura, tra il Colle della Maddalena, l’Argentera e i Bagni di Vinadio. Era la seconda volta che questa unità piemontese, fondata da un Colonnello dal cognome francese, combatteva contro i Francesi. La prima volta fu nel settembre 1706, dopo un brusco cambiamento di fronte che ha inquietanti analogie con quello di 237 anni dopo. La «Acqui» nacque nel 1703 come Reggimento di Fanteria «Des Portes», dal nome del Colonnello Giovanni Ludovico Des Portes che lo fondò. Era un reparto di formazione, allestito in fretta e furia per tamponare l’emorragia dell’Esercito piemontese, preso tra due fuochi: ispano-francese da una parte, ingleseprussiano-olandese dall’altra. Successivamente il reggimento passa attraverso diverse denominazioni: reggimento «Audibert», «Monfort»,

rà e la perderà: un’accentuata pressione patriottica. Verso la fine del 1821 l’unità è ricostituita per ordine di Carlo Felice e assume il nome di Brigata «Acqui». Anzianità: 4 dicembre 1821. Nel 1832 l’«Acqui» riceve la bandiera: croce bianca su fondo rosso; i reggimenti che la compongono sono il 17° e il 18°. Come tale essa partecipa alla Prima Guerra d’Indi-


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tezza, su due battaglioni (909° e 910°), e la 202a Sturmbatterie su sei pezzi da 75 e tre pezzi da 105. In totale circa 2 000 uomini, fra cui 25 Ufficiali. Il Generale di Divisione Antonio Gandin assume il comando militare di Cefalonia nel giugno del 1943. Alle spalle, la campagna di Russia; sul petto, una Croce di Ferro di 1a classe tedesca. Conosciuto e apprezzato dallo Stato Maggiore della Wehrmacht, apparentemente egli ripete la tipica figura del Generale tradi-

pendenza. Il 21, 22, 23 marzo 1849 si copre di gloria a Novara: sullo stendardo del 17° viene appuntata la prima Medaglia d’Argento al Valor Militare. 1885: campagna di Crimea. La «Acqui» vi è rappresentata da alcune compagnie: decimate dal piombo e dal colera. 1859: la «Acqui» è al completo sul Colle San Martino. Dal 1861 al 1864, dislocata nell’Italia meridionale per la repressione del brigantaggio. Nel 1896 è sugli altipiani eritrei nella prima sfortunata Guerra d’Africa. Partecipa alla campagna libica nel 1911. Prima guerra mondiale: lanciata sul settore di Vermegliano-Cave di Selz nel luglio 1915, sacrificata sul Monte Sei Busi nell’agosto, inchiodata sull’altipiano di Asiago nel giugno 1916, scaraventata nel settore di Monfalcone nel novembre 1916, gettata nella fornace delle battaglie dell’Isonzo nella primavera 1917. È a Caporetto, sul Piave, sul Grappa. Il 3 novembre 1918 entra a Rovereto. La vittoria la restituisce alla caserma esangue, ma con i labari dei suoi reggimenti decoratissimi, con 15 Medaglie d’Oro a Ufficiali e soldati, 475 Medaglie d’Argento, 708 di Bronzo. Nel 1939, in seguito al riordinamento dell’Esercito, le viene aggiunto un reggimento di artiglieria, il 33° e diventa Divisione di Fanteria «Acqui». Durante l’ultima fase della campagna di Grecia, è immesso nella «Acqui» un nuovo reggimento di fanteria, il 317°.

Sopra. Soldati tedeschi si arrendono agli italiani. A destra. Il Generale Gherzi.

L’8 settembre del 1943 trova la Divisione «Acqui» schierata quasi al completo sull’isola di Cefalonia. Fanno eccezione il 18° reggimento fanteria, il 111° gruppo del 33° artiglieria dislocato nell’isola di Santa Maura. A Cefalonia sono il Comando di Divisione, il Comando di fanteria divisionale, il Comando reggimentale del 33° artiglieria, un battaglione del genio divisionale, i servizi sanitari (tra cui tre ospedali da campo e un nucleo chirurgico). Alle dirette dipendenze della «Acqui» è pure il Comando Marina di Argostoli. Sono inoltre stati aggregati alla Divisione, come mezzi di rinforzo, due compagnie di mitraglieri di Corpo d’Armata, tre gruppi artiglieria di Corpo d’Armata (il 7°, il 94° e il 188°), un gruppo contraereo, due compagnie lavoratori, una compagnia autieri, una sezione fotoelettrica, sezioni minori di cannoni da 70/15 e di mitragliere contraeree da 20 mm. Un imponente complesso che si aggira sugli 11 000 uomini di truppa e 525 Ufficiali. Tra il 5 e il 10 agosto 1943, a rafforzare il presidio italiano, sbarca un contingente tedesco. Si tratta del 966° reggimento granatieri di for-

zionale italiano: signorilità e correttezza nei modi, un certo rigore formale nei tratti coi collaboratori, profonda cultura umanistica di base. Di diverso porta una nuova concezione nei rapporti con la truppa. Esige il contatto diretto con i soldati, ama discendere in mezzo a loro, interrogarli e ascoltarli alla buona. È da quattro mesi al comando della «Acqui»: il tempo sufficiente per farsi conoscere dai suoi Ufficiali e benvolere dai soldati. Dicono di lui: «È un papà». Il Generale Gandin ha una peculiarità: quella di rendere la «naja» sopportabile. Si sforza di vedere dietro ogni soldato il viso di una madre o di una sposa. Parlando con i suoi collaboratori, non dice: «i miei soldati»; dice: «questi figli di mamma». L’espressione è sua. Tale visione


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umana gli semplifica il problema del comando ma gli lacera la coscienza. I «figli di mamma» non sono fatti per essere sacrificati inutilmente, in un gesto spettacolare e romantico. Il soldato deve ubbidire, marciare, combattere, e, se necessario, morire: ma soltanto quando è necessario. La guerra è una cosa seria; ma anche la vita, con le stellette o senza, è una cosa seria. In quanto all’onore militare, non ci sono dubbi per lui: l’onore è anche prudenza, è anche intelligenza, è anche buonsenso. Ad ogni modo, esso comincia sempre da un punto: dall’ubbidienza; questa è la sua «dottrina». Ma tra l’ordine freddo e l’ubbidienza cieca, il Generale Gandin introduce un terzo incomodo: la coscienza. Egli è tutto qui: nella sua grandezza e nella sua tragica solitudine. L’8 settembre 1943, alle venti, anche ad Argostoli arriva la comunicazione ufficiale: «Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto l’armistizio al Generale Eisenhower, Comandante in capo delle forze alleate anglo-americane. La richiesta è stata accettata. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza». La notizia dell’armistizio corre da un capo all’altro dell’isola, investe i presidi, passa attraverso i Comandi, raggiunge i più lontani distaccamenti; nel breve volgere di un’ora è sulla bocca di tutti, l’isola sembra travolta da un’ondata di euforia; da un capo all’altro è tutto un suonare a distesa di campane. Scrive padre Fortunato Formato, Cappellano militare: «Si udirono a lungo - in segno di allegria - colpi di moschetto, di pistole, di bombe a mano; si videro soldati italiani fraternizzare e cantare, a braccetto, coi soldati tedeschi; la gente si abbracciava per le vie...». Lì per lì, nessuno sta a ragionare molto. Nel delirio

dei primi momenti, per ognuno l’armistizio ha un suo significato. Per gli Italiani esso significa la fine della guerra, la fine dei lunghi mesi di guarnigione, il ritorno a casa, dalla madre, dalla moglie, dai figli. Per i civili greci, l’armistizio è la fine dell’occupazione, la vittoria, la libertà. E per i Tedeschi? Quelli di stanza ad Argostoli sono per la maggior parte Austriaci di classi anziane, richiamati, strappati ai loro villaggi e gettati in quest’isola, accanto a mitragliatrici e a pezzi semoventi, a guardare il mare e a... bere con l’occasione boccali di vino. E da buoni Austriaci, gran bevitori fuori servizio, quella sera alzano volentieri il gomito, si ubriacano, cantano: e per un momento, le loro nenie melanconiche si intrecciano con i cori dei Fanti e degli Artiglieri italiani. Un’ora di allegria generale. Ore ventuno. Prima doccia fredda. Ordine del Comando Divisione italiano: le truppe restano consegnate in caserma, coprifuoco per la popolazione civile, disciplina. L’ordine vale per tutti: Italiani e Tedeschi. Ore ventuno e trenta: i primi pattuglioni misti - Italiani e Tedeschi - si affacciano nelle strade, perlustrano i Paesi. Un silenzio improvviso, pesante, carico di attesa e di angoscia, cala sull’isola. E ora che succederà? Che faranno i

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Una postazione controaerea italiana con mitragliera Breda da 20/65 mod. 35.

Tedeschi? Stessa domanda dall’altra parte: che faranno gli Italiani? Si attende qualcosa. Un radiogramma, lanciato nell’intento di chiarire le idee, a destinazione giunge per confonderle. Qualcosa arriva, infatti, durante la notte. È una comunicazione in codice dal Comando dell’XI Armata, da cui dipende la «Acqui». Dice: «0225006 - Seguito conclusione armistizio truppe italiane XI Armata seguiranno seguente linea condotta. Se Tedeschi non faranno atti violenza armata, Italiani non, dico non, rivolgeranno armi contro di loro, non, dico non, faranno causa comune coi ribelli né con truppe anglo-americane che sbarcassero nell’isola. Reagiranno con la forza a ogni violenza armata. Ognuno rimanga suo posto con i compiti attuali. Sia mantenuta ogni mezzo disciplina esemplare. Firmato: Generale Vecchiarelli... - Finisce - Comando tedesco informato quanto precede. Siano immediatamente impartiti ordini cui sopra a reparti dipendenti. Assicurare». Verso le 23, con comunicazione urgente, il Comando Divisione ordina il trasferimento della riserva divisionale in Argostoli per controllarne


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fusi in mezzo alle truppe. «Liberatevi dai Tedeschi come vi siete liberati dai fascisti», affermava. Invito aperto all’insurrezione. «L’Italia e la Grecia - si legge tra l’altro sui volantini sono le due Nazioni più civili del mondo e non possono essere schiave della barbara Germania. I fratelli greci staranno accanto ai fratelli italiani nella sacra lotta per la libertà e la civiltà». Le truppe danno segni di nervosismo. Voci catastrofiche, spesso contraddittorie, sono abilmente fatte circolare tra i soldati. Si dice che i Tedeschi si siano impadroniti con la

Perviene dal Comando dell’VIII Corpo d’Armata. Dice testualmente: «Seguito mio ordine 0225006 dell’8 corrente. Presidi costieri devono rimanere attuali posizioni fino al cambio con reparti Tedeschi non oltre ore 10 del giorno 10. In aderenza clausole armistizio truppe italiane non oppongano da questa ora resistenza ad eventuali azioni forze anglo-americane. Reagiscano invece eventuali azioni forze ribelli. Truppe italiane rientreranno al più presto in Italia. Una volta sostituite, Grandi Unità si concentreranno in zone che mi riservo fissare unitamente modalità

forza del Comando dell’XI Armata, conflitti armati sarebbero in corso tra Tedeschi e Italiani sul vicino continente greco, soprusi e violenze commessi da parte dei Tedeschi. Le voci si accavallano, si confondono, si contraddicono. Un’ondata di psicosi insurrezionale investe i presidi, qualcuno comincia a gridare, ad urlare contro i Tedeschi. Invano i Comandanti di reparto ordinano di placare gli animi, di invitare alla calma, di smascherare gli aizzatori. La discordia, l’agitazione e l’effervescenza regnano anche tra gli Ufficiali. La giornata del 9 settembre sta volgendo al termine in questa confusione, quando ad accrescerla giunge un secondo radiogramma.

trasferimento. Siano portate al seguito armi individuali Ufficiali e truppa con relativo munizionamento in misura adeguata a eventuali esigenze belliche contro ribelli. Consegneranno parimenti armi collettive tutti altri reparti delle Forze Armate italiane conservando solo armamento individuale. Consegna armi collettive per tutte le Forze Armate italiane in Grecia avrà inizio a richiesta Comandi Tedeschi a partire da ore 12 di oggi. Generale Vecchiarelli». Il radiogramma, oltre a sollevare alcuni interrogativi (come cedere le armi ai Tedeschi?), pone il Generale Gandin e la Divisione tutta in un tragico dilemma. Il testo, infatti, modificando il primo radiogramma, contraddice formalmente il proclama

Sopra. Il Capitano di Fregata Mario Mastrangelo. A destra. Fanteria tedesca prende terra.

la baia e l’abitato. Il trasferimento avviene tra mezzanotte e l’alba del 9 settembre. Si concentrano in Argostoli il II battaglione del 17° fanteria, la I, la III e la V batteria del 33° reggimento artiglieria. Durante quella notte tace il Comando di Corpo d’Armata, tace il Comando d’Armata, tace Roma. In compenso, loquace è l’ammiragliato britannico. Dalla radio continuano a giungere con ritmo ossessivo gli ordini di Londra: la Flotta italiana lasci i porti italiani e si metta sotto la protezione degli Alleati. La flotta ubbidisce. Ubbidisce anche la flottiglia M.A.S. e dragamine all’ancora nei porti di Cefalonia. Partiti anche i due idrovolanti da ricognizione che stazionavano nelle acque della baia. La «Acqui» è sola a Cefalonia. Undicimila soldati italiani contro duemila Tedeschi. La propaganda greca fino allora attivissima ma clandestina tra le truppe (pare facesse capo a un cosiddetto «Comitato comunista per la libera Grecia»), esplode ora alla luce del sole. Migliaia di volantini sono dif-


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del Governo. A chi ubbidire? Poiché è chiaro che ubbidendo al Comandante d’Armata si disubbidisce al Governo e viceversa. Che fare? Una via c’è. Quella di respingere il messaggio in quanto non decifrabile, guadagnare tempo e attendere ordini. C’erano del resto ragionevoli motivi per ritenere il radiogramma apocrifo. Non poteva essere che i cifrari d’Armata e di Corpo d’Armata fossero caduti in mano ai Tedeschi? 10 settembre. Verso le 10 il Tenente Colonnello Barge, accompagnato dal Tenente Fauth, si presenta al

Comando di Divisione. A nome del Comando tedesco i due Ufficiali chiedono la cessione completa delle armi, comprese quelle individuali. Termine ultimo: ore 10 dell’11 settembre. Località di consegna: la piazza principale di Argostoli. Il Generale Gandin decide di prendere tempo. Fa presente di essere praticamente senza ordini da parte del Comando italiano, di avere sì ricevuto un radiogramma ma di essere stato costretto a respingerlo in quanto parzialmente indecifrabile; chiede una dilazione dei termini, propone l’eventuale consegna delle sole armi collettive, suggerisce infine di scartare la piazza di Argostoli. Frattanto il Generale non perde tem-

po in ambito Divisione, vuol tastare il polso ai suoi uomini. Convoca a rapporto il Generale Gherzi, il Colonnello Ernesto Cessari, Comandante il 17° reggimento fanteria; il Colonnello Ezio Ricci per il 317°; il Colonnello Mario Romagnoli per il 33° artiglieria; il Maggiore Filippini, Comandante del battaglione genio; il Capitano di Fregata Mario Mastrangelo del Comando Marina. Il Generale Gandin fa il punto sulla situazione. Chiede, quindi, che ognuno esprima liberamente la propria opinione. Il Generale Gherzi, il Colonnello Ricci, il Tenente Colonnello Cessari e il Maggiore Filippini si pronunciano per la cessione delle armi. Il Capitano di Fregata Mastrangelo e il Colonnello Romagnoli si dichiarano invece contrari. Il parere che prevale è, dunque, quello di cedere le armi. Il Generale Gandin prende atto delle decisioni prese da questa specie di Consiglio di guerra - che tale in effetti è - e ne tira le prime conseguenze. Dispone il ritiro del III battaglione del 317° fanteria dal nodo di Kardacata. Il trasferimento ha luogo nella stessa mattinata. Il battaglione va a disporsi dietro il cimitero di Argostoli. Kardacata è un nodo importante. Esso controlla la rotabile Liguri-Argostoli, domina la baia di Kiriaki, è in pratica la chiave dell’isola. Il ritiro del battaglione

Un obice italiano Skoda da 75/13.

lascia ai Tedeschi la strada aperta per Argostoli; ma, ciò che è più pericoloso, abbandona diverse batterie italiane in mezzo allo schieramento tedesco. La decisione è grave. E gli effetti non tardano a farsi sentire. Le truppe vedono nel ripiegamento il preludio alla consegna delle armi, gli Artiglieri delle batterie di San Giorgio e di Kavriata hanno l’impressione di essere consegnati ai Tedeschi e quindi traditi; il latente sentimento antitedesco delle truppe viene abilmente fomentato e manipolato da agitatori greci. L’incendio comincia a divampare nei cuori. A bruciare per primi sono i giovani Ufficiali di artiglieria. Essi si stringono attorno ai loro Comandanti. Sono il Capitano Pampaloni e Apollonio. Tra i due gruppi si stabilisce un collegamento. La parola d’ordine: giammai i pezzi ai Tedeschi. E la fanteria? Un gruppo di Ufficiali del III battaglione del 317° reggimento si rivolge al Capitano Pampaloni: si vuole sapere quale atteggiamento prenderà con i suoi Artiglieri nel caso in cui la situazione precipitasse. «Gli Artiglieri moriranno piuttosto che cedere le armi. Coi pezzi o sui pezzi». La frase sarà destinata a fare il giro dell’isola e a comandare la lotta ar-


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mata contro i Tedeschi. Il Capitano Apollonio, che con il Capitano Pampaloni e il Tenente Ambrosiani, forma il trio della resistenza antitedesca, prende contatto anche con le batterie costiere della Marina. L’accordo è totale: nel caso in cui l’artiglieria iniziasse le ostilità contro i Tedeschi, la Marina si affiancherebbe decisamente nella lotta. Anche i partigiani greci nell’isola cominciano a muoversi. Alcuni Ufficiali dell’E.L.A.S. (Esercito Popolare Greco di Liberazione Nazionale) si presentano ai Comandi italiani, offrono la loro collaborazione, chiedono armi. Un’altra giornata sta per finire. Le parti affilano le armi. C’è da aspettarsi la tragedia da un momento all’altro. Per l’intera notte le finestre della palazzina del Comando Divisione sono illuminate. Nella notte tra il 10 e l’11 settembre, continuano le trattative tra il Generale italiano e il Tenente Colonnello Barge. I due Ufficiali si lasciano verso l’alba con un accordo di massima: Barge acconsente alla sola cessione delle artiglierie e delle armi collettive. 11 settembre. Il Tenente Colonnello Barge chiede di essere nuovamente ricevuto dal Generale Gandin. Ci sono novità. Per ordine del Comando tedesco, sottopone all’attenzione del Generale la scelta tra i seguenti punti: «primo: con i Tedeschi; secondo: contro i Tedeschi; terzo: cedere le armi». Il Comando italiano dovrà definire chiaramente il suo atteggiamento su uno di questi punti. Termine per la risposta: ore 19.00, stesso giorno. Ma tutto ciò, sia pure con

Sopra. La «casetta rossa».

mandanti di Corpo ho sentito il polso degli Ufficiali; ora tramite voi mi occorre sentire il polso della truppa. Vi leggo intanto il testo dell’ultimatum tedesco». Il Generale lo legge e passa all’esame punto per punto. Continuare la lotta a fianco dei Tedeschi. Tutto ciò è onorevole? Sarebbe onesto? È soprattutto degno di un soldato? «Noi siamo legati a un giuramento di fedeltà alla Maestà del Re Imperatore e non sarò io a ricordare a dei sacerdoti che il giuramento è un atto sacro col quale chiamiamo Iddio a testimonianza di quanto affermiamo. Il Re

A destra. Il Tenente Colonnello Johannes Barge.

belle maniere, ha il tono brutale di un ultimatum. Prima di prendere una decisione, il Generale Gandin interroga la sua coscienza ed essa gli risponde di sentire anche quella degli altri. Convoca per la seconda volta il Consiglio di guerra. La maggioranza dei Comandanti di Corpo resta sostanzialmente sul punto di vista precedentemente espresso: cedere le armi. Il Generale vuol sentire anche la voce dei sette Cappellani militari. La riunione avviene nel tardo pomeriggio, a un’ora dalla scadenza dell’ultimatum. Il discorso, riportato da uno dei Cappellani, Padre Romualdo Formato, merita di essere analizzato: «Questo momento è quanto mai tragico per me e per la Divisione. Ho sulla mia coscienza la responsabilità della vita di diecimila figli di mamma. So che la vita di questi poveri ragazzi dipenderà dalle decisioni che sto per prendere. Ho sentito anche i Comandanti di Corpo, mi sono consultato con i miei collaboratori più vicini, ma purtroppo a decidere dovrò essere da solo. Non attendo da voi un parere di indole militare. Ciò che attendo da voi è una specie di verdetto morale che sia, da una parte, come la voce leale della vostra coscienza di sacerdoti, e, dall’altra, la conclusione a cui giunge la vostra conoscenza intima dei soldati nei risvolti delle cui anime solo voi, più di me, siete soliti guardare. Tramite i Co-

ha firmato un armistizio con l’antico nemico. Dobbiamo ubbidire». Secondo punto: combattere contro i Tedeschi. «Come possiamo rivolgere le armi, rivolgere le armi, dico, contro un popolo che ci è stato a fianco come alleato per tre anni, combattendo la nostra stessa guerra, condividendo i nostri stessi sacrifici, agognando alla nostra stessa vittoria. Con quale animo compiremmo un gesto del genere? Come è possibile rivolgere la punta della spada, oggi contro un fratello che fino a ieri si è battuto con noi e per noi, fianco a fianco, per una causa comune? Vi prego di considerare che non è detto che in conseguenza dell’armistizio tra il nostro Governo e gli Anglo-americani, noi diventiamo automaticamente nemici dei


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Tedeschi. Noi sospendiamo soltanto ogni ostilità. Deponiamo le armi. Ci ritiriamo dal campo di battaglia. Non combattiamo più. Ecco. Non abbiamo, mi pare, nessun diritto di attaccare per primi i nostri antichi alleati, e non abbiamo nemmeno, per ora, bisogno di dirlo, obiettivi motivi sufficienti per farlo. È vero, ci sono stati degli incidenti, che in parte però sono stati composti, con un po’ di buona volontà. È anche chiaro però che ci difenderemo energicamente da qualunque violenza, e non sopporteremo che qualcuno attenti alla nostra dignità di soldati». Il Generale Gandin passa infine all’esame del terzo punto: cedere pacificamente le armi. «Mi hanno assicurato che si tratterebbe soltanto delle armi pesanti, e cioè dei pezzi di artiglieria di grosso calibro, le quali, d’altronde, ci sono state fornite dall’Esercito tedesco, essendo materiale di preda bellica francese e olandese. Ma anche in queste condizioni, l’atto non viola forse lo spirito dell’armistizio e non mette forse in discussione l’onore militare? Come vedete nessuno dei tre punti proposti dal Comando germanico è accettabile dal punto di vista dell’onore militare. E tuttavia io devo decidermi su uno di questi, e entro il termine di un’ora: sono le sei, il Comando tedesco aspetta la risposta per le sette». Prima che i sette Cappellani diano una risposta, il Generale desidera sottoporre alla loro attenzione alcune considerazioni di carattere militare: «Cefalonia è un’isola, e come tale circondata da ogni parte dal mare, è bene non illudersi troppo sugli aiuti dall’esterno, gli Anglo-americani non muoveranno un dito; sì, è vero, gli Italiani a Cefalonia sono undicimila contro sì e no duemila Tedeschi; in caso di conflitto armato i reparti della “Acqui” avrebbero il sopravvento: ma poi? Non si dimentichi che sul continente greco sono concentrati trecentomila Tedeschi, che presto o tardi essi accorrerebbero in aiuto dei camerati, e potrebbero scaraventare sull’isola squadriglie di “Stukas”. E infine, la truppa fino a che punto è decisa a combattere e, soprattutto fino a che punto resisterebbe sotto

i bombardamenti aerei? Ricordate che noi non disponiamo di alcun velivolo». Il Generale Gandin non si faceva illusioni. Quei giovani che tanto gridavano, che tanto sbraitavano contro i Tedeschi, avrebbero poi veramente resistito sotto il bombardamento degli «Stukas»? Lui, gli «Stukas», li aveva visti all’opera in Russia. Il Generale era incerto sullo spirito delle truppe. Chiesto in separata sede ai Comandanti dei battaglioni di fanteria se potevano garantire della saldezza delle loro truppe in caso di attacco tedesco, aveva avuto delle riserve. In quanto agli Inglesi, intuiva il loro calcolo, intuiva soprattutto il loro disinteresse. Un conto era ciò che diceva radio Londra, un conto ciò che avrebbe disposto il Comando Anglo-americano. Una risposta orale i Cappellani la danno subito. Tutti, meno uno, sono per il terzo punto. Il Generale, dopo averli ringraziati, li congeda. «Confermatemelo per iscritto». Ritiratisi nel vicino Istituto delle Suore italiane, dopo un breve momento di raccoglimento davanti all’altare del Santissimo, i sette Cap-

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Una formazione di bombardieri in picchiata Junkers Ju-87 B «Stuka».

pellani redigono insieme la seguente lettera: «Per evitare una lotta cruenta, impari e fatale contro l’alleato di ieri, per tenere fede al giuramento di fedeltà al Re Imperatore - giuramento che, come voi ci avete ricordato, è atto sacro, col quale si chiama Iddio stesso a testimonianza della parola data - e infine, e soprattutto, per evitare un inutile spargimento di sangue fraterno, Signor Generale, altra via non c’è ... non resta che cedere pacificamente le armi! Dinanzi al tenore dell’ultimatum germanico, voi, Signor Generale, isolato da tutti, impossibilitato di mettervi in comunicazione con i superiori Comandi d’Italia e di Grecia e di riceverne ordini precisi, vi trovate nella ineluttabile necessità di dover cedere a una dura imposizione, per evitare l’inutile supremo sacrificio dei vostri Ufficiali e dei vostri soldati. Siamo profondamente compresi della gravissima responsabilità che, in questo tragico momento, pesa sul vostro nobilissimo animo. Ora, più che mai i vostri cappellani si sentono strettamen-


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notte, esasperano gli animi. Ci potevano essere ancora dei dubbi sulle intenzioni reali dei Tedeschi? Bastava d’altra parte guardarsi attorno: nella zona di Liguri era tutto un andirivieni di colonne germaniche; rifornimenti venivano paracadutati ai presidi isolati. Sbarchi erano segnalati sulle coste. Intanto il Capitano Pampaloni ha già stabilito contatti con i partigiani greci dell’isola. Si arriva così al pomeriggio del 12. Il Generale Comandante tiene un nuovo Consiglio di guerra. Esamina la situazione drammatica che si è venuta a creare nelle ultime ore, sempre Sopra. Una mitragliatrice leggera Breda mod. 30. A destra. L’area della periferia di Argostoli dove furono dislocate la III e la V batteria del 33° reggimento artiglieria tra il 9 e il 15 settembre.

te uniti a voi. Da Dio invochiamo luce al vostro intelletto.... Egli vi protegga sempre e vi benedica, Signor Generale, e benedica, con voi, la vostra famiglia e la vostra amatissima Divisione». Seguono le firme dei sette Cappellani: p. Romualdo Formato del 33° reggimento artiglieria; d. Biagio Pellizzari del 317° reggimento fanteria; d. Angelo Bagnoli del 17° reggimento fanteria; d. Mario Di Trapani della Regia Marina; p. Duilio Capozzi della 44 a Sezione Sanità; p. Luigi Ghirlandini del 37° Ospedale da campo; p. Angelo Cavagnini del 527° Ospedale da campo. Nel giro di poche ore, l’amatissima Divisione era ormai irriconoscibile. I reparti sono traumatizzati; le coscienze disorientate; i legami che annodavano nella disciplina i soldati agli Ufficiali, gli Ufficiali ai Comandanti di Corpo, i Comandanti di Corpo al Generale di Divisione sembra che stiano per sciogliersi. Lo shock dell’8 settembre è stato violento. La ribellione serpeggia. La propaganda dei patrioti greci attizza il fuoco di tutti i risentimenti e i rancori. I soldati sono agitati, gridano,

urlano, accusano, recriminano. Una vera e propria insubordinazione sta covando sotto le ceneri. Si mormora che il Generale voglia «vigliaccamente» disarmare l’intera Divisione per consegnarla a «uno sparuto gruppo di Tedeschi». Lo si taccia nientedimeno che di «tedescofilo». Verso le 18, appena dopo il rapporto ai Cappellani, scoppi di bombe e colpi di moschetto si odono nell’abitato di Argostoli. Fuggi fuggi generale. Le strade diventano cupamente silenziose. Intanto sta per scadere l’ultimatum. Il Tenente Colonnello Barge e il Tenente Fauth si recano al Comando Divisione. «Sta bene - risponde il Generale - accordo di massima a cedere le armi collettive». All’alba del 12 settembre la situazione precipita improvvisamente. Notizie allarmanti, diffuse durante la

allo scopo di trovare un compromesso qualunque, pur di portar fuori i suoi undicimila «figli di mamma» da una tragedia di cui già calcola tutte le conseguenze. Una notizia cade sul tavolo del Generale col fragore di una bomba: i Tedeschi hanno rotto gli indugi, gettato la maschera, sono passati all’azione e, tanto per cominciare, hanno circondato le batterie di San Giorgio e di Kavraiata: disarmate, intimato quindi ai soldati di consegnare le armi. S.O.S. disperato degli Ufficiali. La risposta del Comando è burocraticamente semplice: «Di fronte a forze preponderanti, cedere». E le batterie cedono. L’affronto è grave. Umiliante. Soprattutto sospetto. Si sospettano infatti complicità penose, impossibili, di cui non si vorrebbe nemmeno sentir parlare, ma di cui intanto si mormora. Comincia a ser-


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Una raffigurazione artistica di una batteria italiana in combattimento e sotto attacco aereo.

peggiare per la prima volta la parola tradimento. La propaganda greca fa di tutto per eccitare gli animi, per mettere i soldati contro gli Ufficiali, gli Ufficiali inferiori contro gli Ufficiali superiori, per caricare gli animi dei soldati di risentimento contro i Tedeschi, per creare malintesi, provocare incidenti. Ancora incidenti nel pomeriggio. Mentre si reca al Comando di artiglieria dove ha convocato un nuovo Consiglio di guerra, il Generale Gandin è oggetto di un attentato prima e di insulti poi. Una bomba è lanciata contro la sua macchina, fortunatamente senza conseguenze. Il Generale Gandin voleva soltanto portare a casa, indenne, la Divisione che la Patria gli aveva affidato, assieme a tutti i «figli di mamma» che la componevano. Egli è forse il solo uomo degli undicimila della «Acqui» che vede chiaramente la situazione. «I Tedeschi ci schiacceranno con i loro “Stukas”», dice nel corso di un rapporto ad alcuni Ufficiali di artiglieria che avevano chiesto di essere ricevuti. Il Generale cerca di far capire le gravità della situazione. Quale? Essa è in una sola parola, e dice: «Isolamento. Siamo isolati». Ma le menti sono sconvolte, l’ubbidienza distrutta. «Generale - esclama il Capitano Apollonio - non vi chiediamo che di lasciarci morire accanto ai nostri cannoni». Fuori è tumulto, l’insubordinazione è ormai scatenata. Gli Artiglieri, credendo che i loro Ufficiali siano stati arrestati, puntano i pezzi delle batterie contro il Comando divisione. Qualcuno parla di arrestare nientedimeno che il Generale. Ufficiali e truppa, aizzati dai Greci, gridano che il Generale è un traditore. Ad incendiare ancora di più gli animi è la notizia che in serata perviene da Corfù: l’isola - si dice - sta resistendo vittoriosamente ai Tedeschi. In realtà l’isola, dopo alcune ore di autoesaltazione, stava entrando in

fase preagonica. Spunta l’alba del 13 settembre. Non sono ancora le sette che alcuni Ufficiali tedeschi si presentano al Comando italiano per definire le modalità di consegna delle artiglierie. Ma il destino tragico dell’isola è già segnato in cielo. Un furioso cannoneggiamento scuote la baia. Grossi pontoni da sbarco tedeschi, corazzati e carichi di truppa e di artiglieria, sono avvistati mentre doppiano Capo San Teodoro. Le batterie del 33°, agli ordini del Capitano Apollonio, senza attendere ordini, aprono il fuoco. Le seguono le batterie costiere della Marina. I Tede-

schi rispondono al fuoco, ma perdono due natanti, pezzi e uomini. Mentre l’azione sta estinguendosi, il Capitano Apollonio racimola un gruppo di volontari, li porta davanti alla sede del genio Marina tedesco e lo prende d’assalto. Cattura dodici prigionieri e una stazione radio. La temperatura della Divisione sale. Né serve a farla calare un Capitano dell’Aeronautica italiana, accompagnato da un Ufficiale tedesco, che arriva a bordo di un idrovolante. Il Capitano dichiara di essere sorpreso della resistenza della «Acqui» a Cefalonia, quando tutte le forze italiane in Grecia hanno già ca-


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sposta definitiva entro le ore 09.00 di domani 15 settembre». La notte trascorre tranquilla. La «Acqui» sembra aver ritrovato la sua unità. Alle prime ore del 15 settembre, il Comando tedesco «supplica» il Generale di dilazionare il termine per la risposta al suo ultimatum fino alle ore 14.00 dello stesso giorno. Concesso. Nel frattempo i Tedeschi non perdono tempo. Fanno affluire rinforzi a ritmo serrato. Il Generale Gandin intima di sospenderli, in caso contrario sarà costretto a far aprire il fuoco. Un grosso idrovolante tedeSopra. Il cortile della «casetta rossa». A destra. Un pozzo, in località Troianata, all’interno del quale furono rinvenuti i resti di circa 400 Fanti del II battaglione del 17° fanteria.

pitolato. L’aereo riparte per Atene con un nulla di fatto. Intanto il cannoneggiamento continua. Dal Comando Supremo arriva finalmente un radiogramma. Porta la firma del Generale Rossi: I reparti si attengano alle istruzioni del proclama dell’8 settembre e si oppongano manu armata alle richieste tedesche. Tutto sembra ormai chiaro. Anche e soprattutto per il Generale, d’ora in avanti non c’è che una via da seguire: quella dell’obbedienza. Ma il Generale Gandin vuole prima sincerarsi dello spirito combattivo dei suoi uomini. Sicuro dell’artiglieria, egli ha qualche dubbio sul mordente delle fanterie. Prima di prendere una decisione dalla quale dipenderà forse la vita di tanti uomini, fa un ultimo tentativo. Verso le due antimeridiane del 14 settembre, invia fonogrammi urgenti ai Comandi di reparto, che sono invitati a sollecitare dalle truppe un parere: contro i Tedeschi - coi Tedeschi - cessione delle armi. All’alba del 15 settembre ogni Comandante raduna i propri uomini e, dopo aver commentato la situazione, chiede loro di esprimersi. La Divisione

«Acqui» è chiamata alle urne. Il procedimento è singolare, ma anche i tempi sono singolari. Pare che il cento per cento dei soldati abbiano votato «contro i Tedeschi». Come scrive lo storico Attilio Tamaro, il fatto sembra strano, «non solo perché non si sa quale fosse la procedura a crearlo, ma perché c’erano alti Ufficiali che volevano passare dalla parte dei Tedeschi e sembra impossibile non avessero seguaci». Ma nel bene e nel male, a Cefalonia tutto ormai avviene sotto il segno dell’intimidazione. La mattina del 14 settembre gira una notizia: il Generale Gandin ha fatto pervenire ai Tedeschi la risposta che tutti s’attendevano: «Per ordine del Comando Supremo italiano e per volontà degli Ufficiali e dei soldati, la Divisione “Acqui” non cede le armi. Il Comando superiore tedesco, sulla base di questa decisione, è pregato di presentare una ri-

sco, mentre sta tentando di sbarcare uomini e materiale nella baia di Liguri, è centrato in pieno dalle batterie costiere. Affonda con il suo carico. Le ostilità sono virtualmente aperte. Un’ora dopo il cielo dell’isola è ricoperto da squadriglie di «Stukas». Sono circa una trentina. Con un’audace manovra si gettano in picchiata sulle batterie schierate lungo il costone Faraò-Spilia-Chelmata, rovesciandovi sopra il loro carico di bombe. Tutte le postazioni vomitano fuoco. La terra trema. Dappertutto boati, scoppi, incendi, fischi. È un inferno. Sono le ore 14.00 del 15 settembre. La battaglia di Cefalonia tra la Divisione «Acqui» e l’Esercito tedesco è incominciata. Anzi è cominciato il massacro. Nella prima giornata fu facile eliminare i pochi Tedeschi nella penisola di Ar-


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Il vallone di S. Barbara, dove furono trovate le salme di circa 40 Ufficiali del 17° e del 317° fanteria.

gostoli. Ma il peggio doveva venire. Dai vicini campi di Prevesa, di Agrinion e di Patrasso, squadriglie di «Stukas» si gettano sulle batterie italiane, sui battaglioni di fanteria: bombardano, spezzonano, mitragliano senza pietà. Se ne vanno. Ritornano. Carosello infernale. Il 16 settembre Argostoli è completamente distrutta. Il 17 settembre gli «Stukas» dopo aver praticamente messo a tacere la maggior parte delle batterie, si gettano in una forsennata caccia ai reparti di fanteria, che inseguono, mitragliano, decimano. Il Generale Gandin chiede soccorsi a Brindisi. Il Comando supremo radiotelegrafa elogi. L’Ammiraglio Galati al comando di una Torpediniera carica di medicinali, viveri e munizioni, prende il mare e naviga al soccorso di Cefalonia. Intercettata dagli Alleati, è costretta a invertire la rotta. Il divieto degli Alleati è tassativo. Perché? Si dice che l’ordine rientri in un crudele piano strategico consistente nel permettere la distruzione delle Forze Armate italiane in quello scacchiere da parte dei Tedeschi. È più probabile, invece, che gli Alleati non si fidino di sguinzagliare per i mari unità della Flotta italiana nella tema che siano catturate dai Tedeschi ... o passino ai Tedeschi. Il morale delle truppe è a terra. Tra un’azione e l’altra, i Tedeschi lanciano manifestini: «Perché combattere contro i Tedeschi? Voi siete stati traditi dai vostri Capi. Non volete ritornare nel vostro Paese per stare vicini alle vostre famiglie? ... Deponete le armi. La via della Patria vi sarà aperta dai camerati tedeschi». Il 18 settembre, le truppe del 317° fanteria sono portate all’attacco di Kardacata, chiave strategica dell’isola. L’esito è disastroso. L’attacco è ripetuto il 21 settembre. Il 317° ne esce distrutto. Gli «Stukas» dominano incontrastati il cielo, seminando morte e terrore. L’artiglieria

non esiste più. Alcuni reparti del 317° sono aggirati, circondati e annientati. Il Generale Gherzi tenta di ricostruire un’ultima linea difensiva schierando ciò che resta dei battaglioni del 17°. Disfatta. I superstiti passati per le armi. Il 22 settembre il Generale Gandin offre la resa. Concessa, senza condizioni. Nel frattempo le colonne tedesche vittoriose scendono a valle e passano per le armi tutti i superstiti che trovano sul loro cammino. Sterminio completo. Il 24 settembre, in una località detta «casa rossa», sulla penisola di Argostoli, presso San Teodoro, sono radunati gli Ufficiali superstiti. Sono quasi tutti d’artiglieria. Sospinti a quattro, a otto, a dodici per volta davanti a tre plotoni di esecuzione, sono passati per le armi, sacrificati, come dice uno storico, «alla divina vendetta». Ogni plotone uccide quattro vittime per ogni scarica. Due fucili puntati contro ogni condannato: uno mira al petto, l’altro alla testa. Ogni ucciso riceve il regolamentare colpo di grazia. Carneficina scientificamente programmata. Dura ore e ore. Il re-

sto è necrologio. Il resto è sacrario. Della bella Divisione «Acqui» non restano che poche migliaia di uomini. Quando li trasporteranno in continente, due navi salteranno sulle mine. Altri tremila perderanno la vita. Con la «Acqui» il destino è stato crudele. Nel dicembre 1944 la «Psychological Warfare Branch», una branca dei servizi segreti Anglo-americani addetti alla propaganda, scriveva nel suo bollettino: «Il comportamento degli Ufficiali italiani alla triste «casetta rossa» di Cefalonia non appartiene alla storia ma al mito. Ad uno ad uno, nobilissimi cavalieri del Dovere e dell’Onore, essi salirono con sublime serenità il calvario che ancora li separava dalla gloria». Il 13 settembre 1945, l’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio dirama ai giornali la notizia della tragedia. È un lungo comunicato. Termina: «Si addita la Divisione “Acqui” con i suoi 9 000 caduti e con i suoi gloriosi superstiti alla riconoscenza della Nazione». Giuseppe Fernando Musillo Tenente Colonnello, Capo Redattore di «Rivista Militare»


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