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RED SHOES MAGAZINE | Giugno/Luglio/Agosto 2023

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LA TERZA STELLA

NICOLÒ MELLI
SHIELDS WILLIE CARUSO
SHAVON
GIUGNO/LUGLIO/AGOSTO 2023

“TI TE DOMINET

CAMPAGNA ABBONAMENTI 2023-24
3 REDSHOESMAGAZINE 26 Willie Caruso 20 Shavon Shields 4 La Terza Stella 8 Nicolò Melli

THIRD STAR THIRD STAR

Lo scudetto numero 30 rappresenta il E’ stato anche il primo back-to-back dal 1987.

In Europa, solo CSKA Mosca, Maccabi

STAR TEAM STAR TEAM

il 51° trofeo vinto dall’Olimpia Milano. 1987. In Italia, solo la Pro Recco ha vinto di più.

Maccabi Tel Aviv e Real Madrid

Lo scudetto 2023 è stato il trentesimo nella storia dell’Olimpia e ha rafforzato la leadership di un club che non avendo ancora compiuto i 90 anni (succederà nel 2026) può vantarsi di aver conquistato praticamente una media di un titolo ogni tre campionati disputati. Nel basket europeo, il club con più titoli è il CSKA Mosca con 61 di cui 24 titoli sovietici, 27 russi e 10 della VTB League. Il Maccabi Tel Aviv ha conquistato nell’ultima stagione il suo titolo israeliano numero

56. Il Real Madrid è al terzo posto europeo con

36. In Italia, la Pro Recco di pallanuoto ha vinto 35 scudetti, il massimo in ogni sport nel nostro paese.

Il titolo è il 51° nella storia dell’Olimpia (nove trofei europei, otto Coppe Italia, quattro Supercoppe), il 13° trofeo dell’era Armani, il quinto scudetto vinto sotto l’attuale proprietà del club. Va a sommarsi alle quattro Coppe Italia e alle quattro Supercoppe, oltre alla Final Four di EuroLeague raggiunta nel 2021. Per effetto di questo risultato, l’Olimpia comincerà la nuova stagione giocando la Supercoppa a fine settembre. Avversaria in semifinale, ancora la Virtus Bologna, in quanto

finalista di Coppa Italia (Brescia-Tortona sarà la seconda semifinale).

Il “back to back” è stato il primo per l’Olimpia dal 1987 quando conquistò in realtà il terzo scudetto consecutivo. Prima della tripletta 1985-1987 però il precedente “back-to-back” risaliva addirittura alla tripletta 1965-1967. Ettore Messina è il primo allenatore a vincere due scudetti con l’Olimpia, consecutivi o no, dopo Giannino Valli e Dan Peterson, oltre ovviamente a Cesare Rubini. È stato il terzo scudetto con l’Olimpia per Nicolò Melli. Gigi Datome è stato il primo italiano dopo Alessandro Gentile nel 2014 a vincere il titolo di MVP della finale. Mario Fioretti ha vinto il quinto scudetto da assistente allenatore; Giustino Danesi l’ottavo da preparatore atletico, il quinto a Milano.

Shavon Shields ha vinto il suo secondo scudetto italiano dopo aver giocato la quinta finale in cinque stagioni italiane. Kyle Hines ha vinto il decimo titolo nazionale degli ultimi 12 campionati disputati (ne ha “perso” uno in Grecia e uno in Italia, ma sempre arrivando in finale).

NICOLÒ MELLI

ha detto. È cambiato, ma neanche così tanto. Era andato via nel 2015 da giocatore emergente, è tornato da campione affermato, da Capitano. Ora è anche un giocatore storico

È un incubo. Non c’è tifoso dell’ Olimpia che nel 2015 fosse già sugli spalti del Mediolanum Forum che non lo ricordi come tale. Un incubo. Gara 7 di semifinale. L’Olimpia, che in stagione regolare ha vinto 20 partite consecutive, che ha spazzato via Bologna al primo turno e perso in Gara 1 per la prima volta in casa, contro un avversario durissimo, è stata capace di rimontare da 1-3 a 3-3 nella serie. Superando ogni ostacolo, la sesta partita in trasferta, l’espulsione e squalifica per due gare di Daniel Hackett, l’Olimpia è lì a nove secondi e 75 centesimi dalla finale scudetto. Sarebbe la seconda consecutiva. È avanti di tre punti dopo i due tiri liberi segnati da Bruno Cerella. L’arena è piena.

Il Coach di Sassari, Meo Sacchetti, spende il time-out e avanza la palla. Bisogna difendere per altri dieci secondi scarsi o anche qualcuno di meno, per poi fare un fallo, eliminare il tiro da tre come opportunità di pareggio. Nicolò Melli era in panchina nel possesso precedente, ma dopo il time-out torna in campo, correttamente. Deve marcare Jeff Brooks, l’ala forte della Dinamo. Ma Brooks va ad eseguire un blocco in allontanamento per liberare Jerome Dyson, il miglior attaccante di Sassari. Melli non esita. La sua difesa sui cambi di marcatura è già una delle pietre angolari di Nik come giocatore. Quindi Brooks blocca, Hackett resta con lui, Melli cambia e segue il taglio. Dyson per ricevere

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“Rispetto al 2014 sono sicuramente cambiato. Per fortuna”,

palla deve andare praticamente a metà campo. Melli arriva. Melli è aggressivo. Melli si ferma un attimo prima di provocare il contatto. Vuole solo mangiare secondi. Il fallo, se lo commetterà, lo commetterà dopo uno o due palleggi, forse dopo tre palleggi. Ma Dyson lo vede, è furbo, scaltro, forse anche nervoso, forse vede che la finale sta fuggendo via. Dyson protegge la palla, attende Melli. Ruota le braccia con la palla in mano e colpisce il futuro capitano dell’Olimpia con il gomito. Lo abbatte. Steso. Melli – lo sappiamo – non è certo un giocatore soft, è un duro. Non va a terra facilmente. Ma l’impatto è violento. Sarebbe fallo in attacco. Evidente. Ma l’arbitro Roberto Chiari, esperto, di alto livello, con una carriera in EuroLeague che parla per lui, è lì. A un metro dalla scena. Potrebbe vedere tutto. Invece sbaglia. Succede, ma sbaglia. Legge male le intenzioni di Melli. Nell’irruenza del suo sprint vede la volontà di commettere un fallo tattico. Anticipa le sue intenzioni, non aspetta il contatto, decide prima che andrà a commettere fallo. Forse gli sfugge il movimento di Dyson, magari vede solo quello di Melli. Fallo del difensore. Due tiri liberi. Melli non può neppure andare a rimbalzo, perché per rialzarsi lo devono soccorrere, è scosso. Arriva Marco Monzoni, il fisioterapista, arriva il Dottor Ezio Giani, il medico sociale. Sono ancora tutti e due all’Olimpia. Lo aiutano a rialzarsi e a tornare

in panchina. Il resto è un incubo. Dyson sbaglia il secondo libero, Sassari ha a rimbalzo, oltre a Shane Lawal, non l’ala forte Jeff Brooks, ma Rakim Sanders. David Moss non riesce a tagliarlo fuori, la palla non la cattura nessuno, schizza via, Dyson la raccoglie, tira, sbaglia ancora. Lawal e Sanders sono in mezzo all’area per tutti gli otto secondi della rocambolesca sequenza. Potrebbe essere infrazione. Alla fine, la palla finisce a Sanders e Sanders segna. Nel supplementare Milano si arrende. Lo scudetto lo vincerà la Dinamo, meritatamente intendiamoci (quell’anno le due squadre si affrontarono 11 volte, prima di Gara 7 il bilancio era 5-5; il supplementare dell’undicesima sfida fu risolutivo). Per Nicolò Melli sarà l’ultima partita della sua prima carriera milanese.

La storia di Melli comincia molti anni prima della sua nascita quando Julie Vollertsen, da Lincoln, Nebraska, decise che la pallavolo sarebbe stata il suo sport e le sarebbe riuscito molto bene, così bene che nel 1980 sarebbe andata a Mosca per le Olimpiadi se gli Stati Uniti le avessero giocate e non boicottate. Due anni dopo vinse la medaglia di bronzo ai Mondiali in Perù e nel 1984 a Los Angeles guidò la squadra alla medaglia d’argento olimpica, battuta solo in finale dalla Cina. Per questo, Nicolò ha come sogno quello di chiudere la carriera nel 2028 alle Olimpiadi di

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Siena 2014: Curtis Jerrells ha appena segnato “The Shot”, Melli esulta Milano 2023: nove anni dopo, il terzo scudetto italiano. Nik va a schiacciare davanti a Mickey

Los Angeles, nel luogo dove in parte tutto è cominciato. Tutto è cominciato lì perché, dopo la medaglia olimpica, Julie decise di imbarcarsi in una carriera professionistica in Italia, a Reggio Emilia, dove avrebbe vinto una Coppa Italia, una Coppa CEV e conosciuto Leopoldo Melli, buon giocatore nelle serie minori reggiane. Nel 1991 dalla loro unione nacque

Nicolò. Nel 1999, Sports Illustrated ha inserito Julie Vollertsen nell’elenco dei cinquanta atleti più significativi di sempre nello stato del Nebraska.

La prima volta da giocatore, Melli andò a saltare per la palla a due. Normale, perché era il più alto e già discretamente atletico. Solo che vedendo la palla salire in aria anziché toccarla ad un compagno decise che sarebbe stato più appropriato sferrargli un gran pugno. La palla volò via. Ma gli arbitri correttamente la consegnarono agli avversari. Quando era al minibasket, tra i compagni di squadra ebbe brevemente anche Alessandro Gentile. “Nicolò era il più grande e grosso, spostava tutti, incontenibile”, raccontava. Era un predestinato. Si parlava di lui che era ancora un bambino, come quella volta in cui –complice un’epidemia influenzale –debuttò in prima squadra a 14 anni. Andò solo in panchina, in realtà, ma fu un fatto epocale. Qualche tempo dopo si presentò al Palalido, perché era stato organizzato un camp tra i migliori prospetti italiani, ospite e

giudice della gara addirittura Michael Jordan. L’arena era piena, anche se nessuno sembrava interessato alla partita, tutti volevano vedere Jordan. Anche i ragazzi che erano riusciti a vederlo in tv solo a fine carriera o forse neanche. Melli fu MVP di quella partita e poi lo portarono in America con i migliori ragazzi d’Europa. Era sulla rampa di lancio. Infatti, lo volevano tutti. Debuttò in Serie A2, Reggio Emilia sapeva di non poterlo tenere, ma il prezzo era alto. Nell’estate del 2010, aveva 19 anni, lo prese l’Olimpia con un contratto lungo. Un progetto.

Quattro anni dopo il suo arrivo a Milano, Nicolò Melli vinse il suo primo scudetto. Anche se aveva finito la stagione precedente con discreto spazio nella squadra in cui i due lunghi titolari erano Antonis Fotsis e Ioannis Bourousis, la squadra era stata concepita immaginando per Melli un ruolo nel secondo quintetto. CJ Wallace doveva essere l’ala forte titolare, ma si infortunò subito. Arrivò quindi Kristijan Kangur, che fece quello per cui era stato chiamato. Di fatto, l’ala grande del quintetto era Nicolò Melli. Quell’anno giocò 47 partite su 48. In Gara 2 di semifinale, Coach Luca Banchi scelse Wallace per il quintetto. L’Olimpia perse.

Da Gara 3, Melli diventò il titolare. Giocò da starter tutte le rimanenti 11 partite, incluse tutte le sette della finale scudetto. In Gara 6, a Siena, prima del canestro passato alla

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Nicolò Melli ha trovato la consacrazione definitiva giocando due anni al Bamberg

Melli con la maglia nel Fenerbahce va a stoppare Arturas Gudaitis

storia di Curtis Jerrells, segnò lui una tripla cruciale nel corpo a corpo. Due sere dopo a Milano giocò la miglior partita della carriera, fino a quel punto, una gemma preziosa da 11 punti e 13 rimbalzi. L’Olimpia vinse lo scudetto il 27 giugno 2014. Non l’avrebbe fatto senza il suo apporto. Con un titolo conquistato e un playoff di EuroLeague sul quale costruire, l’Olimpia decise tuttavia di investire anche su un’ala forte da quintetto scegliendo una superstar assoluta, Linas Kleiza, ex MVP di EuroLeague, ex capocannoniere, ex giocatore NBA di eccellente caratura. Un giocatore molto diverso da Melli, molto attaccante e poco difensore, un tiratore.

In alcuni momenti della sua stagione, Kleiza somigliò molto al giocatore che l’Olimpia sperava di aver preso. In EuroLeague, a Turow, segnò 28 punti con otto triple. Ad un certo punto ne mise sei di fila e quando sbagliò la settima, il pubblico di casa lo applaudì ironicamente. Era riuscito a sbagliare! Una volta in casa contro Reggio Emilia segnò 30 punti in 17 minuti, un record, con 8/10 da tre. A Sassari, in stagione regolare, segnò 21 punti in 19 minuti. Sbagliò la prima tripla, ne mise cinque di fila nel terzo quarto, sbagliando l’ultima solo perché scagliata da metà campo allo scadere. Ma furono lampi nel buio. Quell’anno, Melli, che doveva essere il suo cambio, giocò in quintetto praticamente sempre. E nel giorno

più importante della stagione, quello di Gara 7 contro Sassari, Kleiza non venne utilizzato. Anche per questo, nei tiri liberi finali, con Melli obbligato in panchina, Banchi dovette mandare David Moss a rimbalzo. Non poteva chiedere a Kleiza di alzarsi per la prima volta a otto secondi dalla fine.

La vita, la storia, è lastricata di situazioni estemporanee. Cosa sarebbe successo se… Cosa sarebbe successo se, in Gara 7, qualcuno di Milano avesse catturato l’ultimo rimbalzo o se il fallo fischiato a Melli fosse stato correttamente sanzionato con un fallo in attacco o addirittura antisportivo? Cosa sarebbe successo se l’Olimpia avesse vinto quello scudetto? Forse Melli sarebbe rimasto, non avrebbe cercato altrove la propria strada, quella dell’affermazione definitiva, del riconoscimento. O forse no. Forse sarebbe andato via lo stesso, forse era destino, forse – indipendentemente dagli episodi – Melli sarebbe volato in Germania, dove il suo status di giocatore di élite sarebbe stato ribadito con forza. Lo scudetto del 2014, quello vinto con la sua doppia doppia in finale, è stato il primo di quattro conquistati nel giro di cinque anni. Due in Germania e uno in Turchia al Fenerbahce. Curiosamente, la sua prima partita esterna con la squadra turca la giocò proprio a Milano. Fu la partita in cui Vlado Micov con un missile sulla sirena forzò il tempo

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Gara 2 dell’ultima finale: il fallo da dietro di Isaia Cordinier su Melli Gara 2 dell’ultima finale: il tiro libero sostanzialmente decisivo centrato da Nik

supplementare. Il Fenerbahce vinse lo stesso, Melli ebbe 15 punti e 11 rimbalzi. In seguito, avrebbe prodotto 23 punti con il Barcellona e 21 contro Baskonia nella gara che qualificò il Fenerbahce alle Final Four. Infine, la prova mostruosa da 28 punti in finale contro il Real Madrid, segnati in realtà negli ultimi tre periodi.

Avesse vinto il Fenerbahce, sarebbe stato MVP delle Final Four. Abbiamo già visto che la vita non è sempre giusta. Melli avrebbe potuto andare nella NBA già nel 2018, dopo quella partita, quello straordinario “losing effort”. Rinunciò per tentare di vincere l’EuroLeague l’anno dopo, per completare il ciclo in modo trionfale. Il Fenerbahce è tornato alle Final Four, a Vitoria, ma in condizioni non ottimali. Gigi Datome, ad esempio, era infortunato e inutilizzabile. La semifinale con l’Efes non ebbe storia. Rinfoderato il sogno nel cassetto, Melli ha fatto davvero il salto nella NBA, a New Orleans. Ha giocato 60 partite da rookie in una squadra che, ceduto Anthony Davis ai Lakers, è stata progressivamente ricostruita attorno a Zion Williamson. A Dallas, è passato a metà della stagione successiva all’interno di uno scambio più complesso. In totale, nella NBA ha giocato 105 partite, 1.608 minuti. Comunque, non è cosa per tutti.

Melli è andato via nel 2015 da giocatore emergente, è tornato da campione affermato. È tornato da Capitano della squadra, per meriti acquisiti, per carisma e leadership. “Da Capitano quello che ho provato a fare, anche se il leader lo scelgono i compagni fisiologicamente e noi ne abbiamo di leader, Hines, Datome, Shields e altri, è stato tenere il gruppo compatto nei momenti difficili. Non abbiamo avuto una buona EuroLeague, ad un certo punto potevamo mollare, invece siamo riusciti a finirla bene. Non era scontato,” ha detto dopo lo scudetto.

Dopo Gara 6 a Bologna, una brutta partita da dimenticare in fretta, è stato lui a richiamare tutti i compagni in spogliatoio implorandoli di restare uniti, “Stay Together and Win the Championship”.

Ci sono stati quindi sei anni di lontananza tra la partenza e il ritorno. Sei anni sono tanti in generale, tantissimi in una carriera sportiva.

Quando vinse nel 2014 cercò il padre Leopoldo in tribuna. Quando ha vinto nel 2022 e di nuovo nel 2023 ha cercato moglie e figlia. Le foto con la coppa e Matilde in braccio sono ricordi indelebili. Nel 2022 piccolissima, nel 2023 un po’ più grande. Ora è un uomo, un veterano. E dell’Olimpia è già – va detto – un giocatore storico. Ha giocato 252 partite di campionato, una in più di Pino Brumatti, 16° di sempre; è il quinto rimbalzista difensivo, il sesto rimbalzista, il settimo rimbalzista offensivo; il terzo stoppatore; è il primo rimbalzista di club in EuroLeague, il primo nei recuperi,

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Nicolò Melli con tutta la famiglia, genitori, fratello, moglie e la piccola Matilde
Un’altra prodigiosa
schiacciata di Melli, il più continuo
dell’Olimpia

il quarto nei punti, il secondo per presenze. I numeri raccontano solo una parte della storia di un giocatore come Nik, che si misura con le vittorie come succedeva a Dino Meneghin e come succede a Kyle Hines, ma ogni tanto vanno riportati per evitare che dietro l’etichetta di difensore, uomo squadra, si nasconda la verità. In Gara 7, nel 2014, segnò 11 punti e catturò 13 rimbalzi. In gara 5, nel 2023, sono stati 13 punti e 12 rimbalzi. Ovviamente, dovrebbe essere difensore dell’anno ogni anno, almeno in Italia. Ma alle volte si guardano lo stoppate e le palle recuperate per misurare l’impatto difensivo. Melli è oltre.

Inutile aggiungere che nell’arco delle sette partite della finale dell’ultima stagione, nessun giocatore dell’Olimpia è stato continuo come Nik. Avrebbe potuto essere lui l’MVP della serie. È stato lui in fondo a segnare i due tiri liberi decisivi di Gara 2. Ma il pensiero non gli ha mai sfiorato il cervello. Quando ha saputo che era stato nominato Gigi Datome, era contento più dello stesso Gigi. Non solo perché contano le vittorie di squadre, ma anche per l’amicizia sincera che li lega. A parte la Nazionale, hanno condiviso due anni a Istanbul e adesso altri due a Milano, vincendo tre titoli nazionali in simbiosi. In aereo, Melli è l’ultimo giocatore, sulla destra del velivolo;

Datome è l’ultimo sulla sinistra.

Così da pochi metri di distanza possono parlarsi oppure uno avvicinarsi all’altro per guardare insieme, sul cellulare, “Borat” o magari discutere dell’ultimo libro, un’altra passione che condividono. L’anno prossimo sarà tutto un po’ diverso, anche per lui.

“Rispetto al 2014 sono sicuramente cambiato. Per fortuna, aggiungerei”, ha detto. È cambiato, ha più di trent’anni, ha moglie, figlia, un centro sportivo e fisioterapico a Reggio Emilia, tante vittorie in bacheca, tanta esperienza maturata in giro per il mondo, ma neanche così tanto. L’ironia è la stessa, la forza di non prendersi troppo sul serio c’è ancora tutta, i commenti sferzanti quando è in panchina restano. Nell’ultima stagione, ha giocato 76 partite su 80. Ne ha saltate appena quattro. Da italiano non ha mai goduto del “privilegio” di poter tirare il fiato ogni tanto, ma non succedeva neppure quando era straniero. A Bamberg non potevano permetterselo, a Istanbul non volevano. All’Olimpia probabilmente tutte e due le cose. La storia prosegue, la storia va avanti. Una presenza dopo l’altra, un rimbalzo, un punto segnato, una stoppata eseguita dopo l’altra scalando i libri di storia. Quella storia di cui è già parte.

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Uno dei tanti abbracci con Gigi Datome, quasi un fratello, in maglia Olimpia Uno dei tanti abbracci con Gigi Datome, quasi un fratello, ma qui in Nazionale

SHAVON SHIELDS

In cinque anni nel campionato italiano, Shavon Shields ha giocato cinque finali. Cifre alla mano, è già uno dei più grandi giocatori nella storia del basket italiano. E resterà a Milano per altri tre anni

In cinque anni nel campionato italiano, Shavon Shields ha giocato cinque finali. Cinque finali consecutive sono un fatto raro, cinque finali consecutive per un giocatore straniero sono un fatto rarissimo (l’ha fatto Mike D’Antoni, ma solo le prime tre erano da straniero), cinque finali nei primi cinque anni sono riuscite solo a lui e a Ksistof Lavrinovic a Siena (arrivò a quota sei, ma non era proprio tra i leader della squadra). Shields ci è riuscito con due squadre diverse. E se è vero che ha perso le prime tre, adesso il trend è invertito e ha conquistato le ultime due. E contando l’esperienza in Spagna, Shields ha giocato sei finali di campionato in sette stagioni e ha vinto tre delle ultime quattro. Un

cammino che comincia ad essere paragonabile a quello di Kyle Hines (12 finali di campionato in 13 stagioni, ma l’unica volta che non l’ha giocata fu nel 2020 e venne cancellata la stagione, di cui 10 vinte).

Come era successo nel 2021/22, Shields è riemerso in tempo da una stagione difficile. Nel 2021/22, la frattura della mano rimediata a metà stagione l’aveva fatto fuori per tre mesi. Ma gli aveva consentito di rientrare in tempo per giocare la parte conclusiva della stagione di EuroLeague, ottenere la seconda inclusione consecutiva nel secondo quintetto della competizione e giocare i playoff delle due competizioni. Ma l’infortunio nell’ultima stagione

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è arrivato molto presto, è stato più lungo e più grave perché, con la gamba avvolta in un tutore per settimane, Shields non ha potuto conservare il tono atletico com’era successo la stagione precedente. Per questo, recuperare la forma è stato più difficile.

Per riassumere: Shields per un primo infortunio non ha giocato la Supercoppa 2022, per un secondo infortunio non ha giocato la Coppa Italia 2023. Quando si è infortunato in modo significativo, l’Olimpia era imbattuta in campionato e 3-1 in EuroLeague. Senza di lui aveva vinto a Villeurbanne, nel suo esordio stagionale aveva perso dopo un supplementare contro l’Alba Berlino in casa, ma con lui aveva vinto a Belgrado e poi a Monaco dopo la sua uscita di scena. Quando è rientrato in EuroLeague, l’Olimpia era di fatto eliminata anche se il suo rientro, coinciso più o meno con l’arrivo di Shabazz Napier, ha permesso alla squadra una clamorosa volata finale che aveva persino illuso di poter strappare un posto nei playoff in extremis. In tutto, con lui l’Olimpia ha fatto 6-4 in EuroLeague. Il 60% di vittorie in EuroLeague avrebbe garantito il quinto posto. Senza di lui, il bilancio è stato di 9-15, 37.5%. In campionato ha giocato in tutto 25 partite. In generale, l’abbiamo visto per meno della metà delle gare. Ma solo nella serie finale si è visto il vero

Shields, dopo la grande prestazione di Belgrado a inizio stagione quando si esibì in un clinic su cosa significhi essere un “two-way player”, un giocatore incisivo sia in difesa che in attacco.

L’ha dimostrato anche in finale, dove ha marcato Hackett, Belinelli e Teodosic, ha difeso correndo dietro un attaccante di livello estremo oppure ha difeso a tutto campo contro il playmaker. E poi in attacco, ha giocato con la sua energia usando il tiro dalla media, l’uno contro uno al ferro e, qualche volta, il tiro da tre punti. In finale, ha segnato 14.9 punti a partita più 4.2 rimbalzi, ed è stato decisivo in Gara 5, che in parte ha deciso la serie. Un canestro al ferro, una tripla, due tiri liberi.

Per avere l’esatta percezione di quale possa essere l’impatto di Shields occorre ricordare che nelle due stagioni precedenti era stato incluso nel secondo miglior quintetto di EuroLeague, anche quando è stato fuori tre mesi per infortunio. Nel suo ruolo non teme paragoni, quando è in salute, perché generalmente i grandi attaccanti non hanno l’attitudine e l’energia per essere anche grandi difensori. Ma lui è nato difensore e poi è diventato un attaccante senza dimenticare le proprie origini tecniche e così si è trasformato in un raro esempio di completezza.

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Qui esegue un “reverse lay-up” eludendo l’intervento difensivo

Shavon Shields a canestro nella finale del 2023 di Daniel Hackett

Shields, che ha compiuto 29 anni nel mese di giugno, cifre alla mano, è già uno dei più grandi giocatori nella storia del basket italiano. È terzo per punti segnati in partite di finale, è salito al 24° posto nella graduatoria dei cannonieri all-time nei playoff, nono tra gli stranieri. Nell’Olimpia, è già il quinto realizzatore di sempre in EuroLeague, quinto anche nelle palle rubate, sesto nei canestri da due punti, quarto nelle triple. È sulla strada per riscrivere una buona parte del record-book del club. Nel 2021, segnò 34 punti in Gara 5 dei playoff di EuroLeague. È stata la più grande prova in Gara 5 della storia. Nell’era EuroLeague moderna, con l’Olimpia, solo Samardo Samuels e Mike James hanno segnato più di 34 punti in una singola partita, ma si trattava di gare di stagione regolare, non paragonabili ad una Gara 5, con le sue pressioni e quella posta in palio. Se non è ancora popolare come dovrebbe, ovviamente non al Mediolanum Forum, in generale, è solo perché si tratta di un ragazzo schivo, che parla con i fatti, non con le parole, non ama le interviste o mettersi in mostra.

A casa sua, a Kansas City, vive assieme ad una leggenda del football americano, uno dei più grandi difensori della storia, Will Shields. Quando ha scelto di giocare a basket ed è andato a Nebraska, questa era la stessa

università frequentata dal padre. Shavon non era Shields era il figlio del grande Will Shields: aveva provato a ricalcarne le orme da bambino, giocando a football, con la capigliatura afro, ma non aveva funzionato. Shields è molto più alto del padre, ma la forza fisica di Will è un’altra cosa. Pur essendo un appassionato di football e un grande tifoso dei Chiefs, di cui indossa perennemente il cappellino, Shavon ha capito presto che il football non era il suo sport. Per questo si è trasferito sul campo da basket. Ride, ammettendo che sì, Will era un’altra cosa.

Sul campo da basket ha trovato la sua dimensione. Finito il college, venne in Europa perché un incidente in campo aveva interrotto la sua ultima stagione all’università (è il quinto realizzatore di sempre nella storia dei Cornhuskers). Si è rifatto una carriera cominciando da Francoforte dove giocava da 4, poi a Trento l’hanno trasformato in una guardia. Non potrà mai ringraziarli abbastanza, è il primo a dirlo. In Europa, in una cultura che conosceva grazie alla mamma danese, si è costruito la propria carriera e la propria identità. Ma la sua identità - non importa cosa dicono numeri e vittorie - è quella di un giocatore silenzioso e vincente. E resterà a Milano altri tre anni. Prepariamoci.

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Quando entra in area, Shields frequentemente mostra anche le sue qualità di passatore

A canestro con la mano sinistra in una gara di EuroLeague: Shields segna in tanti modi diversi

WILLIE CARUSO

“Quando torni dal college devi ricominciare da zero, ricostruirti un nome e riadattarti. Io sono andato a Torino a 13 anni, ero un ragazzino immaturo, poi ho scoperto la Sylicon Valley. Ho vissuto un film”

Ci vuole passione e un pizzico di fantasia per lasciare i confini amichevoli della propria vita in provincia di Napoli, a Cercola, enclave provvisto di grande passione persino nel territorio di Diego Maradona, per trasferirsi a Torino. A 13 anni.

Guglielmo Caruso l’ha fatto e adesso che approda all’Olimpia a 24 anni può dire di avercela fatta anche se questo arrivo a Milano dovrà essere un trampolino di lancio non un traguardo. “Negli ultimi anni sono sicuramente migliorato sotto l’aspetto fisico ma sono anche cosciente di dover migliorare molto soprattutto perché, quando il livello

si alza si alza anche la fisicità. Sono venuto a Milano proprio perché ci sono le condizioni e anche i compagni da studiare per arrivare al mio massimo. Per il momento sono in grado di fare qualcosa usando la tecnica e la mia agilità nel finire vicino a canestro ma i margini sono ampi”, spiega.

Come tutti i bambini anche lui aveva cominciato a giocare a calcio solo che non vedi in giro tanti calciatori di 2.05. Un centimetro alla volta stava diventando troppo alto per giocare a centrocampo, sulla fascia o anche da difensore centrale. La mamma gli propose di provare con il basket. Era agile, atletico e molto alto. Era

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perfetto. “Ho provato, forse anche in ritardo rispetto alla normalità, a 10-11 anni, mi è piaciuto e mi sono innamorato di questo sport in modo viscerale. Bellissimo. Ho capito che era la strada giusta per me. Devo molto a Coach Virgilio Esposito. Da quel momento è diventato la mia vita, un amore incondizionato”, racconta.

Per fortuna a casa aveva anche due sorelline altrimenti come avrebbero fatto i genitori di Willie a lasciarlo andare? Prima a Torino poi addirittura in California. “Moncalieri mi ha seguito nei tornei giovanili, soprattutto al Trofeo delle Regioni con la Campania. Mi ha proposto di trasferirmi nella loro foresteria a Torino, e l’ho fatto supportato dalla mia famiglia. Non è stato facile. Ero un bambino, molte cose non le capivo, ero immaturo. Ero lontano da casa, in una città diversa da Napoli. Gradualmente, con l’aiuto di tutti mi sono ambientato. Superati i primi tempi, tutto è stato in discesa”. Cinque anni a Moncalieri, sotto Coach Vincenzo di Meglio, napoletano come lui, e Andrea Bausano, le nazionali di categoria, il bronzo Under 18 in Turchia che significava la qualificazione ai Mondiali Under 19 in Egitto. “È stata una grande soddisfazione: quando vesti la maglia della Nazionale senti sempre un po’ di orgoglio e vincere una medaglia inattesa di grande

valore è un’esperienza che ti segna. Non parlo solo del risultato, parlo del gruppo costruito, dei trenta giorni passati insieme. Ed era un gruppo che aveva conquistato il bronzo agli Europei. Resta solo il rammarico per la finale persa con il Canada”. Il Canada, che era guidato da RJ Barrett, ora stella dei Knicks, in un Mondiale in cui c’era anche Rui Hachimura, il giapponese dei Lakers.

Le nazionali giovanili le ha fatte tutte. Nel 2015 era agli Europei Under 16, nel 2016 a quelli Under 18 pur essendo sotto età come si dice in gergo, lui unico azzurro in questa condizione insieme ad Alessandro Pajola, quindi i Mondiali Under 19, infine gli Europei Under 20 nel 2019 dove è stato al top, 13.4 punti e 7.1 rimbalzi di media.

Fu in quel periodo che cominciò ad attirare l’interesse dei college americani. “Hanno cominciato a cercarmi che ero minorenne quindi attraverso i miei genitori. Poi dopo i Mondiali Under 19, Santa Clara mi ha chiamato. Sono andato a visitare il campus per capire come funzionava. È stato amore a prima vista, Per i miei genitori è stato un altro sacrificio. Un conto è vivere a un’ora e mezzo di volo da casa, un altro trovarsi dall’altra parte del mondo. Ma per me sono stati tre anni bellissimi. Sono grato a Santa

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Guglielmo Caruso in Nazionale: ha vinto anche l’argento mondiale Under 19 Willie ai tempi di Santa Clara in California dove è rimasto tre anni

Clara. Mi ha fatto crescere come giocatore e come persona. Ero vicino a San Francisco, nella Silicon Valley, un clima invidiabile. Da buon napoletano sono condizionato dal meteo. In California non pioveva mai. Perfetto. Ho vissuto dentro un film, in uno degli stati più belli che esistano. È stata un’esperienza impagabile che consiglio a tutti”.

Tre anni ai Broncos, con alcune perle, i 25 punti segnati contro San Josè State, i 19 firmati contro Gonzaga quando era numero 1 del ranking nazionale. In tutto, 68 partite, 9.4 punti e 4.8 rimbalzi di media nell’ultima stagione, quinto per stoppate nella West Coast Conference. Quell’anno Santa Clara è arrivata al terzo turno del torneo di conference e lui fu il migliore della sua squadra, 14 punti contro Portland, 14 contro Pacific, 16 e otto rimbalzi contro Pepperdine, guidata da Colbey Ross che poi avrebbe ritrovato come compagno di squadra a Varese. Il migliore dei suoi compagni era Jalen Williams, quest’anno secondo nella classifica del rookie dell’anno nella NBA, a Oklahoma City. “Si vedeva che aveva struttura, mano e tecnica per giocare ad alto livello. Era concentrato sul basket. 24 ore al giorno in palestra, ha fatto sacrifici che hanno ripagato. Sono contento che stia dimostrando di poter giocare al più livello che esista”, racconta.

Due anni fa c’è stato il ritorno in Italia. A Varese. “Quando vai via al college è come se venissi dimenticato. Quando torni devi ricominciare da zero, ricostruirti tutto. Poi c’è anche il riadattamento al basket europeo diverso da quello americano. Il primo anno a Varese è stato complicato. Ho avuto anche problemi fisici. Il secondo è stato diverso, sono rimasto concentrato e con l’aiuto di Luis Scola a Varese ho avuto la fiducia e la possibilità di dimostrare che stavo lavorando. I risultati sono arrivati. Ci siamo divertiti e tolti delle soddisfazioni”, dice. Soddisfazioni anche individuali. Caruso è diventato un giocatore della Nazionale. In Spagna a febbraio ha segnato 18 punti ne successo esterno sulla Spagna. Una sorta di battesimo del fuoco per lui. È stata una delle prestazioni di cui sono più fiero. In Nazionale senti sempre qualcosa in più. Non mi aspettavo quella partita, vivo giorno per giorno, ed ero felice solo di esserci. Non solo ho giocato bene ma abbiamo vinto, quindi tutto vale di più quando vinci”.

E adesso l’Olimpia: “Sono contento, sono entusiasta. Non è una squadra qualunque, pochi club vantano una storia come questa. Non vedo l’ora di iniziare, sarà una bella sfida, avrò tanto da imparare, ma credo sia il posto giusto per tentare di fare un salto di qualità”.

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