www.fgks.org   »   [go: up one dir, main page]

Academia.eduAcademia.edu
TRA SPECCHIO E IDENTITA’ “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto”. San Paolo, I Corinzi 13,12 “Un uomo spaventoso entra e si guarda allo specchio. «Perché vi guardate allo specchio, se vedervi vi dà solo dispiacere?». L'uomo spaventoso mi risponde: «Signore, secondo gli immortali princìpi dell'89, tutti gli uomini sono uguali nei loro diritti; e dunque io posseggo il diritto di guardarmi; se con piacere o dispiacere, questo riguarda solo la mia coscienza». In nome del buon senso, io avevo senza dubbio ragione. Ma dal punto di vista della legge, lui non aveva torto.” Charles Baudelaire INDICE INTRODUZIONE - pag. 4 1. ETIMOLOGIA - pag. 5 2. POSITIVITA’ E NEGATIVITA’ DELLO SPECCHIO IN PLATONE E LA SUA VALENZA METAFISICA IN PLOTINO- pag. 6 3. SENECA E APULEIO SUGLI SPECCHI – pag. 9 4. MATTIA PASCAL E L’OCCHIO DELL’ALTROVE, “UNO, NESSUNO E CENTOMILA” : LA DISSOLUZIONE DELL’IO – pag. 11 5. PICASSO E IL RITRATTO ALLO SPECCHIO – pag. 17 6. JACQUES LACAN E LA “FASE DELLO SPECCHIO” – pag. 20 7. CONCLUSIONE- pag. 22 8. BIBLIOGRAFIA (PER SEZIONI) – pag. 24 INTRODUZIONE Fin dai tempi più antichi, una stretta connessione ha legato specchio e identità, poiché varie e molteplici sono le implicazioni assunte dallo specchio nei processi della formazione dell’io e della costruzione dell’identità personale.Il “problema” dell’identità personale pare essere inteso, a volte, come un tema astorico, quasi assoluto: al contrario, termini quali “io”, “me”, “sé”, “soggettività” sono storici e culturali, perfino ideologici. Anche solo operando una breve riflessione storica sui secoli più recenti si può osservare, ad esempio, come la Modernità, con il mito del progresso e della ragione, avesse fatto dell’individualità il luogo privilegiato dell’identità personale, strutturando il concetto di crescita fondamentalmente come progresso soggettivo, e come invece sulla fine della Modernità sia stata riscoperta e rifondata l’immagine dell’individuo contemporaneo: individuo non più inteso come soggettività-individualità, ma come intersoggettività-intenzionalità, non portatore di dominio e certezze, ma dotato dell’opportunità di svelarsi quale soggetto in farsi. È su questi presupposti che emerge con maggiore evidenza la valenza educativa dello specchio, un dispositivo che non è solo emblema di identità e simmetria, ma che, testimoniando la natura dinamica del nostro farsi, contiene anche l’inverosimile, il paradosso, che nella realtà non è visibile. Sulla pregnanza di questa connessione vuole fondarsi questo lavoro, per operare una riflessione sulla rilevanza che lo specchio ha avuto nel tempo: partendo dall’etimologia della parola “specchio” nella lingua latina e greca, per passare poi nel concreto alle valutazioni di filosofi, scrittori e artisti riguardo a questo tema- si prenderanno in esame Platone, Plotino, Seneca, Apuleio, Pirandello, Picasso e Lacan. 1. ETIMOLOGIA In latino lo specchio è “speculum”, in greco è “κάτοπτρον”. Che cosa significano etimologicamente queste parole? Cominciamo con “speculum”. In questa parola è contenuta la radice spec- che sta nel verbo specio, raramente attestato, e soprattutto nella forma ridotta –spicio, presente in numerosi composti tutti legati all’idea di «guardare»: inspicio, conspicio, respicio e così via. Questa radice spec- significa propriamente «percepire», «guardare» ed ha rapporti con il greco σκέπτομαι, «analizzare», «valutare attentamente», così come σκοπή, «osservatorio». Dalla radice spec- derivano termini come: “species”: «apparenza», «immagine» e poi «specie»; “specimen”: « indizio», «marca»; “specula”: «osservatorio», generalmente un luogo posto ben in alto, da cui si guardano le mosse del nemico o comunque si sorveglia quello che accade; infine “speculum”. Dal punto di vista morfologico, speculum e specula si rassomigliano molto: entrambi aggiungono alla radice un suffisso di tipo strumentale (-culum/ -cula, «che serve a…»). Quindi se “speculum” è «l’oggetto che serve per guardare», specula costituisce piuttosto il “luogo” da cui si osserva. In greco, come dicevamo, lo specchio è “κάτοπτρον”, e anch’esso ci viene incontro in un’interessante compagnia: “κατόπτης” e “κατοπτήρ”: indicano la «spia», l’ «osservatore»; “κατοπτεία”: indica il «riconoscimento», l’ «indagine», l’ «attività spionistica»; il verbo “κατοπτεύω” implica l’attività di «spiare», «esaminare», «esplorare». Lo specchio greco, dunque, proviene da una famiglia ancora più esplicita di quella latina: essa comprende infatti tutti termini che implicano l’«osservazione» e lo «spionaggio». Propriamente, dunque, il “κάτοπτρον” è qualcosa che arriva là dove altrimenti non si può arrivare, un mezzo per sondare e per “spiare”. “Specchio”, quindi, come strumento non “riflettente”, ma “potenziante”. SPECCHIO CON MANICO A FIGURA DI SIRENA (SECONDA META' V SEC. A.C.) 2. POSITIVITA’ E NEGATIVITA’ DELLO SPECCHIO IN PLATONE E LA SUA VALENZA METAFISICA IN PLOTINO Riguardo al tema dello specchio, la concezione di Platone Platone, figlio di Aristone del demo di Collito ( Atene, 428 a.C./427 a.C. – Atene, 348 a.C./347 a.C.), è stato un filosofo greco antico. è opposta e contrastante. Inizialmente, infatti, il filosofo greco connota lo specchio negativamente: nel “Teeteto” Platone, Teeteto (193c) lo specchio che riflette le forme in modo invertito diviene metafora della conoscenza ingannevole, assimilata nel “Timeo” Platone, Timeo (46a-c) alle illusioni prodotte dai sogni. Con la medesima connotazione negativa si presenta nel “Sofista” Platone, Sofista (239c-e), dove le immagini pittoriche e scultoree sono messe in relazione con quelle riflesse nell'acqua e negli specchi, per condannare tanto i sofisti quanto gli artisti, entrambi colpevoli, secondo Platone, di illudere gli uomini: gli uni con le parole, gli altri con le forme e i colori. Pertanto lo specchio diviene simbolo di un sapere falso al pari di quello prodotto, nel famoso mito della caverna Platone, Repubblica, libro VII (514a-517d): questo passo della Repubblica, all’inizio del libro VII, propone la celebre immagine della caverna come rappresentazione della condizione umana. Vi sono raffigurati gli uomini come prigionieri in un antro oscuro, costretti a guardare le ombre proiettate sulla parete di fondo delle cose reali e degli uomini che passano davanti all’entrata, illuminati da dietro da un gran fuoco. I prigionieri non hanno altro che ombre e voci per ragionare sulla realtà, e non hanno la minima idea di come siano fatte veramente le cose: così, legati alle apparenze, anche gli uomini pensano per impressioni fugaci e per sentito dire, credendo che le opinioni siano realtà. L’allegoria prosegue descrivendo un evento eccezionale: uno dei prigionieri, riuscito a liberarsi, getta lo sguardo fuori dalla caverna e vede il mondo reale, illuminato dal Sole; tornato a liberare i prigionieri delle ombre, non viene creduto e viene ucciso. Al centro dell’allegoria troviamo il cambiamento radicale di prospettiva che separa il primo tipo di conoscenza dal secondo; nel prigioniero liberato vediamo il filosofo, che giunge con il pensiero alle verità razionali, ma non riesce a comunicare con chi giudica solo attraverso la sensibilità., dalle ombre proiettate sul muro, contrapposte alle Idee che si trovano nell'Iperuranio e che per il filosofo sono l'unica fonte di verità. E’ nel rapporto tra amanti che Platone vede un “rispecchiamento”, e da questo punto di vista connota lo specchio positivamente: nel “Fedro” il fenomeno “innamoramento” è spiegato addirittura in sede fisica, in base alla fisiologia della vista, quale conseguenza del concreto fluire della bellezza dal volto amato fino all’occhio dell’amante: egli s’innamora quando l’effluvio della bellezza irradiato da quel volto giunge, attraverso la pupilla, fino all’anima, riaccendendo l’originario e sopito desiderio di bello e bene Platone, Fedro (251a-b). Ma allora lo sguardo di costui, dell’amante, porterà i “segni” di quanto avvenuto nella sua anima, facendo rifluire di nuovo all’esterno, verso l’amato, la corrente della bellezza. Anche l’amore che l’amato proverà in risposta si identificherà quindi come immagine di un “rispecchiamento”. «Come una folata di vento oppure un’eco, rimbalzando da superfici lisce e solide, tornano là di dove erano venute, così il flusso di bellezza torna attraverso gli occhi al giovane bello…ecco che <costui> ama a sua volta, e non sa spiegarlo, ma, come chi, contagiato da un altro di una malattia d’occhi, non sa dir la causa, così costui non sa di vedere se stesso nell’amante come in uno specchio». Platone, Fedro (255c-d) E’ questo sguardo orizzontale, diretto sulla copia della bellezza, su un altro volto e su un altro sguardo, a mettere in moto anche la consapevolezza di sé: il flusso visivo, infatti, rimbalza “da superfici lisce e solide”, cioè sugli specchi, tornando indietro, al punto di partenza, e dando luogo al fenomeno della riflessione, del rispecchiamento- così l’amato, nello sguardo innamorato dell’amante, “vede se stesso…come in uno specchio”. Il tema è ripreso chiarissimamente nel brano riportato di seguito, tratto dall’”Alcibiade primo”. «Hai osservato poi che a guardare qualcuno negli occhi si scorge il volto nell’occhio di chi sta di faccia, come in uno specchio, che noi chiamiamo pupilla, perché è quasi un’immagine di colui che la guarda. […] In effetti, devi aver osservato che chi rivolge lo sguardo verso l’occhio di una persona, vede il proprio volto riflettersi nell’organo visivo della persona che ha di fronte, come se fosse uno specchio». Platone, Alcibiade (133a) In questo passo si precisa che non è solo lo specchio la cosa guardando la quale noi possiamo vedere “contemporaneamente essa e noi stessi”: non sono solo gli specchi e altri oggetti simili a produrre tale effetto, poiché esso è indotto dall’occhio stesso di chi ci sta di faccia. In questo contesto lo specchio è la metafora dell’anima: se nulla è più importante della conoscenza di sé e se questo sé non è che anima ecco che allora che quando il dio di Delfi ci prescrive di conoscere sé stessi, in realtà “ci ordina di conoscere la nostra anima”. Platone, Alcibiade (130e) Prendendo poi in considerazione la leggenda di Narciso La versione ellenica del mito appare come una sorta di racconto morale in cui il superbo e insensibile Narciso viene punito dagli dèi per aver respinto tutti i suoi pretendenti di sesso maschile e, in un certo qual senso, lo stesso Eros. Il racconto è quindi pensato come una storia di ammonimento rivolto ai giovani. Fino a poco tempo fa le due fonti per questa versione del mito erano un compendio delle opere di Conone e un brano di Pausania. Un racconto molto simile è stato però scoperto nel 2004 tra i papiri di Ossirinco, che si crede messi per iscritto da Partenio. Questa versione precede quella di Ovidio di almeno cinquant'anni. Il mito greco narra che Narciso aveva molti innamorati, che lui costantemente respingeva fino a farli desistere. Solo un giovane ragazzo, Aminia, non si dava per vinto, tanto che Narciso gli donò una spada perché si uccidesse. Aminia, obbedendo al volere di Narciso, si trafisse l'addome davanti alla sua casa, avendo prima invocato gli dei per ottenere una giusta vendetta. La vendetta si compì quando Narciso, contemplando in una fonte la sua bellezza, restò incantato dalla sua immagine riflessa, innamorandosi perdutamente di se stesso. Completando la simmetria del racconto, preso dalla disperazione e sopraffatto dal pentimento, Narciso prese la spada che aveva donato ad Aminia e si uccise trafiggendosi il petto. Dalla terra sulla quale fu versato il suo sangue, si dice che spuntò per la prima volta l'omonimo fiore., Plotino Nato a Licopoli nel 203/205, morto a Minturno nel 270, è stato un filosofo greco antico. È considerato uno dei più importanti filosofi dell'antichità, erede di Platone e padre del neoplatonismo.ne dà un'interpretazione metafisica, nella quale l'errore di Narciso diventa allegoria delle peregrinazioni dell'anima che annega nell'illusione della materia: quello che fino ad allora era il castigo di Narciso, colpevole di aver disdegnato Eros, diventa la sua colpa. Per aver rifiutato l'apertura agli altri, tappa indispensabile verso la conoscenza di sé, Narciso era condannato ad essere intrappolato dalla sua immagine, a confondere il riflesso e la realtà, a innamorarsi fatalmente della sua apparenza troppo seducente. Non avendo quindi accettato la conoscenza dell'alto nella reciprocità, Narciso era condannato ad una riflessività illusoria. Il riferimento allo specchio diventa in Plotino sistematico e assume una valenza metafisica: la materia è pensata come uno specchio in cui l'anima si proietta in molteplici riflessi che compongono il mondo sensibile. Perciò la colpa di Narciso consiste nel dimenticare che i sensi non sono che riflessi e nel chiudersi completamente, anima a corpo, in se stessi. 3. SENECA E APULEIO SUGLI SPECCHI Fra gli autori latini sono Seneca, in particolare, e Apuleio coloro che hanno dedicato agli specchi le riflessioni più interessanti. Seneca Nato a Cordova nel 4 a.C. e morto a Roma, 65, è stato un filosofo, drammaturgo e politico romano, esponente dello stoicismo. lo fa nel quadro delle “Naturales Quaestiones”, affrontando un tema- quello dell’immagine riflessa- che a buon diritto rientra nel campo della scienza. Per introdurlo il filosofo racconta una storia di perversione del suo tempo, quella del famigerato Ostio Quadra, «“dives avarus” ucciso da uno schiavo, fu lasciato invendicato per volere di Augusto, e poco mancò che l’assassinio venisse giudicato un atto di giustizia. Il defunto, infatti, meritava una fine indegna: concupiva sia i maschi che le femmine, e si era fatto costruire degli specchi ingrandenti, in modo da poter godere delle illusorie dimensioni dei corpi a cui si univa, reclutati di preferenza nei bagni pubblici. Simili nefandezze opprimerebbero l’animo anche rimanendo segrete: non si riuscirebbe a confessarle neppure a sé stessi. Egli, al contrario, non temeva la luce, anzi, continuamente offriva a se stesso lo spettacolo della lussuria. Di certo avrebbe voluto essere ritratto da un pittore in quei momenti. E pensare che perfino alle prostitute un residuo pudore impedisce di mostrarsi al pubblico […]. Un simile mostro meritava di essere ucciso di fronte al suo specchio.» Seneca, Naturales Quaestiones (1, 16) Dopo questa lunga introduzione, Seneca affronta la questione dello specchio da vari punti di vista, ma con continue deviazioni in direzione moralistica. Il protagonista, Ostio, si vanta di trovare il modo di soddisfare la propria libido grazie agli specchi. Su tali “instrumenta” Seneca si sofferma nelle considerazioni che seguono al brano: la natura ne consentì l’esistenza per aiutare i nostri “imbecilli oculi” a contemplare, e quindi conoscere. Successivamente Seneca illustra l’impiego moralmente positivo degli specchi: «Ci si prenda gioco adesso dei filosofi, perché trattano della natura degli specchi; perché si domandano come mai la nostra immagine ci sia riflessa in questo modo e, precisamente, rivolta verso di noi; che cosa si sia proposta la natura quando, dopo aver creato dei corpi reali, ha voluto che si vedessero anche le loro immagini; a che scopo abbia mirato, preparando una materia capace di ricevere le immagini. Non lo ha fatto certo per questo: perché noi davanti allo specchio ci radessimo la barba o perché noi, maschi, ci lisciassimo la faccia. […] Gli specchi furono inventati perché l’uomo conoscesse sé stesso, traendone molti vantaggi per il futuro, innanzitutto la conoscenza di sé, poi degli utili suggerimenti per affrontare le diverse situazioni: se bello, per evitare azioni disonorevoli; se brutto per sapere che bisogna riscattare con le virtù tutte le manchevolezze del corpo; se giovane, perché nel fiore dell’età fosse avvertito che è quello il tempo di imparare e di osare audaci imprese; se vecchio, per abbandonare tutto ciò che non si addice alla canizie, per pensare un po’ anche alla morte. In vista di queste cose la natura ci ha dato la possibilità di rimirare noi stessi.» Seneca, Naturales Quaestiones (1,17) Dalla consapevolezza del proprio aspetto fisico, ottenuta grazie agli specchi, secondo Seneca, bisogna trarre insegnamenti etici: ad esempio, un uomo bello imparerà a non abusare del suo fascino, un vecchio ad evitare comportamenti inadeguati alla sua età. Lo specchio diviene così strumento dell’esame di coscienza. Quanto ad Apuleio Nato intorno al 125 nei pressi di Madaura, nell'attuale Algeria, grazie alle condizioni agiate della sua famiglia si potè permettere viaggi di studi in tutti i grandi centri di cultura dell’epoca, tra Cartagine, Atene e Alessandria, e rimase immediatamente affascinato dalla filosofia., nell’ “Apologia” ha l’occasione di esibirsi in un pezzo di bravura retorico- stilistico sugli specchi, rispondendo all’accusa che egli aveva ricevuto da Pudente, fratello della ricca vedova Pudentilla Sulla via di Alessandria, Apuleio sosta a Oea (l'odierna Tripoli), dove si imbatte in un vecchio compagno di studi, Ponziano, che lo trattiene offrendogli ospitalità. La madre di Ponziano, Emilia Pudentilla è vedova, non bella, ma particolarmente benestante. Pudentilla vuole sposarsi con Apuleio, perché fidato amico e, in quanto filosof +o, indifferente alla ricchezza. Apuleio, inizialmente ritroso, cede alle insistenze della donna e si uniscono in matrimonio. Dì lì a breve, Ponziano muore e i parenti di Pudentilla, per timore di perdere la ricca eredità, accusano Apuleio di aver sedotto la vedova con incantesimi e magie per estorcerle il lascito., che egli aveva sposato. Fra i capi d’accusa, figurava anche quello di “avere uno specchio”. Apuleio risponde all’accusa sostenendo che non sia male studiare allo specchio la propria figura (argomentazione che riprende da Seneca). «[…] In uno specchio invece si vede l’immagine meravigliosamente resa, insieme rassomigliante e mobile, obbediente ad ogni gesto della persona. La stessa immagine è sempre coeva a coloro che si specchiano dall’inizio della puerizia al tramonto della vecchiaia, riveste tanti cambiamenti dell’età, vi produce i vari atteggiamenti della persona, imita tanti aspetti di essa nella gioia e nel dolore. Apuleio, Apologia (13,5-14) […] Non si narra forse che Socrate il filosofo esortasse i suoi discepoli a guardarsi spesso in uno specchio? Coloro che si compiacciono della propria bellezza, per vegliare con attenzione a non disonorare con la cattiva condotta la nobiltà dei loro tratti; coloro che si stimano scarsamente dotati di pregi esteriori, per applicarsi con cura a far dimenticare la bruttezza grazie alle proprie qualità morali. Così il più saggio fra gli uomini si serviva di uno specchio perfino per educare ai buoni costumi.» Apuleio, Apologia (15) L’immagine allo specchio “muta con noi”, dice Apuleio, gli altri tipi di immagini- comunque siano realizzate- restano invece fisse, bloccate: e sono “morte”. Questa è la qualità fondamentale dell’immagine allo specchio, essa si presenta sempre “aequaeva” rispetto alla persona che si specchia, muta con lui, va e viene con lui. MATTIA PASCAL E L’OCCHIO DELL’ALTROVE, “UNO, NESSUNO E CENTOMILA”: LA DISSOLUZIONE DELL’IO Interessandosi allo specchio, Pirandello Luigi Pirandello nasce il 28 giugno 1867 a Girgenti (odierna Agrigento) da Stefano e Caterina Ricci-Gramitto, entrambi di sentimenti liberali e antiborbonici (il padre aveva partecipato all'impresa dei Mille). Compie gli studi classici a Palermo, per poi trasferirsi a Roma e a Bonn dove si laurea in Filologia Romanza. si rivela erede di una lunghissima tradizione culturale, la cui origine risale al mito di Narciso: per secoli l’umanità si è interrogata sulle qualità di questo oggetto, che “duplica” il reale ribaltandone l’immagine, chiedendosi se è uno strumento di verità o di illusione, e se può aiutare l’uomo a progredire nella scienza o se lo condanna a precipitare nella follia. Fu Pirandello stesso ad annotare su un “foglietto” la frase che giustifica la scelta di questo percorso: «Io mi vedo vivere come davanti a tanti specchi, quanti sono gli occhi che mi stanno a guardare». Luogo di questa riflessione è sicuramente una delle sue opere, “Il fu Mattia Pascal” Trama: il protagonista, Mattia Pascal, vive in un piccolo paesino della Liguria, in una situazione insostenibile. In famiglia subisce, insieme all’anziana madre, le angherie della moglie, che ha sposato controvoglia, e della suocera. Inoltre, dopo la perdita del patrimonio familiare, per mantenersi è costretto a lavorare in una malandata biblioteca che nessuno frequenta. Decide allora di fuggire all’estero. I suoi piani mutano però in seguito a due eventi inattesi: un’enorme vincita al casinò e la notizia, appresa dai giornali, che sua moglie e sua suocera lo hanno riconosciuto nel cadavere di un suicida. Mattia intuisce che il destino gli offre la possibilità di crearsi una nuova identità e di rifarsi finalmente una vita. Prende allora il nome fittizio di Adriano Meis e cerca persino di cambiare il suo aspetto esteriore. Inizia a viaggiare in Italia e Germania, ma ben presto avverte il vuoto di una vita senza radici né relazioni sociali. Si risolve quindi a stabilirsi a Roma, come pensionante presso la casa di Anselmo Paleari, uno strano personaggio che si interessa di filosofia e spiritismo. Durante il soggiorno si innamora, ricambiato, della figlia del suo ospite, Adriana. Questo però scombussola i piani del disonesto cognato di Adriana, Papiano, che, dopo la morte della moglie, mira a risposarsi con lei. Per vendicarsi Papiano ruba parte del denaro di Meis. Proprio quando è così risucchiato nel flusso della vita, Meis si rende conto che senza uno stato civile in realtà non può agire liberamente: non gli è consentito infatti né sposare Adriana né denunciare Papiano. Decide allora di tornare al proprio paese e riprendersi la sua vera identità di Mattia Pascal. Per liberarsi dell’identità fittizia di Adriano Meis inscena un finto suicidio nel Tevere. Tornato al suo paese, scopre però che la moglie si è risposata con un suo amico, dal quale ha avuto anche un figlio. Ufficialmente morto, a Mattia non resta che ritirarsi nella vecchia biblioteca a scrivere le sue memorie. A chi gli domanda chi sia risponde: «Eh, caro mio…Io sono il fu Mattia Pascal»., la cui prima pubblicazione risale al 1903. Nel romanzo, il protagonista, Mattia Pascal, si trova davanti ad uno specchio in tre situazioni. Nel capitolo quinto, intitolato “Maturazione”, vediamo per la prima volta Mattia Pascal davanti allo specchio dopo una furiosa lite familiare, causata da rapporti molto tesi con la moglie e la suocera. Alla fine della lite, Mattia Pascal ha la percezione di vivere una situazione sia comica che tragica. Infatti la sua prima reazione è quella di ridere, perché per la prima volta coglie la comicità della tragedia della sua vita, vede il lato umoristico della sua triste situazione. “Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d'ogni mio tormento. Mi vidi, in quell'istante, attore d'una tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare[…]”. Pirandello, “Il fu Mattia Pascal”, p.361 […] “Andai ad accertarmene allo specchio. Erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi piacque! Per disperato, mi s'era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto suo. E scappai via, risoluto a non rientrare in casa, se prima non avessi trovato comunque da mantenere, anche miseramente, mia moglie e me. […] Ero ancora com’ebbro di quella gaiezza mala che si era impadronita di me da quando m’ero guardato allo specchio.” Pirandello, “Il fu Mattia Pascal”, p.361 Questa prima volta davanti allo specchio segna l'inizio della maturazione psicologica del protagonista, della presa di coscienza della sua identità. Nello specchio cerca di vedere meglio ciò che è stato capace di intravedere da solo. In esso trova non solo la conferma che cercava: "erano lagrime; ma ero anche sgraffiato bene", ma ha anche la possibilità di osservare il suo occhio strabico. Il suo occhio gli suggerisce l'idea della fuga dalla sua identità, perché adesso, più che mai, si mette a guardare in un'altra direzione. La funzione dello specchio in questo caso è quella di innescare il meccanismo dell'autoriflessione nel personaggio, che finora ha vissuto la sua vita come una tragedia, senza coglierne il lato comico, e quindi gli permette di maturare psicologicamente. Nel capitolo ottavo, intitolato “Adriano Meis”, il protagonista si ritrova davanti ad uno specchio per la seconda volta. E' il momento in cui cambia identità: abbandonato il nome di Mattia Pascal, sceglie il nuovo nome di Adriano Meis (il nome di un filosofo sentito per caso su un treno) e va in una barberia a farsi dare un nuovo aspetto. Questa volta il protagonista mostra un certo imbarazzo di fronte allo specchio, perché conoscerà la sua nuova identità proprio guardandosi in esso. L'aspetto della sua nuova identità non è ancora deciso e definito prima che il barbiere abbia finito il suo lavoro., e quindi, finché non guarda nello specchio, non sa bene chi è: non è più Mattia Pascal, ma non è ancora Adriano Meis, anche se si è già dato questo nome. Quando finalmente decide di guardarsi nello specchio, la sua attenzione è subito attratta non dal suo nuovo aspetto, bensì da quello che resta ancora della sua vecchia identità, cioè l'occhio strabico. Adriano Meis si sente quasi tradito e prova perfino odio per quell'occhio: "Rimarrà sempre suo nella mia nuova faccia!". La funzione dello specchio in questo momento è quella di sottolineare la natura della nuova personalità del personaggio, rivelando però che Mattia Pascal non è morto davvero, non del tutto. Adriano si guarda nello specchio che riflette l’uomo nuovo e dice: “Avevo già effettuato da capo a piedi la mia trasformazione esteriore: tutto sbarbato, con un pajo di occhiali azzurri chiari e coi capelli lunghi, scomposti artisticamente: parevo proprio un altro! Mi fermavo qualche volta a conversar con me stesso innanzi a uno specchio e mi mettevo a ridere”. Pirandello, “Il fu Mattia Pascal”, p. 415-416 L’immagine di quegli occhi diversi, tuttavia, diventerà per lui insostenibile, tanto che inizierà a prendere in considerazione l’ipotesi di un’operazione. In quest’occasione Adriano di nuovo si confronta con lo specchio: “Lo specchio, lo specchio aveva parlato e mi aveva detto che se un'operazione relativamente lieve poteva farmi sparire dal volto quello sconcio connotato così particolare di Mattia Pascal, Adriano Meis avrebbe potuto anche fare a meno degli occhiali azzurri, concedersi un pajo di baffi e accordarsi insomma, alla meglio, corporalmente, con le proprie mutate condizioni di spirito”. Pirandello, “Il fu Mattia Pascal”, p.460 Così, dopo mille ripensamenti prende, infine, la fatidica decisione, non tanto e non solo per piacere si più ad Adriana, ma per il timore che la sua prima identità, la sua prima vita, venissero scoperte proprio a causa di quell’occhio (come nell’episodio in cui Papiano una sera aveva invitato lo spagnolo che il protagonista aveva conosciuto a Monte Carlo quando era ancora Mattia Pascal): “Non potendo con altri, mi consigliai di nuovo con lo specchio. In quella lastra l’immagine del fu Mattia Pascal, venendo a galla come dal fondo della gora, con quell’occhio che solamente m’era rimasto di lui, mi parlò così: […] chiama il dottor Ambrosini, che ti rimetta l’occhio a posto. Poi…vedrai!” Pirandello, “Il fu Mattia Pascal”, p.482 In questo caso lo specchio ha la funzione, da un lato, di sottolineare il fatto che il cambiamento dell'identità non è perfetto, e dall'altro di renderne consapevole lo stesso personaggio. Dopo l’operazione arriviamo ad un momento in cui il personaggio ha perso per la terza volta il suo nome, la sua identità. Si arriva a chiedersi dunque chi sarà mia quest’uomo, e lui stesso ce lo dice, rispondendo a qualche curioso che glielo domanda: “Eh, caro mio... Io sono il fu Mattia Pascal”. Pirandello, “Il fu Mattia Pascal”, (cap 18°, “Il fu Mattia Pascal) Le funzioni dello specchio sono dunque molteplici. Lo specchio consente all'uomo di guardarsi, di fermare il flusso della sua vita nella forma dell'immagine riflessa. Se, da un lato, a questa capacità della coscienza Pirandello riconosce un valore positivo, in quanto essa consente, come si è visto per la maturazione di Mattia Pascal, di raggiungere un livello di autocoscienza maggiore, dall'altro essa è considerata da Pirandello la causa per cui l'uomo è destinato ad un'esistenza tormentata. René Magritte Sempre con uno specchio comincia la serie di avventure del protagonista Vitangelo Moscarda, in “Uno, nessuno e centomila” Iniziato già nel 1909, uscì solo nel 1926, prima sotto forma di romanzo a puntate edito in una rivista, la Fiera letteraria, e poi di volume. Trama: Inizialmente Vitangelo Moscarda (Gengé per gli amici) ci viene presentato come un uomo del tutto comune e normale, senza nessun tipo di angoscia né di tipo esistenziale né materiale: conduce una vita agiata e priva di problemi grazie alla banca (e alla connessa attività di usuraio) ereditata dal padre. Un giorno questa piatta tranquillità viene però turbata: l’elemento disturbatore è un banale e innocente commento pronunciato dalla moglie di Vitangelo riguardo al fatto che il suo naso penda un po’ da una parte. Da questo momento la vita del protagonista cambia completamente, poiché Gengé si rende conto di apparire al prossimo molto diverso da come egli si è sempre percepito. Così decide di cambiare radicalmente il suo stile di vita, nella speranza di scoprire chi sia veramente, e a quale proiezione di sé corrisponda il suo animo. Nel processo di ricerca per trovare sé stesso compie azioni che vanno contro a quella che era stata la sua natura sino a quel momento: sfratta una famiglia di affittuari per poi donare loro una casa, si sbarazza della banca ereditata dal padre (inimicandosi ovviamente familiari e parenti), e inizia ad ossessionare chi gli sta vicino, con discorsi e riflessioni oscure che lo fanno passare per pazzo agli occhi della comunità. La situazione si aggrava al punto che la moglie abbandona la casa coniugale, e, insieme ad alcuni amici, inizia un'azione legale contro Vitangelo col fine d’interdirlo. Gli rimane fedele in un primo momento solo un’amica della moglie, Anna Rosa, che poco dopo però, spaventata dai ragionamenti di Vitangelo, arriva addirittura a sparargli, senza ucciderlo ma ferendolo in modo serio. Vitangelo, il cui "io" è ormai completamente frantumato nei suoi "centomila" alter ego, sembra trovare una tregua ai propri patimenti solo nel confronto con un religioso, Monsignor Partanna, che lo sprona a rinunciare a tutti i suoi beni terreni in favore dei meno fortunati. Alla fine, il tormentato protagonista pirandelliano si rifugerà nell'ospizio ch'egli stesso ha donato alla città.. Si consuma davanti a questo specchio la vicenda di un uomo, convinto di essere senza difetti. In un confronto con la moglie Dida, che gli fa notare alcune sue imperfezioni fisiche come il naso che gli “pende verso destra” oppure le sopracciglia che paiono sugli occhi “due accenti circonflessi”, Moscarda perde la convinzione di essere privo di difetti. “Che fai?» mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio. «Niente,» le risposi, «mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.» Mia moglie sorrise e disse: «Credevo ti guardassi da che parte ti pende.» Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda: «Mi pende? A me? Il naso?» E mia moglie, placidamente: «Ma sí, caro. Guardatelo bene: ti pende verso destra.» Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona.” Pirandello, “Uno, nessuno e centomila”, p.5 Il protagonista ritorna allo specchio e comincia a vedersi in maniera diversa rendendosi conto che gli altri, non solo sua moglie, lo vedono ognuno a modo proprio. Non riesce a trovare un momento per restare solo e contemplare la propria immagine ma un giorno gli capita una buona occasione. Dida, la moglie, vorrebbe andare a trovare una sua amica malata ma è indecisa. Moscarda allora, prende l’occasione al volo e, cosciente del fatto che la moglie fa sempre il contrario di quello che lui le dice, le consiglia di non andare. Naturalmente con sua enorme gioia Dida corre dalla sua amica. Rimasto solo si guarda finalmente allo specchio e scopre di avere antipatia nei confronti di questo nuovo Moscarda. “Chi era colui? Nessuno. Un povero corpo, senza nome, in attesa che qualcuno se lo prendesse.” Pirandello, “Uno, nessuno e centomila”, p. 23. Guardarsi riflessi in uno specchio permette di “vedersi vivere”, di intraprendere una riflessione che va aldilà della semplice osservazione di un difetto esteriore: permette di creare il noto “strappo nel cielo di carta”, che per Moscarda è lo specchio nel quale vedrà riflessa una delle sue tante immagini. Da questo punto del romanzo, Moscarda sentirà la sua diversità da tutti coloro che lo circondano: si tratta di persone che “si lasciano vivere”, prese dai problemi quotidiani, dalle questioni finanziarie, e che non si pongono domande sul loro io, sulla realtà e sulla consistenza della loro personalità. Moscarda invece presenta la caratteristica di tutti i personaggi umoristici pirandelliani, la riflessione. Se infatti sua moglie lo considera fisicamente diverso da quello che crede di essere, lo stesso potrebbe accadere per il suo carattere e la sua personalità. Chi è dunque Moscarda? Il personaggio verifica che lo “sdoppiamento” scoperto avviene anche con gli amici e i conoscenti: ciascuno ha un’idea diversa di Moscarda, costruita in base al suo punto di vista e ai suoi criteri di giudizio. “Ciascuno se lo poteva prendere, quel corpo lì, per farsene quel Moscarda che gli pareva e piaceva, oggi in un modo e domani in un altro, secondo il caso e gli umori …” L’io del protagonista, inesorabilmente frantumato, non può identificarsi nella persona (in senso etimologico di "maschera" sociale) del Signor Moscarda con quel cognome "brutto fino alla crudeltà" che ricorda un "fastidio ronzante" e lo lega al padre "banchiere –usuraio" che lo ha ingabbiato nel ruolo di "buon figliuolo feroce": ecco un’altra marionetta nel "gioco della parti" della vita. L’aspirazione di Vitangelo è rimanere al di là dello specchio, essere un "uomo nella vita, Un uomo così e basta". Moscarda tenta allora di ricercare l’estraneo che è dentro di sé per coglierlo nella sua spontaneità, nella sua dimensione reale, non deformata da interpretazioni. L’impresa si rivela però impossibile, poiché il soggetto non riesce a “vedersi vivere” nell'atto del vivere. L’essere di Moscarda corrisponde all'essere per gli altri: l’uomo è ciò che gli altri percepiscono di lui. La libertà, intesa come capacità di costruirsi un proprio senso, è illusoria, poiché il senso è sempre precostituito. Moscarda, divenuto cosciente dell’impossibilità di conoscere il vero sé, decide di stravolgere l’idea che gli altri hanno di lui, in altre parole di giocare con la parte estranea di se stesso. Il protagonista infatti si propone di distruggere il vecchio se stesso, condizionato dalla sua nascita, dalla famiglia, dall'educazione e dal matrimonio. Compie diversi atti di generosità per smentire l’immagine di usuraio che gli altri si sono fatti di lui. Tali azioni, che sono palesemente in contrasto con la logica del buon senso, fanno in modo che gli altri arrivino a considerarlo pazzo. Moscarda arriverà a rifiutare la logica della società, ritrovandosi completamente estraniato da essa. Deciderà allora di vivere in un ospizio da lui stesso finanziato. Alla fine Vitangelo Moscarda dirà: “Non mi sono piú guardato in uno specchio, e non mi passa neppure per il capo di voler sapere che cosa sia avvenuto della mia faccia e di tutto il mio aspetto. Quello che avevo per gli altri dovette apparir molto mutato e in un modo assai buffo, a giudicare dalla maraviglia e dalle risate con cui fui accolto. Eppure mi vollero tutti chiamare ancora Moscarda, benché il dire Moscarda avesse ormai certo per ciascuno un significato cosí diverso da quello di prima, che avrebbero potuto risparmiare a quel povero svanito là, barbuto e sorridente, con gli zoccoli e il camiciotto turchino, la pena d’obbligarlo a voltarsi ancora a quel nome, come se realmente gli appartenesse”. Pirandello, “Uno, nessuno e centomila”, p.201 René Magritte, “Uomo allo specchio” 5. PICASSO E IL RITRATTO ALLO SPECCHIO Qui siamo di fronte ad una sconcertante vitalità di colori e di forme che si rincorrono, si richiamano, e si ricompongono, come in una esaltante sinfonia. La fantasia ed il genio di Picasso Pablo Picasso (1881-1973) nacque a Malaga, in Spagna. A soli quattordici anni venne ammesso all’Accademia di Belle Arti di Barcellona. Due anni dopo si trasferì all’Accademia di Madrid. Dal 1901 lo stile di Picasso iniziò a mostrare dei tratti originali. Ebbe inizio il cosiddetto «periodo blu» che si protrasse fino al 1904. Il nome a questo periodo deriva dal fatto che Picasso usava dipingere in maniera monocromatica, utilizzando prevalentemente il blu in tutte le tonalità e sfumature possibili. I soggetti erano soprattutto poveri ed emarginati. Dal 1905 alla fine del 1906, Picasso schiarì la sua tavolozza, utilizzando le gradazioni del rosa che risultano più calde rispetto al blu. Iniziò quello che, infatti, viene definito il «periodo rosa». Oltre a cambiare il colore nei quadri di questo periodo cambiarono anche i soggetti. Ad essere raffigurati sono personaggi presi dal circo, saltimbanchi e maschere della commedia dell’arte, quali Arlecchino. La svolta cubista avvenne tra il 1906 e il 1907 e durò fino al 1917 circa. E, nello stesso periodo Picasso si interessò alla scultura africana, sulla scorta di quella riscoperta quell’esotico primitivo che aveva suggestionato molta cultura artistica europea da Gauguin in poi.si lasciano tentare da uno dei soggetti più noti della pittura, la donna di fronte allo specchio, che è ancora Marie Therèse Picasso ha conosciuto Marie Therèse Walter quando aveva ormai divorziato e sulla soglia dei quarant'anni, allorché lei aveva appena diciotto anni. Era la figlia di uno svedese naturalizzato francese, era bionda, dagli occhi azzurri, con un viso dai lineamenti forti, e con un bellissimo corpo, alto e slanciato, dalle forme nordiche insomma, che per un latino come Picasso deve aver significato non semplicemente il più alto oggetto del desiderio sessuale, ma possiamo dire, piuttosto, della sua aspirazione estetica. Tuttavia Picasso tenne nascosta questa relazione, che durò per decenni, e da cui ebbe anche una bambina.. La figura allo specchio pone naturalmente il problema della riflessione, non solo della luce e dell'immagine, ma a un genio di artista-pensatore come Picasso, anche il problema della riflessione su di sé e dell'autocoscienza. Questo è quello che ritroviamo in “Girl before a mirror” (“Ragazza di fronte allo specchio”). TITOLO: “Ragazza di fronte allo specchio” ARTISTA: Pablo Picasso DATA: 1932 DIMENSIONI: 162,3 x 130,2 cm TECNICA: olio su tela LUOGO DI DEPOSITO: Museum of Modern Art, New York Nella specchiera ovale, sostenuta da colonnine laterali, Marie Therèse, la figura reale, non soltanto vede, ma sembra voler abbracciare se stessa. In quel groviglio di forme e di colori che è il quadro vediamo, nel braccio sinistro di Marie Therèse levato in alto, che afferra l'estremità destra dello specchio, l'asta che sorregge l'ovale; questo braccio si riflette in una striscia color lilla, circondata di azzurro; l'azzurro è naturalmente là per simboleggiare la luce che si riflette nello specchio, ovvero il fatto che lo specchio incolore riflette il cielo, e lo troviamo anche abbondantemente in tutto lo specchio. Avvertiamo una strana corrispondenza di colori, oltre che di forme, tra l'immagine reale e l'immagine riflessa. Infatti al blu ed al lilla dello specchio, è mescolata una striscia verde che circonda il capo dell'immagine riflessa: sono i capelli di Marie Therèse, che nell'immagine reale sono biondi. Questa striscia termina in una pera verde posata sul capo. Il lilla chiaro, quasi bianco, del braccio diventa lilla acceso nel quadro, e così pure il lilla quasi bianco del viso dell'immagine reale diventa lilla acceso e rosso nell'immagine riflessa. Nella riflessione dello specchio tutto è più acceso e più forte, più carico di rosso; per questo i capelli biondi diventano verdi, il lilla chiaro diventa fucsia o violetto, ma anche più cupo, per la presenza del blu. Il rosso ed il blu formano il tema dell'immagine riflessa, e si contrastano infatti palesemente nella parte inferiore dello specchio. L'immagine reale è costituita dal corpo di Marie Therèse visto di profilo e tagliato in due, la parte superiore destra leggermente verde, a strisce orizzontali nere; queste rappresentano le costole della schiena. La parte destra è in lilla chiaro, come il viso, e ritrae l'addome, abbastanza gonfio; una sfera al centro della parte inferiore, dallo spesso contorno nero sulla destra (sul lilla) e leggermente nero e verde sulla destra, è una chiara rappresentazione dell'embrione portato in grembo, della maternità. Questo viene ripetuto nella immagine riflessa, ma come il seno in questa sembra essere cascante, al di sotto delle ossa dello sterno, così qui anche l'addome in cui si riconosce chiaramente l'embrione materno, appare cadente. Infine, guardiamo il viso di Marie Therèse reale: esso è visto di profilo, ed è circondato da una aureola chiara e dall'altra metà del viso che è di un giallo intenso con una macchia rossa; cioè, l'altra metà del viso, che Picasso cerca sempre di cogliere oltre il profilo, è come un sole splendente. Che cosa vediamo invece nell'altra immagine? Qui la fronte è dipinta di rosso, colore complementare al verde dei capelli, e al frutto che è posato sulla sua fronte, il quale corrisponde alla mela sul seno della figura reale. Questo rosso continua fin sull'occhio e sulla prima parte del naso, poi finisce in un segno circonflesso, come in una lacrima al di sotto dell'occhio. È questo rosso il segno del pudore che Marie Therèse prova di fronte alla propria immagine nuda? O è solo una corrispondenza del rosso fuoco del sole che troviamo nella seconda metà del viso della figura reale? È un riflesso del fulgore della vita e della maternità della donna, o è semplicemente una lacrima che le scorre sul viso, al pensiero della maternità? Un pensiero che implica certamente gioia, ma anche la fatica della maternità, e la conseguente messa alla prova del proprio corpo e della propria bellezza, che ora Marie Therèse vede riflessa nello specchio? È il pensiero che il suo corpo invecchierà e diverrà cadente dopo aver deposto il frutto della vita, a produrre questa lacrima, ed i toni marcatamente più violenti e più cupi dell'immagine riflessa vogliono indicare tutto questo? Così che mentre la figura reale si protrae ad abbracciare al figura riflessa, cioè il proprio futuro, la vita che verrà, riceve da questa indietro una lacrima di tristezza? Il quadro ci lascia ben aperta, anzi secondo noi in modo abbastanza indicativo, queste possibilità di lettura, soprattutto per un particolare iconico: il frutto che è sopra il naso della immagine allo specchio, cioè nella sua testa, il bambino, corrisponde al frutto, la mela verde che si trova sopra il senso rigoglioso della figura reale di Marie Therèse: l'immagine riflessa è in realtà non la semplice riflessione dello specchio, ma la riflessione della nostra coscienza, che ci restituisce attraverso il pensiero, in questo caso il pensiero del futuro, l'immediatezza della realtà; ma quel che la riflessione ci restituisce è una realtà trasformata, carica di tutte le conseguenze future che il pensiero porta con sé, in questo caso le conseguenze della rigogliosità della vita e della bellezza di Marie Therèse, e cioè le conseguenze della maternità. 6. JACQUES LACAN E LA “FASE DELLO SPECCHIO” La “fase dello specchio” è considerata una delle più importanti scoperte psicanalitiche interne all’eredità freudiana. Il suo grande apporto è stato quello di aver introdotto un nuovo approccio alle psicosi infantili ed un’interpretazione più radicale della schizofrenia. Chiarisce inoltre il processo chiave col quale si costruisce e si realizza il soggetto. Prima dello studio di Lacan Lacan, il più celebre psicanalista francese, nasce a Parigi nel 1901. Dopo aver studiato medicina, si orienta alla psichiatria e discute una tesi sulla paranoia che lo porterà a Freud (ama per altro definirsi il solo interprete autentico di Freud). Filosoficamente parlando, Lacan si colloca nel campo dello strutturalismo: rifiuta al soggetto uno statuto privilegiato nella formazione della conoscenza e persino nella storia. Il soggetto viene quindi “decentrato” a vantaggio di un sistema, di una struttura che lo modella, nell’ordine dell’inconscio quanto in quello della coscienza. “La fase dello specchio come formatore della formazione dell’ «io»”, certi fatti clinici avevano già attirato l’attenzione: uno dei fantasmi degli schizofrenici è la dissociazione del corpo. Il malato non percepisce più l’unità organica della sua immagine, vive con angoscia la scomparsa delle membra nello spazio, che può evitare solo in presenza di uno specchio. La paranoia è interpretata come un’identificazione del soggetto con un’immagine idealizzata di sé, che suscita un senso di inettitudine e scatena i continui auto-rimproveri del malato. Il problema della paranoia va ricollegato pertanto al problema del narcisismo, nel senso che il paranoico vive il dramma di una scissione irreparabile tra ciò che è e ciò che desidera essere, o tra l’Io e l’Ideale dell’Io. Lacan osserva che non soltanto l’Io del paranoico, ma l’Io di ogni persona è caratterizzato dall’identificazione con un’immagine ideale di sé, e quindi l’Io stesso, l’Io come tale si costituisce all’origine tramite un’identificazione di questo tipo. E’ questa l’ipotesi che porta il nome di «stadio dello specchio». Osserviamo, dice Lacan, un bambino di età compresa tra i sei e i diciotto mesi. Se lo poniamo di fronte ad uno specchio, potremo notare facilmente che il bambino giubila di fronte alla propria immagine riflessa dallo specchio. E per afferrare le ragioni di questo atteggiamento, dobbiamo semplicemente riflettere sulla condizione del bambino in quel momento. Da una parte, è ancora immerso nell’impotenza motrice, non ha ancora sviluppato cioè la capacità di coordinare i propri movimenti, per cui si può parlare di «una vera e propria pre-maturazione specifica della nascita dell’uomo». Dall’altra, può “anticipare” con la visione l’unità e la padronanza del suo corpo, scorgendolo riflesso come un tutto nello specchio. Siamo insomma nella fase di nascita dell’Io: l’Io è un oggetto, dirà in seguito Lacan e occorre distinguere l’Io (moi) dal soggetto (je). Al di qua dello specchio , il bambino è un corpo in frammenti: è ancora in una fase di incoordinazione motoria, che suscita in lui disagio e frustrazione. E’ questo che il bambino «è», è questo il soggetto (je) che compie l’esperienza. Al di là dello specchio il bambino si vede invece «uno», si vede come un tutto di cui è padrone nell’immagine idealizzata, unificata di sé che lo specchio gli rimanda. La forma unificata del corpo che il bambino vede nello specchio ha un’identità a sé con la quale il bambino si identifica. L’immagine è un-di-più rispetto al corpo-in-frammenti, e proprio per questo motivo essa esercita sul soggetto un simile potere di fascinazione. Dunque inizialmente il bambino sfugge all’angoscia del corpo frammentato prendendo coscienza dell’unità del suo corpo, ma lo percepisce ancora come un oggetto esterno ed estraneo. In un secondo momento tenta di afferrare l’immagine, ma deve riconoscere che dietro il vetro non c’è nulla, che quell’ «Io» «riflettente-riflesso» non rimanda a nessun termine esterno. Infine il bambino capisce che non solo l’altro dello specchio è un’immagine, ma che è la sua immagine. Rinuncia allora a voler sfuggire all’angoscia identificandosi al corpo della madre e comincia a conquistare la sua condizione di soggetto. Quest’analisi permette di capire l’angoscia che sorge nel rapporto con la madre, semplice riflesso del suo corpo, «altro» dallo specchio che non può mai essere posseduto. Questo rapporto spiega numerose turbe psicotiche. Ma come uscire, allora, dalla gabbia di questa prima identificazione paranoica dell’Io? A questo interrogativo precede una riflessione sul complesso di Edipo, che dovrebbe fornire una risposta alla domanda. Ma la versione lacaniana del complesso si discosta parecchio da quella di Freud. Secondo quest’ultimo, il bambino di circa quattro anni, in una fase di pubertà prematura, inizia a provare i primi appetiti sessuali che si focalizzano di solito sulla persona a lui più vicina, ossia sul genitore di sesso opposto. Il figlio maschio, ad esempio, in preda alle insorgenti pulsioni genitali, le concentra sul bersaglio più prossimo, vale a dire sul corpo materno. Ma la figura del padre, cioè del genitore dello stesso sesso, viene ad ostacolare l’appagamento di tali pulsioni. Il bambino subisce le minacce dell’autorità paterna, che si riassumono nella minaccia di un’incombente castrazione, e vede così frustrato il proprio desiderio. Gli resta una sola possibilità: quella d’introiettare la figura paterna sotto forma di Ideale dell’Io o di Super-io, sublimando il proprio desiderio, ossia appagandolo attraverso un’identificazione con la figura paterna. Lacan, criticando questa concezione freudiana sostenendo che in pratica funzioni solo per i figli maschi, avanza una soluzione alternativa: secondo lui dobbiamo scorgere nel fantasma della castrazione, non la minaccia di un’evirazione vera e propria, ma di una frammentazione del corpo. Il bambino, in sostanza, sarebbe esposto sin dalla nascita al fantasma del corpo-in-frammenti, e il divieto paterno di avvicinarsi alla madre non farebbe che riattivare questo fantasma originario. E’ qui che interviene l’ “imago” del padre. Se nella fase anteriore, quella dell’identificazione speculare dell’Io (moi), il soggetto resta ingabbiato nel dramma di una rivalità immaginaria che lo oppone al proprio doppio, nella fase del complesso edipico gli viene offerta la possibilità di sfuggire a questa dialettica di stampo paranoico. In effetti, la stessa rivalità con il padre, suscitata da quest’ultimo con l’imperativo “Noli tangere matrem” (“Non desiderare il corpo della madre”), è vissuta inizialmente dal bambino come una rivalità con un doppio speculare. Il bambino scorge cioè nel padre, su preciso invito di quest’ultimo, un rivale per il possesso del corpo materno, il che scatena l’angoscia primordiale del corpo-in-frammenti. Tuttavia, se il soggetto si identifica con il padre, non si identifica più solo con un’immagine speculare del proprio Io (moi), ma si identifica anche a questo punto con un’intera cultura, la stessa che gli impone il divieto dell’incesto. In altri termini, identificandosi con il padre, inteso come il custode dei tabù e dei costumi di un’intera società, il soggetto trova un punto di riferimento stabile, un’immagine idealizzata del proprio Io (moi) che gli viene rinviata e per certi versi prescritta da ogni altro membro della società in cui vive, strutturando dall’alto ogni rapporto tra il soggetto e i propri simili, o la forma stessa dei rapporti sociali. L’identificazione con il padre assume così i tratti di un’identificazione sempre in corso con un Ideale, poiché il padre intima al bambino di rinunciare al corpo della madre e al tempo stesso ne rivendica il possesso. Ed è come se questo stallo logico dell’identificazione con il padre, che lo sospende tra l’avere e il non avere il corpo materno, consentisse all’individuo di accedere alla propria condizione, alla condizione di soggetto che resta inevitabilmente sospeso al processo di identificazione. Se la figura del padre non dovesse mai prendere posto nell’inconscio del soggetto, si aprirebbe un “vuoto immaginario” che niente potrà colmare, ed è a questo punto che comincia l’universo della psicosi. 7. CONCLUSIONE Lo specchio…a prima vista un semplice strumento della nostra quotidianità, un alleato nel facilitarci alcune funzioni come il lavarci, il truccarci e il vestirci. Lo stesso specchio però, se indagato nel profondo, nasconde innumerevoli sfaccettature che hanno affascinato artisti, scrittori, filosofi e studiosi di tutti i tempi. Ho quindi deciso di concludere la mia trattazione con un brano che credo sia azzeccato e piuttosto efficace, tratto dal “Il Sole 24 Ore (Domenicale)”, del 22 ottobre 2006, a cura di Maurizio Ferraris e Achille C. Varzi. DIALOGO TRA UMBERTO ECO E LA SUA IMMAGINE ALLO SPECCHIO Otrebmu: Umberto! Umberto: Eh, cosa c’è? Chi sei? Dove sei? Otrebmu: Sono qui, non mi vedi? Umberto: Io vedo solo me stesso. Otrebmu: Guarda meglio… Umberto: Siamo alle solite. Adesso mi dirai che siamo fatti al contrario, che siccome hai la mano destra al posto della mia mano sinistra, tu non sei me bensì la mia immagine capovolta. Ma io non ci casco. Otrebmu: Come sarebbe? Vuoi forse dire che siamo uguali? Umberto: No, voglio dire che tutto questo strologare su immagini capovolte è una gran perdita di tempo: l’ho detto e lo ripeto anche a te. Tu rifletti la mia destra esattamente dove c’è la destra, e la sinistra dove c’è la sinistra. Otrebm: Sì, la mia destra è sulla destra, ma guarda caso ha la forma della tua mano sinistra. E il mio orologio (che io porto su questo polso) va in senso antiorario, vedi? Umberto: (guardandosi l’orologio). Ti avviso che vado di fretta. Otrebmu: Vedi che lo specchio ha i suoi vantaggi? Il mio orologio fa andare indietro il tempo, e io, cioè tu, insomma noi qui non si ha mai fretta. Umberto: Storie. Il tuo orologio non fa andare indietro il tempo, ha solo dei comportamenti strani. Guarda, ti faccio vedere una cosa. Sono le 9 e 20, ed è per questo che vado di fretta. Se mi tolgo l’orologio e lo mostro allo specchio tenendo la fibbia del cinturino in su, sembra che siano le 3 meno 20. Otrebmu: Esatto. E la lancetta dei secondi va in senso antiorario. Umberto: Sì. Ma il punto è che se adesso mostro l’orologio tenendo la fibbia del cinturino in giù, non si vedono le 3 meno 20, ma le 9 e 10. Il 9 resta al suo posto e questa volta l’inversione è alto/basso, non destra/sinistra. Non c’è motivo di pensare che gli specchi invertano sempre solo la direzione orizzontale. Anzi, non cè motivo di pensare che gli specchi invertano un bel nulla. Otrebmu: Interessante. Noterai però che la lancetta continua ad andare in senso antiorario… Umberto: Questo non mi interessa. Se devo guardare l’ora non la guardo di certo allo specchio, e difatti mi scuserai, ma continuo ad andare di fretta. Otrebmu: D’accordo. Dunque, la tua tesi è che allo specchio la destra è a destra e la sinistra a sinistra? Umberto: Sì. Del resto, quando allo specchietto retrovisore, che è pur sempre uno specchio, vediamo una macchina ci supera, vediamo che ci supera a sinistra (a meno che sia un pirata della strada). Otrebmu: E allora mi spieghi perché gli specchi ci creano tanti problemi? Umberto: Perché sono magici, sembrano raddoppiare gli enti, e questo– che non ha niente a che fare con la destra e la sinistra – lo aveva già visto Platone. Però, molti dei misteri che attribuiamo agli specchi quando parliamo di “inversione speculare” vanno attribuiti ad altro. Otrebmu: A che cosa? Umberto: Proprio a quelle misteriose entità che sono destra e sinistra, così evidenti, eppure così inquietanti. Il vero mistero, insomma, non è la mia mano riflessa allo specchio, ma piuttosto, come ricordava Kant, che ci siano cose, come le mani, in tutto e per tutto identiche, eppure rese impalpabilmente diverse dall’essere una destra e l’altra sinistra. Otrebmu: In che senso? Umberto: Nel senso che se io appoggio la mia mano destra allo specchio, resta la mano destra. Ma se, dalla mia parte dello specchio, congiungo le mani, ho due oggetti che intuitivamente sono identici, e che però non si possono sovrapporre. Strano, no? Otrebmu: Quello che Kant chiamava il caso degli “opposti incongruenti”? Umberto: Sì, ma questo, mi permetterai, è un altro paio di maniche, se non di mani. Otrebmu: Su questo siamo d’accordo. Qua la mano. Umberto: Qua la mano. Ma … perché mi porgi la sinistra? 8. BIBLIOGRAFIA (PER SEZIONI) SEZIONE 1 M. Bettini, “Alla ricerca del ramo d’oro”, RCS Libri S.p.A, Milano 2004. SEZIONE 2 L. Faranda, “Dimore del corpo. Profili dell’identità femminile nella Grecia classica”, Meltemi editore, Roma 1996. Françoise Frontisi Ducroux, Jean-Pierre Vernant, “Ulisse e lo specchio: il femminile e la rappresentazione di sé nella Grecia antica”, Donzelli Editore, Roma 2003. Linda M. Napolitano Valditara, “Platone e le «ragioni» dell'immagine. Percorsi filosofici e deviazioni tra metafore e miti”, Vita e Pensiero Edizioni, Gennaio 2008. http://www.psicosintesi.it/sites/default/files/magazine_015_themirrorandthelook.pdf SEZIONE 3 M. Bettini, “Alla ricerca del ramo d’oro”, RCS Libri S.p.A, Milano 2004. “Estratto da ATHENAEUM- Studi di Letteratura e Storia dell’Antichità”, edizione New Press, Como 2002. SEZIONE 4 Giovanni Ioli, “Per speculum. Da Dante al Novecento”, Editoriale Jaca Book Spa, Milano 2012. http://www.classicitaliani.it/pirandel/romanzi/Pirandello_uno_nessuno_01.htm http://users.libero.it/leuzzi/pirandello.html http://viedifugadallalienazione.weebly.com/uno-nessuno-e-centomila.html http://www.softwareparadiso.it/studio/letteratura/Fu%20Mattia%20Pascal/indice.htm Roberto Antonelli, Maria Serena Sapegno, “Il senso e le forme. Storia e antologia della letteratura italiana” (vol. 4), RCS Libri S.p.A, Milano 2011 SEZIONE 5 http://mondodomani.org/dialegesthai/rd01.htm SEZIONE 6 “La Psychanalyse” (“La Psicanalisi”), traduzione di Paola Cusumano e Massimo Parizzi, Bur Mondo Attuale, Milano 1977 Davide Tarizzo, “Introduzione a Lacan”, Gius. Laterza & figli, Roma-Bari 2003 SEZIONE 7 http://www.columbia.edu/~av72/varia/2006_2.pdf 22