Guerra del Kippur

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Guerra del Kippur
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La guerra del Kippur, detta anche del 1973, del Ramadan o d'Ottobre (ebraico: מלחמת יום הכיפורים, Milhemet Yom HaKipurim; o מלחמת יום כיפור, Milhemet Yom Kipur; arabo: حرب أكتوبر, Harb Uctūber; o حرب تشرين, Harb Tishrīn), fu combattuta dal 6 ottobre (Yom Kippur, 9 ramadan 1393 E.) al 24 ottobre 1973 tra Israele e una coalizione composta da Egitto e Siria.
La guerra iniziò quando l'Egitto e la Siria lanciarono, nel giorno dello Yom Kippur 5734, un attacco congiunto a sorpresa, rispettivamente nel Sinai e nelle alture del Golan, territori conquistati sei anni prima da Israele durante la guerra dei sei giorni.

Gli egiziani e i siriani avanzarono durante le prime 24-48 ore, dopo le quali la situazione cominciò a entrare in una fase di stallo per poi volgere a favore di Israele. Nella seconda settimana di guerra, i siriani erano stati completamente respinti ed erano fuori dalle alture del Golan. Nel Sinai, a Sud, gli israeliani avevano agito sui punti di comunicazione tra le due armate arabe penetrate nella regione, ed erano entrati a loro volta in territorio egiziano dopo il superamento del Canale di Suez (che faceva da frontiera prima del 6 ottobre). Al momento del cessate il fuoco, la III Armata egiziana era totalmente tagliata fuori da ogni linea di rifornimento e contatto col resto del contingente arabo, pur protetta da un forte sistema missilistico.

Il conflitto ebbe implicazioni a lungo termine per molti paesi. Il mondo arabo, che si sentiva umiliato dalla completa disfatta dell'alleanza siro-giordano-egiziana durante la guerra dei sei giorni, ebbe modo di sentirsi psicologicamente appagato dalle vittorie ottenute nelle prime battaglie e questo spianò la strada al processo di pace che si aprì poco dopo la fine delle ostilità, oltre ad alcune liberalizzazioni economiche che, nel linguaggio egiziano, furono chiamate Infitāḥ (lett. "Apertura").
Non v'è dubbio che, dopo i primi clamorosi successi arabi, la situazione tattica volse con lenta progressione a favore delle armi israeliane. Non c'è tuttavia neppure alcun dubbio che, strategicamente, la guerra abbia costituito un'indubbia vittoria egiziana. Il Canale fu infatti superato, contro ogni volere israeliano che aveva infatti costruito lungo tutta la linea del fronte sinaitico una massiccia opera contenitiva di difesa (la cosiddetta "linea Bar-Lev"). Il ritorno al controllo del Canale rappresentò inoltre una cospicuo cespite di entrata di divise straniere, necessarie a un paese sovrappopolato ed economicamente sottosviluppato.

Gli Accordi di Camp David che intervennero subito dopo portarono alla normalizzazione delle relazioni tra Israele ed Egitto: prima nazione araba a riconoscere l'esistenza dello Stato di Israele. L'Egitto, che si era già sostanziosamente affrancato dall'influenza e dall'aiuto sovietici, dichiarò implicitamente la volontà di staccarsi quasi del tutto dall'URSS, operando un concreto riavvicinamento agli USA.

Situazione pre-conflitto

Cause

La guerra del Kippur è parte del più vasto conflitto arabo-israeliano, costituito da una lunga serie di scontri armati che si dipana dal 1948 e che ancora non è stato interamente risolto in modo pacifico. Durante la guerra dei sei giorni, esplosa e conclusasi sei anni prima, gli israeliani avevano conquistato la penisola del Sinai nella sua interezza, fino al canale di Suez, che era diventato la linea del cessate-il-fuoco. Gli israeliani avevano inoltre catturato più o meno la metà del alture del Golan siriano.

Negli anni seguenti la guerra, Israele eresse due linee fortificate nel Sinai e sulle alture del Golan. Nel 1971 Israele spese 500 milioni di dollari per fortificare ulteriormente le posizioni sul canale di Suez, con un lavoro mastodontico che passò con il nome di Linea Bar-Lev, dal nome del generale e Capo di Stato Maggiore israeliano Chaim Bar-Lev.

Dopo le vittorie conseguite sulle forze nemiche nel 1967, e dopo aver superato la sfida voluta da Gamāl ʿAbd al-Nāṣir con la guerra d'Attrito con Egitto e Siria - tre anni di continui incidenti di frontiera sul Golan e nello spazio aereo dove si sfiorarono più volte scontri fra l'aviazione militare israeliana e l'aeronautica egiziana - la leadership israeliana aveva cominciato a nutrire l'idea che le proprie forze armate fossero ormai invincibili.

Egitto e Siria desideravano però intensamente la restituzione dei territori persi nel 1967. Dopo il successo della guerra dei sei giorni, gli israeliani erano riluttanti ad avviare negoziati sul ritorno del bottino di guerra, sentendosi particolarmente protetti dal punto di vista della sicurezza nazionale. Il presidente egiziano Gamāl ʿAbd al-Nāṣir morì nel settembre 1970 e gli succedette Anwar al-Sādāt, che decise di combattere Israele e riconquistare con una prova di forza i territori persi. Nel 1971 Sādāt, rispondendo a un'iniziativa promossa da Gunnar Jarring, intermediario delle Nazioni Unite nella regione, dichiarò che se Israele si fosse impegnato a un «ritiro delle sue forze dal Sinai e dalla Striscia di Gaza», nonché al rafforzamento della Risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza, l'Egitto sarebbe stato «pronto ad avviare accordi di pace con Israele». Israele rispose che non si sarebbe ritirato sulle linee precedenti il 5 giugno 1967, pena il ritorno inevitabile alle condizioni iniziali di reale minaccia araba, che portarono al conflitto del '67.

Sādāt sperava che infliggendo una sconfitta, ancorché piccola, agli israeliani, lo status quo sarebbe cambiato. Ḥāfiẓ al-Asad, capo di Stato siriano, la vedeva però in maniera differente, infatti aveva poco interesse a un negoziato e propugnava un'azione puramente militare per la riconquista delle alture del Golan. Da ormai sei anni al-Asad aveva promosso una serie di iniziative per la ricostruzione delle forze armate e sperava di poter vedere la Siria come potenza dominante tra gli stati arabi a est dell'Egitto. Con l'aiuto dell'Egitto, al-Asad sperava di poter avere ragione delle forze israeliane, e garantire un ruolo di spicco della Siria nella regione della Mezzaluna Fertile. Pertanto al-Asad vedeva la possibilità di un negoziato solo dopo aver rioccupato il Golan con la forza, potendo in tal modo premere su Israele perché rinunciasse alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza, in cambio di eventuali concessioni da parte araba.

Sādāt doveva affrontare alcuni problemi interni, prima di sferrare un attacco. «I tre anni successivi all'ascesa di Sādāt [...] furono i più demoralizzanti della storia egiziana [...]. Un'economia inaridita si aggiungeva alle difficoltà del Paese. La guerra era una scelta disperata.»[1]. Nella sua biografia di Sādāt, Raphael Israeli sostiene che Sādāt vedeva la radice del problema nella grande onta patita con la guerra dei sei giorni, e prima che qualunque riforma potesse essere promossa era necessario superare questa vergogna. L'economia egiziana era in difficoltà e Sādāt sapeva che le grandi riforme economiche necessarie sarebbero state impopolari per gran parte della popolazione. Una vittoria militare gli avrebbe invece dato la popolarità di cui aveva bisogno per avviare profondi cambiamenti. Non a caso, una parte degli egiziani - soprattutto studenti universitari che avevano effettuato vibranti manifestazioni di protesta - desiderava una guerra che riportasse il Sinai all'Egitto ed era seriamente sfavorevole al fatto che Sādāt non avesse ancora avviato alcuna azione dopo tre anni dalla sua nomina a Presidente della Repubblica egiziana.

Gli altri Stati arabi si mostravano molto più riluttanti a impegnarsi completamente in una nuova guerra. Re Husayn di Giordania temeva un'altra forte emorragia di territori, come era accaduto nel 1967 (malgrado nessuna parte del territorio giordano fosse stata perduta, dal momento che la Cisgiordania è palestinese e non giordana). Sādāt appoggiava anche le richieste dell'OLP, che voleva naturalmente per sé i territori palestinesi di Cisgiordania e della Striscia di Gaza: Sādāt aveva infatti promesso che, in caso di vittoria, Yasser Arafat avrebbe ottenuto il loro controllo. Re Husayn però sperava forse che la Cisgiordania rimanesse a far parte del suo regno, malgrado suo nonno ʿAbd Allāh I avesse proclamato nel 1948 di tenere «in sacro deposito» i territori palestinesi conquistati dalla sua Legione Araba finché non fosse stato costituito uno stato indipendente di Palestina. Di certo però è che le relazioni fra palestinesi e giordani erano pesantemente peggiorate con la crisi del Settembre nero in Giordania del 1970, quando era quasi scoppiata una guerra civile tra l'OLP e il governo giordano: uno scontro in cui la Siria era intervenuta militarmente a favore dell'OLP, lasciando al-Asad e re Husayn in pessimi rapporti per i tempi a venire.

Anche tra Siria e Iraq le relazioni erano abbastanza deteriorate. Gli iracheni rifiutarono infatti di prendere inizialmente parte all'offensiva, anche per la mancanza di frontiere con Israele e l'indisponibilità di Siria e Giordania ad aprire le loro. Il Libano, che confinava col settentrione israeliano, non prevedeva di unirsi allo sforzo bellico arabo a causa della sua scarsa efficacia militare e all'instabilità interna, già molto evidente. Nei mesi prima dell'offensiva, Sādāt avviò una sostanziale offensiva diplomatica per acquistare consensi e appoggio internazionale. Nell'autunno 1973 affermò in un discorso alla nazione di godere dell'appoggio di più di cento nazioni di tutto il mondo, principalmente Paesi della Lega Araba, del Movimento dei non-Allineati e dell'Organizzazione per l'Unità Africana. Sādāt lavorò anche per convincere della sua causa le nazioni europee, e quindi guadagnare comprensione (se non proprio simpatia) anche prima della guerra stessa, cosicché Gran Bretagna e Francia si schierarono col Consiglio di Sicurezza dell'ONU, e quindi con le nazioni arabe e contro Israele, mentre la Germania Ovest divenne una delle più generose rifornitrici egiziane di materiale (bellico e non).

Verso la guerra

Anwar al-Sādāt nel 1972 dichiarò pubblicamente che Il Cairo stava per muovere guerra a Israele, e che la leadership egiziana era pronta a «sacrificare un milione di soldati egiziani». Dalla fine dell'anno, l'Egitto cominciò a concentrare gli sforzi per ricostruire le proprie forze, ricevendo un buon numero di MiG-21, alcuni MiG-23, svariate batterie antiaeree SA-6 e lanciarazzi c/c RPG-7, oltre soprattutto agli AT-3 Sagger (missili guidati anticarro) dall'Unione Sovietica: un riarmo in grado di migliorare sensibilmente le capacità tattiche delle proprie forze armate. I generali di estrazione politica, in gran parte responsabili della disfatta del 1967, furono rimpiazzati da ufficiali più competenti.

Il ruolo delle grandi potenze fu peraltro un fattore non marginale nell'esito delle due guerre. La politica estera dell'Unione Sovietica, ad esempio, era una delle cause principali della debolezza militare egiziana: mentre gli Stati Uniti e altre nazioni alleate rifornivano Israele di armi di ultima generazione sia a livello offensivo sia difensivo, i sovietici fornivano all'Egitto solo armamenti ispirati alla difesa, e non senza una certa riluttanza. Non è un caso, infatti, se i comandi dell'aviazione egiziana sotto Gamāl 'Abd al-Nāser furono capaci di costruire una difesa missilistica antiaerea solo dopo che quest'ultimo si recò personalmente a Mosca e richiese formalmente aiuto al Cremlino: dichiarò che se gli aiuti non fossero stati concessi avrebbe fatto ritorno in patria dicendo agli egiziani che Mosca li aveva abbandonati.

Temendo che Gamāl 'Abd al-Nāser o il suo successore si affidasse ai finanziamenti occidentali e all'influenza americana - un rischio che Mosca non voleva permettere perché ciò avrebbe comportato un'influenza americana troppo importante nella regione - l'Unione Sovietica inviò prontamente uomini (con l'ambiguo ruolo di «consiglieri») e mezzi.

Uno degli obiettivi non dichiarati della guerra d'Attrito era stato quello di spingere i sovietici a fornire all'Egitto armi e materiale bellico aggiornato: le scaramucce e gli incidenti di confine erano anche un modo, secondo i vertici militari egiziani, di dimostrare quanto obsolete fossero le armi sovietiche arrivate in Egitto dopo il 1967 a fronte dei nuovi armamenti di origine americana in mano agli israeliani.

La politica estera di Gamāl ʿAbd al-Nāṣer dopo la guerra dei sei giorni confliggeva così con quella dell'Unione Sovietica: i sovietici cercavano di spingere Il Cairo a una soluzione pacifica dell'intera questione vicino-orientale, soprattutto nell'ottica di evitare (pur per interposta persona) uno scontro con gli Stati Uniti. La cosa fu chiara quando le superpotenze si incontrarono a Oslo, e si trovarono d'accordo nel mantenimento della situazione così com'era.
Questa era per contro una risoluzione inaccettabile dall'Egitto; infatti, quando la notizia dei preparativi per il superamento del Canale filtrò a Mosca, divenne imperativo espellere i «consiglieri» sovietici dal paese. Nel giugno 1972 Sādāt dette l'ordine di partenza a quasi tutti i 20.000 militari sovietici e orientò le proprie attenzioni a una politica più favorevole agli USA.

Da Mosca non ci si faceva illusioni sull'esito della guerra, e Sādāt fu avvisato che, secondo le stime degli stessi consiglieri militari che ben conoscevano l'entità delle forze arabe, qualunque tentativo di superare le pesanti fortificazioni di Suez avrebbe provocato perdite ingenti. I sovietici, che stavano ricercando un rapporto migliore con gli statunitensi nel processo di distensione, non vedevano di buon occhio una destabilizzazione del Vicino Oriente, e nel giugno 1973, in un incontro col presidente statunitense Richard Nixon, il leader sovietico Leonid Brežnev propose che Israele tornasse ai confini del 1967, specificando che se Israele non lo avesse fatto «noi avremo difficoltà nell'evitare che la situazione precipiti» – un'indicazione chiara che l'Unione Sovietica era stata incapace di limitare i piani di Sādāt.[2]

In un'intervista pubblicata sul numero di Newsweek del 9 aprile 1973, Sādāt minacciò ancora guerra con Israele. Diverse volte nel corso dell'anno le forze arabe avevano condotto esercitazioni di ampio raggio che avevano messo l'IDF in uno stato di massima allerta, rientrato solo qualche giorno dopo. I comandanti israeliani, nel frattempo, avevano maturato la convinzione che, in caso di un effettivo attacco egiziano, l'aviazione sarebbe stata capace di respingerlo.

Quasi un intero anno prima della guerra, il 24 ottobre 1972, in un incontro col Consiglio Supremo delle Forze Armate, Sādāt dichiarò la sua intenzione di guerreggiare contro Israele anche senza un adeguato sostegno sovietico[3]. I piani dell'operazione furono fatti nel più totale riserbo – anche gli elementi di maggiore importanza dell'esercito non furono resi edotti dei piani nei loro dettagli fino a una settimana prima dell'inizio delle ostilità, e ai soldati non fu detto niente fino al giorno prima. Al piano per attaccare Israele di concerto con la Siria fu dato il nome in codice Operazione Badr ("luna piena" in arabo, ma di fatto rievocante la prima vittoria musulmana ai tempi del profeta Maometto).

La decisione di un attacco a sorpresa

Il servizio di spionaggio militare israeliano (Aman), la «più importante» della «famiglia dei servizi di spionaggio», aveva la responsabilità di fornire cifre e stime al paese sulla situazione dei vicini[4]. Le sue affermazioni sulla probabilità di una guerra erano basate su diverse considerazioni. Innanzitutto, si presumeva correttamente che la Siria non sarebbe entrata in guerra con Israele senza l'Egitto. In secondo luogo, era stato scoperto per bocca di un infiltrato ad alti livelli - un personaggio la cui identità è tuttora avvolta dal segreto, entrata negli annali come «La Fonte» - che l'Egitto voleva riconquistare l'intero Sinai, ma non si sarebbe mosso prima dell'arrivo di forniture ben specifiche dall'URSS: cacciabombardieri in grado di neutralizzare l'aviazione israeliana, e missili Scud da usare contro le città israeliane come deterrente, in modo da sventare attacchi da Israele alle infrastrutture sul suolo egiziano. Poiché i sovietici non avevano ancora fornito gli aerei, e poiché gli Scud erano stati consegnati alla fine di agosto (l'addestramento del personale che li avrebbe usati era durato quattro mesi), Aman predisse che la guerra con l'Egitto non era imminente.

Queste conclusioni sui piani strategici egiziani, conosciute come «il Concetto», influenzarono pesantemente qualunque visione sul rischio di un attacco, e portarono gli israeliani a ignorare gran parte degli allarmi che si crearono successivamente.

Gli egiziani fecero tutto quel che poterono per nutrire questa convinzione. Sia in Israele che negli USA l'espulsione del personale militare sovietico era stata salutata come un decisivo indebolimento della capacità militare offensiva dell'Egitto, e proprio da qui ci si assicurò che il flusso di informazioni in uscita dal Paese sulla situazione interna continuasse a parlare di problemi tecnici, di mancanza di manutenzione, di ricerca di personale qualificato per far funzionare gli equipaggiamenti di ultima generazione. Gli egiziani produssero ripetuti rapporti su una (inesistente) mancanza di pezzi di ricambio, e questi rapporti giunsero per vie traverse anche in Israele, dove rassicurarono in maniera straordinariamente efficace anche gli animi più guardinghi tra coloro che avevano l'incarico di decidere sulla sicurezza della nazione. Ormai le promesse di guerra fatte da Sādāt, che era un esperto del rischio calcolato, erano così frequenti da non destare più alcuna preoccupazione. Nei mesi di maggio e agosto l'esercito iniziò imponenti esercitazioni nei pressi del confine, e l'IDF si mobilitò in entrambe le occasioni richiamando parte della riserva – operazione che costò quasi 10 milioni di dollari al cambio di allora.

Pochi giorni prima dello Yom Kippur (che quell'anno cadeva nel mese islamico di Ramadān), gli egiziani organizzarono una settimana di esercitazioni in prossimità del canale di Suez. I servizi di spionaggio israeliani, dopo aver osservato e valutato i movimenti di truppe verso il confine, li qualificarono come ulteriori esercitazioni. Il movimento delle truppe siriane verso il confine nel Golan generava legittimi dubbi sulla buona fede degli egiziani ma la stretta osservanza del «precetto» del digiuno islamico rassicurò, ancora una volta, la leadership militare israeliana, in questo caso abbastanza superficiale:[5] i siriani non avrebbero attaccato senza l'Egitto, e l'Egitto non avrebbe attaccato perché il resto del materiale sovietico ancora non era arrivato.

Il giorno scelto per l'invasione appare, oggi come allora, ovvio. La festività ebraica dello Yom Kippur prevede tradizionalmente che l'intero paese si fermi per 25 ore, compresi i mezzi di comunicazione e tutte le attività commerciali, eccezion fatta per una minima sezione dei servizi di emergenza. È un giorno in cui non solo gli ebrei osservanti, ma anche una sostanziale fetta degli ebrei secolari digiunano, si astengono da qualunque «lavoro» ivi compreso l'uso del fuoco, dell'elettricità e di qualunque mezzo di trasporto. L'intero traffico veicolare nel Paese risulta bloccato e molti soldati lasciano le strutture militari per restare a casa, in una giornata di preghiera e di penitenza dove il focolare domestico appare decisamente più confortante di qualunque altra sistemazione. È il giorno in cui, per tutti questi motivi, Israele è militarmente in assoluto più vulnerabile, con gran parte delle sue forze smobilitate. In realtà proprio la concomitanza della ricorrenza ebraica dello Yom Kippur con l'inizio, per i musulmani, del mese sacro di Ramadan, in cui i soldati osservanti sarebbero stati costretti a digiunare per un intero meso, anche se limitatamente a tutto il dì, servì a convincere ulteriormente i servizi segreti israeliani che l'attacco non sarebbe stato comunque imminente.

Nonostante avesse rinunciato a prender parte da subito al conflitto, re Husayn di Giordania «aveva avuto un incontro con Sādāt e con al-Asad ad Alessandria due settimane prima. Dati i sospetti che i leader arabi si scambiavano l'un l'altro, è improbabile ch'egli abbia ricevuto precisi piani di guerra - eppure è probabile che Sādāt e al-Asad abbiano esternato l'intenzione di muovere guerra a Israele in termini più generali, per saggiare la volontà della Giordania di unirsi»[6]. La notte del 25 settembre, Husayn volò segretamente a Tel Aviv per avvertire il Premier israeliano Golda Meir di un imminente attacco siriano. «"Faranno la guerra senza gli egiziani?" chiese la Meir. Il re rispose di no. "Penso che loro"» [gli egiziani] «coopereranno"»[7]. Sorprendentemente, l'avviso cadde nel vuoto. Aman concluse che il re non aveva detto nulla che gli israeliani già non sapessero. «Undici allarmi di guerra sono stati inviati a Israele in settembre, da fonti bene informate. Ma Zvi Zamir» [direttore del Mossad] «continuava a insistere che la guerra non sarebbe stata una scelta araba. Neanche gli avvertimenti di [re] Husayn servirono a diradare i suoi dubbi»[8]. In seguito, avrebbe amaramente commentato che «semplicemente, non ci sembrava fossero capaci di farlo»[9].

Alla fine, Zvi Zamir si recò personalmente in Europa per prendere contatto con «La Fonte» (l'alto ufficiale egiziano) nella notte tra il 5 e il 6 ottobre. In quell'incontro, «La Fonte» lo informò che un attacco congiunto siro-egiziano era imminente, e fu soprattutto questo avvertimento, assieme a tutti quelli che lo avevano preceduto, a riportare il comando israeliano in azione. Qualche ora prima dell'attacco, il generale Moshe Dayan approvò l'ordine di un parziale richiamo delle riserve. Per ironia della sorte, richiamare le riserve fu più facile del previsto, poiché quasi tutti erano in sinagoga o a casa per la vacanza.

Mancanza di un attacco preventivo israeliano

La strategia militare israeliana prevedeva un attacco preventivo a fronte dell'imminenza di un attacco nemico, e si basava per la gran parte sull'affidabilità dei servizi segreti, la cui previsione poteva dare per certa un'invasione non più tardi di 48 ore prima dell'attacco stesso.

Golda Meir, Moshe Dayan e il generale David Elazar si incontrarono alle 8,05 del mattino dello Yom Kippur, 6 ore prima dell'inizio della guerra. Dayan cominciò argomentando che la guerra non era una certezza. Elazar sostenne la necessità di un attacco preventivo sulle forze siriane: gli aeroporti a mezzogiorno, le installazioni missilistiche alle 15, e le forze di terra alle 17. «Quando tutti presentarono la loro idea, il Primo Ministro mostrò incertezza per qualche istante ma palesò una decisione chiara: non ci sarebbe stato alcun attacco preventivo. Israele avrebbe potuto avere bisogno dell'assistenza americana molto presto, ed era imperativo che nessuna colpa di aver iniziato la guerra potesse essergli addossata. "Se colpiamo per primi - disse - non avremo l'aiuto di nessuno"» [10]. Le nazioni europee, sotto la minaccia di un embargo petrolifero e di un boicottaggio commerciale, avevano interrotto le forniture di munizioni. Come risultato, Israele era del tutto dipendente dagli Stati Uniti per l'approvvigionamento militare, ed era particolarmente sensibile a qualunque cosa che potesse mettere in pericolo quella relazione.

In retrospettiva, la decisione di non colpire per primi fu probabilmente una decisione saggia. L'Operazione Nickel Grass, il ponte aereo americano che rifornì Israele di ogni genere di merci a partire dall'inizio del conflitto (13 ottobre), anche se non rimpiazzò immediatamente le perdite di equipaggiamento israeliane, permise nondimeno di servirsene più liberamente.[11]. Se avessero colpito per primi, secondo Henry Kissinger, gli israeliani avrebbero ottenuto «tanto quanto un'unghia».

La guerra

Il Sinai

Il piano egiziano era quello di un'avanzata non fulminea e non in profondità, per evitare di perdere la protezione delle batterie SAM. Nella guerra dei sei giorni, l'aviazione israeliana aveva tempestato gli eserciti arabi, privi di una qualunque protezione antiaerea. L'Egitto (assieme alla Siria) aveva avuto sei anni per riprendersi dagli errori e fortificare pesantemente il proprio schieramento, pur all'interno delle linee del cessate-il-fuoco, con batterie terra-aria di costruzione sovietica, contro le quali l'IAF non aveva realizzato alcuna contromisura. In tal modo Israele, che tanto aveva investito per costruire e rendere operativa la più imponente aviazione del Vicino Oriente, vedeva vanificati quasi per intero i propri sforzi.

Gli egiziani avevano previsto un rapido contrattacco israeliano, e avevano disposto l'equipaggiamento della prima ondata d'invasione con una fortissima concentrazione di armi controcarro – soprattutto RPG e i più devastanti AT-3 Sagger. Un soldato su tre nelle file egiziane era dotato di un'arma anticarro. «Mai in precedenza è stata messa sul campo di battaglia una così intensiva forza anticarro»[12]. In più, le difese sul lato egiziano del Canale erano state aumentate in misura del doppio rispetto a quelle israeliane, dando loro la possibilità di dominare la zona e sparare più comodamente sui soldati e sui carri israeliani in avvicinamento.

L'ingresso egiziano nel Sinai (6-13 ottobre) e il contrattacco israeliano (13-15 ottobre).

Per l'esercito egiziano fu sorprendentemente facile fare breccia nelle posizioni israeliane e attraversare rapidamente il Canale di Suez in quello che poi divenne famoso come «l'Attraversamento», puntando con decisione su tutti i fortilizi della linea Bar-Lev. Gli egiziani avanzarono 15 km nel deserto del Sinai, in quella che era un'operazione attentamente studiata nei dettagli, e con l'azione combinata di due Corpi d'Armata. Gli israeliani avevano costituito le posizioni difensive tra enormi terrazze di sabbia compressa, dove l'esperienza insegnava che sarebbe stato impossibile bersagliarli con l'artiglieria o coi bombardieri. Il genio militare egiziano decise di attaccare le terrazze con gli idranti, alimentati direttamente con l'acqua del Canale. La compattezza della sabbia si dissolse, lasciando le posizioni difensive israeliane scoperte.

Le unità a guardia della fortificazione Bar-Lev, trovandosi di fronte una forza più numerosa di almeno un ordine di grandezza, furono sopraffatte. Solo una, Budapest (quella più settentrionale), restò sotto il controllo israeliano per l'intera durata della guerra.

Le forze egiziane si consolidarono sulla linea fin lì raggiunta. L'8 ottobre, Shmuel Gonen, comandante del Fronte Meridionale israeliano (era in carica da tre mesi, dopo il ritiro di Ariel Sharon) ordinò un contrattacco della brigata di Gabi Amir contro gli egiziani trincerati a Hizayon, dove qualunque unità in avvicinamento era facile bersaglio dei Sagger sparati dalle posizioni nemiche. Nonostante la riluttanza di Amir, l'attacco ebbe luogo, e fu un disastro. Dopo il tramonto, un contrattacco egiziano fu fermato dalla divisione di Sharon – richiamato come generale di divisione alla notizia dell'invasione – e la situazione rimase in stallo per diverse ore, poiché nessuna delle due fazioni mostrava l'intenzione di voler dare battaglia in modo campale.

In seguito al disastroso attacco dell'8 ottobre, entrambi gli eserciti si disposero sulla difensiva, e sperarono che l'altro attaccasse per primo, esponendosi[13]. Elazar rimpiazzò Gonen, che aveva provato di non essere all'altezza, mettendo al suo posto Chaim Bar-Lev, richiamato dal pensionamento. E poiché era considerato molto pericoloso per il morale della truppa sostituire il comandante in capo nel mezzo di una battaglia, Gonen fu nominato aiutante di campo di Bar-Lev.

Dopo qualche giorno di attesa Sādāt, che voleva alleggerire la pressione sui Siriani, ordinò ai suoi comandanti sul campo (Saˁd al-Shādhlī e Ahmad Ismāˁīl ˁAlī) di attaccare. Gli egiziani portarono nel Sinai le loro riserve e cominciarono il contrattacco il 14 ottobre. «L'attacco, il più massiccio dall'inizio dell'offensiva, fu un fallimento totale, il primo grande scacco agli egiziani dall'inizio della guerra. Invece di concentrare gli sforzi sulla manovrabilità delle truppe, al di là delle zone degli wadi dove la spinta è stata maggiore, li hanno spesi per un assalto frontale contro le brigate israeliane in attesa. Le perdite egiziane della giornata sono stimate tra i 150 e i 250 carri»[14].

Il contro-attraversamento del Canale (15-17 ottobre) e l'isolamento della Terza Armata egiziana (18-23 ottobre).

Il giorno seguente, 15 ottobre 1973, gli israeliani lanciarono l'Operazione «Uomo Intrepido» – il contrattacco contro gli egiziani e l'attraversamento del Canale di Suez da Est verso Ovest. L'attacco fu un radicale cambiamento tattico israeliano, poiché i difensori si erano affidati nei giorni precedenti al sostegno aereo e corazzato, e avevano perso gran parte di quel che avevano schierato per mano delle forze egiziane, ben preparate a questo tipo di azione. Gli israeliani fecero dunque uso della fanteria per infiltrare le posizioni dei SAM e delle batterie anticarro egiziane, le quali non avevano modo di proteggersi da un attacco di soldati di fanteria. Una divisione comandata dal generale Ariel Sharon attaccò le linee nemiche poco a nord del Grande Lago Amaro, in prossimità di Ismāˁīliyya. Gli israeliani sfondarono in un punto debole delle linee arabe: la congiunzione tra la Seconda Armata a nord e la Terza Armata a sud. In quelli che passarono come i più brutali scontri della guerra in prossimità e corrispondenza della «Fattoria Cinese» (un progetto d'irrigazione a est del canale e a nord del punto di attraversamento), gli israeliani aprirono un varco nelle difese nemiche e raggiunsero la linea d'acqua. Una frazione delle forze israeliane attraversò il Canale e stabilì una testa di ponte dall'altro lato, consentendo il trasporto delle truppe a ovest del Canale su piccoli gommoni – un'operazione che richiese più di 24 ore e che fu possibile grazie alla protezione degli M72 LAW, lanciarazzi anticarro che impedirono agli egiziani di costituire una minaccia. Una volta neutralizzate le difese antiaeree e anticarro arabe, la fanteria poté fare nuovamente affidamento sul soverchiante sostegno dell'aeronautica e della fanteria corazzata.

Prima della guerra, temendo un attraversamento del Canale, nessuna nazione occidentale aveva fornito a Israele l'equipaggiamento che serviva per costruire ponti mobili. Gli israeliani avevano acquistato, peraltro da un lotto di eccedenze di produzione francese, soltanto quello che serviva per imbastire una passerella galleggiante. Sviluppando il materiale a loro disposizione come un ponte di barche, la divisione di Avraham Adan attraversò la linea d'acqua e si diresse rapidamente a sud, con l'intento di tagliar fuori la Terza Armata egiziana prima che potesse ritirarsi al di là del confine. Nello stesso tempo, Adan preparò diverse incursioni contro le postazioni antiaeree a est del canale.

Il giorno della fine delle ostilità, gli israeliani erano a 101 km dal Cairo, capitale egiziana.

Il Golan

La campagna del Golan: l'attacco siriano (6-10 ottobre), il contrattacco israeliano (11-13 ottobre) e lo stallo.

Sulle alture del Golan, i siriani attaccarono le difese israeliane, che consistevano in 2 brigate e 11 batterie di artiglieria, con 5 divisioni e 188 batterie. Allo scoppio delle ostilità, circa 180 carri israeliani si trovarono di fronte circa 1400 mezzi corazzati siriani. Nonostante le probabilità di successo fossero bassissime, e nonostante i carri siriani fossero dotati anche di visori per il combattimento notturno, ogni carro israeliano prese parte ai combattimenti iniziali. I commandos elitrasportati siriani presero il controllo dell'importante nodo difensivo del Jabal al-Shaykh (Monte Hermon, detto in arabo "Montagna del vecchio" a causa del colore bianco della neve bianca della sua cima, a mo' di capelli di una persona anziana), che era peraltro dotato di imponenti apparati di sorveglianza.

L'Alto Comando israeliano decise di dare assoluta priorità ai combattimenti in corso sul Golan e di stare sulla difensiva sul Sinai, per cause di cautela geografica: mentre il Sinai era sufficientemente lontano da non costituire una minaccia diretta per Israele, perdere il Golan avrebbe significato una rapida avanzata dei siriani nel cuore di Israele, essendo le alture a poche decine di chilometri da importanti città come Netanya, Haifa e Tel Aviv. L'ordine era di inviare i riservisti sul Golan prima possibile, pur con una serie di svantaggi operativi: i soldati sarebbero stati assegnati ai carri con un equipaggio diverso rispetto a quello con cui si erano addestrati in precedenza, i carri sarebbero stati sprovvisti di alcune migliorie (molti dovettero montare le mitragliatrici «strada facendo») e molti mezzi sarebbero scesi in battaglia senza la possibilità di calibrare il cannone (una lunga procedura per tarare gli strumenti di puntamento).

Esattamente come gli egiziani nel Sinai, i siriani procedettero ad avanzare stando bene attenti a non uscire dall'ombrello protettivo delle batterie SAM. Anche sul Golan gli attaccanti fecero uso di armi anticarro, le quali perdettero molto della loro efficacia a causa del terreno scosceso e irregolare, a totale differenza del piatto deserto vicino al Canale.

I siriani avevano previsto che le prime riserve avrebbero raggiunto il fronte non prima di 24 ore dall'attacco. I riservisti israeliani ne impiegarono solo 15.

Un carro israeliano Centurion abbandonato sul Golan

Alla fine del primo giorno di battaglia, i siriani (che schieravano 9 soldati per ogni soldato nemico) avevano ottenuto un moderato successo. Nel tardo pomeriggio una brigata corazzata siriana, che era passata attraverso il Passo di Rafid, puntò a Nord-Ovest, lungo una strada poco usata, conosciuta come la Tapline Road (Strada della Compagnia Transaraba degli Oleodotti), che attraversava diametralmente il Golan. Questo tracciato si sarebbe dimostrato come uno dei cardini della battaglia, dal momento che collegava direttamente il punto di sfondamento dei siriani a Nafekh, che non era soltanto il luogo del Quartier Generale divisionale israeliano, ma il più importante crocevia delle alture. Durante la notte, il comandante Zvika Greengold, che era appena arrivato in battaglia da solo col suo carro (senza quindi portarsi dietro una squadra o con l'appoggio di altri carri), attaccò i siriani di propria iniziativa, e gli scontri durarono fino all'arrivo dei rinforzi. «Per le successive 20 ore la "Zvika Force", come fu nota nelle comunicazioni radio, combatté ferocemente contro i carri siriani; a volte da sola, a volte come parte di un'unità più grande, cambiando sei o sette mezzi corazzati, ogni volta che erano messi fuori combattimento. Rimase ferito e ustionato, ma restò in azione e più volte comparve nei momenti critici, da un'inaspettata direzione, appena in tempo per cambiare il corso di uno scontro».[15]

Dopo quattro giorni di combattimenti, la VII Brigata israeliana (al comando di Yanush Ben Gal) dislocata a nord del fronte, riuscì a mantenere la rocciosa linea collinare che difendeva da nord il loro quartier generale di Nafekh. A sud, invece, la Brigata Barak («Fulmine»), allo scoperto per la mancanza di alcuna difesa naturale, cominciò a subire pesanti perdite. Il suo comandate, il colonnello Shoham, fu ucciso durante i primi giorni di combattimento, mentre i siriani spingevano disperatamente per raggiungere il Mar di Galilea.

La marea nel Golan cominciò a rifluire quando le riserve israeliane arrivarono sul campo e furono capaci di contenere e respingere, a partire dall'8 ottobre, l'offensiva siriana. La regione delle alture era, del resto, troppo ristretta per fungere da cuscinetto territoriale (come era stato previsto per il Sinai, cui era stata tolta la priorità difensiva), ma dette prova di essere un luogo strategicamente importantissimo vista la difendibilità e la cruciale conformazione geografica, che impedì fattivamente il bombardamento delle città israeliane sottostanti. Mercoledì 10 ottobre 1973 l'ultima unità siriana del settore centrale era stata respinta oltre la linea porpora (il confine prebellico)[16].

A questo punto si poneva il dilemma – ovvero se rallentare il combattimento e concludere il conflitto al confine, o spingere sul territorio siriano. L'Alto Comando israeliano passò l'intera giornata del 10 ottobre a discuterne, fino a notte inoltrata. Alcuni favorivano il disimpegno, che avrebbe permesso ai soldati di essere riportati sul Sinai (la tremenda sconfitta di Shmuel Gonen a Hizayon sul Sinai era accaduta solo due giorni prima). Altri favorivano un attacco in Siria, verso Damasco, che avrebbe messo fuori combattimento la Siria oltre naturalmente a ristabilire l'immagine israeliana di potenza militare dominante nella regione, magari con qualche vantaggio dopo la fine del conflitto. Altri opposero che in Siria vi erano poderose difese – trincee anticarro, campi minati, fortificazioni – e che era comunque meglio combattere da posizioni difensive e sopraelevate, piuttosto che sull'altopiano siriano. Comunque, il Primo Ministro Golda Meir capì il più nodoso degli argomenti esposti – «Avremmo bisogno di quattro giorni per spostare una divisione sul Sinai. Se la guerra finisse in questo periodo di tempo, finirebbe con una perdita territoriale nel Sinai e nessun guadagno nel nord, cioè una sconfitta senza quartiere. È dunque una questione politica e la decisione è assoluta – attraversare la linea rossa... L'attacco sarà lanciato domani, giovedì 11 ottobre»[17].

Dall'11 al 14 ottobre, le forze israeliane si spinsero in territorio siriano, conquistando un'ulteriore area di quasi cinquanta km² nel Bashan, dalla quale furono capaci di colpire i sobborghi di Damasco, lontana solo 40 chilometri, usando l'artiglieria pesante campale.

«Mentre la posizione araba sui campi di battaglia decadeva su tutti i fronti, fu fatta pressione su Re Husayn perché inviasse un contingente in azione. Egli trovò un modo per soddisfare queste esigenze senza aprire il suo regno a un attacco aereo israeliano: invece di attaccare Israele attraverso il confine che divideva con esso, mandò una forza di spedizione in Siria. Fece sapere a Israele le proprie intenzioni attraverso intermediari statunitensi, nella speranza che esso» [Israele] «accettasse che non si trattava di un casus belli per giustificare un attacco in Giordania... Dayan si guardò bene dall' offrire alcuna rassicurazione di questo tipo, ma sapeva bene che Israele non aveva intenzione di aprire un terzo fronte»[18]. Anche l'Iraq mandò una forza di spedizione sul Golan, formata da 30.000 uomini, 500 carri e 700 APC (trasporto truppe) [19].

I contrattacchi combinati delle truppe siriane, giordane e irachene prevennero qualunque ulteriore conquista israeliana. Eppure, non furono in grado di respingere gli israeliani oltre il saliente di Bashan.

Il 22 ottobre, la Brigata Golani e alcuni commando della Sayeret Matkal (o Unità 767 ) - reparto delegato all'acquisizione di informazioni ( intelligence gathering ) e alle operazioni speciali - ricatturarono gli avamposti sull'Hermon, dopo che alcuni cecchini siriani, posizionati strategicamente sul monte, ebbero causato pesanti perdite agli israeliani: 55 morti e 79 feriti che si andavano ad aggiungere ai 25 morti e 67 feriti dell'assalto di due settimane prima.[20]. Un bulldozer corazzato israeliano D9 irruppe aprendo una breccia nella linea che consentì alla fanteria israeliana di avanzare fino alla cima, che così rimase israeliana al momento del cessate-il-fuoco e conseguentemente anche dopo la guerra. Una brigata di paracadutisti prese infine la linea di avamposti siriani lungo l'altra parte del fronte.

Sul mare

File:BattleLatakia.jpg
Schema della battaglia a largo di Latakia.

La battaglia di Latakia, un rivoluzionario scontro navale tra israeliani e siriani, ebbe luogo il 7 ottobre, il secondo giorno di guerra, e portò a una sorprendente vittoria israeliana che dette prova della straordinaria potenza delle sue piccole e veloci navi lanciamissili equipaggiate con efficaci contromisure elettroniche (ECM, electronic countermeasures). Questa fu la prima battaglia al mondo tra imbarcazioni armate di missili antinave. La battaglia provò che la marina israeliana, sempre considerata come la «pecora nera» dell'IDF, era una forza formidabile ed efficacemente all'avanguardia. In seguito a questo e ad altri piccoli scontri, le marine egiziana e siriana ritirarono il loro naviglio militare nei porti sul Mar Mediterraneo, permettendo alle rotte marine che si affacciavano sul bacino di rimanere aperte e fornendo una sicura via di rifornimento: tutto quello che, essendo relativamente meno urgente, non richiedeva una spedizione attraverso il ponte aereo di Nickel Grass (vale a dire la gran parte degli equipaggiamenti e del vettovagliamento a sostegno della popolazione) arrivò in Israele via mare su navi mercantili americane.

Comunque, la marina israeliana fu meno in grado di rompere il blocco navale sul Mar Rosso che impediva alle navi israeliane e degli alleati di Israele di transitare, e che quindi interrompeva le forniture di petrolio che passavano dal porto di Eilat. Israele non aveva un numero sufficiente di lanciamissili sul Mar Rosso per spezzare l'isolamento: un errore sul quale i vertici militari israeliani avrebbero avuto modo di ripensare negli anni a venire.

Durante il resto del conflitto, i commando di forze speciali (la Shayetet 13) attaccarono diverse volte i porti egiziani sul Mediterraneo, con lo scopo di distruggere quelle imbarcazioni che avrebbero potuto trasportare gruppi di uomini scelti nemici dietro le linee israeliane. L'effetto generale di queste azioni sull'andamento del conflitto fu relativamente scarso.

Interventi di altri Stati arabi

Oltre a Egitto, Giordania, Siria e Iraq, molte altre nazioni arabe furono coinvolte nella guerra, sia a livello di appoggio militare che finanziario – per quanto l'intero flusso dei fondi destinati alle nazioni coinvolte non sia mai stato delineato.

Arabia Saudita e Kuwait fornirono aiuto finanziario e inviarono una piccola quantità di truppe per testimoniare la propria presenza in battaglia. Il Marocco inviò tre brigate e si registrarono in combattimento anche unità provenienti dalla Cisgiordania occupata e dalla Giordania.[21]. Il Pakistan inviò 16 piloti.

Dal 1971 al 1973, Muˁammar al-Qadhdhāfī fece pervenire dalla Libia alcuni caccia Dassault Mirage III e diede all'Egitto circa 1 milione di dollari per sovvenzionare le spese militari. L'Algeria inviò alcuni squadroni di caccia e bombardieri, brigate corazzate e decine di carri armati. La Tunisia inviò più di 1.000 soldati, che lavorarono con gli egiziani sul delta del Nilo, e il Sudan inviò un contingente di 3.500 uomini.

La radio nazionale ugandese riportò che Idi Amin aveva inviato forze ugandesi a combattere contro Israele. Cuba inviò un contingente di 1.500 soldati, compresi carri armati e piloti per elicotteri da combattimento. Questi ultimi, secondo i registri, furono effettivamente coinvolti in combattimento contro l'IDF.

Armamenti

Le armi utilizzate sui due fronti riflettevano la realtà della guerra fredda: gli arabi usavano per lo più armi sovietiche, gli israeliani armi occidentali.

Tipo Eserciti arabi IDF
Carri armati T54/T55, T-62, T-34 e PT-76 M4 Sherman, M48 Patton, M60 Patton, Centurion, AMX-13, più un numero di T54/T55 e PT-76 di preda bellica.
Aerei MiG-21, MiG-19, MiG-17, Sukhoi Su-7B, Tupolev Tu-16, Ilyushin Il-28, Ilyushin Il-18, Ilyushin Il-14, Antonov An-12 Douglas A-4 Skyhawk, McDonnell Douglas F-4 Phantom II, Dassault Mirage III, Dassault MD 454 Mystère IV, IAI Nesher, Sud Aviation Vautour
Elicotteri Mil Mi-6, Mil Mi-8 Aérospatiale Super Frelon, Sikorsky CH-53 Sea Stallion, Sikorsky H-34 Choctaw, AB-205, MD500 Defender

Le immediate conseguenze del cessate-il-fuoco

La Terza Armata egiziana in trappola

Le Nazioni Unite imposero un cessate il fuoco, largamente negoziato tra Stati Uniti e Unione Sovietica, il 22 ottobre, per il quale si invocava la fine delle ostilità tra Israele ed Egitto (ma tecnicamente non tra Siria e Israele), e che entrò in vigore 12 ore dopo, alle 18,52 ora israeliana.[22]. Poiché divenne effettivo dopo il tramonto, fu impossibile per i satelliti determinare l'esatta posizione della linea del fronte quando fu dichiarata la fine degli scontri[23].

Quando iniziò il cessate il fuoco, le forze israeliane erano a poche centinaia di metri dal loro obiettivo – l'ultima strada che collegava Il Cairo e Suez. Nottetempo, gli egiziani ruppero la tregua in un certo numero di punti, distruggendo nove carri armati israeliani; in risposta, David Elazar chiese l'autorizzazione per proseguire a sud, e la ottenne da parte del Capo di Stato Maggiore, Moshe Dayan[24]. Le truppe israeliane finirono quello che avevano iniziato: conquistarono la strada, tagliarono l'ultima via di rifornimento e intrappolarono la Terza Armata egiziana a ovest del Canale di Suez.

La mattina seguente, 23 ottobre, ci fu un turbinìo di attività diplomatiche. Aerei ricognitori sovietici confermarono che le forze israeliane stavano dirigendosi a sud, e da Mosca arrivarono a Gerusalemme accuse di tradimento. In una telefonata con Golda Meir, Henry Kissinger chiese, «come può mai sapere qualcuno dove sia o fosse una linea in pieno deserto?» Meir rispose, «Lo sapranno, eccome». Kissinger venne a sapere dell'accerchiamento della Terza Armata egiziana poco dopo[25].

Kissinger capì che la situazione presentava agli Stati Uniti un'opportunità più unica che rara: l'Egitto dipendeva completamente dagli USA per quel che riguardava la salvezza dell'Armata intrappolata, poiché Israele avrebbe seguito le direttive statunitensi, e perché per gli egiziani la situazione era disperata, viste le migliaia di soldati nel deserto senza cibo e senz'acqua. Una rapida valutazione portava gli Stati Uniti a proporsi nel delicato ruolo di forte mediatore, con l'opportunità di spingere l'Egitto fuori dall'influenza sovietica.

«[Kissinger] aveva spinto Israele durante la guerra a colpire forte – anche più forte di quanto fosse prima capace – per dimostrare al mondo la propria superiorità militare. Eppure, quando gli israeliani cominciarono a sbaragliare gli egiziani, elaborò un affrettato cessate il fuoco che avrebbe lasciato agli egiziani intatta la propria dignità. Israele, in breve, ne sarebbe uscita quasi vittoriosa, ma lontana dal trionfo»

Come risultato, gli USA esercitarono una formidabile pressione su Israele per impedire loro di distruggere l'Armata accerchiata, anche minacciando il proprio sostegno a una risoluzione ONU che forzasse gli israeliani a ritornare alla linea del fronte del 22 ottobre se non avessero permesso ai rifornimenti umanitari di raggiungere i soldati. In una telefonata all'ambasciatore israeliano Simcha Dinitz, Kissinger disse che la distruzione della Terza Armata egiziana era «un'opzione che non esiste»[27].

Note

  1. ^ Abraham Rabinovich. The Yom Kippur War: The Epic Encounter that Transformed the Middle East. New York, Schocken Books, 2004, p. 13
  2. ^ Rabinovich, p. 39
  3. ^ Rabinovich, p. 25
  4. ^ Rabinovich, pag. 22
  5. ^ Qualsiasi conoscitore della religione islamica sa infatti che dall'obbligo del rispetto del digiuno di ramadan sono esentati i soldati,
  6. ^ Rabinovich, p. 51
  7. ^ Rabinovich, p. 50
  8. ^ Rabinovich, p. 56
  9. ^ Rabinovich, p. 57
  10. ^ Rabinovich, p. 89
  11. ^ Rabinovich, p. 491
  12. ^ Rabinovich, p. 108
  13. ^ Rabinovich, pag. 353
  14. ^ Rabinovich, pag. 355
  15. ^ (EN) Abraham Rabinovich Shattered Heights: Part 1 dal Jerusalem Post Online edition
  16. ^ Rabinovich, pag. 302
  17. ^ Rabinovich, pag. 304
  18. ^ Rabinovich, pag. 433
  19. ^ Rabinovich, pag. 314
  20. ^ Rabinovich, pag. 450
  21. ^ Rabinovich, pag. 464
  22. ^ Rabinovich, pag. 452
  23. ^ Rabinovich, pag. 458
  24. ^ Rabinovich, pag. 463
  25. ^ Rabinovich, pag. 465
  26. ^ Rabinovich, p. 486
  27. ^ Rabinovich, p. 487

Bibliografia

  • Anwar El Sadat, In Search of Identity. An Autobiography, Newnan, GA, Harpercollins, 1978. ISBN 0060137428
  • Raphael Israeli, Man of Defiance: A Political Biography of Anwar Sadat, Londra, Weidenfeld & Nicholson, 1985
  • Moshe Maoz, From War to Peacemaking, Oxford, Oxford University Press, 1995. ISBN 0198280181
  • Lt General Saad el Shazly [Saʿd al-Shādhilī], The Crossing of the Suez, revised edition, San Francisco, American Mideast Research, 2003

Collegamenti esterni

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