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Dalla Montagna incantata non si scende

La compagnia archiviozeta mette in scena il capolavoro di Mann. Più che mai attuale

Dalla Montagna incantata non si scende

I malati siamo noi. Cadiamo quando pensiamo di essere saldi nelle nostre convinzioni e nei nostri sentimenti. La malattia non risparmia la società e le fa perdere ogni certezza. La temperatura sale, ogni giorno, niente di traumatico, la febbre ci lascia la lucidità per capire l'impossibilità di essere sani e dunque pronti a partecipare alla vita. Febbricitanti, assistiamo alla malattia del mondo e il mondo perde coscienza di sé, prima piano, un po' alla volta, e poi completamente, in un colpo solo. La morte è un inevitabile gorgo, ma cosa accade quando l'umanità desidera essere inghiottita, e noi con essa? Il responso è: morte di massa. Il suicidio della persona, con un colpo di rivoltella, e il suicidio del nostro angolo di pianeta, con la guerra.

La montagna incantata di Thomas Mann pone queste problemi e li pone con uguale forza a un secolo dalla sua pubblicazione (1924). Guardiamoci intorno. La guerra continua a martoriare la sponda meridionale del Mediterraneo mentre, nel cuore dell'Europa, ambizioni imperiali hanno scatenato un conflitto di cui non si vede la fine. Guardiamoci dentro. Le ideologie sono tramontate. Per fortuna. Ma il nulla cosmico ha preso il loro posto. Siamo finalmente liberi ma solo di essere consumatori e lavoratori intercambiabili. Le differenze non sono ammesse e vengono cancellate, paradossalmente, in nome della tolleranza. Dobbiamo essere tutti fluidi e desiderare le stesse cose, per semplificare il lavoro dei grandi trust. La lentezza non è ammessa: per questo devono sparire le tradizioni, la Chiesa, la famiglia. Non parliamo poi della piccola e media impresa. Ogni crisi economica è un'occasione per liberarsene. La distribuzione non ammette ritardi.

Ora, un presuntuoso potrebbe dire: ma cosa c'è ancora da dire della Montagna incantata? Conosciamo tutto della vita di Hans Castorp in un sanatorio di Davos, della tubercolosi, del cugino tutto onore e divisa Joachim, del razionalista Settembrini e del nichilista Naftha. Conosciamo l'amore di Castorp, la leggerezza di Madame Chauchat, le bufere di neve, l'elioterapia, il rombo del cannone laggiù in pianura, dove vivono i «sani». E invece, no.

All'Istituto Ortopedico Rizzoli - San Michele in Bosco di Bologna, nell'ala monumentale, una lunga successione di larghi corridoi, chiostri, scalinate, aule di anatomia, la compagnia archiviozeta mette in scena proprio La montagna incantata, dopo il debutto nel 2022-2023 al Cimitero militare germanico del passo della Futa. In scena, per ora, la prima e la seconda parte. Per la terza bisogna attendere il 26 luglio (date e appuntamenti, nel frattempo, sul sito archiviozeta.eu).

Il contatto tra l'ospedale, dove veniva curata la tubercolosi ossea, e il testo è esplosiva. Merito della compagnia, alla quale riesce un doppio miracolo: sfruttare al meglio gli spazi mentre continua la normale attività ospedaliera e insieme far vivere le pagine di Mann in un modo inedito. Il pubblico si muove insieme con gli attori, e dunque può fare da coro silente alle passeggiate durante le quali Settembrini e Nafta si sfidano non solo metaforicamente. Settembrini è l'Occidente razionalista, democratico, progressista, liberale. Nafta, un gesuita, è la trascendenza dell'Oriente che sconfina nel nichilismo e si rivela disponibile a ogni disavventura nel segno dello Stato autoritario. Settembrini è come vorremmo essere e come eravamo. Nafta è come siamo stati nella prima metà del Novecento e come rischiamo di tornare a essere. Non vedremo più le camicie nere, brune o rosse. Il nuovo secolo inventerà nuovi modi di schiacciare l'individuo sotto il tallone del dispotismo.

Lo spettacolo è «ronconiano» e non potrebbe essere diversamente visto il passato di Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, entrambi cresciuti artisticamente con il maestro. Il tema è approfondito grazie a un ciclo di letture, con frammenti del romanzo, documenti, lettere, diari. Qualcuno avrà visto il passo della Futa, il cielo sempre diverso sopra le trentamila tombe del sacrario. Il Rizzoli non è meno suggestivo, è un luogo carico di storia. Qui nacque e visse per sei anni Cristina Campo, tra queste mura ci sono effetti ottici e sonori che interrogano le neuroscienze, qui è possibile vedere una serie di scioccanti fotografie di malati e malate all'inizio del secolo. In bella posa davanti all'obiettivo, con il metallo dei busti e di altri strumenti conficcati nella carne, puro James Ballard o se preferite David Cronenberg.

Lo spettacolo è affascinante, ma affascinante non rende l'idea. Allora diciamo che oltre a essere affascinante lascia il segno negli spettatori costretti a riflettere mentre godono della bella messinscena. La parola chiave è «morte». La morte minaccia i malati e i sani. I morti sono evocati in una seduta spiritica. La memoria di un'antica sapienza ermetica, legata alla morte, affiora qua e là. La tomba, il sepolcro, il letto di morte sono il centro di un inquietante simbolismo. E anche questo aspetto è richiamato con pochi ma sapienti tocchi della compagnia.

Ecco come si manifesta, nel romanzo, la pulsione (auto)distruttiva: «Di cosa si trattava? Che cosa aleggiava nell'aria? - Smania di risse. Irritazione con minaccia di crisi. Indicibile impazienza. Tendenza generale a battibecchi velenosi, a scoppi di collera, persino alla zuffa». Chi non partecipa direttamente al litigio, invece di essere nauseato, invidia i furiosi. L'intero pianeta, in realtà, non vede l'ora di menar le mani. Un mondo antico deve essere spazzato via per far posto a un nuovo mondo che si rivelerà perfino peggiore. L'Europa soprattutto non capisce quale sia il suo posto nella Storia, forse intravede il tramonto degli imperi e l'avanzare di altre civiltà. E allora che tutto sia cancellato. Cupio dissolvi.

Hans Castorp, l'ingegnere tisico, è il personaggio mediocre per eccellenza: il piccolo borghese, in fondo disprezzato dagli intellettuali e utilizzato

dalla politica come carne da cannone. Ecco, Castorp, diventato «sano», è precipitato nella follia di una guerra che neppure capisce. Forse vivrà. Più facilmente morirà. Non conosceremo la sua sorte. Mann fa calare il sipario.

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