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A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari Le pagine che seguono sono tratte da A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari, L’AntiDiplomatico, 2023, sezione 2, cap. 4 – L’analisi scientifica del capitalismo, pp. 230-273. Info sull’opera su Intellettualecollettivo.it. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari COMPENDIO DEL CAPITALE «Il capitale conosce un unico impulso vitale: la spinta a valorizzarsi, a generare plusvalore, a succhiare con la sua parte costante, coi mezzi di produzione, la massa più grande possibile di pluslavoro. Il capitale è lavoro morto che si rianima, a guisa di vampiro, solo assorbendo lavoro vivo; e tanto più esso vive, quanto più ne succhia. Il tempo durante il quale l’operaio lavora, è il tempo durante il quale il capitalista consuma la forza lavoro acquistata. L’operaio che consuma per sé il proprio tempo disponibile, deruba il capitalista». (Karl Marx)1 Il capitale è il grande capolavoro di Marx: la più approfondita analisi della struttura economica nella società borghese. Un’opera rivoluzionaria che fa uscire il socialismo dall’infantilismo politico: la “scoperta” del plusvalore fornisce finalmente una spiegazione scientifica dello sfruttamento dei lavoratori nel modo di produzione capitalistico. Lo studio di Marx evidenzia le contraddizioni intrinseche del modo di produzione capitalistico che, secondo la concezione materialistica della storia, è destinato ad essere superato. Per un giovane che intende avvicinarsi per la prima volta allo studio delle idee di Marx, la lettura integrale dell’opera (migliaia di pagine considerando i tre volumi, senza parlare delle Teorie sul plusvalore) può risultare un’impresa difficile ed onerosa. Per questo motivo è stata realizzata la presente dispensa in cui sono brevemente riassunti, nella maniera più chiara ed elementare possibile i principali temi trattati nell’opera, presentando i diversi concetti economici e dedicando un capitolo in appendice all’origine del capitalismo. Questo breve compendio, molto più sintetico e aggiornato nel linguaggio rispetto a quello di Cafiero, rappresenta chiaramente solo un’introduzione che non può sostituire la lettura integrale dell’opera. Per mantenere il nesso tra filosofia critica ed economia, si è ricorso molto ad alcuni estratti dei Manoscritti economico-filosofici. I. Critica marxista dell’economia politica borghese «Nello stato di declino della società, il lavoratore pena durissimamente. Egli deve la specifica gravezza della propria oppressione alla sua posizione di lavoratore, e l’oppressione in generale allo stato della società. Ma nello stato progrediente della società il decadere e l’impoverimento del lavoratore sono prodotti del suo lavoro e della ricchezza da lui prodotta. La miseria, che consegue dunque dalla essenza dell’odierno lavoro stesso. Lo stato di massima ricchezza della società, un ideale tuttavia approssimativamente raggiunto, e perlomeno scopo della economia politica come della società civile, è miseria stazionaria per i lavoratori. S’intende da sé che l’economia politica considera soltanto come lavoratore il proletario, cioè colui che, senza capitale e rendita fondiaria, vive puramente del suo lavoro, e di un lavoro unilaterale, astratto. Essa può quindi stabilire il principio che il lavoratore deve, come un cavallo, guadagnarsi tanto da poter lavorare. Non lo considera come uomo, nel tempo in cui non lavora; ma lascia questa considerazione alla giustizia criminale, ai medici, alla religione, alle tabelle statistiche, alla politica e agli sbirri dell’accattonaggio». (Karl Marx)2 1 2 K. Marx, Il capitale, cit., sezione terza – La produzione del plusvalore assoluto, cap. VIII – La giornata lavorativa, pp. 337-338. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, 1844, Primo manoscritto – cap. Salario, all’interno di K. Marx & F. Engels, Opere, vol. III, cit., p. 261. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari Cartolina sovietica realizzata a Baku, 1920. Immagine originale di Ürfan1917. La concezione materialistica della storia, dissertata da Marx ed Engels in opere come L’ideologia tedesca e il Manifesto del Partito Comunista, presenta la struttura economica come fulcro dell’organizzazione sociale. Engels e soprattutto Marx dedicano molti studi all’analisi del modo di produzione capitalistico: nel biennio 1844-45 Engels produce i Lineamenti di una critica dell’economica politica e La situazione della classe operaia in Inghilterra, consentendo a Marx di partire da solide basi lavorando in parallelo ai Manoscritti economicofilosofici del 1844 e poi a Lavoro salariato e capitale (1849), Grundrisse (1857-’58), Per la critica dell’economia politica (1859), Salario, prezzo, profitto (1865) ed infine il primo libro de Il capitale (1867). Lo studio conferma il paradigma del materialismo storico: le condizioni della vita materiale incidono in misura determinante su ogni altro aspetto della vita sociale. Il capitalismo viene analizzato per comprenderne origine e sviluppi, dimostrando come esso sia per definizione un sistema basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo (la classe della borghesia capitalista sfrutta il lavoro dei proletari) generando inevitabilmente crisi socio-economiche. Il modo di produzione capitalistico non è a-storico, non è cioè naturale ed eterno, ma è solo una tappa dello sviluppo storico dell’umanità: è un modo di produzione transitorio, caratterizzato dalla separazione della proprietà dei mezzi di produzione dai lavoratori e dalla massima diffusione della produzione mercantile. Il modo di produzione capitalistico si è affermato su sempre maggiore scala con le rivoluzioni borghesi, che hanno portato l’uguaglianza formale degli uomini davanti alla legge. In realtà i proletari sono costretti a lavorare per i proprietari dei mezzi di produzione a causa di una dipendenza economica. Nonostante il proletario goda di una formale libertà, è costretto ad accettare le condizioni di lavoro imposte dalla borghesia a meno di morire di fame o di freddo. Marx spiega come sia possibile che si determini questo sfruttamento dei lavoratori, in una società (borghese) in cui le merci (compresa la forza-lavoro) sono scambiate secondo il loro valore. II. La merce «La concorrenza non è altro che l’espressione della facoltà di scambio, la quale a sua volta non è altro che la conseguenza immediata e logica del diritto individuale di usare e abusare di tutti gli strumenti di produzione. Questi tre momenti economici – il diritto di usare e abusare, la libertà di scambio e la concorrenza arbitraria – che formano un tutt’uno, comportano le seguenti conseguenze: ciascuno produce quello che vuole, quando vuole, dove vuole; produce bene o male, troppo o troppo poco, troppo presto o troppo tardi, troppo caro o troppo a buon mercato; ognuno ignora se venderà, come venderà, quando venderà, dove venderà, a chi venderà; e lo stesso avviene per quanto riguarda gli acquisti. Il produttore ignora i bisogni e le risorse, la domanda e l’offerta. Egli vende quando vuole, quando può, dove vuole, a chi vuole, al prezzo che vuole. Ed egli acquista nel medesimo modo. E in tutto ciò egli è in balìa del caso, schiavo della legge del più forte, del meno pressato, del più ricco... Mentre in un posto c’è scarsità di un bene, in un altro ce n’è abbondanza e spreco. Mentre un produttore vende molto e troppo caro, e con enorme profitto, l’altro non vende nulla o vende in perdita... L’offerta ignora la domanda, e la domanda ignora l’offerta. Si produce confidando su un gusto, su una moda A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari che si manifesta tra il pubblico dei consumatori; ma quando si è pronti a consegnare la merce, il capriccio è passato su un altro tipo di prodotto... conseguenze inevitabili, il sussistere e il diffondersi dei fallimenti; i calcoli sbagliati, le rovine improvvise e le fortune improvvise; le crisi commerciali, le chiusure, la sovrabbondanza o la scarsità periodiche; l’instabilità o lo svilimento dei salari; la dispersione o l’enorme spreco di ricchezze, di tempo e di sforzi nell’arena di una concorrenza spietata». (Jean-Baptiste Say, citato da Karl Marx)3 «La ricchezza delle società, nelle quali domina il modo di produzione capitalistico, si presenta come una “enorme raccolta di merci”». (Karl Marx)4 L’analisi di Marx parte dalla rielaborazione della teoria del valore degli economisti classici (Smith e Ricardo), riformulando criticamente le definizioni dei concetti base come “merce”, “valore”, “lavoro”, “denaro”, “capitale”, “plusvalore”, “forza-lavoro”, ecc… Il punto di partenza dello studio è l’unità elementare della struttura economica nel capitalismo: la merce. La merce è un bene (materiale o immateriale) o un servizio, prodotto del lavoro umano, che viene scambiato sul mercato. Se il prodotto non è destinato alla vendita, non può essere definito merce. Il prodotto ha un “valore d’uso” intrinseco in quanto le sue proprietà permettono di soddisfare un determinato bisogno. Questo valore d’uso è inestimabile ed è legato all’utilità del prodotto ed al suo consumo immediato, in cui il valore d’uso si realizza. Si può dire che il valore d’uso qualifica la sostanza del prodotto. Quando questo prodotto diventa merce, quando cioè è destinato alla vendita, assume anche un valore di scambio che quantifica la grandezza del prodotto. Il “valore di scambio” (d’ora in avanti per comodità il valore propriamente detto) di una merce prescinde dalla qualità del prodotto e serve a rapportarsi ai valori delle altre merci in modo proporzionale. Alla base del mercato (scambio commerciale di merci) c’è un determinato grado di divisione del lavoro, infatti non tutti producono beni che hanno lo stesso valore d’uso. La società capitalistica è la prima società della storia umana in cui la maggior parte della produzione è di tipo mercantile: nelle società precedenti si producevano soprattutto valori d’uso. Ciò che conta per il capitale non è quindi il valore d’uso di un prodotto – non interessa produrre per il soddisfacimento di bisogni – ma il suo valore di scambio, che lo rende una merce e quindi vendibile, utile per ricavarne profitto. Definiamo la produzione capitalistica come produzione di valori di scambio sotto forma di valori d’uso. 3 4 K. Marx, Manoscritti, cit., Primo manoscritto – cap. Profitto del capitale, all’interno di K. Marx & F. Engels, Opere, vol. III, cit., p. 279. Nel testo originale la citazione di Say è riportata in francese. Si è presentata la traduzione svolta nel volume curato da Nicolao Merker. K. Marx, Il capitale, cit., Sezione prima – Merce e denaro, cap. I – La merce, p. 107. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari III. Teoria del valore-lavoro «Se si eccettua il paragrafo sulla forma valore, non si potrà quindi accusare questo libro di difficoltà di comprensione. Naturalmente, presuppongo lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo, e perciò anche pensare con la propria testa» (Karl Marx)5 «Dunque, il carattere mistico della merce non trae origine dal suo valore d’uso né, tanto meno, dal contenuto delle determinazioni di valore. Infatti, in primo luogo, per diversi che siano i lavori utili o le attività produttive, è una verità fisiologica che essi sono funzioni dell’organismo umano, e che ognuna di tali funzioni, qualunque ne sia il contenuto e la forma, è essenzialmente dispendio di cervello, nervi, muscoli, organi di senso, ecc., umani». (Karl Marx)6 Determiniamo il valore di scambio delle merci: è necessario trovare una qualità comune di tutte le merci in modo che possa essere misurata e quantificata. Dall’economia classica Marx mantiene l’idea che la fonte ultima del valore di scambio di una merce sia il lavoro umano, più precisamente la quantità di lavoro astratto incorporato nelle merci. Le classi dominanti tentano vanamente di confutare questa idea, sottolineando come per la produzione di merci, oltre al lavoro umano, siano necessari anche diversi fattori (materie prime, terreni, macchinari, energia, ecc…). Si può facilmente dimostrare come tutti questi fattori diventino produttivi grazie al frutto di lavoro umano svolto in precedenza: lavoro “cristallizzato”, secondo l’espressione di Marx; perciò risalendo all’origine della produzione si troveranno sempre e solo lavoro umano ed elementi naturali adattati, mediante il lavoro, alle necessità della produzione. Un’ulteriore dimostrazione della validità della teoria del valore-lavoro è la seguente: la merce può nascere solo dal lavoro vivo, perciò tutto ciò che non è prodotto dal lavoro umano non può considerarsi merce. Se, per assurdo, non ci fosse lavoro vivo e la produzione fosse totalmente automatizzata, sarebbe una produzione incapace di creare redditi (nessun salariato interverrebbe nella produzione) e non ci sarebbero più compratori per le 5 6 K. Marx, Il capitale, cit., Prefazione alla prima edizione, p. 74 K. Marx, Il capitale, cit., Sezione prima – Merce e denaro, cap. I – La merce, p. 149. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari merci (che non sarebbero più tali) prodotte. Insieme al lavoro vivo scomparirebbe anche il valore di scambio delle merci. Vediamo ancora un altro elemento a supporto della teoria del valore-lavoro: le merci che scambiamo sul mercato sono eterogenee e diverse. Tra due beni scambiati, ad esempio un abito ed una lezione di pianoforte, non c’è nulla in comune, se non il fatto di essere il prodotto di lavoro umano. Attraverso il commercio non si scambia quindi un bene con un altro, ma il lavoro che è stato necessario a produrli. Il fatto che il valore di scambio sia misurabile attraverso il lavoro umano fa risaltare l’esistenza di un rapporto sociale tra uomini, oltre a ricordare che la merce non è una cosa generica, ma la materializzazione di un rapporto sociale di scambio, il quale non avviene tra merci, ma tra persone in relazione tra loro. Il carattere “feticcio” della merce nasconde la realtà del rapporto sociale tra persone dietro l’apparenza del rapporto tra cose. La natura di “feticcio della merce” è caratteristica del capitalismo, in cui la natura dei rapporti tra produttori non è evidente come invece nel feudalesimo: attraverso la servitù della gleba il servo ha coscienza di quanto tempo lavori per sé e quanto per il feudatario; il lavoro fornito attraverso le corvées ed attuato sui terreni del feudatario o della Chiesa è fisicamente e temporalmente distinto da quello svolto per sé stesso; il proletario ha l’impressione di lavorare solo per sé e non per il suo padrone capitalista. Quando parliamo di lavoro, è il caso di distinguere il “lavoro concreto” (detto anche “lavoro vivo”, umano), volto alla produzione di valore d’uso, dal “lavoro astratto”, che prescinde dagli aspetti qualitativi e determina il valore (di scambio) creato. Il valore della merce dipende quindi dalla quantità di tempo di lavoro astratto sociale medio necessario per produrla, a prescindere dal fatto che il singolo produttore impieghi maggiore o minor tempo: una merce ha quindi valore perché in essa è oggettivato del lavoro umano. Nella determinazione del valore non intendiamo prendere come riferimento una quantità di lavoro individuale, altrimenti si avrebbe il paradosso che un operaio più lento produrrebbe più valore, ma della quantità di lavoro medio “socialmente necessario”, cioè necessario nelle condizioni medie di produttività in una determinata epoca storica e in una determinata zona geografica. Un paio di precisazioni: un’ora di lavoro di un operaio qualificato che ha avuto bisogno di molte ore di apprendistato per specializzarsi vale di più, proporzionalmente alle spese di acquisizione della specializzazione, di un’ora di lavoro di un operaio manovale non qualificato: il medesimo concetto può essere applicato confrontando un segretario a un dirigente. In questa maniera abbiamo ottenuto un valore di scambio legato al tempo di lavoro socialmente necessario alla produzione. Si tratta di un tempo medio: alcuni possono impiegare un tempo maggiore o minore di quello medio in base alla tecnologia di cui dispongono. Il produttore che dispone di una tecnologia arretrata impiega un tempo di lavoro superiore a quello medio, perciò spreca lavoro sociale. Se non riesce ad adeguarsi alla media, questo produttore è destinato ad uscire dal mercato: il suo costo di produzione è maggiore di quello medio, perciò è costretto ad applicare un prezzo di vendita più alto della media, se vuole mantenere lo stesso profitto, oppure a comprimere il proprio profitto mantenendo il prezzo nella media. In casi estremi se il prezzo di vendita è uguale o addirittura minore al costo di produzione, il produttore lavora senza ottenere profitto o addirittura in perdita. Il produttore che dispone di una tecnologia avanzata riesce ad ottenere un sovraprofitto: la differenza tra prezzo di vendita e costo di produzione è superiore al profitto medio. Questo vantaggio può essere sfruttato per ottenere un profitto maggiore, vendendo al prezzo medio, oppure per sottrarre mercato ai concorrenti, potendosi permettere di ottenere lo stesso profitto abbassando il prezzo di vendita. La ricerca del sovraprofitto è il motore dell’economia capitalista: i produttori tendono a raggiungere la produttività più alta. Chi non ce la fa viene espulso dal mercato, si proletarizza, e questo porta ad un innalzamento della media che fa scomparire il sovraprofitto. Dato che con il progresso tecnologico la produttività aumenta e si riesce a produrre una merce in minor tempo, questo si riflette sul valore della merce che tende a diminuire col tempo: è il fenomeno della “svalorizzazione della merce”. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari IV. Circolazione delle merci: da MDM A DMD’ «Quale potere si acquista col capitale? Con l’eredità di una grande fortuna, per esempio? “Chi, per esempio, erediti una grande fortuna non acquista perciò immediatamente e direttamente, è il potere di comprare, cioè un diritto di comando su ogni lavoro altrui o su ogni prodotto di questo lavoro, ch’esista in quel tempo sul mercato” (Smith, […]). Il capitale è, dunque, potere di comando sul lavoro e i suoi prodotti. Il capitalista ha questo potere non per le sue personali o umane qualità, bensì in quanto proprietario del capitale. Il suo potere è il potere di acquisto del suo capitale, cui niente può resistere. Vedremo più tardi, prima, come il capitalista eserciti, per mezzo del capitale, il suo potere di comando sul lavoro, e poi il potere di comando del capitale sul capitalista stesso. Che cosa è il capitale? “Una certa quantità di lavoro accumulato e messo in riserva” (Smith, […]). Il capitale è lavoro accumulato». (Karl Marx)7 Per “realizzare” il valore di scambio di una merce bisogna venderla sul mercato. Per comodità di scambio, superando le scomodità del baratto, è necessaria una rappresentazione comprensibile di quel valore, tramite l’uso di una merce specifica che può essere impiegata come termine di paragone per tutte le altre. Questa merce è il denaro e si comporta come una forma di equivalente generale astratto di tutte le merci. Il valore di scambio di una merce è quindi rappresentato in forma di denaro e viene espresso da un certo prezzo che varia attorno al valore della merce tramite la legge della domanda e dell’offerta. Il denaro si afferma in maniera preponderante quando la produzione di merci diventa caratteristica dominante dell’economia nell’Europa occidentale tra il XVII e il XVIII secolo. La circolazione delle merci è una serie di passaggi di mano fra merce (M) e denaro (D): le merci possono essere scambiate tra loro se hanno lo stesso valore; lo scambio può essere da merce a denaro (M → D, vendita) o viceversa (D → M, acquisto). In una società mercantile tradizionale, la formula degli scambi è MDM, in cui una merce viene scambiata per denaro e quest’ultimo usato per acquistare un’altra merce dello stesso valore di scambio di quella iniziale, ma con qualità (valore d’uso) diversa: è il processo della “metamorfosi della merce”. Si vendono merci possedute in eccedenza per comprare “valore d’uso” che serva a soddisfare un bisogno. Il ciclo MDM può essere diviso nei due momenti di vendita e acquisto: l’inizio del ciclo (vendita) corrisponde alla fine (acquisto) di un ciclo precedente, e viceversa; per chi ha compiuto l’intero ciclo MDM, l’azione finisce con l’acquisto, ma questo suo secondo movimento innesca un nuovo ciclo. Emerge nel mercato la figura del “capitalista”, una persona che non porta merci da vendere, se non quella del denaro. Il capitalista si presenta al mercato e compra per vendere. Se nella società mercantile il senso di ogni operazione è scambiare valori d’uso, per il capitalista lo scambio ha senso solo se alla fine dell’operazione il valore del proprio capitale è maggiore di quello iniziale, cioè ottenendo una “metamorfosi del capitale”, attraverso l’accumulazione e la sua crescita. Nella società capitalista la conversione denaro-merce non è finalizzata al consumo della merce, e quindi al soddisfacimento di bisogni, bensì all’aumento di capitale tramite creazione di profitti per la classe borghese. Una certa quantità di merce (o di capitale) è una ricchezza; questa ricchezza diventa capitale nel momento in cui è capace di crescere. Il capitale è quindi un valore accresciuto da un “plusvalore”; la sua esistenza è plurimillenaria, a 7 K. Marx, Manoscritti, cit., Primo manoscritto – cap. Profitto del capitale, all’interno di K. Marx & F. Engels, Opere, vol. III, cit., pp. 268-269. L’ultima citazione da Adam Smith nel testo originale è in francese. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari differenza del più recente modo di produzione capitalistico. Il modo di produzione capitalistico si fonda sulla tendenza all’accumulazione di capitale e in ragione di ciò diventa la prima forma di organizzazione sociale in cui il capitale penetra nel ciclo economico appropriandosi dei mezzi di produzione. La formula del processo di accumulazione del capitale è DMD’, in cui capitale accresciuto D’ = D (capitale investito) + pv (plusvalore). Se nella società mercantile il denaro è un mezzo, in quanto regolatore dello scambio, in quella capitalista il denaro diventa il fine: si investono sempre maggiori quantità di denaro per fare più denaro. La quantità accresciuta di denaro non può essere spesa (cesserebbe di essere capitale) o tesaurizzata (non potrebbe più accrescersi), perciò deve essere reinvestita rimettendola in circolazione. Il “capitale valorizzato” (la fine del ciclo, MD’) diventa l’inizio di un nuovo ciclo. Il processo di accumulazione si divide nel momento della produzione (DM) e in quello della vendita (MD’). Vedremo ora come il plusvalore si produce nella prima parte del processo, quello della produzione. Non nella vendita, in cui invece il valore non viene creato, ma solo realizzato. V. Lo sfruttamento dei lavoratori Karl Marx, 1866. Fotografia di Av Ukjent «La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merci; è essenzialmente produzione di plusvalore. L’operaio produce non per sé, ma per il capitale. Dunque, non basta che, in generale, egli produca; deve produrre plusvalore. Produttivo è solo il lavoratore che produce plusvalore per il capitalista, cioè che serve all’autovalorizzazione del capitale. […] il concetto di lavoratore produttivo non comprende soltanto un rapporto fra attività e effetto utile, fra lavoratore e prodotto del lavoro, ma include anche un rapporto di produzione specificamente sociale, storicamente nato, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale. Essere operai produttivi non è quindi una fortuna, ma una disgrazia». (Karl Marx)8 8 K. Marx, Il capitale, cit., Sezione quinta – La produzione di plusvalore assoluto e relativo, cap. XIV – Plusvalore assoluto e relativo, p. 658. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari Indaghiamo l’origine del plusvalore (pv = D’-D): non nasce da un ingiustificato aumento di prezzo della merce (venduta ad un valore maggiore di quello reale), ma dall’uso di una merce speciale in grado di produrre più valore di quanto costi. Questa particolare merce è la “forza-lavoro” (capacità di produrre lavoro). Per i propri fini l’ideologia borghese tende a creare una gran confusione tra il concetto di forza-lavoro ed il lavoro stesso. Chiariamo le cose: la “forza-lavoro” indica la capacità (fisica ed intellettuale) di lavorare (produrre merci). Il capitalista non compra “lavoro”, come vuole lasciarci intendere, ma compra la “forza-lavoro”, cioè la generica capacità di lavoro. La produzione capitalistica rappresenta i lavoratori “liberi”: in realtà la differenza dalla schiavitù è che la vendita della forza-lavoro non avviene in un’unica soluzione ma frazionata in porzioni temporali (anni, mesi, giorni o ore) in cambio di un salario. Il capitalista si appropria dunque di lavoro astratto (generica capacità di lavoro) e non di lavoro concreto (già oggettivato in una merce). Apparentemente il capitalista paga quanto corrisponde al lavoro del salariato, ma in realtà retribuisce solo l’uso delle sue capacità di lavoro per un tempo determinato durante il quale ciò che viene prodotto non è affare dell’operaio ma del padrone. La giornata lavorativa si compone di una parte in cui l’operaio lavora per sé (lavoro necessario per il proprio mantenimento) e in una parte (“pluslavoro”) in cui lavora per il suo padrone gratuitamente, venendo pagato solo per la prima parte. Quando il lavoratore produce un valore corrispondente al salario, continua a produrre per il capitalista, producendo il “plusvalore” di cui il capitalista si appropria. Pur essendo prodotto dal lavoratore, il plusvalore è di proprietà del capitalista. L’origine del plusvalore è nel lavoro gratuito prestato dall’operaio. Se nei modi di produzione precedenti al capitalismo è evidente al lavoratore quando non lavora per sé stesso, nel capitalismo l’apparenza è che il salario paghi tutta la giornata lavorativa e che sia il prezzo del lavoro. Sembrerebbe che il rapporto tra capitale e lavoro salariato implichi uno scambio tra equivalenti (lavoro svolto contro salario percepito), ma se il capitalista pagasse l’intero lavoro svolto, non esisterebbe il plusvalore, e quindi il capitale. Il rapporto di produzione tra capitale e lavoro non è basato sullo scambio di un prodotto con denaro, ma sullo scambio di capitale, sotto forma di salario, con la forza-lavoro. Qui risiede la divisione nelle due classi fondamentali della borghesia capitalista e dei proletari, ossia l’essenza dello sfruttamento capitalistico del salariato. VI. L’alienazione Il quadro originale è Burlaki sul Volga di Ilya Repin (1872-1873). A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari «Nella società capitalistica, si produce tempo libero per una classe, trasformando tutto il tempo di vita delle masse in tempo di lavoro». (Karl Marx)9 La vendita della forza-lavoro ci conduce al concetto di alienazione, termine che fa riferimento a qualcosa che è fuori da una comunità e ad un allontanamento. Partiamo da un presupposto: il lavoro è una caratteristica essenziale del genere umano, che lo differenzia dall’animale e gli consente di istituire un rapporto di dominio sulla natura. Il lavoro nell’era capitalistica presenta però conseguenze antropologicamente aberranti. Marx approfondisce il tema dell’alienazione che nel capitalismo nasce dalla frattura tra il produttore e il proprio prodotto. L’operaio è infatti alienato dal prodotto del suo lavoro, in quanto quel prodotto appartiene al capitalista. L’operaio è alienato dalla propria attività: non produce per sé stesso, ma per un altro; il suo lavoro non è libero come quello dell’artigiano, né fantasioso, ma costrittivo: si svolge infatti in un determinato periodo di tempo stabilito da altri. L’operaio è alienato dalla propria stessa essenza, poiché il suo non è un lavoro costruttivo, libero e universale, bensì forzato, ripetitivo e unilaterale. L’operaio è alienato dal suo prossimo, cioè dal capitalista, che lo tratta come un mezzo da sfruttare per incrementare il profitto, il che determina la conflittualità del rapporto. Da un punto di vista più ampio l’economia capitalistica traduce il rapporto tra le persone in modi di sfruttamento. Questa alienazione nel capitalismo non è evidente, come ad esempio nel sistema feudale della corvée, in cui il servo ha ben chiaro quando sta lavorando per sé e quando per il padrone. Il lavoro in fabbrica si spinge a non consentire tempo libero all’operaio, di cui si ricerca la mera sopravvivenza individuale; non è quindi espressione positiva della natura umana. In fabbrica si perde la dimensione della comunità. È l’alienazione dell’essenza sociale. A fronte di tale disumanizzazione prodotta dal capitalismo, il vero obiettivo dei comunisti non può essere il semplice aumento salariale o un generico addolcimento della vita, ma la soppressione dell’origine della vita umana alienata: la proprietà privata. Dalla sua soppressione e dei rapporti sociali che la generano e la tutelano sarà possibile passare alla soppressione di ogni alienazione secondaria. Il comunismo è l’eliminazione dell’alienazione, quindi della proprietà privata, operazione che coincide con il recupero di tutte le facoltà umane e la liberazione dell’essenza umana. È l’esito verso cui procede lo sviluppo storico. VII. La forza-lavoro Karl Marx, 1872. «Il capitale non è dunque solo potere di disporre del lavoro, come dice A. Smith. È essenzialmente potere di disporre di lavoro non pagato. Ogni plusvalore, in qualunque forma particolare di profitto, interesse, rendita, ecc. poi si cristallizzi, è per sua sostanza materializzazione di tempo di lavoro non pagato». (Karl Marx)10 La forza-lavoro è una merce particolare capace di produrre più valore di quanto ne possiede ed il plusvalore è la differenza tra il valore prodotto e il costo della forza-lavoro. 9 10 Ivi, cap. XV – Variazioni di grandezza nel prezzo della forza lavoro e nel plusvalore, p. 682. Ivi, cap. XVI – Diverse formule per il saggio di plusvalore, p. 687. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari Abbiamo visto che il capitalista intasca legalmente questo plusvalore, pur essendo un’estorsione del valore prodotto dall’operaio, perché il proletario è costretto a firmare un contratto in cui vende la forza-lavoro per un prezzo (salario) minore del valore che la sua forza-lavoro è in grado di produrre. Qual è allora il prezzo della forza-lavoro? La forza-lavoro è una merce come tutte le altre e il suo prezzo è determinato secondo le stesse leggi delle altre merci. Come ogni merce, la forza-lavoro vale tanto quanto il lavoro necessario a produrla: per produrre forza-lavoro serve che il proletario sia in grado giorno dopo giorno di poter lavorare. Il valore della forza-lavoro non è altro che la somma delle spese di mantenimento (sussistenza e riproduzione) dell’operaio e della sua famiglia: prezzo del cibo, vestiti, abitazione, formazione professionale e tutto il minimo necessario che occorre al lavoratore per mantenere la propria forza-lavoro. L’operaio in linea di principio non riceverà nulla di superfluo oltre al minimo necessario. Alla borghesia non interessa la vita del singolo operaio e della sua famiglia: si accontenta di impedire l’estinzione della classe operaia, perciò i padroni non si faranno scrupoli a licenziare un operaio costoso per assumerne uno più economico. Il salario può assumere due forme principali: a tempo o a cottimo. Il salario a tempo, la condizione del “precario”, viene corrisposto in base ad una certa quantità di tempo di lavoro (giornaliero, settimanale o mensile). Il prezzo dell’ora lavorativa (prezzo del lavoro) si calcola dividendo il salario giornaliero per le ore lavorative. Per valutare l’entità del salario bisogna riferirsi al salario orario. Il salario a cottimo è corrisposto in base ai pezzi consegnati. Laddove la legge impone limiti orari alla giornata lavorativa, il capitalista usa il sistema del salario a cottimo per sfruttare al massimo e intensificare il lavoro. Questa tipologia si adatta ad una forma di lavoro cosiddetto “autonomo” e dei prestatori d’opera, come l’attuale esercito delle partite Iva. Nel caso del salario a cottimo ogni scusa è buona al capitalista per pagare meno l’operaio; in questo caso il capitalista paga un “tot” all’operaio principale (capo-gruppo) e sta a quest’ultimo valutare di quanti operai aiutanti ha bisogno e quanto pagarli: con questo meccanismo, che crea uno strato intermedio detto “aristocrazia operaia”, lo sfruttamento tra capitalista e lavoratore viene occultato dallo sfruttamento del lavoratore sul lavoratore, sviluppando uno spirito individualista e un’intensificazione della concorrenza tra operai. L’operaio si illude di vendere al capitalista il prodotto finito – ha l’impressione che il salario paghi il lavoro – mentre quello che continua a vendere è sempre e solo la propria forza-lavoro. Piccola digressione sull’inflazione: la borghesia si oppone all’aumento dei salari perché questo porterebbe all’inflazione (aumento dei prezzi delle merci). Marx fa notare l’assenza di un rapporto diretto tra l’aumento dei salari e l’inflazione: semplicemente se aumentano i salari diminuisce il plusvalore, cioè il guadagno del capitalista. Il valore della forza-lavoro varia da paese a paese e da periodo a periodo. Questo dipende sia dal fatto che i bisogni degli operai sono diversi (storicamente e socialmente determinati), ma anche dalla tendenza a calare del prezzo del “paniere” di beni necessari (svalorizzazione della merce). Mediamente il capitalista che acquista forza-lavoro per produrre e vendere merci lo fa per appropriarsi del plusvalore e vivere da parassita, non certo perché è un benefattore interessato a soddisfare bisogni sociali. Parte del plusvalore serve al mantenimento del parassita capitalista e la restante parte viene reinvestita nella produzione. La ricchezza crescente dei capitalisti proviene dal lavoro non pagato agli operai e trasformato in proprietà privata della classe borghese che sfrutta il proletariato. Nel modo di produzione capitalistico il processo di produzione si sdoppia in processo di lavorazione e processo di valorizzazione del capitale. Il processo di lavorazione non è rivolto alla produzione di valori d’uso, ma alla valorizzazione del capitale tramite il consumo della merce forza-lavoro. Questa duplicità non è una legge universale ma è una caratteristica intrinseca del capitalismo, anche se l’ideologia della classe borghese tende ad unificare i due aspetti dichiarandone l’universalità. Nel capitalismo tutto è trattato come una merce, compresa la forza-lavoro, quindi anche le persone che sono costrette a venderla. Il rapporto sociale esistente tra gli uomini (tra le classi sociali) si traveste da rapporto sociale tra cose (merci). A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari VIII. Composizione di valore del capitale e della merce «I mezzi di produzione trasmettono valore alla nuova forma del prodotto solo in quanto, nel corso del processo lavorativo, perdono valore nella forma dei propri valori d’uso originari. […] Ne segue che i mezzi di produzione non possono mai aggiungere al prodotto più valore di quanto ne posseggono indipendentemente dal processo lavorativo al quale servono. Per quanto utile, un materiale da lavoro, una macchina, un mezzo di produzione […] il suo valore è […] determinato non dal processo di lavoro nel quale entra come mezzo di produzione, ma da quello dal quale è uscito come prodotto». (Karl Marx)11 Durante la giornata lavorativa, in cui il capitalista consuma il valore d’uso della forza-lavoro acquistata, il proletario compie “lavoro”, necessario a riprodurre il valore del proprio salario, e “pluslavoro”, lavoro in più prestato gratuitamente nonché fonte del “plusvalore”, che apparterrà al capitalista, che avendo comprato la forzalavoro ha diritto al possesso del prodotto della stessa. Indicando con L la quantità di lavoro giornaliera e con V il salario, il capitalista otterrà un plusvalore “pv = L – V”. Definiamo il capitale investito (K) dividendolo tra costante – C, rappresentato dai mezzi di produzione e materie prime, definito anche lavoro morto – e variabile – V, salario, ovvero prezzo della forza-lavoro. Dai nomi dati è evidente che il primo trasferisce (senza cambiare) il proprio valore in quello della merce, mentre il secondo aumenta entrando nel valore della merce: è quindi quello che crea plusvalore, grazie alla proprietà della speciale merce forza-lavoro. Nella merce finale vengono trasferiti il valore del capitale costante C e del lavoro L (che comprende il salario V e il plusvalore Pv). In formula definiamo il valore della merce: “M = C + L = C + V + pv = K + pv”. Il plusvalore è quindi l’unica fonte di profitto, l’elemento che permette l’accumulazione di capitale; perciò il capitalista cercherà in tutti i modi di ottenere un plusvalore sempre maggiore. Questa è la radice dello sfruttamento insito nel capitalismo. Chi è quindi il lavoratore produttivo? È colui che con la sua attività produce plusvalore per il capitalista. Questo concetto implica l’esistenza di un rapporto di produzione specifico che trasforma il lavoratore in uno strumento immediato di valorizzazione del capitale. Sono lavoratori produttivi coloro che producono merci (ribadiamo: per merce si intende un bene, materiale o immateriale, o un servizio), mentre non lo sono altre figure lavorative, anche se interne ad un’azienda. Queste figure improduttive sono ad esempio funzionari amministrativi, contabili, consulenti, ecc., e rimangono improduttive anche se vengono svolte autonomamente da aziende dedicate (esternalizzazione). Il fatto che alcune figure lavorative non siano produttive non vuol dire che non siano utili per il capitale, o che non siano sfruttate. Lo sfruttamento di questi lavoratori non si basa sulla produzione di plusvalore, ma sul risparmio del plusvalore di cui permettono o facilitano la realizzazione; ad esempio: meno viene pagato un commesso in un negozio, maggiore è la parte di plusvalore che andrà nelle tasche del capitalista. Il capitalista industriale divide il suo plusvalore con altri capitalisti che svolgono funzioni diverse nella produzione sociale: banchieri, capitalisti commerciali, percettori di rendita fondiaria, ecc... 11 K. Marx, Il capitale, cit., Sezione terza – La produzione del plusvalore assoluto, cap. VI – Capitale costante e capitale variabile, p. 305. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari IX. Il saggio di sfruttamento «La ricostituzione dei capitali dei capitalisti dipende soprattutto dalla capacità di consumo delle classi non produttive; mentre la capacità di consumo dei lavoratori è limitata in parte dalle leggi del salario, in parte dal fatto che essi vengono impiegati soltanto fino a quando possono essere impiegati con profitto per la classe dei capitalisti. La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre da un lato la povertà delle masse, dall’altro l’impulso del modo di produzione capitalistico a sviluppare le forze produttive come se la capacità di consumo assoluta della società ne rappresentasse il limite». (Karl Marx)12 Chiariti i concetti generali possiamo approfondire lo studio del capitalismo analizzando la produzione di plusvalore, entrando nel segreto laboratorio della produzione, sulla cui soglia sta scritto “divieto di accesso ai non addetti ai lavori”. Il punto di partenza è la giornata lavorativa, composta dal lavoro necessario alla riproduzione del salario e dal pluslavoro (incamerato dal capitalista). Abbiamo già visto come l’operaio durante la giornata produca più valore di quello che è il suo compenso, perciò se per una parte della giornata lavora per sé, dopo aver lavorato abbastanza da ripagarsi il salario, per la restante parte della giornata lavora per il capitalista. Definiamo ora il “saggio di sfruttamento” (ss, detto anche “saggio di plusvalore”) come il rapporto tra plusvalore prodotto e capitale variabile investito (valore del salario): ss = pv / V L’ingordo capitalista tende in tutti i modi ad accrescere l’accumulazione di capitale, aumentando la produzione di profitto e quindi incrementando ss. Ciò può avvenire in due modi, spesso combinati: allungando la giornata lavorativa (“plusvalore assoluto”) oppure riducendo il lavoro necessario (“plusvalore relativo”, ottenuto con salari più bassi). In entrambi i casi è importante tenere conto delle condizioni storiche e dei rapporti di forza all’interno della lotta di classe tra capitalisti e operai. Marx definisce la subordinazione della forza-lavoro al capitale come “sussunzione formale” (allungamento del tempo di lavoro) o “sussunzione reale” (trasformazione delle condizioni di lavoro). Per la produzione di plusvalore assoluto il capitalista prolunga la giornata di lavoro, ma questo metodo incontra un limite naturale: la giornata lavorativa non può andare oltre le 24 ore, dalle quali si deve sottrarre il tempo necessario per soddisfare i bisogni primari dell’operaio quali dormire, mangiare, ecc. Per superare il limite del pv assoluto, a parità di lunghezza della giornata lavorativa, il capitalista potrà estrarre maggior plusvalore relativo riducendo il lavoro necessario rispetto al pluslavoro. Ciò vuol dire: abbassamento del salario! Il salario comprende i costi di mantenimento del lavoratore. Il suo valore varia in base a diversi fattori, ad esempio la legge della domanda e dell’offerta, oppure i rapporti di forza e le conquiste dei lavoratori ottenuti tramite le lotte sociali e sindacali. Un ulteriore fattore permette l’abbassamento del salario: abbiamo già accennato che, con l’aumento della produttività, le merci (comprese quelle che il lavoratore consuma) tendono a svalorizzarsi: col tempo il lavoratore ha bisogno di un salario sempre minore per comprare le stesse merci che prima pagava di più; certo, col tempo i bisogni del lavoratore aumentano, perciò nel suo “paniere” entrano merci che prima non c’erano. Analizzando la produzione 12 K. Marx, Il capitale. Libro terzo, cap. 5, III, all’interno di K. Marx, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti a cura di Vladimiro Giacché, Derive Approdi, Roma 2009, p. 87. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari di plusvalore relativo si osserva che questa avviene potenziando la forza produttiva del lavoro, in particolare nei settori che producono beni legati alla sussistenza del lavoratore e quindi al valore della forza-lavoro. Il capitale tende a produrre la singola merce nel minor tempo possibile: se questo tempo è inferiore alla media dei suoi concorrenti, il valore individuale della merce da lui prodotta sarà inferiore a quello sociale medio della merce. Questo permette di venderla allo stesso prezzo dei concorrenti, ottenendo un plusvalore maggiore (profitti immediati) o di venderla a prezzo minore per togliere quote di mercato alla concorrenza (profitti futuri). In entrambi i casi il capitalista realizza un sovraprofitto dovuto a condizioni eccezionali del suo processo produttivo, che però deve mirare all’eternità: secondo la legge della concorrenza per rimanere sul mercato i capitali devono adeguarsi alle nuove condizioni di produzione, introducendo le innovazioni tecniche. I capitali più deboli che non riescono ad adeguarsi vengono espulsi dal mercato, periscono o vengono assorbiti dai capitali più forti. Il valore sociale della merce tende ad allinearsi verso il basso a quello individuale della merce prodotta dal capitale innovativo. Sparisce il sovraprofitto. Quando il processo generato dalla concorrenza interessa i settori che producono merci destinate al consumo di massa, diminuisce il tempo di lavoro necessario, permettendo quindi l’estrazione di maggior plusvalore relativo. X. La cooperazione nella divisione del lavoro «La forma del lavoro di molte persone operanti secondo un piano l’una accanto e insieme all’altra in un medesimo processo di produzione, o in processi produttivi diversi ma reciprocamente collegati, si chiama cooperazione. […] Nel collaborare con altri secondo un piano, l’operaio si spoglia dei propri limiti individuali e sviluppa le proprie facoltà di specie». (Karl Marx)13 Una volta che il capitale è cresciuto a sufficienza, il capitalista assume nuovi operai per lavorare in cooperazione. Il lavoro sociale (“cooperazione manifatturiera”) si basa sulla riunione di molti operai nello stesso luogo fisico di lavoro. Ciò permette una migliore economia nell’uso dei mezzi di produzione, ammortizzandone i costi e determinando un’ulteriore riduzione del valore (e quindi del prezzo) delle merci prodotte. La produttività aumenta grazie all’impiego simultaneo di molte giornate lavorative (“operaio complessivo”) che, combinate, possono produrre più della somma di tante forza-lavoro indipendenti. Il capitalista svolge funzioni di controllo, direzione e coordinamento dell’attività produttiva, imponendo una rigida disciplina alla massa dei lavoratori. La cooperazione manifatturiera si basa sulla divisione del lavoro: un mestiere artigiano viene sezionato in operazioni parziali affidate al singolo operaio, che dovrà eseguire sempre e solo la stessa operazione elementare. Il vantaggio del capitalista sta nell’aumentare l’intensità e la precisione del lavoro e riducendo i tempi morti e gli sprechi, guadagnando un significativo aumento della produttività. L’operaio non è più autonomo, ma è dipendente dagli altri e diventa come loro un accessorio al servizio dei mezzi di produzione. Questo lo costringe ad impiegare solo il tempo necessario per consegnare una determinata quantità di prodotti entro un determinato tempo di lavoro. Il singolo operaio non deve più imparare un mestiere completo, ma solo una parte, perciò il costo della sua formazione è minore, come sarà minore il suo salario... ancora una volta sarà maggiore il 13 K. Marx, Il capitale. Libro primo, cit., Sezione quarta – La produzione del plusvalore relativo, cap. XI – Cooperazione, p. 449, 454. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari plusvalore relativo estratto dal capitalista. Il padrone può assumere operai senza abilità, disposti a guadagnare pochissimo. La divisione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale si approfondisce: l’operaio parziale diventa un semplice accessorio dell’officina, perdendo la parte di intellettualità di cui era depositario culturalmente e praticamente l’artigiano. L’officina si basa sull’ignoranza e può essere considerata come una macchina le cui parti sono uomini. La divisione del lavoro è quindi un metodo di produrre plusvalore relativo accrescendo la “ricchezza nazionale” (“rendita del capitale”) a spese di lavoratori sempre più sfruttati. La situazione creata dalla divisione del lavoro assicura sempre più la dominazione del capitale. La caratteristica del capitalismo è l’aumento progressivo del numero minimo degli operai che un capitalista deve impiegare in un certo settore; con lo sviluppo capitalistico di un certo settore diventa sempre più difficoltoso l’ingresso di nuovi produttori, anzi si tende ad espellere quelli più deboli. Quando la manifattura si è sviluppata al massimo viene introdotta la macchina, che apre allo sviluppo della grande industria (metà XIX secolo). XI. Uso capitalistico delle macchine Scena di Tempi moderni di Charlie Chaplin. «La lotta fra capitalista e operaio salariato comincia con lo stesso rapporto capitalistico, e continua a divampare per tutto il periodo manifatturiero. Ma solo da quando è introdotto il macchinismo l’operaio combatte lo stesso mezzo di lavoro, il modo di esistere materiale del capitale: si rivolta contro questa forma determinata del mezzo di produzione come base materiale del modo di produzione capitalistico». «È innegabile che le macchine in sé, non sono responsabili della liberazione degli operai dai mezzi di sussistenza. Esse rendono più a buon mercato e aumentano il prodotto nel ramo del quale si impadroniscono e, a tutta prima, lasciano invariata la massa di mezzi di sussistenza prodotti in altri rami d’industria. […] Le contraddizioni e gli antagonismi inseparabili dall’impiego capitalistico delle macchine non esistono, perché hanno origine non dalle stesse macchine, ma dal loro impiego capitalistico! Visto dunque che le macchine prese a sé abbreviano il tempo di lavoro, mentre usate capitalisticamente prolungano la giornata lavorativa; visto che prese a sé alleviano il lavoro, ma usate capitalisticamente ne accrescono l’intensità; visto che prese a sé rappresentano una vittoria dell’uomo sulla forza della natura, mentre usate capitalisticamente soggiogano l’uomo con la forza della natura; visto che prese a sé aumentano la ricchezza del produttore, mentre usate capitalisticamente lo pauperizzano ecc., l’economista borghese dichiara semplicemente che la considerazione delle macchine in sé prova con esattezza matematica che tutti quei tangibili antagonismi sono una pura apparenza della comune realtà, mentre in sé, quindi anche nella teoria, non esistono affatto. Così egli si risparmia un ulteriore sforzo cerebrale, e per giunta accolla al suo avversario la dabbenaggine di combattere non l’impiego capitalistico delle macchine, ma le macchine stesse». (Karl Marx)14 Le macchine utensili e le macchine motrici trasformano la fabbrica in un unico grande automa che rende possibile lo sviluppo della grande industria, libera dai limiti della forza muscolare dei lavoratori. Con la grande industria si sviluppano i mezzi di comunicazione e di trasporto che permettono la costruzione del mercato mondiale. L’uso capitalistico delle macchine non è orientato ad alleviare le fatiche del lavoratore, ma ad aumentarne lo sfruttamento. Lo scopo finale è aumentare 14 K. Marx, Il capitale, cit., Sezione quinta – La produzione del plusvalore relativo, cap. XIII – Macchine e grande industria, pp. 567-568, 583-584. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari la produttività, quindi far diminuire il valore (e il prezzo) delle merci e dei salari: è un modo per ottenere plusvalore relativo. Le macchine e l’automazione entrano nel processo produttivo per massimizzare lo sfruttamento di forza-lavoro. Nella grande industria non è più l’operaio ad usare il suo attrezzo, ma sono le macchine a servirsi dell’operaio. L’operaio è subordinato alla macchina e ai suoi tempi: nella fabbrica viene creato un regime disciplinare da caserma, imponendo ritmi serrati e punendo con ammende e ritenute sul salario gli indisciplinati. Il potere politico della classe borghese permette ai capitalisti di legiferare arbitrariamente a proprio piacimento. In fabbrica la legge la fa il padrone. Le macchine, a differenza della forza-lavoro, non producono valore, ma si limitano a cedere alla merce il loro valore, cioè il tempo di lavoro che è stato necessario alla loro produzione. Il valore del macchinario tende a diminuire grazie alla produzione di macchine sempre più economiche attraverso l’uso di altre macchine. Dal momento che la produttività della macchina viene misurata dal numero di operai che sostituisce, la convenienza del suo impiego è legata al risparmio di forza-lavoro, perciò il fattore decisivo per l’introduzione di una macchina nella produzione è la differenza tra il prezzo della macchina e il prezzo (salario) degli operai che sostituisce. Se il salario scende al di sotto del valore della forza-lavoro è superfluo e inutile per il capitalista introdurre macchine. L’introduzione delle macchine porta ad avere un valore complessivo inferiore, perché gli operai sostituiti producevano plusvalore e la macchina no. Come cambia la classe operaia in seguito all’introduzione delle macchine? Se prima era necessaria la forza muscolare di uomini adulti, ora è sufficiente una forza fisica minore, come quella di donne e bambini (sottratti allo studio e condannati ad un’intera vita di sfruttamento). Quando abbiamo definito il valore della forza-lavoro, è stato detto che il salario dell’operaio deve essere sufficiente al mantenimento della sua famiglia. Con l’ingresso nella classe operaia delle donne e dei bambini il numero dei lavoratori in famiglia aumenta; questo dà la possibilità al capitalista di ridurre ulteriormente i salari. Il padrone adesso può sfruttare la forza-lavoro di un’intera famiglia pagandola all’incirca lo stesso salario che prima era corrisposto per il solo maschio adulto. Se prima l’operaio era costretto a vendere la propria forza-lavoro, adesso è costretto a vendere quella di tutta la famiglia. Un gioco questo ripetuto dalla borghesia a fine ‘900, torcendo il femminismo moderno in senso “liberal” e mettendo in sordina il femminismo di impronta sociale anticapitalista... L’uso delle macchine determina anche il prolungamento della giornata lavorativa. L’innovazione tecnologica le rende presto obsolete, perciò per ottimizzare la resa delle macchine il capitalista le utilizza il più intensamente possibile per ridurne i costi di ammortamento: si abbattono anche i costi fissi generali che vengono ora distribuiti su una massa di tempo lavorato e di prodotto più grandi. I ritmi di lavoro sono intensificati al massimo e il lavoro viene prolungato fino ad introdurre i turni notturni per mantenere attiva la produzione 24 ore al giorno. La diminuzione del valore individuale delle merci prodotte con le nuove macchine al di sotto del loro valore sociale (medio) fa sì che il capitalista cerchi di sfruttare la situazione di vantaggio finché dura. La macchina è il mezzo oggettivo per “mungere” al lavoratore nello stesso tempo una quantità di lavoro più grande. Ciò avviene mediante l’aumento della velocità delle macchine e anche con l’aumento delle macchine che il singolo operaio deve controllare. Con le macchine aumenta il saggio di plusvalore (sfruttamento dei singoli operai), ma diminuisce il loro numero per unità di capitale. Nonostante l’aumento dello sfruttamento, il plusvalore prodotto dagli operai rimasti non eguaglia quello totale degli operai che lavoravano prima; si determina così la tendenza a compensare la riduzione del numero degli operai con l’aumento della giornata lavorativa: oltre all’aumento di plusvalore relativo aumenta anche quello assoluto. L’allungamento dell’orario di lavoro porta al rallentamento della crescita del rapporto capitale/lavoro, quindi dopo un periodo di corsa all’innovazione tecnologica si assiste ad un uso più intensivo del capitale umano e ad una decelerazione nell’aumento di produttività. Questo conferma quanto l’introduzione della tecnologia sia legata ai livelli salariali e al risparmio di lavoro necessario che permette di realizzare. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari XII. La disoccupazione «Il capitale non si dà pensiero della durata di vita della forza lavoro; ciò che unicamente lo interessa è il massimo che ne può mettere in moto durante una giornata lavorativa. Ed esso raggiunge lo scopo abbreviando la durata in vita della forza lavoro, così come un rapace agricoltore ottiene dal suolo un maggior rendimento depredandolo della sua fertilità naturale. La produzione capitalistica […] produce quindi col prolungamento della forza lavoro umana, che deruba delle sue condizioni normali, morali e fisiche, di sviluppo e d’autoesplicazione, ma il precoce esaurimento e la prematura estinzione della forza lavoro stessa: allunga per un certo periodo il tempo di produzione dell’operaio abbreviandone il tempo di vita […] Après moi le déluge!15 è il motto di ogni capitalista come di ogni nazione capitalistica. Perciò il capitale non ha riguardi per la salute e la durata in vita dell’operaio, finché la società non lo costringa ad averne». (Karl Marx)16 Poster sovietico tradotto. I diversi metodi di estrazione di un plusvalore sempre maggiore portano all’espulsione di lavoratori dal processo produttivo, sostituiti dalle macchine o dall’aumento dello sfruttamento dei lavoratori rimasti. Questo vuol dire che la quantità totale di plusvalore prodotto potrebbe decrescere. La massa di proletari disoccupati va a formare l’esercito industriale di riserva. L’esercito dei disoccupati è una condizione necessaria di esistenza del modo di produzione capitalistico. Il capitale ha interesse a sfruttare il più possibile il lavoratore già impiegato, piuttosto che procedere all’assunzione di altri lavoratori: la maggiore domanda di lavoro da parte del capitale non si concretizza in un aumento della richiesta di lavoratori, ma in un aumento di lavoro straordinario per la parte occupata. L’offerta di lavoro dei disoccupati aumenta la pressione sugli occupati ad accettare, sotto il ricatto di essere facilmente sostituiti, il lavoro straordinario e la diminuzione del salario. Questa situazione è molto utile ai capitalisti, che dispongono da una parte di lavoratori costretti a farsi iper-sfruttare (se il salario è più basso, l’operaio ha bisogno di lavorare di più), dall’altra di disoccupati pronti a lavorare per un salario sempre più misero. La classe borghese sfrutta abilmente questa situazione per diffondere la propria ideologia anche tra i proletari: una falsa coscienza che scatena una guerra fra poveri, mettendo contro lavoratori e disoccupati, che si fanno vicendevolmente concorrenza. Questo provoca divisioni nella classe dei proletari rendendo difficile l’acquisizione di coscienza e di solidarietà di classe, allontanando così l’unità della classe proletaria e la sua organizzazione conflittuale contro la classe borghese. Anche qualora le classi subalterne dovessero trovare l’unità promuovendo rivolte operaie, non dobbiamo dimenticare che la borghesia dispone della forza materiale dello Stato per schiacciare le rivolte. Quando apparvero le prime macchine, tra gli operai si sviluppò il movimento dei luddisti che le distruggevano, individuandole come la causa della loro miseria. 15 16 “Dopo di me il diluvio”. K. Marx, Il capitale, cit., Sezione terza – La produzione del plusvalore assoluto, cap. VIII – La giornata lavorativa, pp. 375, 380. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari I luddisti sono stati considerati nel Manifesto del Partito Comunista come dei “socialisti reazionari”. I comunisti ritengono che non siano le macchine in sé a causare il peggioramento delle condizioni degli operai, ma il loro uso capitalistico mirante allo sfruttamento dei lavoratori, peggiorandone le condizioni di vita e generando precarietà. La macchina di per sé facilita il lavoro umano permettendo di lavorare meno. Ancora una volta è chiaro come la causa dello sfruttamento del proletario stia nel modo di produzione capitalistico, basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sul lavoro salariato: bisogna assumere il controllo delle forze produttive fondamentali, delle “macchine” più importanti, e metterle al servizio di tutta la società, e non solo di una sua minoranza opprimente. Il proletario non deve più essere costretto a vendere la propria dignità per sopravvivere. XIII. Lo sviluppo delle forze produttive Poster sovietico, 1941. Testo modificato. «Come la riproduzione semplice riproduce costantemente lo stesso rapporto capitalistico, capitalisti da un lato e salariati dall’altro, così la riproduzione su scala allargata, l’accumulazione, riproduce il rapporto capitalistico su scala allargata. […] Come nella religione l’uomo è dominato dall’opera della sua testa, così nella produzione capitalistica lo è dall’opera della propria mano». (Karl Marx)17 Secondo Marx la base della grande industria è rivoluzionaria, nel senso che si fonda sul continuo mutamento delle condizioni della produzione. Per ottenere un’accumulazione sempre maggiore, il capitalista tende a sviluppare al massimo le forze produttive, determinando così la base reale di una società più evoluta il cui principio sia il libero e pieno sviluppo di ogni individuo. Il lato progressivo del ruolo della classe borghese consiste quindi nel produrre le condizioni materiali che rendono possibile e necessaria la trasformazione sociale. L’attuazione di questo processo può avvenire solo nel momento in cui la classe lavoratrice conquista il potere politico: questa è la condizione indispensabile per le trasformazioni economiche e sociali. Lo sviluppo delle contraddizioni intrinseche del capitalismo ha quindi una natura progressiva. 17 K. Marx, Il capitale, cit., Sezione settima – Il processo di accumulazione del capitale, cap. XXIII – La legge generale dell’accumulazione capitalistica, pp. 782, 791. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari XIV. Legge generale dell’accumulazione capitalista «se una sovrapopolazione operaia è il prodotto necessario dell’accumulazione o dello sviluppo della ricchezza su base capitalistica, questa sovrapopolazione diventa inversamente la leva dell’accumulazione capitalistica, anzi una delle condizioni di esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa forma un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera assoluta come se fosse stato allevato a sue spese; crea per le sue mutevoli esigenze di valorizzazione il materiale umano sfruttabile sempre pronto indipendentemente dai limiti del reale incremento demografico. […] L’intera forma di movimento dell’industria moderna nasce dunque e si sviluppa dalla costante conversione di una parte della popolazione operaia in braccia disoccupate o semi-occupate. […] perfino l’economia politica vede nella produzione di una sovrapopolazione relativa, cioè eccedente il bisogno medio di valorizzazione del capitale, una condizione di vita dell’industria moderna». (Karl Marx)18 Marx identifica i fattori che incidono sulla classe lavoratrice. Questa legge afferma che quanto più è grande la ricchezza sociale (grandezza e capacità d’accrescimento del capitale) tanto più grande è la forzalavoro disoccupata e l’esercito industriale di riserva. La vita dei lavoratori diventa sempre più precaria e legata al capitale. Si definisce il livello di “composizione organica di capitale” (co), che è legato al rapporto tra quantità di mezzi di lavoro impiegati (capitale costante, C) e numero di lavoratori addetti (capitale variabile, V): co = C / V Ovviamente aziende di settori diversi hanno una composizione organica diversa, ma è possibile ricavare una media che fornisce un’idea della composizione organica esistente in una determinata società. Oggi la legge generale dell’accumulazione viene messa in dubbio a causa della diminuzione in termini assoluti del numero della classe operaia dell’industria (dimenticando che i lavoratori salariati aumentano, specie nel settore dei servizi) e del mancato impoverimento dei lavoratori nei paesi “avanzati” (in realtà il salario aumenta meno di quanto aumentano i profitti). La validità della legge è confermata dall’estensione a livello mondiale della divisione della popolazione nelle due classi principali del modo di produzione capitalistico (capitalisti e salariati), dalla preponderanza del lavoro salariato nei paesi avanzati, dalla riduzione delle “classi medie” (ridotte ad appendici del grande capitale) e dall’aumento della polarizzazione sociale, cioè dell’aggravamento delle differenze di classe: una minoranza sempre più piccola si arricchisce, la maggioranza si impoverisce. 18 K. Marx, Il capitale, cit., Sezione settima – Il processo di accumulazione del capitale, cap. XXIII – La legge generale dell’accumulazione capitalistica, pp. 805-807. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari XV. Dalla concorrenza ai monopoli «L’aumento dei capitali, che alza il salario, tende a diminuire il profitto dei capitalisti attraverso la concorrenza fra loro. […] la concorrenza è, così, l’unico ausilio contro i capitalisti: la concorrenza che, secondo la dichiarazione dell’economia politica, influisce tanto beneficamente sia sull’aumento del salario che sul buonmercato delle merci, a favore del pubblico che consuma. Ma la concorrenza è possibile solo in quanto i capitali aumentino, e in verità in molte mani. La formazione di molti capitali è possibile solo mercé una molteplice accumulazione, ché il capitale in genere si forma soltanto con l’accumulazione, e l’accumulazione molteplice si converte necessariamente in accumulazione unilaterale. La concorrenza fra capitali aumenta l’accumulazione di capitali. L’accumulazione che è sotto il dominio della proprietà privata, concentrazione del capitale in poche mani, è in genere una necessaria conseguenza quando i capitali sono abbandonati al loro corso naturale, e attraverso la concorrenza questa disposizione naturale del capitale tanto più si apre via libera. […] un grosso capitale si accumula, dunque, in proporzione alla sua grandezza, più rapidamente di un piccolo capitale. […] Con l’aumento dei capitali diminuiscono, per via della concorrenza, i profitti degli stessi. Ne soffre, dunque, anzitutto, il piccolo capitalista. […] Ancora: il grosso capitalista compra sempre più a buon mercato del piccolo, perché compra in blocco, e può dunque vendere senza danno più a buon mercato. […] Quando, dunque, come avviene nel presupposto stato di forte concorrenza, si contrappongono a questo grosso capitale piccoli capitali con piccoli profitti, esso li schiaccia completamente. L’inevitabile ulteriore conseguenza di questa concorrenza: il generale peggioramento delle merci, la loro contraffazione, la produzione apparente, il generale attossicamento, come si vede nelle grandi città». (Karl Marx)19 In regime di concorrenza, che è il modo di funzionamento del capitalismo nella sua prima fase storica, per aumentare la produttività si tende ad usare mezzi di produzione sempre più tecnologici. L’inserimento di macchine sempre più tecnologiche porta all’aumento della composizione organica di capitale: aumenta il capitale costante investito rispetto a quello variabile. Emerge la necessità di aumentare le dimensioni dell’azienda e dei capitali investiti. Per effetto della concorrenza si realizza la concentrazione di capitale nelle mani dei grandi imprenditori che espellono 19 K. Marx, Manoscritti, cit., Primo manoscritto – cap. L’accumulazione dei capitali e la concorrenza fra i capitalisti, all’interno di K. Marx & F. Engels, Opere, vol. III, cit., pp. 273-275. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari i piccoli dal mercato o dei piccoli che si uniscono in processi di merger & acquisition (fusione e acquisizione) per evitare di essere espulsi dal mercato. Le fusioni permettono di disporre di un capitale maggiore e anche di realizzare risparmi sui costi fissi: partono le “razionalizzazioni” della struttura delle aziende coinvolte, che eliminano i doppioni (tagli al personale!). Si può notare come la concentrazione di capitali sia maggiore nei settori industriali in cui è maggiore la composizione organica del capitale, cioè dove i mezzi di produzione sono più costosi. Un’altra leva per la centralizzazione dei capitali è il sistema del credito, tramite cui le banche rastrellano il risparmio sociale per fornire agli imprenditori i capitali necessari. La centralizzazione dei capitali crea i monopoli. A causa della concorrenza la parte più debole della borghesia viene espulsa dal mercato e si proletarizza, mentre il capitale si concentra nelle mani di un gruppo sempre più ristretto di borghesi. La concorrenza attua la propria metamorfosi, trasformandosi nel suo contrario: il monopolio. Questo accade già sul finire del XIX secolo. Quando un settore è monopolizzato accade che i prezzi non calano anche se cala il valore delle merci. XVI. La globalizzazione imperialista «il commercio estero agisce nel senso di elevare il saggio di profitto, aumentando il saggio di plusvalore e diminuendo il valore del capitale costante. Agisce, in generale, in questo senso perché consente di allargare la scala della produzione. Così, da un lato, accelera l’accumulazione, ma dall’altro accelera anche la diminuzione del capitale variabile rispetto al costante, e perciò la caduta del saggio di profitto. L’espansione del commercio estero, che durante l’infanzia del modo di produzione capitalistico ne costituiva la base, nel corso ulteriore di sviluppo di questo modo di produzione ne è inoltre divenuto, per la sua necessità intrinseca, per il suo bisogno di un mercato sempre più vasto, lo specifico prodotto. […] I capitali investiti nel commercio estero possono fornire un più alto saggio di profitto perché, prima di tutto, qui si è in concorrenza con merci prodotte da paesi con minori facilità di produzione, cosicché il paese più progredito vende le proprie merci al disopra del loro valore, benché più a buon mercato che i paesi concorrenti. […] Per quanto, d’altro lato, riguarda i capitali investiti in colonie, etc., essi possono fornire saggi di profitto più alti, perché ivi il saggio di profitto è più elevato a causa del basso sviluppo industriale e, grazie all’impiego di schiavi, coolies, etc., vi è anche più elevato lo sfruttamento del lavoro». (Karl Marx)20 20 K. Marx, Il capitale. Libro terzo, Parte Prima, Sezione terza – Legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, cap. XIV – Cause contrastanti – 5. Il commercio estero, Utet, Torino 2009 [1° ed. 1987, a cura di Bruno Maffi], pp. 304-305. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari Il capitalismo nel suo stadio monopolista diventa imperialismo, categoria ripresa successivamente dalla socialdemocrazia della II Internazionale, Lenin compreso. Nell’imperialismo il capitale finanziario, integrazione di capitale industriale e capitale bancario, rappresenta il settore dominante del capitale contemporaneo. L’imperialismo si estende al mondo intero attraverso il colonialismo e le esportazioni di capitali che vanno a creare imprese capitalistiche in paesi o settori non ancora monopolizzati. È questo il motore della formazione di un mercato mondiale, che sfocia nel fenomeno, esploso dopo la caduta del muro di Berlino, della cosiddetta globalizzazione, che Marx aveva preconizzato. La fase imperialista del capitalismo è caratterizzata dalla corsa alla spartizione dei mercati esteri e delle materie prime, anche e soprattutto tramite guerre di aggressione. L’intensificarsi degli scambi internazionali, lo sviluppo dei mezzi di comunicazione, della grande industria e della finanza sono le cause del fenomeno della mondializzazione, cioè della costruzione di un mercato unico globale che permette l’affermazione su scala planetaria del modo di produzione capitalistico. XVII. Caduta tendenziale del saggio di profitto Sul potere di consumo della società: «non è determinato né dalla forza produttiva assoluta, né dal potere assoluto di consumo, bensì dal potere di consumo sulla base di rapporti di distribuzione antagonistici, che riduce il consumo delle grandi masse della società ad un minimo variabile solo entro confini più o meno ristretti. È inoltre limitato dalla spinta all’accumulazione, all’aumento del capitale e alla produzione di plusvalore su scala allargata. […] Il mercato deve perciò essere costantemente allargato, cosicché i suoi nessi interni e le condizioni che li regolano assumono sempre più la forma di una legge naturale indipendente dai produttori, diventano sempre A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari più incontrollabili. La contraddizione interna cerca di compensarsi estendendo il campo esterno della produzione. Ma quanto più la forza produttiva si sviluppa, tanto più entra in conflitto con la base angusta sulla quale poggiano i rapporti di consumo». (Karl Marx)21 Marx approfondisce l’analisi delle contraddizioni intrinseche del capitalismo che, secondo la concezione materialistica della storia, dovrebbero essere le cause su cui far leva per il superamento di questo modo di produzione verso uno più evoluto. Definiamo il “saggio di profitto” (sp) come il rapporto tra il plusvalore (pv) e il “capitale totale investito” (K = C + V): sp = pv / K = pv / (C + V) = (pv / V) / (C / V + 1) = ss / (co + 1) Notiamo dalla formula che il saggio di profitto è una funzione decrescente della “composizione organica del capitale” (co = C/V) e che quindi a fronte di investimenti tecnologici in macchinari che permettono di aumentare la produttività (cioè capitale C), il rendimento tenderà a diminuire. L’unica fonte del profitto, il plusvalore, è infatti data dal capitale V nel quale si è investito proporzionalmente in maniera minore. Questa è la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Il capitalista cercherà di contrastare la tendenza al calo del profitto intensificando lo sfruttamento e diminuendo i salari. Può anche avvenire che il capitale variabile aumenti (proporzionalmente meno di quanto aumenta il capitale costante) e che quindi, anche in caso di calo del saggio di profitto, la massa del profitto possa aumentare. Definiamo quindi la “massa di plusvalore” (mP) come il prodotto tra il “saggio di sfruttamento” e il capitale variabile complessivo impiegato (somma dei salari di tutti i lavoratori): mP = ss * V Il saggio di profitto è un fattore importante anche per la determinazione del “prezzo di produzione” (PP), il prezzo in grado di assicurare l’uguaglianza del saggio di profitto nei diversi rami della produzione: PP = C + V + sp * (C + V) = K + sp * K = K * (1 + sp) Osserviamo che il profitto (sp * K) è proporzionale all’intero capitale (K). Il valore (M) della merce sarà uguale al prezzo di produzione (PP) nel caso in cui la composizione organica del capitale sia costante. La migrazione di capitali porta ad un aumento di offerta nei settori con saggio di profitto più elevato (e diminuzione in quelli con sp più basso) e quindi, per la legge di domanda e offerta, diminuiscono i prezzi relativi ai settori con sp maggiore, e aumentano quelli dei settori a sp minore, in modo da portare ad un equilibrio in cui il saggio di profitto tende finalmente ad uniformarsi in tutti i settori; col risultato che alcuni capitalisti realizzano un profitto inferiore ad sp ed altri uno superiore. La concorrenza esterna di capitali tra settori con saggio di profitto diverso porta ad una migrazione di capitali verso settori a più elevato rendimento, fino a raggiungere una condizione di equilibrio. In definitiva il mercato, pur fissando prezzi che gravitano intorno ai prezzi di produzione e non ai valori, non crea né distrugge valore, ma lo ripartisce in modo differente tra i capitalisti a causa della concorrenza. Si conferma la tesi che il valore ha origine solo dal lavoro umano nella sfera della produzione. 21 K. Marx, Il capitale. Libro terzo, Parte Prima, Sezione terza – Legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, cap. XV – Sviluppo delle contraddizioni intrinseche della legge – 1. Generalità, cit., p. 313. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari XVIII. Conclusioni temporanee Graffito a Teruel, 2011. Dall’analisi marxista del modo di produzione capitalistico si desume che l’unico fine della produzione capitalista non è certo il soddisfacimento di bisogni umani, ma è l’accumulazione sempre maggiore di capitale, cioè la produzione di plusvalore e la sua realizzazione mediante la vendita. Se la vendita non avviene, non si realizza il profitto e si perde capitale. L’insieme del potere d’acquisto esistente deve servire a comprare l’insieme delle merci prodotte, al fine di conservare l’equilibrio economico, che però è destinato a rompersi a causa della scissione tra il carattere sociale (utile) del lavoro dal carattere anarchico (non pianificato) della produzione capitalistica e da una distribuzione ineguale della ricchezza. Nel modo di produzione capitalistico si tende alla produzione illimitata e si considerano tutte le persone potenziali clienti. Il mondo migliore possibile del capitalista è quello in cui i suoi concorrenti aumentano i salari degli operai (che rappresentano potere d’acquisto) mentre lui solo abbassa i salari dei suoi per aumentare il profitto. La tendenza all’aumento della produttività è quindi in contraddizione con la limitata capacità di assorbimento delle merci prodotte da parte del mercato. La contraddizione capitalista tra la socializzazione della produzione e l’appropriazione privata esplode gravemente nelle crisi economiche. Le crisi del capitalismo sono diverse da quelle dei sistemi che lo precedono. Nelle società preindustriali la causa della crisi era la mancanza di beni; nel capitalismo siamo di fronte a crisi di sovrapproduzione: vengono prodotte più merci di quelle che il mercato riesce ad assorbire: non quindi più di quelle necessarie alla soddisfazione dei bisogni, ma alla capacità di spesa dei salariati. Le crisi del capitalismo non sono di scarsità, ma di sovrabbondanza, di “realizzo”. La sovrapproduzione di capitale, che si presenta anche nella forma di sovrapproduzione di merci, è la condizione in cui il capitale investito produce una massa di plusvalore uguale o inferiore a quella prodotta prima che il capitale addizionale fosse investito. Le crisi di sovrapproduzione sono la più evidente manifestazione della contraddizione di fondo del modo di produzione capitalistico. Nella sua fase di maturità il capitalismo porta al massimo livello le proprie contraddizioni, generando una concentrazione di capitali in poche mani e aumentando la polarizzazione sociale: pochissimi possiedono moltissimo e molti possiedono poco o nulla. Il capitalismo tende anche alla formazione di un mercato mondiale. Gli investimenti all’estero non derivano dall’impossibilità di investire nel proprio paese, ma dalla possibilità di investire altrove, dove il saggio di profitto è più alto. Marx aveva individuato lo sviluppo delle forze produttive quale elemento progressivo del modo di produzione capitalistico, grazie all’uso di tecnologie e metodi scientifici nella produzione. Nel capitalismo però lo sviluppo della produttività non serve alla liberazione di tempo vitale dal lavoro, bensì solo ad aumentare il saggio di sfruttamento della forza-lavoro. Se quindi lo sviluppo delle forze produttive è un elemento progressivo nella prima fase del capitalismo, quando questo modo giunge alla maturità le sue contraddizioni e le crisi da esse generate impediscono l’ulteriore sviluppo delle forze produttive, mostrando in maniera evidente il limite storico del capitalismo. L’analisi di Marx dimostra il carattere storico e transitorio del capitalismo e la necessità di superare questo modo di produzione attraverso la struttura economico-sociale del comunismo, in cui anziché essere la mano invisibile del mercato a determinare le scelte economiche, sono gli uomini, radunati in nuove comunità, a stabilire cosa e come produrre e come ripartire i beni prodotti. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari Con Marx finalmente la critica al capitalismo poggia su una base scientifica! Le evidenti contraddizioni del capitalismo ci offrono la possibilità di realizzare una società comunista. Marx però ha spiegato questo movimento come tendenziale e tutt’altro che deterministico: non è previsto alcun crollo automatico e spontaneo del capitalismo, come invece interpreterà Kautsky negli anni della II Internazionale. Qualunque trasformazione sociale deve basarsi non solo su elementi oggettivi – condizioni materiali ed economiche determinate – ma anche su elementi soggettivi: l’azione politica della classe lavoratrice capace di porsi come avanguardia dell’intera umanità. Per guidare la rivoluzione è necessario che il proletariato sia organizzato in un partito comunista. XIX. L’origine del capitalismo Karl Marx con la figlia Jenny, marzo 1866. «Lasciate che i morti seppelliscano e piangano i loro morti. Al contrario, è invidiabile essere i primi ad entrare vivi nella nuova vita; questa dev’essere la nostra sorte. È vero, il vecchio mondo appartiene al filisteo. Ma noi non dobbiamo trattarlo come uno spauracchio dal quale si torce via timorosamente lo sguardo. Al contrario, dobbiamo fissarlo direttamente negli occhi. Vale la pena studiare questo signore del mondo. Senza dubbio, signore del mondo lo è unicamente in quanto lo riempie con la sua società, così come i vermi un cadavere. Perciò la società di questi signori ha bisogno soltanto di una schiera di schiavi, e i proprietari di schiavi non hanno bisogno di essere liberi. Se pure, a cagione della loro proprietà su terre e persone, vengono detti signori in senso elevato, non per questo sono meno filistei della loro gente. […] Si dovrebbe prima ridestar nel petto di questi uomini l’umano sentimento di pietà, la libertà. Soltanto questo sentimento, che con i greci scomparve dal mondo e con il cristianesimo si dissolse nell’azzurro etere del cielo sparito dal mondo coi greci e sciolto dal cristianesimo nell’azzurro etere del cielo, può fare nuovamente della società una comunità di uomini per i loro fini supremi: uno Stato democratico». (Karl Marx)22 L’origine del capitalismo è un argomento posto al termine del primo libro per cercare di distogliere l’attenzione dei censori, spacciando il libro per una semplice opera di scienze umane priva di politica. Finora Marx ha usato il metodo logico (passando dialetticamente dal più semplice al più complesso, dal particolare al generale) per analizzare il capitalismo. È per questo che la sua analisi parte dalla merce, che è l’unità più semplice del sistema complessivo. Una volta analizzato il funzionamento del capitalismo, Marx torna ad usare il metodo storico per affrontare modalità e tempistiche della nascita del capitalismo. Se il capitale tende all’accumulazione, cioè all’aumento del capitale iniziale, risalendo indietro nel tempo si troverà la provenienza dell’accumulazione originaria che ha innescato il processo. Qual è la fonte dell’accumulazione primitiva, ossia della proprietà privata del capitalista? La classe borghese spiega in maniera ideologica, errata e ingannevole, che un tempo tutti gli uomini 22 K. Marx, Lettera ad Arnold Ruge, Colonia, maggio 1843, all’interno di K. Marx & F. Engels, Opere, vol. III, cit., cap. Lettere dai “Deutsch-Französischen Jahrbücher”, pp. 148-149. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari erano liberi ed uguali e che la fonte dell’accumulazione primitiva nasca dalla laboriosità di alcuni uomini virtuosi, sobri ed economici, riuscendo a mettere da parte una ricchezza economica di cui godranno in seguito loro stessi e i propri discendenti, mentre altri erano poltroni e dissipatori che caddero in miseria, condannando anche i loro discendenti. La favola della cicala e della formica. Ammesso che questa teoria sia vera, sarebbe comunque ingiusto che i figli paghino per gli errori dei loro padri, o che al contrario godano per meriti non propri. Questa spiegazione è comunque del tutto falsa e fuorviante. Analizzando la storia scritta dagli stessi borghesi per uso e consumo della propria classe è possibile trovare la vera causa dell’accumulazione primitiva. Con una piccola premessa facciamo notare che la produzione di plusvalore non è un fatto naturale, ma presuppone un certo sviluppo delle forze produttive, che è raggiunto solo ad un certo grado dello sviluppo storico della società umana. È necessario che il lavoratore produca un’eccedenza rispetto a quanto gli è necessario per vivere, in modo che questa eccedenza (“surplus”) possa essere ceduta ad un altro. Le prime civiltà nascono dove il clima è favorevole e la terra è fertile (Mesopotamia e Egitto), il che permette una notevole eccedenza di tempo e quindi la divisione in classi della società. Dove la natura è generosa e concede quasi spontaneamente all’uomo di che vivere, non è necessario uno sviluppo avanzato di tecnologie per il dominio dell’uomo sulla natura e sui ritmi di lavoro. Il capitalismo infatti non nasce nei paesi caldi perché la sua affermazione richiede invece il raggiungimento del dominio dell’uomo sulla natura. Questa è una (ma non l’esclusiva) delle spiegazioni per cui nasce nella fredda Europa anglosassone. L’approccio storico definisce il capitalismo come modo di produzione storico, e quindi soggetto a nascere, svilupparsi, decadere e morire per lasciare il posto a forme di rapporti sociali differenti. Sappiamo che denaro e merce diventano capitale quando vengono impiegati per la creazione di plusvalore, perciò il processo di accumulazione originaria coincide con la nascita dei due termini essenziali nel capitalismo: la forza-lavoro (classe proletaria) e il capitale (borghesia). Questo processo storico ha origine nel momento in cui il piccolo produttore viene espropriato dei suoi mezzi di produzione. L’espropriazione dei mezzi di produzione avviene per due vie: interna o esterna. Sul fronte interno la via per l’espropriazione è la privatizzazione selvaggia delle terre demaniali, ricordata eufemisticamente dai liberali come “rivoluzione agricola”: avviene in Inghilterra tra il XV e il XVIII secolo e prevede anche l’alienazione delle terre della Chiesa, sfruttando ad hoc la riforma protestante. Ne segue la violenta cacciata dei contadini dalle campagne a favore di una ristretta oligarchia che si appropria di vaste terre a prezzi irrisori. Gli ex contadini diventano vagabondi e mendicanti che vivono di espedienti percorrendo campagne e città. A loro si aggiunge quella popolazione feudale senza collocazione stabile e le famiglie (ex inservienti, ecc.) rimaste senza sostentamento a causa della dissoluzione delle corti feudali. Questo è il nucleo della futura classe proletaria, la cui nascita non è un fatto naturale e men che meno idilliaco, bensì il prodotto della violenza del potere statale che agisce tramite leggi sanguinarie, tese a reprimere il vagabondaggio con pene quali la fustigazione, prigione e morte. L’intervento dello Stato non si ferma qui: a causa dell’alta richiesta di forza-lavoro i salari rischiano di aumentare tanto da vanificare il plusvalore estratto, minando le basi della prima accumulazione capitalistica. Per questo motivo lo Stato impone dei limiti al massimo salariale, prevedendo addirittura la galera per quelli che corrispondano salari più alti di quelli stabiliti. In generale la caratteristica del proletario non si misura dal livello del suo salario, ma dall’indisponibilità di redditi sufficienti per lavorare autonomamente, pregiudicandogli quindi la possibilità di risparmiare. La quasi totalità dei proletari, dopo un’intera vita di lavoro, non riesce ad accumulare abbastanza risparmi da acquistare mezzi di produzione. La condizione proletaria si generalizza e tende a proletarizzarsi quella parte di piccola borghesia che non regge la concorrenza. Sempre a causa dello Stato viene impedita la capacità di organizzazione della classe lavoratrice e la costruzione di sindacati operai. Nel frattempo le prime industrie contribuiscono a distruggere la produzione domestica e a creare il mercato interno. Scopriamo cosa avviene nel frattempo sul fronte esterno: il colonialismo. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari Probabilmente è il fattore che più ha pesato nella costruzione dell’accumulazione primitiva del capitale occidentale. L’accumulazione originaria di capitale nasce dalla violenza dello Stato ed in particolare dalle guerre commerciali. A partire dal ‘400 gli europei colonizzano l’Africa per poi spingersi in Asia (India, Indocina, Cina, ecc.). Le scoperte geografiche (in particolare l’America) consentono di sviluppare il mercato a livello mondiale. A partire da XV e XVI secolo il colonialismo europeo è propedeutico a mettere in moto il processo di accumulazione capitalistica primaria. Le colonie forniscono materie prime e metalli preziosi (oro e argento dall’America) e forza-lavoro a basso costo, quando non gratuita (gli indigeni che non vengono sterminati, vengono ridotti in schiavitù). Le colonie offrono un mercato per le crescenti manifatture e il monopolio di questo mercato semplifica l’accumulazione. Il processo globale dell’Europa colonizzatrice si concretizza nella nascita sanguinosa del capitalismo. La trasformazione dal feudalesimo al capitalismo avviene grazie al traffico di schiavi dall’Africa occidentale all’America, che dà prosperità economica e politica ai mercanti europei e alla Chiesa cattolica. L’estrazione di oro e minerali dall’Africa rappresenta una componente importante dell’accumulazione originaria di capitale. Lo Stato affida le terre appena scoperte a compagnie commerciali private (le Compagnie delle Indie), che possono sfruttare le enormi risorse dei territori in condizioni di monopolio. La “rivoluzione borghese” è finanziata dal commercio e dalla schiavitù. Il potere dei mercanti aveva già svuotato il feudalesimo di gran parte della sua economia grazie alle guerre coloniali e ai carichi di schiavi naviganti l’Atlantico. È grazie alla potenza economica del colonialismo che la borghesia diventa abbastanza forte da sconfiggere il feudalesimo. Il colonialismo è stato la balia del capitalismo. I detentori di capitale esistevano ben prima dell’affermazione del capitalismo, ma non erano classe dominante. Lo diventano attraverso una rivoluzione “modale”, cioè del modo di produzione. I capitalisti europei, con l’appoggio della Chiesa e delle monarchie feudali, saccheggiano il resto del mondo: conquistadores, mercanti di schiavi e missionari regalano a questi capitalisti la terra, le materie prime e il lavoro a basso costo di cui avevano bisogno per rovesciare il feudalesimo, diventando classe dominante in Europa. Il colonialismo ha causato genocidi e distruzioni di grandi civiltà extra-europee, trasformati in rifornimento degli europei di capitale (fisso, la terra, e variabile, il lavoro). I futuri USA diventano una colonia britannica a partire dall’insediamento in Virginia agli inizi del ‘600. Col tempo i coloni sterminano gli indiani appropriandosi delle loro terre. La gestione del sistema coloniale e le guerre per difendere e aumentare le conquiste determinano l’aumento delle spese statali e l’insorgere di grossi debiti pubblici. Il debito pubblico svolge una funzione centrale nella formazione del capitalismo: il prestito pubblico favorisce l’accentramento dei capitali nelle mani di pochi, che prestano denaro allo stato in cambio di interessi. Le prime banche nazionali nascono come associazione di creditori dello stato. Per finanziare il debito pubblico nasce il moderno sistema tributario, che tramite l’aumento e l’estensione della pressione fiscale aggrava ulteriormente le condizioni di contadini e artigiani, accelerandone l’espropriazione. Il processo di ampliamento del debito pubblico produce da una parte capitalisti e dall’altra poveri, proletari disponibili ad essere impegnati come salariati. Dietro tutti gli strumenti che hanno dato impulso allo sviluppo del capitalismo c’è stato l’intervento dello Stato, che è lo strumento della violenza concentrata ed organizzata della classe dominante nella società. Marx conclude che il capitale viene al mondo grondando sangue e sudiciume da tutti i pori e pone l’accento sull’importanza della violenza nelle trasformazioni generali della società, come strumento di accelerazione dei processi di trasformazione. Questo è stato vero per ogni rivoluzione “modale” avvenuta nella storia. Nell’epoca antica gli scontri tra le prime comunità portano alla schiavitù dei vinti e al passaggio di proprietà di tutte le ricchezze ai vincitori; nel medioevo assistiamo ad invasioni di popoli militarmente più forti che si impossessano delle ricchezze naturali di altri popoli; nell’epoca moderna la rivoluzione borghese ha distrutto il feudalesimo trasformando la servitù in salariato, togliendo al lavoratore quei pochi mezzi di esistenza che la servitù gli assicurava. Il lavoratore diventa un proletario “libero” di scegliere tra farsi sfruttare dalla classe borghese oppure morire di fame. L’analisi storica evidenzia che la tendenza storica dell’accumulazione capitalistica è all’eliminazione A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari della piccola proprietà, favorendo piuttosto la centralizzazione di questa in poche mani. Marx critica l’economia politica classica quando confonde le due tipologie di proprietà privata: quella basata sul lavoro personale del produttore e quella basata sullo sfruttamento del lavoro altrui (capitalismo). Il capitalismo si sviluppa distruggendo la piccola proprietà per favorire la proprietà capitalistica. Il processo è in pieno svolgimento: come esempio basti pensare all’attacco all’agricoltura dei paesi del “terzo mondo”, attraverso l’ausilio degli OGM e del brevetto (da parte di multinazionali come la Monsanto) di semi di piante che da millenni fanno parte della cultura agricola di questi paesi. Ciò vuol dire vietare, con leggi approvate da organismi del capitalismo transnazionale, a quei paesi di continuare a produrre come hanno sempre fatto e costringerli alle regole del capitalismo monopolista. Altro esempio attuale, sempre rimanendo nel campo agricolo: fioccano le leggi che pongono sempre maggiori restrizioni alla produzione individuale, fino ad impedire la coltivazione di piccoli orti urbani casalinghi, in modo da costringere le persone ad abbandonare l’autoproduzione ed accettare il mercato capitalista. XX. Alcuni punti fermi «È stato un profeta, le sue previsioni si sono avverate». (il Time su Karl Marx) Nel 2013 lo “storico” settimanale statunitense Time ha pubblicato un lungo articolo a firma del corrispondente da Pechino Michael Shuman, in cui si riconosce a Marx un ruolo profetico: «Marx ha teorizzato che il sistema capitalista impoverisce le masse e concentra la ricchezza nelle mani di pochi, causando come conseguenza crisi economiche e conflitti sociali tra le classi sociali. Aveva ragione. È fin troppo facile trovare statistiche che dimostrano che i ricchi diventano sempre più ricchi, e i poveri sempre più poveri». A sostegno delle tesi di Marx c’è uno studio dell’Economic Policy Institute di Washington che rivela come nel 2011 il reddito medio di lavoratore maschio statunitense a tempo pieno fosse più basso rispetto al 1973. Tra il 1983 e il 2010 il 74% dei guadagni in termini di ricchezza è andato in mano al 5% della popolazione. Il Time mette in guardia: «Se i politici non praticheranno nuovi metodi per garantire eque opportunità economiche a tutti, i lavoratori di tutto il mondo non potranno che unirsi. E Marx potrebbe avere la sua vendetta».23 Alcune conclusioni temporanee: 1) nel capitalismo la fonte originale di ogni oppressione e sfruttamento è la proprietà privata dei mezzi di produzione. 2) L’emancipazione dei lavoratori non può essere fondata su una nuova dominazione di classe, ma sulla fine dei privilegi di classe e sull’eguaglianza di diritti e doveri. 3) La causa del “Lavoro” non ha frontiere; l’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi. Il materialismo storico suggerisce che solo la rivoluzione ad opera della classe subalterna può portare al progresso, identificato in una società in cui chiunque sia libero e felice all’interno di una comunità 23 D. Falcioni, La vendetta di Marx. Il Time lo rivaluta: “È stato un profeta, le sue previsioni si sono avverate”, Fanpage.it, 26 marzo 2013. A. Pascale, Comunismo o barbarie. Un manuale per ribelli rivoluzionari solidale e amica dell’intera umanità. Solo nel comunismo, dopo un lungo periodo, sarà possibile trasformare la “concorrenza” tra gli uomini in “cooperazione”. La classe borghese per molto tempo ha combattuto l’eversiva concezione materialistica della storia, sostenendo ideologie e partiti conservatori basati su ordine, religione, famiglia e proprietà privata. La borghesia cerca in ogni maniera di impedire la rivoluzione proletaria, vista come catastrofica e rovinosa per l’intera umanità. È compito dei comunisti svelare la verità, spiegando come stiano davvero le cose, elevando la coscienza di classe e ponendo le basi per la presa del potere tramite una rivoluzione comunista, ricordando quanto segue: «Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che ci sia: è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte per mezzo di fucili, baionette e cannoni; mezzi autoritari, se ce ne sono; e il partito vittorioso, se non vuole aver combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le sue armi inspirano ai reazionari. La Comune di Parigi sarebbe durata un sol giorno, se non si fosse servita di questa autorità del popolo armato, in faccia ai borghesi? Non si può, al contrario, rimproverarle di non essersene servita abbastanza largamente? Dunque, delle due cose l’una: o gli anti-autoritari non sanno ciò che dicono, e in questo caso non seminano che confusione; o essi lo sanno, e in questo caso tradiscono il movimento del proletariato. Nell’un caso e nell’altro essi servono la reazione». (Friedrich Engels)24 24 F. Engels, Dell’autorità, 1872-73, all’interno di K. Marx & F. Engels, Marxismo e anarchismo, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 83.