LE
INVASIONI BARBARICHE
ITALIA
DI
PASQUALE V I L L A R I
CON TRE CARTE
U L E IC O
HOEPLI
E D IT O R E -L IB R A IO D E LLA R E A L CASA
MILANO
-000. - Firenze, Tip. di S. Landi, Via Santa Caterina, 12
P r o f . A L B E R T O D E L V E C C H IO
►
PREFAZIONE
I l fine che mi sono proposto nello scrivere questo
libro è assai modesto, ma è anche assai difficile a
raggiungere. H lettore giudicherà se sono riuscito.
Io dirò solo in che m odo sorse in me V idea di accin
germi all* opera.
!Non si può negare che dopo la costituzione del
regno d ’ Italia m olto si è da noi progredito nello
studio della storia. Ne sono una prova il gran nu
mero di A rch ivi storici, che si pubblicano in ogni
regione; le Deputazioni e Società di Storia patria, che
sorgono per tu tto; la grande quantità di documenti,
che ogn i giorno vengono alla lu c e ; i progressi che
han fatto la paleografia, la diplomatica, la filologia
classica e la neo-latina, la storia del diritto, il me
todo e l ’ erudizione storica in genere. Con tutto ciò
libri che narrino gli avvenim enti del passato in
m odo facile e piano, agevolm ente leggibili, i quali una
volta erano assai numerosi in Italia, e servivano di
m odello alle altre nazioni, vanno oggi divenendo fra
noi sempre più rari. Pure è certo che le ricerche d ’ ar
ch ivio si fanno per poter sempre m eglio e più sicu
ramente scrivere le narrazioni
maggioranza dei le tto ri.(1) N oi
libri scolastici, che si leggono a
tano via, ai libri d ’ erudizione,
destinate alla gran
invece passiamo dai
scuola, e poi si get
che servono solo ai
dotti di mestiere o, come oggi li chiamano, specialisti.
È facile capire qual grave danno tutto ciò debba
recare alla nostra letteratura, alla nostra cu ltu ra;
massime se si riflette, che la storia in genere, e quella
dell’ Italia in ispecie dovrebbe essere un mezzo, non
solo d ’ istruzione, ma anche di educazione nazionale,
contribuendo efficacemente a formare il carattere mo
rale e p olitico del nostro paese. Cesare B albo, ani
mato sempre di nobile patriottismo, deplorò in tutta
la sua vita che noi non avessimo una storia popolare
d ’ Italia, tale che tutti potessero leggerla con piacere
e profitto. E gli si p rovò più volte a scriverla, ma ri
mase come sgomento dinanzi alle molte difficoltà che
incontrava. Oggi, dopo la pubblicazione di tanti nuovi
documenti, dopo tante, nuove e così sottili dispute,
le difficoltà sono cresciute piuttosto che scemare. A l
cune di esse possono dirsi intrinseche alla natura
del soggetto ; altre invece dobbiam o riconoscerle con
seguenza del nostro modo di trattarlo e dell’ indirizzo
che abbiam preso nei nostri studi.
A rd u o assai deve certo riuscire il narrare in modo
facile e chiaro la storia d ’ un paese che fu nel passato
diviso in tanti Stati diversi, ciascuno dei quali ebbe
il suo proprio carattere, le sue proprie vicende. Nel
(1) In un suo recente discorso anche il prof. Romano, dell’ Università di
Pavia, insisteva su queste condizioni degli studi storici in Italia.
m ezzogiorno abbiamo una monarchia feudale; n ell'Ita
lia centrale lo Stato della Chiesa, con un governo che
è diverso da ogni altro, e la cui storia si collega con
quella di tutta quanta l ’ E u rop a; più al nord ab
biamo la m oltitudine infinita dei Comuni e delle Si
gnorie. Come, dove trovare un filo conduttore, che
guidi chi scrive e chi legge? Queste difficoltà, è ben
vero, non s’ incontrano solamente in Ita lia ; anche
la Germania è stata sempre divisa e suddivisa. Nò
sarebbero difficoltà insuperabili, se noi stessi non le
rendessimo per colpa nostra anche m aggiori ; il che
avviene in molti e diversi modi. In tutte quante
le nostre scuole, in tutte le nostre pubblicazioni ci
occupiam o oggi quasi esclusivamente di storia ita
liana. È divenuto poco meno che impossibile il v e
dere fra di noi apparire un libro sulla storia della
Riform a, della R ivoluzione francese, della Germania,
dell’ Inghilterra, della Spagna, delle nazioni estere
in generale. Ma la nostra storia è così strettamente
connessa con quella di tutta 1’ Europa, che senza
studiar l ’ una non è possibile comprendere 1’ altra.
Chi infatti potrebbe mai intendere la storia ita
liana del M edio E vo, senza quella della Germania,
o indagare le origin i prime del nostro Risorgim ento,
senza occuparsi della R ivoluzione francese? Chi po
trebbe farsi un concetto chiaro della Contro-Riforma
in Italia, senza aver prima compreso la Riform a di
Lutero? N e segue perciò che, se questa tendenza verso
un’ erudizione esclusiva ed unilaterale ci fa sempre
più diligentemente indagare ed esaminare i partico
lari problem i della storia italiana, ci rende invoco
assai difficile comprenderne il carattere generale, e
valutare con giusto criterio la vera parte che noi
abbiamo avuta nella civiltà del mondo. P iù di una
volta ci tocca infatti V umiliazione di vedere gli stra
nieri scrivere sulla storia dell7Italia antica, medio
evale o moderna libri m igliori dei nostri : e da essi
la nostra gioventù deve apprendere la storia del pro
prio paese. P u r troppo questi libri, non ostante la
m ólta dottrina ed il buon metodo, sono scritti non
di rado con uno spirito ostile all7Ita lia ; il patriot
tismo degli autori li spinge naturalmente ad esaltare
la loro patria a danno della nostra. E così ne segue
che si diffondono anche fra di noi sul carattere mo
rale e politico degl7Italiani, sull’ intrinseco valore
della nostra civiltà, della nostra letteratura idee e
giudizi poco esatti, che ci nocciono assai, facendoci
perdere la giusta coscienza di noi medesimi.
N on lieve ostacolo a scrivere una storia nazionale
che, pur essendo patriottica e popolare, sia impar
ziale, viene anche dalle relazioni in cui l ’ Italia
si trova colla Chiesa. N oi abbiamo scrittori guelfi
e scrittori g h ib ellin i: i prim i vorrebbero sempre
lodare i Papi, giustificando tutto quello che fecero;
i secondi vorrebbero invece sempre biasimarli, cer
cando di porre in ombra la parte, certo grandissima,
che ebbero nella storia del nostro paese. A questo
s7 aggiunga l 7 abbandono in cui sono fra di noi gli
studi religiosi, la storia della teologia e del Cristia
nesimo. E come si può senza di essi comprendere la
storia d ’ un popolo, che ha fondato la Chiesa catto
lica, d 7un popolo la cui vita religiosa fu così intensa,
così strettamente unita con la sua vita politica, let
teraria, artistica e civ ile ?
Pensando e ripensando a tutto ciò, mi parve che
dovesse in Italia riuscire assai utile una collezione
di volum i, che trattassero separatamente, in modo
popolare, i vari periodi della storia d 7Italia, sotto i
suoi m olteplici aspetti, e con essa anche la storia
dei vari popoli civili. D i siffatte collezioni ogni re
gione d ’ Europa e gli Stati U niti d 7A m erica ne hanno
oggi parecchie ; perchè non potremmo, non dovremmo
n oi averne almeno una ? M i decisi quindi a farne la
proposta all7egregio, editore comm. H oepli, che l 7ac
colse con favore, e si pose all’ opera.
Due volum i sono già venuti alla luce. I l prim o è
una nuova edizione del ben noto libro del conte B al
zani sulle cronache italiane, da lu i riveduto e cor
retto. I l secondo è una storia del nostro risorgim ento
pubblicata dal prof. Orsi del L iceo M. Foscarini di
Venezia. A ltri tre volum i non tarderanno molto, io
spero, a veder la luce. Uno, già quasi com piuto, è
del prof. Errerà, dell7Istituto Tecnico di Torino, sulla
storia delle scoperte geografiche. Il prof. Salvèmini
del Liceo Galileo di Firenze, ed il prof. Brizzolara
dell’ Istituto Tecnico di B eggio
Calabria scrivono
sulla storia moderna dell’ Europa. A ltri volum i sono
in preparazione.
E per contribuire anch7io, com e m eglio posso, all 7opera comune, pubblico ora questo primo volume
di storia italiana, nel quale mi occupo delle inva
sioni barbariche. ISon è un libro erudito, nè scola
stico, e neppure di storia generale e filosofica, come
il Sacro Romano Im pero del B ryce, o le R ivoluzioni
d’ Ita lia del Quinet. I fatti debbono qui essere narrati
nella loro cronologica successione e logica connes
sione, senza discutere o dissertare, e, per quanto è pos
sibile, senza annoiare. M i sono,- com ’ è naturale, ser
v ito delle opere recentemente pubblicate, com e quelle
del Bury, del Malfatti, del Bertolini, del Dalm, del
Miihlbacher, dell’ H artm ann,11) e più di tutte di quella
dell? H odgkin. N on ho trascurato alcuni autori più
antichi com e il G ibbon, il Tillem ont ed il Muratori,
che non invecchia m a i; nè ho tralasciato di ricor
rere alle fonti. Ma le citazioni, salvo casi eccezionali,
sono di regola escluse. Credevo dapprima che lo scri
vere questo piccolo volume, che si occupa d ’ un pe
riodo solo della storia d ’ Italia, quando questa non
era anche divisa e suddivisa, dovesse riuscirmi com
parativamente a gevole; ma ho dovuto pur troppo
accorgermi che anch’ esso era, per me almeno, assai
difficile. N on mi sono però mancati aiuti e consigli
preziosi di due dotti colleghi e carissimi amici, i
professori A ch ille Coen ed A lberto D el V ecch io, ai
quali mi è grato manifestar pubblicam ente la mia
vivissim a riconoscenza. Nè posso dimenticare il gio
vane e valoroso professor Luiso, che volle aiutarmi
rivedendo le bozze di stampa.
Se questi prim i volum i incontreranno il favore del
p u b b lico; se esso vorrà essere indulgente verso le
imperfezioni inevitabili in un’ impresa, che fra di noi
(1) Il secondo volarne della saa Storia d’ Italia, ora pubblicato, non l’ ho
anohe visto.
può dirsi n u ova; e se non ci verrà meno la coope
razione degli studiosi, noi crediamo che la nostra
collezione potrà riuscire utile alla cultura del paese,
ed agevolare non poco la via a scrivere sempre me
glio quella storia nazionale e popolare d ’ Italia, tanto
desiderata e tanto desiderabile. Siamo in ogni modo
persuasi, che una raccolta quale noi l ’ abbiamo ideata
è oggi non solo utile, ma anche necessaria al nostro
paese più che ad ogni altro. E crediamo che, quando
pure fossimo condannati a non riuscire, l ’ impresa
verrebbe assunta da altri più fortunati di noi, per
chè risponde ad un vero bisogno dell’ ora presente.
I l materiale storico che si è raccolto, e va ogni
giorno più aumentando, è im m enso; nè deve rima
nere il privilegio e la proprietà di pochi dotti, ma
deve essere coordinato e reso accessibile a tutti. Solo
così potremo riuscire ad infondere nel paese la co
scienza di ciò che esso fu ed è veramente, la cogn i
zione sicura della parte che l ’ Italia ebbe, di quella
che può e deve oggi avere nella storia e nella civiltà
del mondo.
INVASIONI BARBARICHE
INVASIONI BARBARICHE
mondo antico, il quale riconosceva l’ assoluto predomi
nio d’ una civiltà sola, al di fuori della quale tutti erano
barbari. Se perciò da una parte, e vista da lontano, la
oaduta dell’ Impero ci apparisce come qualche cosa d’ ina
spettato e straordinario; da un’ altra reca maraviglia in
vece la sua lunga dorata. Sotto una forma o l’ altra, noi
lo vediamo infatti sopravvivere a sè stesso in tutto il
Medio Evo. E più tardi ancora tenta, sebbene invano, di
rinascere dalla tomba, prima con Carlo V, poi con Napo
leone I. Il vero è che l’ unità dell’ Europa e la diversità
dei popoli che l’ abitano sono due fatti innegabili del
pari, dai quali risultano le vicende della storia moderna.
Roma era stata una città, un municipio, che aveva co
minciato col conquistare e romanizzare le popolazioni vi
cine, con esse l’ Italia, con l’ Italia quasi tutto il mondo
allora conosciuto. Ma il dominio d’ una città sola sopra
un cosi vasto territorio, sopra genti cosi diverse, impo
nendo a tutte lo stesso governo, la stessa legislazione,
la stessa lingua ufficiale, doveva, con l’ estendersi, incon
trare difficoltà sempre maggiori. Era stato comparativa
mente facile assimilare le popolazioni romane; ma l’Africa,
la Spagna, la Rezia, la Gallia resistettero invece sempre
più ostinatamente. E una difficoltà nuova s’ incontrò nell’ Asia Minore e nella Grecia, dove per la prima volta i
Romani trovarono una civiltà superiore alla loro. Con
quistato colle armi il paese, furono essi conquistati dalla
cultura greca, cui dovettero assimilare la propria, per
diffonderle ambedue nel mondo. E cosi, quando l’ Impero
fu giunto al Reno ed al Danubio, esso non aveva più
nessuna vera unità intrinseca, corrispondente a ciò che
di fuori appariva. Non era uno Stato, non era una na
zione; era un amalgama di popoli diversi, uniti insieme
dalla forza, e sottomessi alla stessa civiltà* A l di là dei
confini c’ era un paese vastissimo, abitato da popolazioni
bellicose e barbare, che s’avanzavano minacciose come
un fiume che straripa.
Da un tale stato di cose, la società romana fu profon
damente turbata. E prima di tutto ne fu alterata la co
stituzione stessa dell’ esercito, che era stato lo strumento
principale della conquista e della fondazione dell’ Impero.
Una volta, cosi osservava giustamente il Gibbon, gli eser
citi della Repubblica erano formati di proprietari e colti
vatori del suolo, i quali pigliavano parte alle assemblee,
votavano le leggi di Roma, e la difendevano colle armi.
Il benessere della patria era immedesimato col proprio.
Una battaglia vinta era la loro fortuna, una battaglia per
duta era la loro rovina personale. Tutti gl’ interessi morali
e materiali, consacrati dalla religione, si univano a fare
di essi cittadini e soldati eroici, che dopo la guerra tor
navano tranquilli e modesti ai loro campi. Ohi potrebbe
mai supporre che gli abitanti della Rezia, della Spagna,
della costa africana potessero combattere con lo stesso
ardore, con la stessa fede, per difendere una potenza alla
quale si sentivano spesso estranei o avversi? Questi eser
citi mandati a difendere confini sempre più estesi, più lon
tani e continuamente assaliti, divennero di necessità eser
citi stanziali. Chi era chiamato a farne parte, abbandonava
il luogo nativo, i campi, se ne aveva, i quali perciò spesso
restavano incolti, e rimaneva sotto le bandiere, in paese
straniero, fino a che gli bastavano le forze. Di qui il bi
sogno sempre maggiore e le difficoltà sempre crescenti
di trovar nuove reclute, che bisognava allettare con nuovi
privilegi, con paghe maggiori. E quindi l’ uso d’ accogliere
sotto le bandiere perfino gli schiavi, ma sopra tutto i bar
bari, che ben presto formarono la parte maggiore degli
eserciti romani. La guerra divenne cosi un mestiere, e
la forza delle armi risiedeva più nella disciplina che nel
patriottismo. Pare tale era la potenza di questa disciplina,
tale il fascino maraviglioso che il nome sacro di Roma
e dell’ Impero esercitava sugli animi, che di elementi così
diversi si riuscì a formare un esercito formidabile, il quale,
per più secoli ancora, continuò ad operare miracoli.
A mantenere questo esercito numeroso e lontano occor
revano spese enormi. Era perciò necessario d’ aggravare
il paese di tasse. A poco a poco l’ occupazione continua
della Curia e dei Decurioni nei Municipi si ridusse a
cavar denari da popolazioni già dissanguate. Costretti
ad essere responsabili di ciò che occorreva, anche se i
contribuenti non potevano pagarlo, il loro ufficio, una
volta ambito come un onore, divenne un peso da cui
ognuno cercava liberarsi, perfino con la fuga, con l’ esilio
volontario. E così anche qui l’ interesse privato, che in
altri tempi era immedesimato col pubblico, si trovava
ora con esso a conflitto: principio inevitabile di debo
lezza e di decadenza morale in tutte le società.
Le continue guerre andarono sempre più aumentando
il numero degli schiavi. I capi degli eserciti avevano
accumulato enormi fortune, al pari dei fornitori di esso,
e dei governatori delle province. I ricchi divenivano
sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, e l’ usura
li riduceva alla miseria. Questi finivano allora col met
tersi alla dipendenza dei vasti possessori di terre, sotto
forma di coloni più o meno attaccati alla gleba, pagando
un affitto sulle terre che erano state già loro proprietà.
N6 nacque una vera questione agraria-sociale, causa non
ultima delle guerre civili e della totale decadenza. La
classe media fu distrutta, e si formò quella dei latifon
disti, che furono possessori di più diecine di migliaia di
schiavi, di trenta, di quaranta miglia quadrate di terre,
quasi d’ intiere province. Il latifondo, che di sua natura
tende ad ingrandirsi, aggregandosi le terre vicine, porta
seco la cultura estensiva dei campi, esaurisce la ferti
lità del suolo, e ne diminuisce il prodotto. Cosi l’Italia
non bastò più a se stessa, al suo esercito, anche il grano
della Sicilia essendo scemato. E cominciò a dipendere
dall’Africa, senza il cui aiuto correva pericolo d’essere
affamata.
Tutto il vasto territorio dell’ Impero era disseminato
d’ nn gran numero di città, molte delle quali, colonie ci
vili o militari. Queste città erano ordinate a similitudine
della capitale, colle loro assemblee, coi loro magistrati, le
scuole, i tempii, i bagni, gli acquedotti, le caserme, gli an
fiteatri. Esse erano congiunte tra di loro da una rete di
strade, che è fra le opere più maravigliose di tutta l’anti
chità. Partendo dal Foro Romano, in mille direzioni di
verse, arrivavano ai confini. Ad ogni cinque o sei miglia si
trovava un numero sufficiente di cavalli, per tenere fra loro
in pronta comunicazione tutte le parti dell’ Impero. La
campagna affatto deserta, sparsa qua e là*di ville o mas
serie, era coltivata da schiavi e coloni, che non differi
vano molto fra di loro. La sera si riducevano nelle città
o nelle ville. Anche l’ industria, assai limitata, era affi
data agli schiavi, che arrivarono ad nn numero stermi
nato. Il G-ibbon afferma che ai tempi di Clandio la po
polazione dell’ Impero contava 120 milioni, dei quali 60
erano schiavi. Ma anche senza dar piena fede a queste
cifre, è certo che più d’ una volta le ribellioni degli
schiavi condussero l’ Impero all’ orlo dell’ abisso.
Alla testa d’ una tale società si trovava un sovrano con
assoluto potere, e sotto di lui spadroneggiavano l’ eser
cito ed i latifondisti. L ’ esercito volle ben presto fare e
disfare, o almeno approvare esso gl’ imperatori, dividen
dosi qualche volta in partiti, e proclamandone più d’ uno
nel medesimo tempo; il che fu causa di assai gravi e
spesso sanguinosi conflitti. I latifondisti avevano i più alti
uffici dello Stato, divenuti ereditari nelle loro famiglie, e
si trovavano alla testa d’ una numerosa burocrazia. Abi
tavano nelle città insieme con una plebe di nullatenenti
oziosi, alla quale, perchè non tumultuasse, era necessario
far larghe e continue distribuzioni di grano, allettandola
con spettacoli e giuochi : panetti et circenses. Se a tutto ciò
s’ aggiunge che in una società cosi vasta, divisa e disorga
nizzata, quegli stessi barbari che la minacciavano al con
fine, erano già in maggioranza fra gli schiavi e nell’ eser
cito, si capirà facilmente che ormai non c’ era più forza
umana che potesse evitare una spaventosa catastrofe.
A tutte queste cause civili, militari, economiche di
divisione e debolezza, s’ aggiungeva non ultima la que
stione religiosa. Il Cristianesimo s’ avanzava trionfante
dall’ Oriente, annunziando il principio di una nuova rivela
zione, d ’ una nuova vita morale. La sua teologia nasceva,
è vero, dall’ innesto della filosofia greca col Vangelo; ma
esso mirava alla distruzione del Paganesimo, su cui l’ Im
pero era fondato. Il monoteismo era la negazione del
politeismo; la rivelazione non s’ accordava con la filosofia
antica. Il Cristianesimo condannava la forza e la violenza,
proclamava tutti gli uomini, tutti i popoli uguali innanzi
a Dio, e l’ Impero aveva, colla forza e colla violenza, sot
tomesso tutti i popoli a Roma. Il Cristianesimo inoltre
sottoponeva la Città terrena e degli uomini alla Città ce
leste e di Dio. Per esso la vita sociale in questo mondo
aveva valore solo come apparecchio alla vita d’oltre tomba.
La società, la patria, la gloria, tutto ciò per cui Roma
era stata grande, per cui aveva vissuto, che più aveva
ammirato, perdeva il suo valore. E cosi non si trattava
solo di sostituire una religione ad un’ altra; si trattava
di demolire i principii fondamentali di una filosofia, di
una letteratura, di una civiltà intera, di tutto un mondo
morale, per sostituirvene un altro. È facile immaginarsi
qual profondo sovvertimento tutto ciò dovesse portare
nell’ animo dei Romani, quali profonde ferite vi dovesse
lasciare. E si capiscono perciò le feroci persecuzioni, più
crudeli che mai da parte dei migliori e più convinti im
peratori. Ma il sangue dei martiri sembrava solo innaf
fiare la nuova pianta, per farla crescere più rigogliosa.
Tutti gli oppressi accoglievano con ardore la nuova fede,
che valendosi delle vecchie istituzioni romane, fondava
una Chiesa universale, la quale s’ impadroniva rapida
mente di tutta la società. Abbatteva gli antichi altari,
per costruirne dei nuovi ; trasformava gli antichi tempii ;
fondava ospedali, istituti di beneficenza, scuole, che erano
* tante fortezze destinate a demolire sempre più la vec
chia società. La caduta dell’ Impero non spaventava punto
i Cristiani, perchè menava seco la caduta del Paganesimo.
La stessa venuta dei barbari, la più parte già convertiti,
appariva loro come provvidenziale, perchè destinata a
punire quelli che ancora adoravano gli Dei falsi e bu
giardi, che tenevano sempre aperto il tempio di Giano.
Che tutto ciò portasse un profondo disordine morale,
che gli uomini dell’ antica società si abbandonassero allo
scetticismo, alla disperazione, ai vizi più bassi ed osceni,
non è da far maraviglia. Ma pur grande veramente do
veva esser sempre la vitalità dell’ Impero, se potè con
tinuare a resistere più secoli, respingendo l’ un dopo
l’ altro i ripetuti assalti delle numerose orde barbariche.
Di questa sua vitalità, non solo materiale ma anche
morale, fu prova la diffusione e la importanza in esso
assunta dalla filosofia stoica, che venne di Grecia, ma
ebbe in Roma un suo proprio carattere pratico, col
quale tentò assumere la direzione della vita, pigliando
quasi il posto della religione. Difficilmente nella storia
del mondo si troverebbe un tentativo più nobile, più
eroico e più disperato ad un tempo, di quello fatto dagli
stoici. In mezzo alla unione forzata di tanti popoli, alla
fusione e confusione di tante religioni, di tante forme
diverse del Paganesimo, che crollava da ogni lato, essi
cercarono di rinnovarlo e salvarlo dagli assalti vittoriosi
del Cristianesimo, fondandosi sul concetto, sul culto della
più pura, disinteressata virtù. Rinunziando alla speranza
d’ una vita futura, ad ogni ricompensa in questo o nel
l’ altro mondo, disprezzando la gloria presso i posteri,
non curando la opinione dei contemporanei, raccoman
davano la virtù come fine a sè stessa, scopo unico della
vita, come quella che trovava in sè ogni compenso, sgor
gava spontanea, irresistibile dal cuore dell’ uomo. La se
rena tranquillità con cui gli stoici affrontavano la morte,
per difendere la giustizia, parve un momento divenir con
tagiosa, quasi volessero con una nuova serie d’ eroi rinno
var la gloria dell’ antica Roma. Ma pur troppo non era
che un tentativo filosofico, il quale non poteva esser che
l’ opera di pochi spiriti eletti. Non era sperabile che pe
netrasse nelle moltitudini e le esaltasse, come faceva il
Cristianesimo, che parlava a tutti e di tutti s’ impadro
niva. Pure fu come un baleno, che per breve tempo illu
minò di luce vivissima l’ Impero, e che più tardi sembrò
ripetersi novamente colla diffusione del Neoplatonismo,
predicato da Plotino e da Porfirio.
Marco Aurelio fu la vivente e più splendida personifi
cazione dello Stoicismo, il quale salì con lui sul trono im
periale. Indifferente alla gloria, disprezzatore d’ ogni ma
teriale ed appariscente grandezza, amico della giustizia
e della virtù, era nemico della guerra. Ma quando i con
fini dell’ Impero furono minacciati dai Marcomanni, che
insieme con altri barbari avevano passato il Danubio, egli
assunse il comando dell’ esercito, e combattendo fino alla
morte con valore di gran capitano, li respinse e disfece.
Nè durante il conflitto tralasciò le sue meditazioni filo
sofiche; ma ritirandosi la sera nella tenda, continuava a
scrivere quei Pensieri che rimasero immortali. « Nessuno,
dice il Renan, scrisse mai con ugnale semplicità, per solo
suo uso, senza volere altri testimoni che Dio. Il suo pen
siero morale, puro, libero da ogni legame sistematico o
dommatico, si sollevò ad un7altezza che non fu mai su
perata. Ed il suo libro, il più puramente umano che sia
stato mai scritto, visse d’ una eterna giovinezza.» Nè
egli fu il solo dei veramente grandi Imperatori. Dalla
morte di Domiziano all7ascensione di Commodo al trono
(96-180 d. C.), noi troviamo, con Nerva, Traiano e i due
Antonini, una serie di sovrani che rappresentano la giusti
zia, la sapienza e la virtù chiamate a governare il mondo.
Il Machiavelli, repubblicano, aspro nemico di Cesare, esal
tato lodatore di Bruto, è pieno della più entusiastica
ammirazione per quel periodo dell’ Impero. Il Gibbon
afferma, che se gli fosse chiesto, in qual tempo mai, du
rante tutta la storia del mondo, il genere umano fu più
felice, non saprebbe indicarne un altro. Ma egli, che qui
appunto sorvola più che mai sulle crudeli persecuzioni
dei Cristiani, per parte d7alcuni di questi medesimi im
peratori, è pur costretto ad aggiungere, che tutto dipen
deva allora dalla volontà d’ un uomo solo e dall’ esercito.
Infatti prima e dopo di tali imperatori, ve ne furon dei
pessimi. E subito le forze disorganizzatrici, che solo per
breve tempo poterono rimanere latenti, si scatenarono,
portando alla superfìcie quella corruzione e decomposi
zione sociale, che non poteva più essere fermata, e che
doveva inesorabilmente aprire la via ai barbari.
CAPITOLO II
1 Barbari
L ’ assalto improvviso che nel 114 a. C. dettero i Cim
bri, i quali si avanzarono con un impeto inaspettato, di
sfacendo ripetutamente i Romani, apri a questi la prima
volta gli occhi sul pericolo che li minacciava dalla Ger
mania. C. Mario, è vero, in due grandi battaglie (102 e
101 a. C.), li disfece compiutamente, e per circa mezzo se
colo i confini rimasero tranquilli. Ma Giulio Cesare, dopo
molte vittorie, si trovò aneli’ esso di fronte ad un esercito
germanico, comandato da Ariovisto che, passato il Reno,
era penetrato nella Galli a, combattendo valorosamente.
Cesare lo disfece e lo inseguì al di là del fiume. Ma ivi
trovò come un mondo nuovo : un popolo numeroso, bel
licoso e quasi nomade ; una società in tutto profondamente
diversa dalla romana; un clima assai rigido; un suolo
pieno di paludi e di boschi, senza possibilità di approv
vigionamenti, infesto all’ avanzarsi d’ un esercito romano.
Col suo sguardo penetrante, col suo grande senno pra
tico, capi subito, che non era il caso di pensare ad una
stabile conquista, molto meno a romanizzare quelle genti,
e si ritirò novamente al di qua del Reno.
Dopo la sua morte, i Romani non imitarono la prudenza del valoroso capitano. Ripassarono il Reno, pene
trarono nel cuore della Germania; vi portarono le loro
leggi, la loro amministrazione, le loro tasse. E la con
seguenza fu una tremenda insurrezione capitanata da
Arminio, che distrusse un esercito di tre legioni. Il
console Varo ed i principali suoi ufficiali, per non so
pravvivere al disastro e al disonore, si dettero la morte
(9 d. C.). Arminio era stato educato nell’esercito romano;
insieme col fratello aveva in esso valorosamente com
battuto, ed era stato colmato di onori. Ad un tratto,
tornato fra i suoi, messosi alla testa della insurrezione,
aveva tratto in agguato gli antichi commilitoni, dei quali
si fingeva sempre amico, e si era scagliato contro di essi
con un impeto addirittura feroce. I prigionieri romani
furono mutilati, impiccati, trucidati. A molti furono cavati
gli occhi, fu strappata la lingua, insultandoli con ogni spe
cie d’ ingiurie più sanguinose. Venne perfino disseppel
lito il cadavere del Console, per poterlo insultare. Anche
Marbodio, capo dei Marcomanni e nemico di Arminio,
che aveva cercato di fondare un regno a similitudine
delle istituzioni dei Eomani, dai quali era stato educato,
e dei quali si dichiarava fido alleato, venuta l’ ora del
pericolo, si manifestò nemico aperto. Da tutto ciò appa
riva evidente, che nelle popolazioni germaniche v’ era un
odio istintivo, inestinguibile contro i Eomani; che nè i
benefizi, nè la educazione o la disciplina militare pote
vano in modo alcuno estinguere. Germanico fu mandato
a vendicare la disfatta di Varo, ma le vittorie del va
loroso capitano furono pagate ad assai caro prezzo. Nel
clima, nei boschi, nelle paludi, più di tutto nell’ odio
persistente delle popolazioni, trovò ostacoli sempre mag
giori. Una formidabile tempesta, distrusse una parte
non piccola dell’ esercito, che si ritirava dalla parte
del mare.
Negli ultimi anni della sua vita, Augusto si era per
suaso che l’ Impero doveva fermarsi al Eeno ed al Danu
bio, senza pensare a nuove conquiste, e lo raccomandò
nel suo testamento. Lungo i due fiumi venne infatti co
struita una linea di fortificazioni, e l’ Impero si attenne
generalmente al savio programma. Solo Traiano, lasciatosi
vincere dall’ ambizione della gloria, passò il Danubio,
avanzandosi vittoriosamente. E se più tardi, rinsavito
anch’ esso, tornò indietro, la Dacia, al di là del fiume,
restò sempre provincia romana, il che fu un grave errore,
come poi si vide. Infatti la difesa del Danubio, che
facilmente si poteva fortificare, venne trascurata, per
chè esso non segnava più i confini dell’ Impero, che
s’ erano portati innanzi fino alla Dacia orientale, dove
non era ugualmente agevole fortificarli. Tuttavia, per
circa duecentocinquant’ anni dopo la disfatta di Varo,
gli assalti dei barbari vennero sempre vittoriosamente
respinti. Questa difesa anzi fu la costante occupazione
dell’ Impero, e quasi la sua principale ragione di essere.
Ma chi erano, che cosa volevano questi barbari, che
assalivano con tanta persistenza? Vissuti una volta, come
è generalmente ammesso, nell’Asia, insieme con coloro
che più tardi furono i Greci ed i Romani, avevano con
essi fatto parte di quella che venne dai moderni chia
mata la famiglia ariana. Dopo un periodo di vita in co
mune, si divisero, partendo per direzioni diverse. Il clima
più mite, il suolo più fertile, la posizione geografica più
fortunata, la vicinanza dei Fenici e degli Egiziani, fecero
fare un rapido progresso a quelli tra di essi che anda
rono nella Grecia e nell’ Italia. Lo stesso non poteva se
guire in Germania, dove invece, per le avverse condi
zioni del suolo e del clima, per il nessun contatto con po
poli civili, s’ andò formando, in un periodo di molti secoli,
una società affatto diversa, che ai Romani poteva apparire
di selvaggi. Non erano però selvaggi, ma barbari, e per
poco che fossero mutate le condizioni in cui si trova
vano, potevano, al contatto colla civiltà, come poi av
venne, progredire rapidamente.
Giulio Cesare è il primo che ci dia su di essi qualche
notizia precisa. Li trovò, esso dice, in uno stato semi
nomade, con un’ agricoltura affatto primitiva. Vivevano
della caccia, della pesca, sopra tutto del prodotto degli
armenti, loro cura principale. Il latte, la carne, il for
maggio erano il loro cibo consueto. Adoravano il sole,
la luna, il fuoco, le forze della natura, tutto ciò che
vedevano, e da cui ricevevano benefizio. Pieni di gros
solane superstizioni, di costumi crudeli, non avevano
ancora un ordine sacerdotale. Ma il fatto che sopra tutti
richiamò la sua attenzione, si fu il vedere che queste po
polazioni, in continuo moto, non conoscevano la proprietà
privata della terra, la quale era invece posseduta collet
tivamente dai villaggi, anzi dalle parentele, Cognationes
come esso le chiamava, Sippen come le dicono i Tede
schi. Appena si fermavano, i Magistrati o sia i loro capi,
dividevano fra di esse il terreno occupato. E dopo un
anno, le costringevano ad andare altrove, dividendo di
nuovo, nello stesso modo, il terreno. Le case erano spe
cie di capanne da potersi facilmente decomporre e tra
sportare, come proprietà mobile, sui carri, colle masse
rizie, coi vecchi ed i fanciulli. Era un genere di vita che
educava mirabilmente alle armi. La caccia, le razzìe, le
guerre coi vicini, per acquistar nuove terre, erano la loro
occupazione continua, il bisogno costante d’ una gente,
la quale con la sua rozza agricoltura esauriva subito il
terreno che aveva occupato. Cesare restò assai maravi
gliato in presenza d’ un genere di vita tanto diverso da
quello dei Romani, e ne chiese spiegazione agli stessi
barbari. Gli risposero, che vivevano a quel modo, perchè
una troppo assidua cura dei campi non li dissuefacesse
dalla guerra, ed una costruzione piò accurata e solida
delle case, non li rendesse inabili a sopportare il freddo
ed il caldo. Ed ancora perchè la disuguaglianza delle
fortune e Pavidità del possedere non arricchisse i po
tenti, spogliando i deboli; si evitasse quella cupidigia
da cui hanno origine le fazioni e le guerre civili; si
mantenesse con la equità soddisfatta la plebe, che ve
deva i suoi campi uguali a quelli dei piu potenti. W È
difficile credere che questo fosse proprio il linguaggio
dei barbari. Ma è di certo il concetto che più o meno
sorgeva allora in tutti, paragonando la società romana
alla barbarica.
Ed è il concetto che domina anche più esplicitamente
nella Germania di Tacito, la fonte principale che abbiamo,
per conoscere un po’ più da vicino quelle popolazioni. Le
notizie che ci dà Cesare sono poche e frammentarie, ma
chiare e precise, suggerite dalla sua osservazione, dalla
sua esperienza personale. Tacito invece ci dà addirittura
un breve trattato sul paese. Non sappiamo con certezza
se egli lo avesse davvero visitato. In ogni modo ne vide,
se mai, una piccola parte, e le notizie che ci dà sono il
più delle volte di seconda mano, cavate da Cesare, che
egli chiama summus auctor, e da altri, che erano stati
oltre Reno. A ciò si aggiunge, che il suo scritto ha uno
scopo, anzi una tendenza politica e morale visibilissima.
Egli s’ era persuaso (simile in ciò agli scrittori del se
colo xv m ) che i popoli primitivi, più vicini allo stato
di natura, sono perciò, come erano stati gli antichi
Romani, più puri, più onesti e valorosi di quelli che
una civiltà, raffinata ed artificiale ha corrotti, come era
seguito ai Romani del suo tempo. Ispirato da un ar
dente patriottismo, con un sentimento quasi profetico
della rovina che minacciava l’ Impero, voleva scongiu
rarla col ricondurre i suoi connazionali all’ antica virtù.
E quindi descriveva con entusiasmo, esaltava, idealizzava
la vita, i costumi dei barbari. Egli è certo un grande
storico e pensatore ; ma, a differenza di Cesare, sempre
chiaro, sobrio e preciso, è anche un manierista, il cui
stile vigoroso, ma spesso anche oscuro, si presta a
(1) De bello gallico, IV , 1; V, 22; V I, 21 e 22.
molte e diverse interpetrazioni. Ciò ha dato luogo a
dispute infinite, massime quando egli non va pienamente
d ’ accordo con Cesare, il che gli succede spesso. Ma sif
fatte divergenze hanno un’ assai facile spiegazione. Tacito
scriveva un secolo e mezzo dopo di Cesare, ed a suo tempo
la Germania s’era non poco mutata. Il lungo contatto avuto
dai barbari coi Romani, l’ avere in questo mezzo trovato
chiuso il passaggio del Reno e del Danubio, quando forse
altre popolazioni li sospingevano dall’ oriente, tutto que
sto cominciò a rendere impossibile quella vita semino
made dei tèmpi di Cesare, e li costrinse a prendere
sulla terra occupata una dimora, in parte almeno, più
stabile.
Comunque sia di ciò, Tacito descrive anch’ esso gli abi
tanti della Germania in uno stato di barbarie, ignari delle
lettere dell’ alfabeto, con scarsa conoscenza dei metalli,
tanto che ne facevano poco uso anche nelle armi; con
nessuna conoscenza della moneta, della quale solamente
coloro che erano ai confini avevano appreso l’ uso dai R o
mani. Occupati anch’ essi, come i loro antenati, principal
mente nella caccia e nella guerra, lasciavano per quanto
potevano la cura della casa e la cultura dei campi alle
donne ed ai vecchi. Si cibavano tuttavia, piò che altro,
del prodotto dei loro armenti. Conoscevano il frumento
e ne cavavano una bevanda, che usavano invece del vino.
Temperati in tutto, meno che nel bere e nel giuoco, non
vestivano più di sole pelli, ma usavano mantelli di lana.
L e loro antiche divinità avevano cominciato ad assumere
una forma personale, e Tacito cerca assomigliarle alle ro
mane. R Tius (D yaus vedico), Dio supremo del cielo lumi
noso, divenuto, pel carattere bellicoso del popolo, anche
Dio della guerra, è da lui confuso con Marte, e messo per
ciò in secondo luogo ; in primo egli pone invece Wuotan
(l’ Odino àeìVEdda), il Dio dell’ aria e delle tempeste, che
chiama Mercurio. D onar, W figlio di Wuotan, Dio dei ful
mini e dei tuoni, dotato di forza prodigiosa, è confuso ora
con Ercole, ora con Giove. Queste e le altre poche divinità
hanno passioni umane, lottano fra di loro, si mescolano
alle querele degli uomini. Ad esse s’ aggiungeva una quan
tità di demoni, che popolavano l’ aria, la terra, l’ acqua, i
boschi, i monti. Un ordine sacerdotale, che Cesare non
aveva trovato, si era adesso già formato. P er placare le
loro divinità, i barbari usavano anche sacrifizi umani. E
quindi non si può credere a ciò che Tacito dice poco dopo,
che cioè essi non costruivano tempii ai loro Dei, quasi
per non profanarli con un culto materiale, adorandoli
invece, come in ispirito, nei boschi, quali esseri invisi
bili e presenti. <2>
Questi barbari, come già accennammo, avevano ora
preso dimora alquanto piò stabile sulle terre che occu
pavano. Ma non conoscevano ancora le città, che ad essi
sembravano prigioni, nelle quali « anche i più feroci
animali si sarebbero infiacchiti. » <8>Le case non erano
più mobili capanne di solo legno ; ma l’ uso del cemento
e dei mattoni era sempre ignoto. Poste, come anche
oggi vediamo nei villaggi della Svizzera, del Tirolo,
della Germania, le une separate dalle altre, eran cir
condate da piccoli orti, che insieme con esse apparte
nevano alla famiglia che vi abitava. <1
4>E qui si può notare
3
2
un primo passo verso la proprietà privata, immobiliare.
La terra rimaneva però sempre proprietà collettiva del
(1) Questi nomi si riscontrano in quelli dei giorni, nell'italiano, nell'in
glese e nel tedesco. Come da Marte venne Martedì, cori da Tiut o Dyau»
vennero Tuetday e Dienetag. Come da Meronrio venne Mercoledì, così da
Wuotan venne Wedneeday. Da Giove si ebbe Giovedì, e da Donar, Donnerttag e Thursday.
(2) Germania, 5, 6, 15, 17, 19.
(3) Hietoriae, IV , 64.
(4) Germania, 16.
villaggio divenuto più stubilo. Non sì mutar* liutgu cgttì
anno, ma solo quando la necessiti di emigrerà lo im
poneva, sia che fosse del tutto esaurita la fertilità dei
campi, e che perciò non bastassero più alla popolartene*
sia che le conseguenze dì qualche guerra sfortunata co
stringessero a cercare altra sede* Ma dentro il territorio
occupato dal villaggio, o come alcuni dicono la Marcai la
mutazione era continua. In che modo poi la terra occu
pata venisse divisa, e la cultura si avvicendasse, o lo
famiglie mutassero il terreno che coltivavano, Tacito lo
accenna in un luogo, che è dei più oscuri, intorpotrato
perciò in non meno di sei modi diversi. K la confusione
delle molteplici interpetrazioni fu non poco aumentata dal
volere in esso cercare, non solamente ciò ohe lo scrittore
aveva voluto dire, ma quello anche di cui noti aveva par
lato, e che forse ignora va.
Dopo aver detto, che i barbari non conoscevano fustini,
la quale tante rovine aveva portato nella società romana,
Tacito continua: « le terre sono occupate da tutti, secondo
il numero dei coltivatori, fra i quali vengono diviso; e
questa divisione è resa più agevole dalla vastità del ter
reno che occupano. D ’ anno in anno si mutano i campi
messi a cultura, e sempre ne avanza una parte (quella
probabilmente abbandonata al pascolo). Non rimangono
confinati in breve spazio, non si adoperano a mantenere
la fertilità della terra. Si contentano del solo frumento,
senza coltivare pomeri, prati artificiali o giardini. » n) fi
villaggio aveva dunque perduto l’antica mohil irà dei torn pi
di Cesare; ma dentro di esso la mutazione era continua,
nessuno restando più di un anno a coltivare lo stesso
campo. La parte via via lasciata a pascolo, rimaneva
sempre d’ oso comune, perchè la proprietà della terra
ili
HL
continuava ad esser© collettiva. Altri particolari Tacito
non ci dà, ed è superfluo cercarli. Dello stato di cose da
lui descritto noi possiamo però farci un’ idea piix chiara, se
gettiamo uno sguardo al modo in cui si trovava costituita
la Marca M germanica assai più tardi, nel Medio Evo.
Era questo uno stato di cose certamente diverso da
quello dei tempi di Tacito, ma che pur a’ andò da esso,
per processo naturale, lentamente svolgendo, e che ne ser
bava perciò alcune tracce visibili. Una parte del terreno
era occupata da case sparse per la campagna, cogli orti
come li descrive Tacito. Un’ altra era lasciata a pascolo
comune. Una terza Analmente veniva posta a cultura con
regole assai minute e determinate, che non sarebbero
state possibili ai tempi di cui noi ci occupiamo. Questa
parte era divisa fra i vari capi di famiglia, i quali dovevano coltivare il loro campo in maniera, che ogni anno un
terzo di esso riposasse, ed ogni triennio tutte le tre parti
avessero avuto il loro periodo di riposo. Sebbene questi
campi fossero, coll’ andar del tempo, per un periodo sem
pre più lungo, assegnati ai capi delle famiglie, pure la
parte da ciascuno di essi lasciata a pascolo, tornava ad
essere d’ uso comune, il che ricordava l’ origine antica,
ancora non scomparsa del tutto, di proprietà collettiva.
Come si vede, un tale stato di cose, pur non essendo
quello descritto da Tacito, derivava da esso e giova a
farcelo meglio comprendere.
Questi barbari, che non conoscevano le città, molto
meno conoscevano lo Stato. Cesare e Tacito li trovarono
divisi in molti popoli diversi, ciascuno dei quali ordinato,
suddiviso in quelli che, con nomi latini, essi chiamarono
(1) Mark, Marca, quasi da marcare, indica il territorio del villaggio, spesso
anche delle comunanze (Markgénotsensohaften), ohe facevamo parte del villag
gio. Qualche volta invece la Marca è il terreno lasciato a pascolo oomnne.
VicuSj Pagus e Cimtas. 11 Ptct/s o villaggio era 1*associa
zione più elementare, ancora poco determinata, costituita
dai vincoli di sangue, che formavano le parentele ( Cognationes, Sippen, Sippenschaften), con le quali spesso si con
fondevano addirittura. La riunione di alcuni Vici for
mava il Pagus, in tedesco Gau, una specie di Cantone
svizzero, che era il nucleo più forte, quasi l’ unità or
ganica di questa società. L ’ unione di più Pagi costi
tuiva la Civitas, il popolo, la schiatta, come dicono alcuni,
la maggiore unità sociale barbarica, che a tempo di Ce
sare apparisce assai più debole che a tempo di Tacito.
Questa società barbarica era in tutto militarmente co
stituita, tanto che populus ed exercitusf uomo libero ed
uomo in armi erano uoa sola e medesima cosa. Si direbbe
che fin d’ allora vi si ritrovasse il primo germe di ciò
che, dopo secoli, doveva essere il servizio militare
obbligatorio, e l’ ordinamento distrettuale dell’ esercito
germanico. L ’ esercito era allora formato, secondo un si
stema decimale, per centurie, che si raccoglievano e costi
tuivano nei Pagi, con uomini venuti dai villaggi, fra loro
imparentati, e comandati dai capi dei villaggi stessi o
delle parentele, giacché anche qui, come sempre, predo
minavano i legami di sangue. Tutto questo fece si che al
cuni scrittori moderni dettero al Pagus o Gau il nome di
Centena, Hundertsckaft. Se non che, il Gau era d’ assai
varia estensione, qualche volta grosso quasi come una
Civitas, ed allora naturalmente le centurie si costituivano
nei centri minori, e si era quindi indotti ad attribuire
piuttosto ai villaggi il nome di Centene, ed a confon
derle con essi. Da ciò altre dispute infinite. Ma l’ ordi
namento civile ed il militare, per quanto sieno in stretta
relazione fra di loro, non potevano essere allora, come non
furono mai, una sola e medesima cosa. E però, quando
anche venisse dimostrato con assoluta certezza, che la
centuria si formava solo nel Vicus o solo nel Pagus, non
ne seguirebbe perciò che centuria e vicus o pagus po
tessero confondersi fra di loro. Oltre di che bisogna pur
notare che, per quanto simili fossero allora i molti popoli
germanici, ed i caratteri generali del loro ordinamento
civile e militare, v ’ era sempre nei particolari una grande
varietà da luogo a luogo, da popolo a popolo. Solamente
una esatta conoscenza, che pur troppo non abbiamo, e
forse non avremo mai, di questi particolari, potrebbe
darci modo di definire e determinare con precisione i
caratteri generali d’ uno stato di cose tanto diverso dal
nostro, e che dovrà quindi, in alcune parti almeno, rima
ner sempre per noi incerto ed oscuro.
Nel villaggio comandavano i Majores natuy i capi cioè
delle famiglie o delle parentele, che nelle cose di più
grave importanza consultavano il popolo, di cui in guerra
assumevano il comando. Alla testa del Gau si trovavano
uno o più Principes, ai quali gli scrittori romani dettero
nome anche di Magistratusj e qualche volta di Reges.
Erano eletti fra le principali famiglie dei villaggi, essen
dovi fra i Germani anche una nobiltà ed una schiavitù.
La prima era composta delle famiglie più antiche, che
avevano formato il nucleo primitivo del villaggio, atti
rando a sè le altre, o di quelle che più si erano distinte
nelle armi. La schiavitù par che fosse abbastanza mite ;
lo schiavo riceveva dal suo padrone un campo da col
tivare, pagando un canone in derrate o animali. Questi
Principes erano circondati dai capi dei villaggi, che for
mavano intorno ad essi una specie di Consiglio ristretto,
che decideva le cose di minore importanza. Per le fac
cende più gravi, sopra tutto se si trattava di deliberare
la guerra, si consultava sempre il popolo. Le sue adu
nanze erano ordinarie, in alcune determinate stagioni
dell’ anno, e straordinarie. In tempo di pace i Princi-
p es amministravano la giustizia nel Gau e nel villag
g io; W in guerra comandavano l’ esercito. A i tempi dì Ce
sare par che avessero anche un carattere religioso, scom
parso in quelli di Tacito, essendosi allora formato già un
ordine sacerdotale, che prima non c’ era.
La Civitas, come dicemmo, sembra essere stata in ori
gine assai debolmente costituita. Cesare infatti affer
mava di non avere in essa trovato, in tempo di pace,
nessun comune magistrato (in pace nullus est communis
magistratus).<*23
> E l’ assemblea della Civitas ( Consilium
Civitatis), che in Tacito ha una cosi grande importanza,
è di rado menzionata da lui, tanto da far dubitare che
fosse allora veramente un organo vitale di quella società.
Il Gau o Pagus aveva perciò ai tempi di Cesare mag
giore indipendenza; faceva razzie per proprio conto, senza
troppo occuparsi di quei che voleva o non voleva la sua
Civitas, da cui qualche volta si staccava addirittura, per
andare a far parte di un’ altra. Alla testa di essa erano
i Principesf che formavano una specie di Senato, il
quale deliberava sugli affari minori, ed apparecchiava
le deliberazioni più gravi da sottomettere all’assem
blea popolare, che approvava col percuotere le armi,
disapprovava con grida di fremito. Quest’ assemblea
aveva le sue ordinarie adunanze in tempo di luna
nuova o di luna piena, e le straordinarie, in tempi in
determinati, secondo l’ occorrenza. W In essa venivano
eletti i Principes, e possiam credere che ciò si facesse
confermando coloro che erano stati prima proposti dai
Pagi. Nella stessa assemblea venivano concesse le armi
a quelli che avevano raggiunta l’ età legale, il che, se
ti) «Jora per pagos vicosqoe reddunt ». Germania, 12,
(2) De betta gallico, V I. 23.
(3) Germania, 11 e seg.
concio la espressione di Tacito, era il primo onore, la
toga virile, con la quale venivano ammessi a far parte
della Repubblica. W
Il governo della Civitas sembra davvero essere stato
generalmente ordinato a repubblica, sebbene spesso appa
risca un capo con la forma monarchica, massime quando
uno dei Gau riusciva a prevalere sugli altri. Quello però
che sopra tutto contribuiva a dar forte unità alla Civitas,
e stringeva intorno ad essa anche Pagi di altri popoli o
addirittura altre Civitates, formando così una confedera
zione, che pigliava nome dalla principale di esse, era la
guerra. Questa richiedeva naturalmente un capo militare,
un D u x , quali furono Ariovisto ed Arminio, una specie
di dittatore, con assolato potere, il quale, fatta la pace,
rimaneva spesso al suo posto, divenendo allora un vero
e proprio re, come di tanto in tanto ne troviamo, e più spe
cialmente nella Germania orientale. Il duce veniva na
turalmente eletto per le sue qualità militari ; i principi
invece per la nobiltà delle loro famiglie : Reges ex nobilitate, duces ex virtute sumunt.M
Un’ altra istituzione assai diffusa in questa società bar
barica era il cosi detto Comitatus ( Gefolgschaft)} che
circondava cosi il Princeps come il Dux. Lo formavano
i giovani più nobili ed animosi, che si stringevano, quasi
specie di paladini, intorno ad uno dei loro capi, di cui
divenivano indivisibili compagni d’ arme. E come era per
essi un disonore il sopravvivere nella pugna al proprio
capo, così era per questo un disonore il lasciarsi da essi
vincere in valore.
Se ora, gettando uno sguardo generale su quanto ab- 1
3
2
(1) Germania, 13.
(2) Germania, 7.
(3) Germania, 14.
biam detto, paragoniamo la società romana alla bar»
banca, il contrasto apparirà assai evidente. La prima
era formata da nna popolazione urbana, divisa in un gran
numero di città collegate da strade, con campagne de
serte, coltivate da schiavi o coloni. La seconda era in
vece una società rurale, sparsa pei campi che liberamente
coltivava. E sebbene anche in essa vi fossero nobili e
schiavi, v’ era tuttavia un’ assai maggiore uguaglianza.
La differenza delle fortune si limitava più specialmente
al numero degli armenti. La proprietà collettiva della
terra contribuiva non poco a riunire g l’ interessi di tutti,
che colle armi difendevano il territorio comune, e nelle
popolari assemblee deliberavano insieme. Quasi nulla
era l’ azione dello Stato, che in realtà non esisteva, e
tutto aveva un carattere personale. La pena era una
vendetta affidata all’ offeso ed ai suoi parenti, e si po
teva comporre dando soddisfazione ad essi, non alla co
munanza. I legami di sangue costituivano la base stessa
della società, ed in parte anche dell’ esercito, ordinato
in gruppi di parentele. A Roma invece predominava su
tutti lo Stato, e la società era fondata interamente sulle
relazioni giuridiche. I Romani erano stati inoltre i primi
a creare la proprietà privata, liberandola dalla forma
arcaica, dando cosi uno slancio febbrile all’ attività in
dividuale, al progresso sociale. Ma nella lotta per l’ esi
stenza i piu forti e più fortunati spogliarono i più deboli,
e distruggendo la piccola proprietà, crearono i latifondi.
Si ebbero da una parte fortune enormi; dall’ altra una
moltitudine tumultuosa di nullatenenti affamati, cui s’ ag
giungeva un esercito che aggravava ognuno di tasse.
Se ora per un momento, colla nostra immaginazione,
ci provassimo a fondere insieme queste due società, noi
vedremmo da un lato sorgere maggiore ordine e disciplina,
con l’idea dello Stato, della legge, del diritto impersonale ;
dall’ altro vedremmo rinascere la piccola proprietà, ripo
polarsi le campagne di liberi agricoltori. Ma queste chi
miche combinazioni nella storia si fanno solo con la vio
lenza, con la guerra ; e però nell’ urto sanguinoso delle due
società, una, pur modificando sè stessa, doveva vincere ed
abbattere l’ altra. Chi doveva vincere? La società romana
era una vasta, maravigliosa organizzazione, con una grande
forza espansiva ed assimilatrice. Se non fosse stata minac
ciata da interna decomposizione, avrebbe di cèrto potuto
continuare a sottomettere, a riunire ed assimilare nuove
genti, respingendo qualunque assalto. E quello che aveva
fatto per più secoli. Se non che, colle vittorie crescevano
gli elementi di decomposizione all’ interno, di debolezza
all’ estero. E intanto le popolazioni germaniche tornavano
continuamente all’ assalto, spinte dal bisogno irresistibile
di nuove terre da coltivare, bisogno che tutte spingeva
verso l’occidente. Si avanzavano tumultuose, in numero
sempre maggiore, sempre crescente, come le onde di un
mare in tempesta.
Fortunatamente per l’ Impero, questo mare germanico,
diviso in una moltitudine di popoli diversi, di continuo
in guerra fra di loro, non aveva unità nazionale, come
era provato dal fatto, che nel chieder nuove terre essi si
offerivano spontanei a servire sotto le bandiere dell’ Im
pero, e combattevano con valore contro i propri conna
zionali. Molte infatti delle battaglie romane contro i
barbari furon vinte con soldati germanici. Questo poteva
far nascere l’ illusione, che fosse possibile, per mezzo
della disciplina, impadronirsi d’ una gran parte di loro,
ed assimilarli, per sottomettere, con essi, stabilmente
gli altri. Ma l’ esempio di Arminio dimostrava la vanità
d’ una tale illusione. I barbari educati sotto le bandiere
romane, divenivano soldati e capitani eccellenti; ma non
perdevano mai il loro carattere germanico, fieramente av
verso al nome romano ed all’Impero, ohe pur tanto am
miravano. Anche quando non bastava a tenerli uniti la
comune origine, li univa il comune odio. Nò questo, per
benefìzi ricevuti, si estingueva mai. I più grandi ne
mici di Roma, quelli che distrussero l’ Impero, Ala
rico, Odoacre, Teodorico, erano stati educati nelle le
gioni romane. Il sentimento della comune origine, se nei
tempi ordinari di calma s’ infiacchiva, di fronte ad un
pericolo comune, sopra tutto quando trovavano un capo
valoroso che li guidasse, si ridestava potentemente, e
riusciva ad unirli con una fulminea rapidità, in vastissime
confederazioni, animate da uno stesso furore. Si avanza
vano allora come un sol uomo, con un impeto irresisti
bile. Ciò s’ era visto fin dal tempo dei Cimbri, di Ariovisto, di Arminio, e continuò a ripetersi continuamente.
Questa unione, ò ben vero, non durava a lungo. Dopo
il pericolo imminente si scioglieva; ma finché durava,
poteva da un momento all’ altro riuscire fatale all’ Im
pero, massime se si pensa al numero stragrande di genti
che la Germania poteva mettere in armi, ed al numero
già grandissimo di barbari che erano nell’esercito e fra
gli schiavi romani. Se non che, una volta aperta la brec
cia sul Reno o sul Danubio, ed inondato l’ Occidente, ai
barbari sarebbe stato assai difficile, anzi impossibile, or
ganizzare qualche cosa di stabile. Questo, essi, lo senti
vano, ed era un’ altra causa di debolezza, perché scemava
non poco la loro fiducia in se stessi, di fronte all’ Impero,
che vedevano sempre fortemente costituito, civilmente
non meno che militarmente; e però lo ammiravano come
qualche cosa di sacro ed eterno, nel momento stesso che
lo aggredivano con tanto furore.
Ma i guai, come abbiamo già visto, erano dall’ altro
lato anche maggiori. Per poco che quella mirabile unità,
che riannodava e stringeva tutte le forze molteplici del-
1’ Impero, dinanzi all’ impetuoso urto barbarico, si fosso
anche per un momento solo spezzata, avesse in qualche
punto ricevuto un forte strappo, tutto sembrava a un
tratto minacciare rovina, appunto perchè tutto era colle
gato, e da questo collegamento riceveva la forza e la vita.
li individuo, educato a vivere per lo Stato e sotto la sua
protezione, non capiva come senza di esso si potesse esi
stere. Quando appena si sentiva abbandonato a se stesso,
era come un atomo perduto nel caos; non immaginava nep
pure che fosse possibile resistere a quella società germa
nica, di cui ognuno s’ avanzava con una sete feroce di
sangue. Era un sentimento simile a quello di chi veda im
provvisamente, per tremuoto, crollare le case, e senta il
terreno mancargli sotto i piedi, o si trovi chiuso in un tea
tro minacciato d’ incendio. Questo sentimento invece era
aifatto ignoto ai barbari, i quali facevano parte d’ una
società divisa e suddivisa non solo in popoli, ma in gruppi
0 cantoni diversi, che colla massima facilità si univano e
si separavano, per riunirsi di nuovo. Quando una Civitas
era vinta e decomposta nei suoi Pagi, questi facilmente si
reggevano da sè soli, o si fondevano con quelli di un'altra,
senza perciò sentirsi punto sgomenti. L ’ individuo, che
per la distruzione del villaggio o del gruppo cui ap
parteneva, si fosse trovato isolato e abbandonato, usato
com’ era nella foresta, a contare sopra tutto sulla forza
del suo braccio e sul suo coraggio personale, non pro
vava nessuno sgomento, si univa facilmente a quelli che
prima incontrava. Tutto questo fece assai spesso credere
ai barbari, e fece a molti ripetere poi, che dinanzi ad essi
1 Romani si spaventavano e tremavano come donne. E ciò,
sebbene questi li avessero poco prima disfatti, ed ogni
volta che riuscivano a riannodare le fila spezzate, tor
nassero a vincerli ed a metterli in precipitosa fuga.
Cosi fu che per circa due secoli e mezzo l’ Impero
dovè non solo respingere i continui assalti parziali d’oltre
Reno e d’oltre Danubio; ma piè di una volta si trovò di
fronte a formidabili eserciti di barbari confederati, che
penetrarono dentro l’ Impero, e resero necessarie a sal
varlo battaglie addirittura gigantesche. Una di queste fu
quella da noi già ricordata, combattuta da Marco Aurelio.
A un tratto, non si sa come nè perchè, forse cacciate da
altre genti, si videro le popolazioni germaniche avanzarsi,
riunite in una immensa moltitudine, nella quale primeg
giavano i Marcomanni ed i Quadi. Penetrarono nella Da
cia, passarono il Danubio, invasero l’Impero, e per la prima
volta il sacro suolo d’ Italia venne toccato dal piede di
soldati germanici (167 d. C.). Fu allora che Marco Aurelio,
abbandonati i suoi studi, assunse il comando dell’ eser
cito, e conducendosi da gran capitano, in una serie di
battaglie fortunate, respinse il nemico al di là del confine,
e combattè sino alla sua morte, seguita il 17 marzo 180.
Ma in quella lunga e gloriosa lotta, si vide che le forze
dell’ Impero cominciavano ad esaurirsi. Era stato neces
sario combattere i barbari con altri barbari, ed alcuni di
essi si erano anche dovuti accogliere dentro i confini,
esempio pericoloso che più tardi riuscì funesto. Tuttavia
si potè continuare per un secolo ancora a vivere abba
stanza tranquilli, fino a che gli stessi eventi, ripetendosi
in proporzioni sempre maggiori, portarono finalmente
conseguenze assai più gravi.
Infatti un’ altra di queste grandi battaglie si dovè dare
contro i Goti, sui quali dobbiamo ora un istante fermarci,
perchè furono essi che dettero più tardi il colpo mortale
all’ Impero. Una opinione largamente diffusa, li fa venire
dalla Scandinavia, di dove, per ragioni a noi ignote, si
sarebbero avanzati verso il sud. A tempo degli Antonini
li troviamo nella Prussia orientale, alla bocca della Vi
stola; circa la metà del terzo secolo erano nella Russia
meridionale, verso il Mar Nero, insieme coi Gepidi, di
visi in Ostrogoti e Visigoti, cioè Goti orientali ed oc
cidentali. Questa derivazione dalla Scandinavia e questo
lungo cammino verso il sud è messo in dubbio da altri
scrittori, i quali ritengono invece che i Goti siano ad
dirittura popolazioni germaniche orientali, e più che un
popolo, un amalgama di genti diverse, le quali si di
stesero al nord ed al sud, avanzandosi poi verso l’ oc
cidente. Alcuni li fecero derivare dai Geti, coi quali
vorrebbero confonderli. Sono però questioni difficili a
risolversi con certezza, anche perchè nel Medio Evo il
nome di Goti si dava a genti assai diverse.
Comunque sia di ciò, dalla Russia meridionale, avan
zandosi verso occidente, cominciarono ad assalire i confini
dell’ Impero, che, come dicemmo, erano, sin da quando
s’ era fatta l’ annessione della Dacia, divenuti da questo
lato assai più deboli. E dopo molti assalti sanguinosi, si
mossero finalmente nel 268, con un formidabile esercito,
ad una vera e propria invasione, menando seco le donne
ed i vecchi. Trovarono però anche questa volta virile
resistenza nelle legioni romane, comandate dall’ impera
tore Claudio. Questi scriveva al Senato che, nonostante
il disordine in cui i suoi predecessori avevano lasciato
l’ Impero, nonostante la mancanza d’ armi e d’ ogni cosa
più necessaria, s’ avanzava per difenderlo contro un eser
cito di 320,000 Goti, che avevano già passato il confine,
deciso a vincere o morire. Un si gran numero di armati è
probabilmente esagerato, essendovi forse compresi anche
i non combattenti. E così pure deve ritenersi esagerato
il numero di 6000 navi, che alcuni danno ai Goti, e che
altri riducono a sole 2000. In ogni modo, trattavasi d’una
invasione, di cui non s’era mai vista l’ uguale, e che pure
in due grandi battaglie (268 e 269) fu vinta e respinta
da Claudio. La prima ebbe luogo a Naissus, nella Ser
bia, e fu d’ incerto resultato. Pure coloro stessi che la
dissero perduta dai Romani, ammisero che vi perirono
50,000 Goti. Nella seconda battaglia questi furono dalla
cavalleria romana chiusi nei Balcani, ove dalla fame,
dalla peste e dal ferro vennero quasi totalmente di
strutti. Dei sopravvissuti una parte si salvò colla fuga,
altri rimasero prigionieri o schiavi addirittura, altri accet
tarono di servire nelle legioni romane. Molta fu la preda,
e cosi grande in essa il numero delle donne, che ogni
soldato romano ne ebbe due o tre per sua parte. Il che
viene a confermare sempre più, che si trattava non d’ un
esercito solamente, ma d’ una vera e propria invasione.
Claudio allora scriveva di nuovo al Senato, dicendo : - Ho
disfatto un esercito di 320,000 Goti, ho mandato a picco
2000 delle loro navi. - E per questi fatti egli ebbe il so
prannome di Gotico. Ma il gran numero di cadaveri fece
scoppiare una peste crudelissima, che uccise anche lui,
il quale cosi potè dirsi vittima della sua stessa vittoria.
Questa vittoria era certamente una prova novella della
forza ancora grandissima dell’ Impero. Ma quello che
nello stesso tempo dimostrava le forze inesauribili dei
barbari, si fu il vedere che, dopo perdite così enormi, essi
continuarono i loro assalti senza interruzione. È chiaro
che le perdite erano subito risarcite da altre e diverse
genti, le quali da ogni parte sopravvenivano. L ’ impera
tore Aureliano (270-75), che successe a Claudio, ed era
buon soldato, non meno che accorto politico, dopo avere
valorosamente resistito, fini col venire ad un accordo,
cedendo spontaneamente ai Goti la Dacia, a patto che
non avrebbero passato il Danubio. E così si abbandonava
ai barbari una provincia fertile, in gran parte già roma
nizzata, dalla quale moltissimi de’ suoi abitanti dovettero
emigrare. Si restringevano però, secondo i consigli di
Augusto, i confini dell’ Impero alla linea più sicura del
Danubio. Di ciò infatti Aureliano venne generalmente
lodato; e vi fa coi Goti quasi un altro secolo di pace
relativa, interrotta solo da tre guerre, mosse a tempo
di Costantino, nelle quali essi furono sempre respinti,
1’ ultima volta con la perdita, si dice, di 100,000 uomini,
morti di fame, di freddo e di ferro. Tuttavia questa li
nea del Danubio, da lungo tempo indifesa, rimaneva ora
il lato più vulnerabile dell’ Impero. I Goti si trovavano
nella Dacia in grandissimo numero, e andavano aumen
tando pel continuo sopravvenire di nuove genti. E ciò,
quando era andato sempre crescendo il numero dei bar
bari che facevan parte di quell’ esercito, che doveva con
tro altri barbari difendere il Danubio.
CAPITOLO III
La riforma dell’ Impero - Diocleziano e Costantino - L’ agita
zione religiosa - Ariani ed Atanasiani - Neoplatonismo - Giu
liano l’ apostata - Il vescovo Ulfila, e la conversione dei Goti.
I pericoli continui a cui l’ Impero si trovava esposto,
avevano fatto più volte sentire la necessità d’ una riforma,
la quale fu infatti condotta a compimento da Diocle
ziano (284-305) e Costantino (323-337). Primo suo scopo
era il bisogno di dare una maggiore unità amministra
tiva e militare, concentrando il potere nelle mani dell’ Imperatore, facendone un vero autocrata, conferen
dogli anche un carattere sacro e religioso. A rendere più
agevole l’ opera del governo, sopra tutto ad evitare i
continui pericoli delle tumultuose successioni, Diocle
ziano s’ era associato, col titolo di Augusto, Massimiano ;
poi altri due, Costanzo e Galeno, col titolo di Cesari. La
divisione del governo non portava quella dell’ Impero,
che restava sempre affidato alla suprema sua direzione.
Ogni volta che uno dei quattro governanti moriva, i tre
superstiti dovevano eleggere il successore, e cosi si spe
rava di evitare le scosse ed agitazioni continue. Ma que
sta parte della riforma falli interamente allo scopo. In
fatti, dopo l’abdicazione di Diocleziano, l’ Impero cadde,
per circa venti anni (305-323), in preda a continui tumulti,
fino a che non successe, unico imperatore, Costantino,
il quale condusse a compimento la parte veramente utile
e necessaria delle riforme di Diocleziano.
L ’ Impero venne diviso in quattro Prefetture dell’ Ita
lia, della Gallia, dell’ Illirico, dell’ Oriente. Il potere civile
fu nettamente diviso dal militare, e procederono paralle
lamente, emanando però ambedue dall’ Imperatore, capo
supremo, che circondato dai suoi ministri, comandava ad
ognuno. I Prefetti del Pretorio, abbandonato del tutto
quel potere militare che avevano avuto in passato, furono
messi, coi poteri esclusivamente civili, alla testa delle
Prefetture, divise in Diocesi sotto i Vicari, e queste in
Province sotto i Presidi, Consolari o Correttori. Seguiva
poi una lunga serie di minori ufficiali, che si distendevan
su tutto l’ Impero, con attribuzioni e gerarchie minuta
mente, precisamente determinate, per meglio ammini
strare, e sopra tutto piò rapidamente riscuotere le tasse.
Lo stesso fu fatto nell’ esercito coi suoi Magistri mililum
(peditum et equitum), sotto cui erano i Duces, i Comites,
discendendo con pari ordine sino ai gradi ultimi. Questa
riforma prolungò senza dubbio la vita dell’ Impero, dan
dogli maggiore ordine, unità e disciplina, rafforzando
l’ esercito. Ma essa aumentò anche le tasse e le vessa
zioni del fìsco nel riscuoterle; sottopose l’ Impero ad una
vasta rete burocratica, con le inevitabili e dannose con
seguenze, che non tardarono molto a farsi sentire. Roma,
col suo Senato, il quale conservava parte dell’ antico
splendore, non però l’ antico potere, ebbe un suo proprio
Prefetto (Praefectus Urbi). Essa e l’ Italia furono ridotte
alla condizione di province, sottomesse non solo al g o
verno, ma anche alla tassa provinciale sui terreni. Già da
un pezzo Poma era solo di nome capitale dell’ Impero.
Infatti Diocleziano ed i suoi tre colleghi risiedevano a Nicomedia, presso il Mar Nero; a Sirmio, non lungi da Bel
grado; a Treveri, a Milano. Il vero è che la necessità di
difendere la linea del Peno, del Danubio, ed anche dell’ Eufrate, a cagione della continua guerra persiana, spo
stava da un pezzo verso l’ oriente il centro di gravità
dell’ Impero, come si vide adesso anche più chiaramente.
Costantino, lo abbiamo già detto, condusse a compi
mento la riforma di Diocleziano. Ma sotto questo Impera
tore vi fu una dura persecuzione dei Cristiani, e Costan
tino invece, riconoscendo la forza irresistibile della nuova
religione, l’ adottò solennemente, sperando con essa di
rafforzare l’ Impero. L ’altro fatto che, nella sua vita, ebbe
una grande importanza storica, fu il trasferimento della
capitale da Roma a Bisanzio, sul Bosforo. La scelta
della nuova capitale, che da lui ebbe il nome di Costan
tinopoli, fu assai felice. Essa era non solo più vicina al
Danubio, ed un centro commerciale di primissimo ordine,
che poteva essere facilmente approvvigionato dall’ Egitto;
ma era anche strategicamente come una fortezza resa
inespugnabile dalla natura. E ciò fu provato dalla resi
stenza che per molti secoli potè fare contro innumere
voli nemici, mentre che Roma veniva invece di conti
nuo presa e saccheggiata.
Le conseguenze di tutto ciò furono molteplici. Pom a
e l’ Italia si sentirono come abbandonate, lasciate fuori
della vita politica. L ’ unione del Cristianesimo coll’ Im
pero, ambedue di carattere universale, faceva natural
mente sorgere il concetto d’ una Chiesa universale, la
quale infatti s’andò subito formando e modellando sulle
istituzioni stesse dell’ Impero. Ricordando il suo passato,
ora che cessava d’ essere la capitale politica, Roma si
sentiva spinta a divenire la capitale religiosa del mondo.
II suo vescovo volle essere non solo il successore di
S. Pietro; ma anche di Romolo e di Remo, di Cesare e di
Augusto, formando un impero religioso non meno vasto,
non meno potente e più solido di quello politioo, ohe
ormai minacciava rovina. Ed in ciò era mirabilmente
secondato dalle popolazioni italiane, nelle quali la vita
religiosa cominciò a manifestare un’ attività, che fra pooo
doveva divenire cosi febbrile, cosi generale da confon
dersi con la vita stessa di tutta la nazione. Se non ohe
l’ imperatore Costantino, che era alla testa dell’ Impero,
cominciato con lui a divenir cristiano, voleva porsi anche
alla testa della Chiesa. Convocava e presiedeva i Con
cili, prendeva parte alle dispute teologiche, faceva pe
sare la sua autorità nel deciderle, e proclamava le de
cisioni prese. Eran tutte cose che il vescovo di Roma non
poteva tollerare a lungo, spesso anzi già combatteva.
Cosi si ponevano fin d’ ora i primi germi di quelle lotte
che riempirono poi tutto il Medio Evo. Lo Stato venne
ben presto a conflitto con la Chiesa ; lo spirito religioso
dell’ Oriente, l’ Imperatore ed il patriarca di Costanti
nopoli con lo spirito religioso dell’ Occidente e col ve
scovo di Roma, contribuendovi non poco l’ indole intel
lettuale e morale, affatto diversa, delle due popolazioni.
Una prova di ciò si ebbe ben presto nella disputa
teologica sorta fra Ariani ed Atanasiani, che si diffuse
come un rapido incendio da un capo all’ altro dell’ Im
pero. A noi può sembrare oggi assai strano che una sot
tile controversia sulla Trinità potesse allora tanto agitare
gli animi. Si trattava però non solamente d’ un domina
fondamentale nel Cristianesimo, ma del concetto stesso
di Dio e delle sue relazioni con l’ uomo. Iddio si pre
senta alla nostra ragione come causa prima, al nostro
sentimento come provvidenza benefica, il che lo avvi
cina a noi, facendogli assumere forma quasi personale
ed umana. Il Cristianesimo soddisfece a questo doppio
bisogno del nostro animo, riconoscendo in Dio Padre il
creatore del mondo, in Gesù Cristo, suo figlio, lo stesso
Dio, che assume forma umana, e subisce la morte per
redimerci dal peccato e salvarci. Lo spirito greco, che
in sostanza è il creatore della teologia cristiana, comin
ciò ben presto a sottilizzare, ed Ario sostenne che il
Figlio, essendo stato creato dal Padre, non poteva essere
identico a lui, non poteva essere ab aetem o, doveva
avere un principio, sia pure quanto si voglia remoto.
Contro questo concetto insorse Atanasio, che in A les
sandria era stato educato alla filosofia di Platone, che
aveva considerato Iddio sotto il triplice aspetto di causa
prima, di logos o ragione, di spirito animatore dell’ uni
verso. Sostenne perciò risolutamente il concetto del Dio
trino ed uno, già penetrato nel Vangelo di S. Giovanni,
e disse ad Ario : — Colla vostra dottrina voi negate la
divinità di Gesù Cristo. Il Figlio è della stessa sostanza
(homoousios) del Padre. — E voi, gli rispondeva Ario,
ammettete non più un Dio solo, ma due. — Sinodi e Con
cili si successero allora rapidamente gli uni agli altri.
Vescovi e prelati erano di continuo in moto, a segno
tale da far dire perfino che si disorganizzavano le poste
dell’ Impero. Per le vie, per le piazze, nelle chiese, nelle
case non si parlava che del Padre e del Figlio, della loro
sostanza identica o no. Il Concilio di Nicea (325), radu
nato da Costantino, proclamò la dottrina di Atanasio; ma
l’ Oriente inclinava decisamente a quella di Ario. I suoi se
guaci cercarono dei mezzi termini, secondati in ciò da Co
stantino, il quale, anche per ragioni politiche, si sforzava
di mantenere l’ unità religiosa dell’ Impero. Alcuni, che
presero nome di semiariani, dissero che il Figlio era non di
sostanza identica (homoousios), ma pur simile (homoiousio8) a quella del Padre. Tutta la differenza, osserva qui il
Gibbon, si riduceva ad un dittongo, ad una sola lettera
dell’ alfabeto. Ma ciò non poteva bastare a far cessare
l’ ardore della controversia. Altri, adottando la formola
detta di Sirmio, dal luogo dove fu concordata, cercavano
evitare la disputa, sfuggendola con parole vaghe. Ata
nasio però non ammetteva transazioni di sorta, e respin
geva ogni accomodamento. Accusato, calunniato dagli av
versari, perseguitato dall’ imperatore Costanzo, figlio di
Costantino, deposto da patriarca d’Alessandri a, cacciato
in esilio, continuò la sua propaganda. Rimesso nella sua
sede, ripigliò con più audacia che mai l’ opera propria.
E quando, nella notte del 9 febbraio 356, la chiesa in
cui ufficiava fu circondata dalle milizie imperiali, egli,
fermo sulla sua sedia, continuò la lettura dei Salmi, no
nostante le insistenze de’ suoi fedeli, che lo scongiura
vano di porsi in salvo ; ed ordinava invece che si mettes
sero essi al sicuro. In fine, quando i soldati s’avanzavano
minacciosi contro di lui, ed egli era restato con pochi dei
suoi, scomparve improvvisamente con essi, come per mi
racolo, e si ritirò nella Tebaide, donde continuò la sua
propaganda.
Che un uomo solo, di carattere energico, eroico, mo
strasse tanta fermezza nella propria fede, non era allora
un fatto nè isolato nè strano. Ma ciò che dava alla batta
glia da Atanasio così valorosamente sostenuta, un grande
valore storico, era il fatto che dietro a lui stava tutto l’Oc
cidente, con alla testa il vescovo di Roma, Liberio. Questi
apertamente lo sosteneva, negando all’ Imperatore il di
ritto di deporlo, parlando come se già la Chiesa di Roma
fosse superiore a quella di Costantinopoli, e indipendente
affatto dall’ Impero. Quando si cercò di vincerlo con le
lusinghe, inviandogli ricchi donativi, li fece deporre sulla
soglia di S. Pietro, perchè non profanassero il tempio
del Signore. Quando si volle ricorrere alla forza, ne
nacque un così violento tumulto, che solo di notte e di
nascosto si potè portar via il Papa a Milano. Ivi, per in
durlo a sconfessare Atanasio, gli venne offerta grossa
somma di denaro. Ma la respinse indignato, dicendo:
« Serbasse l’ Imperatore il denaro per pagare i suoi sol
dati. » Ed all’ eunuco che insisteva, aggiunse : « Un la
dro tuo pari osa farmi limosina come ad un colpevole?
Comincia col farti buon cristiano prima che tu osi ri
volgermi la parola. » E piuttosto che cedere, accettò
l’ esilio.
L ’ Imperatore gli fece succedere a Roma il vescovo
Felice. Ma il popolo disertò le chiese, nè mai lo rico
nobbe. Quando Liberio, oppresso dagli anni e dai ma
lanni, si lasciò indarre ad accettare la formola incerta di
Sirmio, l’ Imperatore lo fece tornare a Roma, avendo la
strana illusione, che potesse iv i risiedere insieme con
l’ antipapa Felice. Ma il popolo insorse furibondo, uo
mini e donne, giovani e vecchi, gridando unanimi: Un
Dio, un Cristo, un Vescovo solo! (357). Essendosi Fe
lice provato a resistere, si pose mano alle armi, e cosi
fu messo in fuga. Liberio entrò invece trionfante. Non
si tenne però conto alcuno dell’ avere esso accettato la
formola di Sirmio. Pei Romani l’ accettazione fu come
non avvenuta.
Questa lotta cosi vivace poneva in evidenza più cose.
E prima di tutto si cominciava a veder chiaro, che lo spi
rito sempre pratico della Chiesa di Roma era deliberato
a mantener salda l’ unità della fede, senza venire a tran
sazioni di sorta, senza spaventarsi di nulla, evitando le
troppo sottili distinzioni teologiche, alle quali la stessa
lingua latina ripugnava, mentre la greca invece mirabil
mente vi si prestava. Essa restò inesorabilmente ferma
al concetto del Dio trino ed uno della dottrina atanasiana, destinata a trionfare. Si vide oltre di ciò, che il
vescovo di Roma assumeva di fronte all’ Imperatore una
posizione indipendente di capo della Chiesa universale.
In Italia, sopra tutto a Roma, s’ era nelle catacombe an
data formando una generazione nuova, che lo sosteneva,
piena di audacia e di avvenire, senza paura nè dell’ Im
peratore, nè del suo esercito.
Non v ’ ha dubbio però che la disputa fra Ariani ed
Atanasiani aveva diviso i Cristiani. E questo dovette
agevolare la via ad un tentativo singolare davvero, ma
non senza importanza storica, il quale ebbe luogo ap
punto allora, e mirava niente meno che a far risorgere
il Paganesimo. S’ era già visto a un tratto, con ina
spettata rapidità, diffondersi in Roma, fra le classi più
colte, una nuova dottrina filosofica col nome di Neopla
tonismo, venuta d’ Alessandria, per opera sopra tutto di
Plotino (205-270) e del suo discepolo Porfirio. Con un
misticismo e simbolismo orientale, svolgendo la filosofia
di Platone, essa esaltava il concetto del divino nel mondo
e nell’ anima umana, la cui suprema felicità faceva con
sistere nella contemplazione di Dio, col quale essa cer
cava confondersi. Questa dottrina, che da una parte
mirava alla risurrezione e riabilitazione del culto delle di
vinità pagane, da un altro risentiva visibilmente l’ azione
del Cristianesimo che essa, per mezzo del simbolismo,
presumeva di porre in armonia con quelle. Era un feno
meno singolare, il quale sembra ricordare oiò che avvenne
nel secolo xv, quando Gemisto Plotone voleva anch’esso,
per mezzo del Neoplatonismo, rimettere fra noi in onore
le antiche divinità greche. Se non che i tempi erano
molto diversi. Nel quarto secolo era assai maggiore la
forza del Paganesimo, e più viva assai nelle moltitudini
la fede cristiana.
Certo è che Plotino predicava con grande esaltamento
la sua dottrina, e trovò in Roma ardenti seguaci. Egli
aveva un supremo disprezzo pei beni di questo mondo,
e si doleva perfino d’ avere un corpo, perchè lo credeva di
ostacolo alla divina contemplazione, la quale tuttavia,
secondo il suo discepolo Porfirio, gli fu più volte con
cessa. L ’oracolo aveva proclamato, che il genio che l’ac
compagnava era esso stesso divino. E morendo, le sue
ultime parole furono: « I o faccio un ultimo sforzo per
condurre ciò che v’ ha di divino in me, a ciò che v’ ha
di divino nell’ universo.» A Roma venne nella sua età di
quaranta anni, ed acquistò subito una incontestata auto
rità. A lui ricorrevano tutti come ad arbitro, ed i mo
renti gli affidarono più volte la cura dei propri beni
e delle loro famiglie. L ’ imperatore Gordiano fu tra i
suoi seguaci, e fra di essi si trovavano anche parecchi
senatori, uno dei quali, Rogaziano, s’ era così esaltato
nella nuova dottrina, che per essa abbandonò la cura
dei propri beni, liberò i suoi schiavi, ricusò i più alti
uffici. Tutto ciò è un’ altra prova di quella vitalità mo
rale, ohe continuava ancora nella società pagana della
decadenza, sebbene da molti sia negata. Se non ohe il
Neoplatonismo, più ancora dello Stoicismo, era una dot
trina filosofica, capace di esaltare solo alcuni pochi spiriti
eletti, troppo pieni delle idee del mondo pagano, per
potere accettare senz’altro la dottrina del Vangelo.
Uno di questi spiriti fu Giuliano, detto l’ Apostata,
perchè abbandonò il Cristianesimo, nel quale era stato
educato. Della famiglia di Costantino, ed uomo d’ alto
ingegno, venne più tardi iniziato al Neoplatonismo, all’ ammirazione della poesia e mitologia greca, al segreto
dei misteri eleusini, cominciando esso stesso colle proprie
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L e legioni lo p«vvlaiuarv>iu> Anguste. C depe L merte vii
Costanzo ^5 ottobre W l\ enw^ con k w ì'nudici d e
cembro in Costantinopoli, cercando subito dì rimettervi
in onore il Paganesimo. E siccome egli me miche un
filosofo, e proclamò generalo tolleranza* così ebbe il th
vore di tutti coloro che erano stati o temevano dì dover
essere perseguitati. F m questi furono gli Àtanaaìanì ìn
Oriente, e gli Ariani in Occidente, i quali, felici d'essere
per ora lasciati in pace, capivano che il trionfo del Vaga
nesimo non poteva ormai essere altro ohe un fenomeno
effimero e passeggierò.
Il sogno di Giuliano era non solo religioso, ma nuche
politico. Voleva come PontiJvit MnWwns, per messo ilei
Neoplatonismo, far risorgere lo antiche divinità; e voleva,
qual nuovo Alessandro Magno, marciare ella imutpilsts
dell’ Oriente. Nel 968, in fatti, alla tosta «l'un formidabile
esercito, s’ avanzò contro la Persia, sempre nemica deh
l ’ Impero, ed ora in guerra con esso. Passò IMCufrate, e re
spingendo il nemico, proeedò fra mille difficoltà, attraversando una regione piena di canali, ed inondata, Hmopre
combattendo, sempre vittorioso, traversò il Tigri, e poi
togliere ai suoi ogni pensiero di ritirata, IV,e bruciare
le navi, con cui aveva passato « fiumi; «'avanzò nell'In
terno del paese, che trovò abbandonato e deporto, lo 0/ Kit)
i raccolti e le citta. Il ritirarsi ora di veneto Impossibile,
e Giuliano combatteva ancora vittoriosamente* /piando
il 26 giugno 869 venne mortai me nte ferito, fte in /pnj
l’ ultima ora amenti se stesso, re)>,gra n o si cogli ami/ì
che l’ amino **o, i; belato dal eorpo, s'an.dava a riv,n.
giungere con Dio. Ed augurò che l’ Impero venisse nelle
mani d’ un uomo giusto. Con lui spariva il suo sogno, e
gli succedeva Gioviano, incapacissimo, che per la fretta
d i ritirarsi a Costantinopoli, cedette al nemico che non
era certo vittorioso, varie provincia; ed abbandonò la
protezione dell’Armenia, stata sempre fedele all’ Impero,
disposta anche ora, pur di non essere separata da esso,
a difendersi da sè. Così lasciava la porta aperta al ne
mico, senza nulla aver guadagnato a suo vantaggio per
sonale, giacché moriva prima di entrare in Costantino
poli nel febbraio del 364.
Un altro fatto, per le sue conseguenze di assai grande
importanza, segui pure durante la controversia tra Ariani
ed Atanasiani, e fu la conversione d’ una parte dei Goti
al Cristianesimo. E ad essa tenne poi dietro a poco a poco,
la conversione di tutti i barbari. Era quasi un secolo
che i Goti dimoravano nella Dacia, dove cominciarono
subito a sentire l’ azione della civiltà romana, che in
quella regione doveva essere già profondamente pe
netrata. Ciò vien provato dal fatto, che nonostante la
lunga dimora colà delle popolazioni germaniche, nono
stante la invasione e la dura oppressione seguita piu
tardi per opera dei Turchi, e l’ essere ancora oggi
quella regione circondata da Magiari e da Slavi, serba
pur sempre visibilissimo e tenacissimo il carattere ro
mano, come provano il nome di Romania che porta, la
lingua che parla, la sua storia e la sua letteratura. Di
morando nella Dacia, i Goti si trovavano inoltre in con
tinuo contatto con l’ Impero. E cosi cominciarono lenta
mente ad incivilirsi, fino a che sorse fra di essi un uomo
veramente grande, il vescovo Ulfila (311-381), che fu il
vero iniziatore della loro conversione e della loro cultura.
Egli passò la sua giovinezza a Costantinopoli, dove
apprese il greco, il latino, e fu iniziato al Cristianesimo.
IL VE8COVO U L FIL A E L A CONVERSIONE D E I GOTI
41
Dedicò poi la sua vita intera a tradurre la Bibbia, ed a
convertire i suoi connazionali, ai quali insegnò anche
l’ alfabeto gotico, cominciando cosi a dirozzarli. La sua
traduzione, di cui alcune parti son pervenute sino a noi, ò
il più prezioso ed alìtico monumento della lingua e lette
ratura germanica. Si è molto discusso, per sapere quale
potò esser la ragione per la quale Ulfila preferì l’Aria
nesimo alla dottrina atanasiana, tanto più che sino a che
non si convertirono al Cattolicismo i Franchi, tutti gli
altri barbari divennero ariani. Ulfila però era stato con
vertito a Costantinopoli, quando vi prevaleva l ’Ariane
simo, nel quale fu perciò educato. £ si può anche ritenere,
che alla mente rozza de’ suoi connazionali, e in genere
dei barbari, che uscivano da un paganesimo grossolano,
dovesse essere più agevole ammettere una differenza tra
Padre e Figlio, che arrivare, per mezzo della filosofìa
neoplatonica, al concetto della identica sostanza del Dio
trino ed uno.
La conversione dei Goti però, se da una parte ne pro
mosse l’ incivilimento, da un’ altra li divise più che non
erano, indebolendoli di fronte ai Romani. Infatti gli
Ostrogoti, che abitavano la Dacia orientale, distenden
dosi dentro la Russia meridionale, rimasero pagani, come
i Gepidi che abitavano la Dacia settentrionale. Si con
verti solo una gran parte dei Visigoti, che abitavano al
sud-ovest, e si trovavano perciò a contatto coi Romani. A
questa divisione religiosa se ne aggiungeva anche una
politica. Gli Ostrogoti avevano in Ermanrico, della no
bile famiglia degli Amali, un vero e proprio re, che come
tale avrebbe dovuto governare su tutti. Ma da essi s’erano
separati i Visigoti, dividendosi anche fra di loro. Alcuni
di essi, rimasti sempre pagani, stavano sotto Atanarico, ed erano avversi a quelli divenuti cristiani, che,
comandati invece da Fridigerno, si tenevano in assai
piu stretta relazione coi Romani. Atanarico e Fridigem o
portavano il titolo di Giudici, forse perchè erano stati
in origine di quei capi di Pagi, ai quali, come vedemmo,
gli scrittori'romani davano nome di Principe8 o MagistratuSj e che amministravano anche la giustizia.
Siffatte divisioni davano ragione a sperare, che, da
questo lato almeno, l’ Impero potesse lungamente ancora
restare sicuro. E ciò tanto più che, quando nel 865 Pro
copio e Valente combattevan fra di loro, ed una parte dei
Visigoti passò il Danubio, per aiutare Procopio, Valente
che trionfò del suo competitore, potè, dopo averli ripe
tutamente combattuti (367-69), costringerli a conclu
dere la pace ed a ritirarsi. Ma avvenimenti improvvisi
ed inaspettati, che nessuna mente umana avrebbe potuto
mai prevedere, mutarono affatto lo stato delle cose.
CAPITOLO IV
Gli Unni
Tutti i popoli, che abbiamo finora incontrati, Greci, R o
mani, Celti, Germani, appartengono alla stessa famiglia
ariana, che dall’Asia sud-ovest, movendosi per direzioni
diverse, venne in Europa. Ma ora comparisce per la prima
volta sulla scena un popolo affatto nuovo, che faceva
parte di un’ altra grande famiglia, sostanzialmente di
versa, cui si dà il nome di turanica. Esso era destinato
ad avere, per qualche tempo, non piccola parte nei d e
stini dell’ Impero.
In quel vasto altipiano dell’Asia centrale, che si di
stende dall’ est all’ ovest fino ai Monti Ural, e trovasi fra
la catena altaica e quella del Tauro, il quale manda le
sue diramazioni verso il sud, abita una vasta moltitudine
d i popoli diversissimi. Sono all’ occidente i Finno-Ugri,
più all’ oriente i Torchi, i Mongoli, i M&ndsciù. Non
ostante le molte e grandi loro diversità, essi hanno pure
costumi e caratteri etnografici comuni. Anche le molte
e molto varie lingue che parlano, sono tutte monosilla
biche ed agglutinate. Le condizioni d’ un clima assai
freddo, con un suolo poco fertile, con fiumi che non irri
gano abbastanza da poter rendere la terra coltivabile
coll’ aratro, non hanno mai lasciato uscir dalla vita no
made quelle popolazioni, che dimorano perciò nelle tende,
circondate da numerosi armenti di cavalli, di vacche, o
secondo i luoghi, d’ altri animali. Si cibano principalmente
di carne e di latte, dal quale cavano un liquore, ohe è loro
ordinaria bevanda. Si vestono di pelli, vivono a cavallo,
occupati sempre, quando non sono in guerra, della caocia
anche d’ animali feroci, come la tigre, l’ orso, il oignale
salvatico. Oltre la tenda, non hanno case, nè villaggi o
città. Sono poligami e non conoscono altra forma sociale
ohe la famiglia e la tribù. Ma queste tribù aderiscono
facilmente le une alle altre, e quando trovano un capo
valoroso che le comandi, s’ uniscono qualche volta in
moltitudini sterminate. Le quali, per la consuetudine che
hanno di vivere in continuo moto, sempre in armi, pos
sono, senza alcuna difficoltà, recarsi, colle tende, i carri,
le donne, i bimbi, da una regione ad un’ altra* Più volte
queste popolazioni ebbero una gran parte nei destini del
mondo. Di tanto in tanto le vediamo precipitarsi come va
langhe dal loro altipiano, inondando, sconvolgendo tutto,
formando dei grandi imperi, che sembrano un momento
impadronirsi del mondo, per poi scomparire a un tratto
con la stessa rapidità con cui si sono formati, per dar
luogo più tardi, con uguale procedimento, alla rapida
formazione d ’altri imperi, che progrediscono e spariscono
del pari. I Mongoli, sotto i successori di Gengis Kahn,
combattevano nello stesso tempo in Silesia e sotto il muro
della China. È sempre un governo militare affidato a nu
merosi capi di eserciti, i quali governano con assoluto
dominio, pagando solo un tributo al loro capo supremo.
Qualche cosa di simile si vide anche negli Arabi, seb
bene d’ altra indole, d’ altra razza, i quali si distesero
dall’ Indostan al Marocco, alla Sicilia ed alla Spagna*
È una forma primitiva ed inorganica di Stato, la quale
sembra potersi distendere all’ infinito, sino a che l’ amal
gama dei vincitori coi vinti non ne comincia la decom
posizione, che procede anch’ essa rapidamente.
Queste popolazioni dell’Asia centrale o turaniche, non
portano nel mondo nuove idee, ma spesso diffondono
quelle degli altri popoli coi quali vengono a contatto.
Esse sembrano dalla Provvidenza mantenute nelle loro
prime sedi, in uno stato di perenne giovanezza e bar
barie, per agitare e rinvigorire il mondo, ogni volta che
intorpidisce e decade. A questa vasta famiglia di popoli
appartenevano gli Unni, ritenuti antenati degli Avari e di
quei Magiari che più tardi occuparono l’ Ungheria, dove
sono anche oggi. Erano Finni, che dimoravano nell’ Ural.
Nel quarto secolo, spinti forse da altre popolazioni più «
orientali, si precipitarono a un tratto verso il sud, con una
furia indicibile, ispirando un terrore universale, produ
cendo un grande spostamento di popolazioni verso l’ occi
dente. Nel 374 piombarono sugli Alani, nella Russia orien
tale, e dopo averli disfatti, ne aggregarono una parte ai
loro eserciti, che così ingrossarono, spingendosi fino alla
Palude Meotide o Mare di Azov, dove si fermarono al
quanto, prima d’ avanzarsi verso i Goti. Il grande terrore
che ispirarono in tutti apparisce assai chiaro nelle de
scrizioni che ce ne lasciarono i cronisti, nelle leggende
che intorno ad essi si formarono. Jordanes, il più antico
storico dei Goti, che nella metà del sesto secolo, compilò
la sua storia su quella che fu soritta da Cassiodoro, e ohe
andò poi perduta, dice di questi Unni, nomadi, pagani e po
ligami: « Sono più barbari della stessa barbarie. Non co
noscono nessun condimento al cibo, nè usano fuoco a cuo
cerlo. Mangiano cruda la carne, dopo averla tenuta qualche
tempo fra le loro gambe e il dorso dei cavalli che ca
valcano. Piccoli di statura, agili di membra e robusti,
sempre a cavallo ; la loro faccia, più che a viso umano,
somiglia ad un pezzo informe di carne, con due punti neri
e scintillanti, invece di occhi. Hanno pochissima barba,
perchè usano tagliar col ferro il viso dei loro bimbi, acciò
imparino prima a sopportar le ferite, che a gustare il
materno latte. Adorano per loro Dio una spada infissa
nel snolo, e sotto forme umane vivono come animali,
Nacquero dal connubio di spiriti maligni con streghe
cacciate nelle foreste dai Goti, alla cui royina esse li
generarono. Questi medesimi spiriti i'nron quelli che iAs
segnarono loro la via da tenere ueirandare all’ assalto
dei Goti. E fu in questo modo. Andando alcuni Unni a
caccia, s’ imbatterono m una cerva misteriosa, Ja quale,
volgen d o» nel mio cammino continuamente indietro, pa
reva li invitasse a seguirla. Cwsì fecero. K dopo che m m
ebbe, canmannaando^ mostrato Doro eonae e dvve pvteva
facilmente passarsi la Palude Meotide, scomparve a un
tratto., sego© mamifesto che e*»» ero. veroawe»:te u.uo degli
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sempre più ingrossati, sempre avanzando, arrivarono al
fiume Dniester, al di là del quale erano i Visigoti. Lo pas
sarono improvvisamente di notte (376), assalendo i V isi
goti di Àtanarico, ed incutendo loro tale spavento, che una
parte di essi si rifugiò nei Carpazi, un’ altra andò nella
Dacia occidentale, dove erano i Visigoti di Fritigerno, ai
quali si unirono, comunicando loro il proprio spavento.
E fu tale questo spavento che, sebbene Fritigerno fosse
assai valoroso e si trovasse, come affermano, alla testa di
200.000 armati, non potè pensare ad altro che a mettersi
in salvo, insieme ai suoi, colla fuga. Fu uno spettacolo
non mai più visto. Un esercito numerosissimo, con le
donne, i vecchi, i bimbi, le loro suppellettili sui carri,
sulle spalle ; una moltitudine di gente, che si fa ascen
dere ad un milione, correva al Danubio, per passarlo
e mettersi sotto la protezione dell’ Impero. I soldati
romani cercarono dapprima impedire questa specie di
inondazione umana. Alcuni infatti vennero colle armi re
spinti nel fiume dove affogarono. Ma come si poteva re
sistere ad un milione di persone d’ ogni sesso ed età, che
si avanzavano tremando, e colle mani in alto imploravano
pietà, accecati, impazzati dalla paura, la quale comuni
cava ad essi un impeto più irresistibile d’ ogni coraggio ?
Fritigerno dichiarò, che essi erano pronti a servire sotto
le bandiere romane, accettando ogni condizione. Ma chi
gli poteva credere? Ohi poteva prevedere che cosa sa
rebbe seguito? E chi poteva resistere?
Imperatore d’ Oriente era allora Valente, che da suo
fratello Valentiniano I era stato associato all’ Impero, e
dopo avere domata la ribellione di Procopio, regnava
sicuro. Di natura debole ed incerta, non vedendo nes
suna possibilità di fermare 1’ onda che s’ avanzava,
s’ illuse nella speranza che l’ acquistare un esercito di
200.000 uomini dovesse riuscire utile all’ Impero. E
concesse loro il passaggio. I patti furono che dovessero
cominciare col deporre le armi e consegnare ostaggi. Ha
quali patti si potevano in tanta confusione mantenere?
£ come trovare a un tratto vettovaglie per uu milione
di persone sopravvenute all’ improvviso? Si principiò col
numerarli e disarmarli. Ma poi bisognò subito smettere.
Alcuni già morivano estenuati dalla fame, altri senza dare
ascolto s’ avanzavano chiedendo, implorando da mangiare.
Gli ufficiali romani, profittando di oiò, cominciarono a
vendere cibi d’ ogni sorta, anche corrotti, ad altissimo
prezzo. Ed i Goti, che eran pronti a tutto, meno elio a ce
dere le armi, davano denaro, suppellettili, stoffe, per aver
da mangiare. Si dice, che alcuni, pur di non veder morire
di fame le mogli e i figli, s’ indussero a venderli schiavi.
E cosi un milione di barbari, dueoentomila dei quali
inaim i, si trovavano dentro l’ Impero. Non il valoro, non
la vittoria, ma la paura e la fuga avevano loro aperto la
via. Ma intanto erano entrati, ed orano sofforonti, affa
mati, irritati per le violenze od ingiustizie patito. Fri tigem o, uomo valoroso, cercò subito raccòglierò od ordinare
i soldati, ristabilire su di essi la disciplina, far rinascere
la coscienza del proprio valore, della propria forza. Noi
che egli era secondato dall’ arrivo di sempre nuovi V i
sigoti ed Ostrogoti che, passato il Danubio, venivano a
raggiungerlo, e dalle simpatie mal represso, oho i bar
bari dell’ esercito imperiale mostravano per lui od i suoi.
Ben presto si trasferì con essi a Marcianopoli, capi
tale della Mesia, a settanta miglia dal Danubio. Ivi i
Goti si dimostrarono subito uniti e pronti a procurarsi
da vivere anche colla forza, delle armi. E si capi allora
quali gravi conseguenze era per portare la decisione
presa da Valente di lasciarli venire. Ma come avrebbe
egli potuto impedire che un fiume cosi impetuoso, rotto
l’ argine, straripasse?
La diffidenza fu subito da una parte e dall9altra gran
dissima. Si narra che, avendo il generale romano Lupicino invitato a banchetto i capi dei Goti, essi vennero,
pieni di sospetto, con una scorta numerosa. E quando
s’ era ancora .a banchetto, s’ udirono grida di Goti e
Romani venuti fra di loro alle mani. Fritigemo, sguai
nata la spada, usci fuori, ponendosi senza indugio alla
testa de’ suoi. Ben presto, a poche miglia dalla città,
vi fu uno scontro (377), nel quale Lupicino e g l’ imperiali
furono battuti. Quel giorno, scrive Jordanes, pose fine
alle calamità dei barbari ed alla sicurezza dei Romani.
Ed in parte era vero. La battaglia era stata per sò stessa
di poco momento, ma grandissime ne furono le conse
guenze morali. Coloro che erano entrati nell’ Impero come
fuggiaschi, implorando pietoso aiuto, s’ erano a un tratto
mutati in numerosi e minacciosi aggressori, che libera
mente percorrevano la Tracia, saccheggiando. Tuttavia
quando essi circondarono Adrianopoli, vennero facilmente
respinti, giacché, prima delle armi da fuoco, le mura delle
città presentavano al nemico ostacoli quasi sempre insu
perabili. Ritiratisi nella Dobruscia, furono dai Romani
assaliti, con impeto degno degli antichi tempi, in un
campo trincerato dai carri e bagagli; ed ebbe luogo una
seconda battaglia, che essendo stata d’ esito incerto, ne
rese inevitabile una terza.
L ’ imperatore Valente, che in questo mezzo era a
combattere i Persiani, saputo della ribellione dei Goti,
concluse in fretta la pace, per venire con le sue genti
ad affrontarli. Il 9 agosto 378, a dodici miglia da Àdrianopoli, ebbe luogo una grossa e decisiva battaglia, nella
quale il valore dei soldati romani dette splendida prova
di sé ; ma vennero guidati con una cosi inesplicabile inca
pacità, che la loro disfatta fu inevitabile. Dopo una lunga
marcia, sotto il sole ardente di agosto, si trovarono di
fronte al nemico, in un luogo così stretto, che non pote
vano muoversi nè fare libero uso delle proprie armi.
Quarantamila di essi incontrarono eroicamente la morte.
Di Valente, che era nella battaglia, non si seppe più
nulla, e ne fu quindi in diversi modi narrata la fine. La
disfatta fu grande, ed alcuni scrittori, esagerando non
poco, la paragonarono a quella di Canne. Certo è che
quando i Goti si riprovarono ad attaccare Adrianopoli,
dove era il tesoro imperiale, vennero respinti con una
energia che non si aspettavano. E quando si ritirarono
saccheggiando, dando poi l’ assalto alle mura di Costan
tinopoli, ebbero una lezione anche più severa. La caval
leria saracena, assoldata dall’ Impero, li inseguì, sui suoi
cavalli arabi, con una fulminea rapidità, e con un fu
rore addirittura selvaggio. Uno di essi fu visto correre
nudo sul suo cavallo, inseguire un Goto, raggiungerlo,
sgozzarlo e beverne il sangue. Ciò mise un gran ter
rore, perchè i barbari avevano trovato chi era più bar
baro di loro.
CAPITOLO V
Teodosio
In Oriente adunque non v’ era più un Imperatore, e
l ’ esercito era stato battuto. In Occidente, a Valentiniano I era successo il figlio Graziano, il quale, per vo
lere delle legioni, aveva dovuto assumere a compagno
il fratellastro Valentiniano II, di soli quattro anni, messo
perciò sotto la reggenza della madre Giustina, celebre
per la sua bellezza, superata da quella più celebre ancora
della figlia Galla. Graziano dette a Valentiniano, cioè
alla madre che ne faceva le veci, il governo dell’ Italia e
dell’ Africa. Egli intanto teneva fronte valorosamente,
nella Gallia e nella Rezia, ai barbari che cercavano avan
zarsi da quel lato. Urgeva però pensare anche all’Oriente,
dove il pericolo era maggiore e pia vicino. Consapevole
della gravità d’ nn tale stato di cose, e della generale
ansietà in cni tatti perciò si trovavano, egli prese una
risoluzione assai fortunata. Elesse a suo compagno per
l’ Oriente Teodosio, nato nella Spagna, la quale aveva già
dato grandi imperatori quali Adriano e Traiano. Teodosio
era noto pel suo valor militare, per la sua prudenza, e
quindi la scelta venne accolta con generale favore.
Senza perdere tempo, egli si recò a Tessalonica, punto
strategico, dove raccolse e riordinò l’ esercito, comin
ciando a provarlo in una serie di fortunate scaramucce,
che ne rialzarono l’ animo, deprimendo quello dei Coti.
E quando, per la morte del loro capo Fridigerno, questi co
minciarono a dividersi, egli ne seppe profittare, fomen
tando sempre più la loro discordia, accogliendone parecchi
sotto le sue bandiere, mostrandosi loro favorevole per
modo, che si fece la reputazione d’amico dei Goti. E così
potè nel 382 concludere una capitolazione, con la quale
venne ad essi concesso d’abitare stabilmente nella Tracia
come foederati. Quali fossero con precisione i patti, nei
loro più minuti particolari, noi non lo sappiamo. I Goti
restavano come amici nell’ Impero, di cui riconoscevano
l’ autorità, obbligandosi a difenderlo con le armi, ad ogni
richiesta. Ebbero case da abitare, terre da coltivare, e
i soldati ricevevano anche paga in danaro o in grano. Ma
non facevano parte dell’ esercito imperiale; restavano
uniti come un popolo a sè, sotto i loro propri capi. E qui
era il pericolo. Certamente se si pensa che Teodosio li
aveva trovati nemici, armati, minacciosi, che scorrevano
e saccheggiavano liberamente il paese, senza che fosse
possibile ormai cacciare al di là del Danubio, e molto
meno distruggere un milione d’ uomini, la capitolamene
conclusa fa un savio atto di governo. E tale venne gene»
ralmente tenuta. Ma intanto l’ Impero a’ era messo la
serpe nel seno. Questi barbari, che potevano da un mo
mento all’ altro insorgere, erano il richiamo oontinuo di
altri, i quali passavano il Danubio alla spicciolata, o di
sertavano le bandiere romane, o spezzavano le oatene
della schiavitù.
Tuttavia, finché visse, mercè la sua prudenza e la sua
fermezza, Teodosio non ebbe dai Goti altre noie. E la
fortuna lo secondava ogni giorno più. Graziano sembrava
divenuto adesso un altro uomo. Trascurava il governo
e dimostrava un eccessivo favore ai soldati barbarici,
per il che le legioni romane, ingelosite, lo deposero, gli
dettero per successore Massimo (883), e poi lo uccisero.
Massimo ambiva di governar tutto l’ Occidente, e quindi,
dopo i primi accordi, venne in dissenso con Valentiniano IL Corse in Italia, obbligandolo a fuggirsene con
la madre e la sorella in Costantinopoli, dove chiesero
aiuto a Teodosio. E questi dapprima esitò, avendo già
troppo da fare. Sentiva però i vincoli di gratitudine verso
la famiglia di Valentiniano I, e s’ era innamorato della so
rella di Valentiniano II, che poi sposò, e che ora insieme
colla madre lo spingeva alla vendetta. Cosi fu che nel 888
lo vediamo sulla Sava, alla testa d’ un esercito, respingere
Massimo, che poi ad Aquileia fu disfatto ed ucciso.
Giustina allora potè tornare in Italia col figlio Valen
tiniano II, che aveva ormai diciassette anni. Questi era in
tanto caduto sotto l’ assoluto dominio del generale franco
Arbogaste, che, essendosi in Aquileia condotto con gran
valore, ed avendo colle proprie mani ucciso il figlio di Mas
simo, pretendeva ora farla addirittura da padrone. Tutto
ciò lo fece venire in grande contrasto con Valentiniano, il
quale voleva ora mandarlo via. Ma Y.uwAw /a del soldato
franco crebbe a tal segno, che l’ Imperatore, perduta la
pazienza, pose mano alla spada per ncciderlo. Ne fu al
lora trattenuto dai suoi; ma poco dopo lo troviamo morto
(15 maggio 892). Ohi disse che s’ era ucciso, chi invece
che era stato ammazzato dai seguaci d’ Arbogaste.
Questi era pagano, e fu il primo generale barbarico
che osò farla da Imperatore romano, non di nome, ma
di fatto, esempio che vedremo d ’ ora in poi molte volte
imitato. Egli, come segui poi sempre a questi barbari, non
osava salire sul trono, assumendo in proprio nome l’ Im
pero. Elesse invece il retore Eugenio, che doveva assu
mere la porpora, ed essere suo docile strumento. Infatti,
sebbene cristiano, Eugenio, per secondare Arbogaste, si
diede a favorire i Pagani, ancora abbastanza numerosi
in Roma. Cosi credeva di trovar seguito contro Teodo
sio; ma invece gli accrebbe forza. Questi infatti veniva
ora spinto alla guerra non solo da ragioni politiche, ma
anche dalla moglie Galla, che voleva vendicar la morte
del proprio fratello Valentiniano, e dai vescovi, dal
clero, dal popolo, che lo incitavano a difesa della re
ligione cristiana. Si decise quindi a prendere le armi.
Se non che, sapendo che il generale franco aveva grande
valore e molta autorità sui propri soldati, si apparecchiò
per due anni interi all’ impresa (893-4). La quale fu ri
tardata anche dalla morte dell’ imperatrice Galla (mag
gio 394), che gli lasciò una figlia, Galla Plaeidia, più
bella della bellissima madre, e destinata, in quel secolo
corrotto, ad esercitare un gran potere politico, in mezzo
ad una serie di strane vicende.
Riavutosi appena dal suo dolore, Teodosio mosse final
mente alla testa d’ un poderoso esercito. Ne facevano
parte, fra gli altri, ventimila Goti federati, sotto il co
mando dei loro migliori generali, e con essi era anche
il giovane Alarico, destinato a maggiori imprese ed a
grande fama. Percorrendo la stessa vìa tenuta già per
combattere Massimo, presso il fiume Frìgido, in un punto
equidistante da Emona (Lavbachl ed A quii eia, Teodo
sio s’ affrontò col nemico. La battaglia continuò per due
giorni con varia fortuna. H a finalmente, favorito anche
dall’ impetuoso vento Bora, che suole infierire colà, ed al
lora soffiava in viso al nemico, il 6 settembre 894 Teo
dosio ottenne piena vittoria. Eugenio fu preso dai sol
dati, che gli tagliarono la testa, ed Arbogaste, quando
ebbe perduto ogni speranza, si gettò da Romano sulla
propria spada. Questa vittoria di Teodosio ebbe una
grande importanza storica. Per essa l’ Impero rimase po
liticamente riunito sotto di lui, che lo tenne con mano
assai ferma. Aveva nello stesso tempo distrutto gli ultimi
avanzi del partito pagano, e potè quindi ricostituire an
che l’ unità religiosa col trionfo, in Oriente ed in Occi
dente, della dottrina di Atanasio, alla quale, sin dal prin
cipio del suo regno, egli era restato sempre fedele. Tutto
questo determina il valore storico di Teodosio, ed è oiò
che gli fece giustamente avere il nome di Grande.
Per la sua ferma adesione alla dottrina ortodossa, egli
riuscì a stringere anche il connubio dell’ Impero oolla
Chiesa più che non avesse potuto fare lo stesso impera
tore Costantino. E la Chiesa se ne giovò grandemente,
facendo rapidi progressi, come si vide nel gran numero
ohe ebbe allora d’ uomini eminenti per carattere e dot
trina, quali S. Basilio, S. Gregorio Nazianzeno, S. Gi
rolamo e S. Ambrogio, il celebre vescovo di Milano.
Questo fu anche il tempo in cui s’ andò formando la teo
logia latina, la quale si può veramente dire che sia in
sieme religione, filosofìa e disciplina ecclesiastica. Essa
mira sopra tutto a tener ferma l’ unità della fede, l’ auto
rità universale e la forza politica della Chiesa. Un altro
dei grandi personaggi di questo tempo fu Damaso, il ve
scovo di Roma, che successe a Liberio (366). Egli ascese
sulla sedia episcopale, in mezzo ad un violento tumulto ;
proclamò subito il principio che la Chiesa di Roma è
superiore alle altre, che gli ecclesiastici solo da eccle
siastici debbono essere giudicati.
Ma per quanto il connubio della Chiesa e dell’ Impero
desse forza all’ una ed all’ altro, v ’ erano in esso i germi
di futuri conflitti, come si vide fin dai tempi di Teodo
sio. Egli era molto amico del lusso e delle spese, per te
nere sempre più alto lo splendore e la dignità del suo
grado. Ma ciò portava aumento di tasse, il che fu causa di
replicati tumulti. In uno dei quali, seguito in Antiochia,
le statue dell’ Imperatore furono rovesciate, il suo nome
venne ingiuriato. Questa volta egli fini coll’usare clemenza.
Più tardi però, nel 390, un altro assai piu grave tumulto
si ripetè a Tessalonica, e ne fu pretesto l’ imprigiona
mento d’ un auriga del Circo. Un generale e parecchi uf
ficiali vennero uccisi, i loro cadaveri furono ignominiosamente trascinati per le vie. Teodosio, che era allora
a Milano, rimase di ciò tanto sdegnato, che ordinò una
punizione esemplare, anzi feroce, senza distinguere inno
centi o colpevoli. Si parla di settemila uccisi, che alcuni
fanno ascendere fino a quindicimila : certo è che il san
gue corse a fiumi. E fu allora che il vescovo di Milano,
S. Ambrogio, gli scrisse una lettera che è pervenuta sino
a noi (Ep. 51), nella quale, condannando l’ eccidio, lo in
vitava a penitenza, giacché non avrebbe, egli diceva, po
tuto far entrare nel tempio del Signore, per pigliar parte
alle sacre cerimonie, chi aveva ancora bagnate le mani
del sangue di tanti innocenti.
S. Ambrogio era certo uno dei caratteri più notevoli
del secolo, uno di coloro che dimostravan chiaro il rigo
glio, la forza che andava prendendo la Chiesa in Italia.
Disceso da una delle più nobili famiglie romane, tenne
prima alti offici politici, e fu poi nel 374 vescovo eli Mi
lano, dove il popolo lo adorava. Nel 386 ebbe la fortuna
e l’onore di convertire & Agostino alla religione cristiana.
In Ini la fermezza della fede era uguale alla energia in
domabile del carattere. Nel 385 non volle nella sua dio
cesi concedere alla imperatrice Giustina neppure una sola
chiesa pel culto ariano. Nè fu possibile rimuoverlo, —
L ’Impero, egli disse allora, può disporre dei palassi ter
reni, non della casa del Signore, nella quale non oomanda
la forza. — Quando, per minacciarlo, furono a lui mandati
i soldati goti, egli li affrontò dinanzi alla chiesa) doman
dando loro : se era per invadere la casa del Signore, che
avevano chiesto la protezione della Repubblica, E quando
l’Imperatore sparse il sangue degli eretici, seggaci di
Priscilliano, egli lo biasimò severamente. Nè meno seve
ramente lo biasimò, quando ordinava che fosse rico
struita una sinagoga bruciata dal popolo, — Il vescovo,
cosi gli scrìsse allora, che avesse obbedito ad un tale
ordine, sarebbe stato nn traditore del suo ufficio. Non si
deve ricostruire la casa in cui si rinnega il nostro Hignore Gesù Cristo. — E nella basilica, dinanzi all’ Im
peratore, ripetè le stesse cose, aggiungendo che questi
doveva lasciare libertà di parola al sacerdote, cui non
è lecito nascondere il proprio pensiero. In armonia con
tale ano procedere era la lettera cui accennammo, scritta
quando avvennero le stragi di Tessalonica.
Si aggiunge da alcuni scrittori che, quando Teodosio
ai provò ad entrare nella basilica, 8. Ambrogio lo fermò
sulla soglia dicendogli : — Se la tua mondana potenza ti
acceca a questo segno, ricordati che anche tu sei uomo,
e devi perciò tornar nella polvere, rendere conto a Lio
del tuo operato. L e anime di coloro ohe hai uccisi sono
«aere quanto la tua. — Allora Teodosio avrebbe mandato
a piegar Tanimo indomito del vescovo, il suo ministro
Rufino, quello stesso che lo aveva incitato alla strage di
Tessalonica. E questi si provò dapprima colle lusinghe ;
ma quando si vide sdegnosamente respinto, disse che
l’ Imperatore sarebbe in ogni modo entrato. Allora S. Am
brogio rispose: — Dovrà passare sul mio cadavere. — L a
leggenda ha voluto con tutti questi minuti particolari co
lorire un fatto vero ; ed essi servono mirabilmente a ri
trarre il carattere dell’ uomo. Per entrare nel tempio
Teodosio dovette piegarsi dinanzi a S. Ambrogio, e far
penitenza (25 dicembre 390), ripetendo il Salmo cix . 25:
« L ’ anima mia è attaccata alla polvere; vivificami se
condo la tua parola.» Nulla certo è piu nobile d’ una
condotta così ferma, cosi eroica. Essa è anche una prova
visibile della straordinaria potenza che aveva allora as
sunto la Chiesa, che andava di fatto formando in Italia
una generazione nuova di uomini, ai quali spettava P av
venire. Ma se tale era di fronte all’ Impero l’ ardimento
d’ un vescovo di Milano, quale sarebbe mai stato quello
del Papa ? A questa domanda risponde pur troppo tutta
la storia del Medio Evo.
E se i germi di futuri conflitti erano nascosti nel con
nubio, che Teodosio aveva stretto fra l’ Impero e la Chiesa,
non minori pericoli minacciavano nell’ avvenire le condi
zioni politiche generali, come si cominciò a vedere subito
dopo la morte di lui, seguita nella sua età di cinquanta
anni, a Milano, il 17 gennaio 395, quattro mesi circa
dopo quella grande battaglia del Frigido, che sembrava
aver dato un assetto definitivo all’ Impero. Certo Teo
dosio lo aveva trovato diviso, disordinato, minacciato ; e
potò ricostituirlo, riunendolo ed infondendogli nuova vita.
Ma era pur troppo una ricostituzione solamente tempo
ranea. Sul Danubio, sul Reno, in Persia il pericolo non
era mai cessato, era anzi sempre cresciuto. I Goti si tro
vavano nella Tracia, erano in armi, ed aumentavano
sempre. Solo la sua grande autorità ed energia aveva
potuto riuscire a tenere in equilibrio forze cosi diverse
e tra loro cozzanti, che da un momento all’ altro pote
vano venire a conflitto. L ’ aver saputo mantenere un tale
'equilibrio gli procurò giustamente il nome di Grande; ma
a farlo durare occorrevano costantemente una mano ferma
e sicura, una mente superiore. Era quello che veniva
appunto a mancare colla sua morte, quando l’ Impero fu
lasciato ai due suoi figli del pari incapaci.
CAPITOLO V I
Arcadio ed Onorio - Bufino, Stilicone ed Alarico
Sino dai tempi di Diocleziano l’ Impero era stato quasi
sempre diviso in varie parti, sotto imperatori diversi,
più o meno dipendenti da uno di essi. Questa divisione,
che non escludeva il concetto della unità, era stata sug
gerita dalla grande difficoltà, che un solo doveva incon
trare a voler governare e difendere tutto l’ Impero con
tro i nemici, che da ogni parte contemporaneamente
10 assalivano. Teodosio, come vedemmo, potò riunirlo
sotto il suo scettro; ma alla sua morte lo lasciò nuo
vamente diviso fra i suoi due figli, Arcadio, cui assegnò
l ’ Oriente, ed Onorio, cui assegnò l’ Occidente, senza che
intendesse con ciò di formare due Imperi separati, W
come si è più volte ripetuto. Se non che, questa divisione
seguiva ora in condizioni affatto nuove, che ne mutarono
11 carattere, e col tempo la resero definitiva. Nella ele-
(1) « Arcadia» Angusta».... et Honorias Angusta».... commune imperlimi,
<dÌTÌ»Ì8 tantnm sedibns, tenere coepernnt. > P. Orosio V II, 36. Marcellino
ripete presso a poco le stesse parole.
zione degl’ imperatori, fatta in modi assai diversi, sem
pre però con la partecipazione dell’ esercito, s’ era fin dal
tempo di Costantino, e piu ancora di Valentiniano I, an
dato introducendo il principio ereditario, cercandosi, per
quanto era possibile, di non uscire dalla stessa famiglia.
Prima di morire, Teodosio s’ era a questo fine associati i
due figli, che ora gli succedevano, l’ uno affatto indipen
dente dall’ altro. Ma essi erano ambedue di minore età,
Arcadio avendo 18 anni, Onorio soli IO, e però l’ uno e
l’ altro ancora incapaci di governare. E Teodosio, che ben
lo sapeva, aveva lasciato il primo affidato alle cure del
prefetto Rufino, suo primo ministro ; il secondo, al valo
roso generale Stilicone, Magister utriusque militiae, un
Vandalo che aveva gloriosamente combattuto sotto di lui
contro Eugenio, e ad esso aveva raccomandata la difesa
dell’ Impero. Così non solo i due imperatori minorenni
erano l’ uno indipendente dall’ altro ; ma erano stati affi
dati alle cure di due uomini potenti ed ambiziosi del pari,
che tra di loro non potevano andare d’ accordo. Tutto
ciò portava inevitabili difficoltà per l’ avvenire.
L ’ ordinamento del governo continuava sempre quale lo
avevano formato Diocleziano e Costantino. Quattro Pre
fetti del Pretorio alla testa delle quattro Prefetture: l’Ita
lia cioè con le sue isole e l’Africa, la Gallia con la Spagna
e la Britannia, l’ Illirico, l’Oriente. A Costantinopoli come
a Roma v ’ era un Prefetto della città con un Senato, che
andava sempre più perdendo il suo potere politico, per
divenire come una Caria municipale. Le Prefetture erano
divise in Diocesi, e queste in Province, a lor volta sud
divise in Municipi, i quali erano ordinati a similitudine
di Roma, col loro Senato o Curia e la plebe. Essi re
starono, nel disfacimento generale dell’ Impero, l’ unico
organismo destinato a sopravvivere, trasformandosi però
sostanzialmente. Accanto a quest’ amministrazione ci
vile, come abbiamo già visto, era 1’ ordinamento mili
tare, coi Magistri peditum e Magiatri equitum, due uf
fici che si univano spesso in una persona sola, chiamata
allora Magister militum o Magister utriusque militiae. Il
numero di questi grandi ufficiali militari variava spesso :
in Oriente ne vediamo fino a cinque. In Italia si trova
non di rado un Magister utriusque militiae, quale adesso
era appunto Stilicone.
Se non che questo doppio ordinamento civile e mili
tare, che procedeva parallelamente, avrebbe dovuto, coinè
abbiamo già visto, metter capo alla sola autorità suprema
dell’ Imperatore. Ma ciò era divenuto impossibile ora che
a due imperatori inesperti e indipendenti l’ uno dall’ al
tro, si aggiungeva la gelosia e l’ antagonismo dei due
consiglieri che dovevano guidarli. Bufino, oriundo della
G-allia, avido, furbo, ambizioso e crudele, era per queste
sue stesse qualità di grado in grado salito ai primi onori.
Costretto a raccogliere danaro per l’ amministrazione e per
l ’ esercito, doveva aggravare di tasse il popolo, cui era
perciò divenuto odioso. Ma essendo egli Prefetto del Pre
torio per l’ Oriente, avendo la sua sede nella capitale, ed
essendosi a tempo di Teodosio, che negli ultimi anni di
sua vita aveva riunito l’ Impero, trovato a far le parti
di primo ministro, presumeva ora di poter dirigere non
solo la politica generale dell’ Oriente, ma quella ancora
d ell’ Occidente. Stilicone dall’ altro lato, avendo colle
armi contribuito a ricostituire l’ antica unità, e trovan
dosi ancora alla testa dell’ esercito, col quale aveva a tal
fine vittoriosamente combattuto, godeva di questo la
piena fiducia. Aveva inoltre sposato Serena, la nipote
di Teodosio, che morendo (cosi generalmente si diceva)
gli aveva affidato il mandato di vigilare sui due suoi
figli. E però, se Bufino pretendeva di comandare politicar
mente, Stilicone pretendeva di comandare militarmente
su tatto 1’ Impero. S’ aggiungeva a ciò, che come capo
dell’ amministrazione, Bufino rappresentava i Romani, e
come capo dell’esercito, Stilicone, il quale era un barbaro
egli stesso, per forza delle cose, rappresentava i barbari,
che nell’esercito prevalevano. I due principali personaggi
dell’ Impero si trovavano adunque fatalmente alla testa
di due partiti, con pericolo evidente in un avvenire non
lontano.
Certo la posizione di Bufino era assai più difficile,
perchè se egli aveva in mano la borsa, Stilicone aveva
le armi. E per riempire la borsa erano necessarie le tasse,
che partorivano odio. Nella Corte stessa non mancavano
intrighi contro di lui, tanto più che Arcadio, non essendo
come Onorio un fanciullo, già cominciava a mostrarsi in
tollerante d ’ una tutela permanente ed incomoda. E ne
diè prova sposando la figlia d’ un generale franco, Eudoxia, celebre per la sua bellezza, che gli era stata racco
mandata dall’ eunuco Eutropio, il quale aveva l’ ufficio di
Praepositus sacri cubiculi: tutto ciò a dispetto di Bu
fino, che avrebbe voluto dargli la propria figlia. Nondi
meno la sua autorità era sempre grandissima, come
si vide ben presto.
I Goti federati, dolendosi ora di non avere i consueti
sussidi, e più di tutti dolendosi Alarico loro capo, per
chè non aveva potuto avere il titolo chiesto di Magister
militum, cominciarono a percorrere il paese, tumultuando
e saccheggiando. Stilicone allora s’ avanzò alla testa del1’ esercito, per sottometterli ; ma Bufino potè, in nome
d ’ Arcadio, ordinargli che s’ occupasse solo delle cose
d’ Occidente, e rimandasse a Costantinopoli i soldati che
appartenevano all’ Oriente, e che erano la più parte
barbari, anzi Goti. Stilicone dovette obbedire, e li fece
partire sotto il comando del generale goto Gainas, il
quale si vuole che cospirasse con lui, d’ accordo con
l’ eunuco Eutropio, contro Bufino. Certo è in ogni modo,
clie quando i soldati furono presso Costantinopoli, ed il
27 novembre 395 vennero passati in rivista da Arcadio
insieme con Bufino, questi si trovò a un tratto circon
dato; e subito si avanzò un soldato, che dicendo, —
con questa spada ti colpisce Stilicone, — lo feri mor
talmente. Il suo cadavere venne dalla moltitudine fatto
a pezzi. Alcuni ne portarono in giro pel campo la testa
infitta sopra una lancia; altri ne portarono un braccio,
con la mano tenuta in attitudine di chieder nuove tasse.
In conseguenza della morte di Bufino crebbe assai il
potere di Eutropio, che gli successe; e pareva ancora
che i barbari fossero addirittura divenuti i padroni in
Costantinopoli, essendo riusciti ad occupare i principali
uffici militari e civili. Ma ciò appunto provocava una
reazione vivissima del sentimento romano. E di esso il
retore Sinesio rende vasi interpetre presso l’ Imperatore,
incitandolo a porsi « alla testa dell’ esercito, come gli
antichi Cesari; e non permettere che i barbari piglino
posto perfino nel Senato, che portino la toga da essi
disprezzata, che riempiano le legioni e facciano tumulto,
che mettano a pericolo l’ Impero. L ’ esercito deve essere,
egli concludeva, di Bomani che difendano la patria. »
Ma ciò nonostante il potere di Gainas e dei Goti era
sempre grandissimo. Era cresciuto, è vero, anche il po
tere di Eutropio, che nel 399 fu nominato Console ; ma
questi, generalmente odiato, venne in discordia con la
Imperatrice e con Gainas. Il quale riuscì a farlo con
dannare a morte, dopo di che assunse l’ ufficio di Magister utriusque militiae, e fu davvero V uomo più potente
in Costantinopoli. Se non che, questo suo potere appunto
ridestò più che mai la violenta reazione del partito na
zionale, la quale s’ accese maggiormente quando all’ an
tagonismo politico s’ aggiunse il religioso.
Allora era vescovo di Costantinopoli S. Giovanni Cri
sostomo, uomo di grande autorità e fermezza, irremovi
bile anch’ esso nella sua dottrina atanasiana, già fatta
prevalere da Teodosio. I barbari erano invece ariani, e
però Gainas loro* capo mal tollerava che nella capitale
dell’ Oriente non vi fosse una sola chiesa destinata al loro
culto, e che essi dovessero trovarsi costretti a cercarla
fuori delle mura. Se non che tutto ciò era secondo le
leggi e gli ordini di Teodosio; e Crisostomo, deliberato
a non cedere in nulla, li fece leggere a Gainas, ricor
dandogli che aveva accettato di servire l’ Impero, con
l’ obbligo di rispettarne le leggi. Non volendosi cedere
nè da una parte nè dall’ altra, gli animi s’ accesero per
modo che il 12 luglio 400 scoppiò contro i barbari un tu
multo assai violento. Molti ne furono uccisi, gli altri si
dovettero ritirare dalla città, e Gainas, combattuto, in
seguito, cercò di salvarsi nella Dacia, passando il Danu
bio con alcuni dei suoi. Ivi fu ucciso dagli Unni, che
credettero con ciò di far cosa grata all’ Impero. Questo
fu il più notevole avvenimento nella vita di Arcadio,
giacché Costantinopoli fu così libera dai barbari ;
1*Impero orientale riprese il suo carattere greco-ro
mano, che serbò fino alla sua caduta; e l’ Imperatore
potè governare coll’ appoggio del partito nazionale or
todosso. Restavano però sempre i Goti federati, che oc
cupavano la Tracia e si stendevano nella Mesia, ingros
sandosi ora con tutti i fuggiaschi dell’ esercito sbandato
di Gainas, trovandosi sempre più irritati e scontenti,
perchè era un pezzo che i soldati non ricevevano le pa
ghe. Che cosa bisognava dunque fare di questa enorme
massa di gente scontenta, di questo popolo in armi e
minaccioso ?
Sin dal tempo di Rufino c’ era stato in Oriente il di
segno di spingere Alarico coi suoi in Occidente. Così non
solo sì liberavano colà da un perìcolo contìnuo, ma si
dava del filo da torcere a Stilinone. Si voleva però evi
tare il perìcolo che i due generali barbari facessero causa
comune contano Costantinopoli ; o pure che Stilicone, de
cidendosi a combattere sul serio i Goti e riuscendo a vin
cerli, finisse col divenire più potente che mai. E fu perciò
che, poco dopo la morte di Teodosio, Bufino lo aveva co
stretto a fermarsi, togliendogli una parte dell’ esercito. Da
un altro lato Stilicone, sebbene fido soldato dell’ Impero,
era un barbaro anch’esso, e non poteva desiderare, quando
anche avesse potuto, distruggere affatto i Goti. Non gli
conveniva neppure umiliarli troppo, senza addirittura
disfarli, perchè così li avrebbe resi sempre più avversi
e pericolosi ad Arcadio e ad Onorio. Avrebbe quindi vo
luto dimostrar loro che poteva colle proprie armi tenerli
a freno, e poi, secondo il pensiero stesso di Teodosio,
aggregarli all’ Impero, aumentandone così la forza. In
tal modo se ne sarebbe anche avvantaggiata non poco
la sua posizione militare e politica, quello appunto ohe
a Costantinopoli si voleva evitare. Ne seguì quindi per
qualche tempo, che F Oriente spingeva i Goti verso F Oc
cidente, che a sua volta li rimandava indietro: erano
come ballottati da una parte all’ altra.
Tutto ciò doveva naturalmente sempre più irritarli. E
cosi finirono verso il 895 (la data non è però sicura) colF eleggersi un proprio re nella persona appunto di Ala
rico, che noi abbiam visto fin dalla sua prima gioventù
combattere valorosamente in Italia sotto Teodosio. Esso
era della nobile stirpe dei Baiti, nome che Jordanes dice
significare audace (id est audax), e che risponde infatti
alla parola inglese bold, ardito. Educato alla disciplina mi
litare romana, egli veniva adesso levato sugli scudi dai
suoi connazionali; e ciò aveva una grande importanza,
perchè così i Visigoti federati si ricostituivano come na
zione, o almeno come esercito indipendente dentro l’ Im
pero. Tanto maggiore si doveva quindi a Costantinopoli
sentire il bisogno di liberarsene, spingendoli sempre piu
verso l’ Occidente. Se non che Stilicone si trovava an
eli’ esso alla testa d’ un formidabile esercito, di cui, per
la debolezza d ’ Onorio, disponeva a suo arbitrio, e p o
teva quindi energicamente resistere. Infatti, quando Ala
rico s’ avanzò, saccheggiando, nella Grecia (396), gli andò
subito incontro, e respintolo dal Peloponneso, lo chiuse
nei monti. Pareva allora che lo avesse già in suo potere ;
ma invece si seppe a un tratto, che Alarico, insieme con
tutti i suoi e col bottino raccolto, s’ era per l’ Epiro set
tentrionale messo in salvo. Molte furono le voci allora dif
fuse. Chi diceva che era stata una sua abile manovra; chi
supponeva che era stata negligenza o tradimento di Stili
cone, e chi finalmente affermava che tutto era conseguenza
di segreti accordi d’Alari co con Costantinopoli. Certo è
che Stilicone se ne tornò tranquillo in Italia, senza in
seguirlo, e che Alarico se ne andò in quella parte dell’ Il
lirico che apparteneva all’ Oriente. Ivi rimase col consenso
di Arcadio, che gli concesse anche l’ambito ufficio di Ma•
gister militum. E si trovò come a cavallo fra l’ Oriente
e l’ Occidente, con grande facilità di ripigliare la strada
momentaneamente abbandonata. Intanto aveva modo non
solo di nutrire i suoi, ma di provvederli anche larga
mente delle armi, che si trovavano nei magazzini delV Impero.
La sua mira costante era adesso, per più ragioni, di
venuta l’ Italia. Ve lo spingevano da Costantinopoli, per
liberarsi una volta di lui e dei suoi. Dopo la rivolta
nazionale del 12 luglio 400, e lo sterminio dei barbari,
l’ Oriente non poteva più essere una sede nè sicura nè
gradita ai Goti. Ve lo spingeva anche la sua perso
nale ambizione ed un vero spirito di avventure. Secondo
la leggenda, lina voce interiore gli andava continuamente
ripetendo: Penetrabis ad Urbem! Quale fosse allora il
suo disegno, è difficile dirlo con precisione; probabil
mente non lo sapeva lui stesso. Alarico era un ardito
soldato, senza un vero genio politico o militare; una
specie di capitano di ventura, come la più parte dei ge
nerali barbarici di quel tempo, che non avevano una pa
tria, e combattevano sopra tutto per meglio assicurare
la loro posizione personale. Si trovava però a capo d’ una
immensa moltitudine di soldati, vecchi, donne, bambini,
e questo g l’ imponeva molti doveri, gli dava grandi pen
sieri. Che sognasse farsi imperatore dell’ Occidente, non
è possibile. Non avrebbe saputo come governarlo; ed
inoltre un tale pensiero sarebbe allora ad un barbaro
sembrato quasi un sacrilegio. S’ avanzava quindi minac
ciando, saccheggiando, sperando sempre di trovar final
mente modo di far parte integrante e normale dell’Impero.
In Italia era intanto assai cresciuta la forza e l’ auto
rità di Stilicone, specialmente dopo che gli era riuscito
di far domare la ribellione di Gildone, seguita in Africa
nel 398. Egli aveva sposato una nipote di Teodosio, ed
aveva dato sua figlia Maria in moglie ad Onorio ; nel 400
fu anche nominato Console. Tutto questo lo faceva appa
rire come un possibile pretendente all’ Impero, almeno
pel suo figlio ; e ciò gli cresceva autorità, ma gli procu
rava anche nemici. Per necessità delle cose si trovava
divenuto come il difensore naturale dell’ Italia. E quindi
appena seppe che i barbari s’ avanzavano, corse nella Rezia e respinse un esercito giunto colà sotto il comando
di Radagasio, che era d’ accordo, a quanto pare, con Ala
rico. Raccolse poi quanti più uomini potè, e col suo eser
cito cosi ingrossato, discese nell’ alta Italia. Ivi pensò,
innanzi tutto, a liberare e mettere al sicuro Onorio, che
trovavasi allora in Asti, esposto al pericolo d’ essere cir
condato dai nemici. Lo indosso a trasferire la sua sede
da Milano, ove s’ era quasi sempre fermato, a Ravenna,
che si poteva più facilmente difendere, ed aveva il van
taggio del mare. Cosi dal 402 al 475 essa restò sempre
capitale dell’ Impero d ’ Occidente, e poi fu capitale delF Esarcato, che di là potè facilmente comunicare con Co
stantinopoli.
Ma ora bisognava provvedere alla difesa contro Ala
rico, che s’ avanzava con un esercito numerosissimo. Stilicone richiamò quindi dalla Britannia la dodicesima le
gione, e quel che era assai più grave, richiamò anche le
legioni che si trovavano a guardia del Reno, lasciando
cosi da quel lato aperta la porta ad altri barbari. Voleva
provvedere al pericolo imminente, pensando che, una
volta vinto Alarico, avrebbe facilmente potuto respin
gere gli altri barbari, forse anche facendosi aiutare da
lui, dopo averlo battuto. Il 6 aprile 402 (data incerta
anche questa), i due eserciti s’ incontrarono a Pollenzo
sul Tanaro, a venti miglia da Torino, e vi fu una vera
battaglia. Era di settimana santa, e Stilicone, senza oc
cuparsi di ciò, sorprese il nemico nel campo, mentre ce
lebrava le sacre feste. La vittoria fu sua, ma i Goti
si poterono liberamente ritirare. E sebbene fossero di
nuovo battuti presso Verona, se ne andarono a casa
senza essere inseguiti. Si tornò quindi, come era na
turale, a parlar di tradimento. Nondimeno nel 404
Onorio, accompagnato da Stilicone, entrò da trionfa
tore in Roma. E furono, in questa occasione, celebrati
quei giuochi dei gladiatori, che più volte, per istiga
zione dei Cristiani, erano stati invano proibiti. Questa
volta però un monaco orientale, Telemaco, si gettò in
mezzo ai combattenti nell’ arena del Colosseo, per sepa
rarli in nome di Gesù Cristo. Egli fu lapidato dalla folla,
tra le grida d’ indignazione; ma si afferma che d ’ allora
in poi i giuochi inumani cessassero davvero. La con
dotta ardita di Telemaco era un’ altra prova dell’ energia
sempre maggiore, che lo spirito cristiano andava mani
festando.
Dopo che, Alarico si fu ritirato, Radagasio che era
stato già prima battuto nella Rezia, si avanzò con un
esercito, che Orosio porta a duecentomila uomini, altri
fanno ascendere fino a quattrocentomila, il che prova
la poca credibilità di queste cifre. Era in ogni modo un
esercito assai numeroso, che Stilicone affrontò in Toscana,
riuscendo a chiuderlo nei monti presso Fiesole, dove lo
affamò e disfece, pigliando prigioniero lo stesso Radagasio, che fu poi ucciso (405). Tutti gli altri morirono o si
sbandarono, andando per fame raminghi. E questa vit
toria che avrebbe dovuto crescer favore al capitano che
l’aveva ottenuta, rese invece più clamorose le voci di tra
dimento, massime quando poi arrivò la notizia che molti
tudini di Alani, di Svevi e di Vandali, passato il Reno,
rimasto indifeso, erano penetrati nella Gallia (406) e
liberamente si avanzavano. — Se ha cosi facilmente di
sfatto Radagasio, si diceva, è segno che poteva, volendo,
fare lo stesso con Alarico. Ma è un barbaro, e vorrebbe
lasciar l’ Impero in balia dei barbari. Perciò ha richia
mato le legioni dal Reno, lasciando invadere la Gallia,
come fra poco sarà invasa anche la Spagna. Onorio
dovrebbe imitar suo fratello Arcadio, che seppe libe
rarsi di Gainas, il quale se non era insieme coi suoi
distrutto, avrebbe dato in mano dei Goti l’ Oriente, che
è invece tornato ad essere romano. Se in ugual modo
non si provvede in Occidente, ben presto anche Roma
e l’ Italia saranno dominate dai barbari. —
Questi sentimenti infiammarono tutta la parte romana
dell’ esercito, a segno tale che le legioni della Britannia
nel 407 proclamarono nuovo imperatore uno il quale pa
reva non avesse altro titolo che il nome di Costantino, ma
che nel fatto poi dimostrò maggiore energia che non si
sapponeva. Egli venne sabito nella Gallia, per combat
tere i barbari ; ma ormai non era più possibile ricacciarli
al di là del Reno. Riuscì nondimeno a ripigliar la guar
dia del fiume, per impedire almeno che ne passassero
altri. Intanto arrivavano dall’ Italia nella Gallia nuove le
gioni, mandate da Onorio a ristabilire la sua autorità
contro il tiranno, come era chiamato Costantino, perchè
non si riteneva legittima la sua elezione. Cosi in Occidente
si trovavano a contrasto due imperatori fra di loro e coi
barbari. Tutto ciò si attribuiva a colpa di Stilicone, che
veniva perciò sempre più odiato, sempre più calunniato.
Infatti, sebbene avesse con tanta energia e fortuna com
battuto Radagasio, il quale era pagano, pure lo accusavano
di esser fautore dei pagani, aggiungendo che tale era suo
figlio, e che egli aspirava a farlo imperatore d’ Occidente.
Più tardi, quando mori Arcadio (1° maggio 408), si af
fermava invece che egli presumeva farlo imperatore
d’ Oriente. — Non contento, dicevano, d ’ aver dato sua
figlia Maria in moglie ad Onorio, dopo la morte di lei,
lo aveva indotto a sposar l’ altra sua figlia Termanzia,
senza curarsi che il clero cristiano condanna le seconde
nozze con la sorella della prima moglie. — Insomma ogni
arme era buona contro di lui, e si riuscì infatti a renderlo
odioso ai Cristiani ed ai Pagani.
Ma quello che era peggio, cominciava ora ad inge
losirsi ed insospettirsi di lui anche Onorio, il quale
aveva un certo sentimento tradizionale dell’ autorità im
periale, e mal tollerava, sebbene non lo dimostrasse an
cora aperto, questo Vandalo che suscitava l’ avversione
di tutto il partito nazionale romano. Se non che la sua
indole incerta e titubante lo faceva sempre oscillare.
Dopo la battaglia di Pollenzo, pareva che avesse accet
tato il disegno di Stilicone, che era di lasciare ad Ala
rico, sotto la dipendenza dello stesso Onorio, tutta la
Prefettura d’ Illiria, sebbene questa fosse stata da qual
che tempo divisa fra l’ Occidente e l’ Oriente. Stilicone
pensava che così si sarebbero resi contenti i G oti; si
sarebbe avuto a propria disposizione tutto l’ esercito di
Alarico, e si sarebbe, col suo aiuto, potuto rimettere
l’ ordine nella Gallia e nella Spagna, contro i barbari e
contro Costantino, che ora vi spadroneggiava. In conse
guenza di ciò, Alarico s’era già mosso dall’ Epiro, quando,
per ordine improvviso di Onorio, fu inaspettatamente
fermato. Un tal fatto, come era naturale, lo sdegnò in
estremo grado, e quindi egli s’ avanzò minaccioso verso
l ’ Italia, chiedendo quattromila libbre d’ oro, per essere
indennizzato delle spese che aveva fatte. Ed essendosi
Onorio sbigottito, la domanda fu col suo assenso portata
e sostenuta da Stilicone in Senato, con la dichiarazione
che bisognava consentire, perchè non s’ era in grado di
resistere. Ed il Senato dovè cedere anch’ esso ; ma parve
che per un momento almeno l’ antico spirito, l’ antica ener
gia romana si ridestassero, e che il senatore Lampridio
esprimesse il sentimento comune, quando esclamò : Non
est tata pax, sed pactio sermtutis!
In verità Stilicone era un barbaro romanizzato. Dal
l’ unione di questi due elementi, che ne costituivano la
personalità, scaturivano la sua forza e la sua debolezza.
Essi coesistevano nell’ Impero, e fino a che vi si tene
vano in equilibrio, e potevano continuare l’ uno accanto
all’ altro, senza venire a conflitto, la personalità di Sti
licone rappresentava la società in cui egli si trovava.
Di qui la sua forza. L ’ idea di valersi dei Goti a vantaggio
dell’ Impero, poteva sembrare una continuazione della
politica di Teodosio, che a lui lo aveva raccomandato,
sperando che volesse e sapesse difenderlo. Una volta però
che dentro l’ Impero fosse sorto il conflitto fra i due ele
menti che lo costituivano, la personalità politica di Stilicone sarebbe stata distrutta, ed egli avrebbe dovuto ine
vitabilmente soccombere. Purtroppo il conflitto si poteva
dire adesso già cominciato. Infatti i Goti, anche dopo ot
tenuta la chiesta indennità, erano scontenti e minaccia
vano. Lo sdegno del partito romano era salito al colmo, e
si accennava perciò a Stilicone come ad una vittima ne
cessaria alla salute dell’ Impero. Nè mancava chi soffiava
nel fuoco più che poteva, e fra gli altri un ufficiale della
guardia imperiale, di nome Olimpio. A Ticino (Pavia)
si trovavano allora le legioni romane, destinate, a quanto
pare, a ripigliare la guerra contro Costantino e contro
i barbari nella Gallia, dove tutto era in disordine. La
colpa d’ ogni danno, d’ ogni pericolo presente, veniva
colà attribuita a Stilicone, che si trovava a Bologna.
— Egli, così dicevano, aveva voluto salvare ad ogni
costo i Goti; aveva lasciato indifeso il passaggio del
Beno, perchè altri barbari come lui inondassero l’ Im
pero, ciò che pur troppo era avvenuto. — Onorio allora si
trovava appunto a Pavia, dove a un tratto scoppiò un
tumulto violento (408). La città andò a sacco; gli amici di
Stilicone furono messi a morte; e l’ Imperatore, da nes
suno offeso, pareva uno spettatore indifferente, forse già
prima consapevole di ciò che ora avveniva.
Alia notizia della rivolta, Stilicone era per muovere
subito da Bologna, alla testa de’ suoi soldati barbari, per
difendere Onorio e domare i ribelli. Ma quando seppe
che questi non correva nessun pericolo, che non dava
neppur segno di disapprovare quello che sotto i suoi
occhi avveniva, non volle, egli generale dell’ Impero,
al quale era affezionato, provocare una sanguinosa bat
taglia fra una parte e l’ altra dell’ esercito. Questo fece
scoppiare la rivolta anche fra i suoi, pronti a difendere
lui, ed a vendicare i compagni. Il tumulto fu tale che
la sua persona si trovò in grave pericolo, e fu costretto
a rifugiarsi a Ravenna, in una chiesa. Colà giunsero i
messi di Olimpio, che gl’ intimarono d’ arrendersi, giu
rando solennemente d’ avere ordine di prenderlo in cu
stodia, salva la vita. Ma quando poi, stando alla fede
giurata, Stilicone s’ arrese, dissero subito che era soprav
venuto l’ ordine di ucciderlo. Alcuni de’ suoi, che lo ave
vano colà accompagnato, si dimostrarono pronti a metter
mano alle armi, per difenderlo fino all’ estremo. Ma esso
aveva capito che ormai tutto era inutile; e pensando,
anche in quell’ ultima ora, alla salute dell’ Impero più che
alla sua propria, non volle, morendo, provocare la guerra
civile. E ordinò ai suoi di deporre le armi, dichiarando
d ’ essere deciso ad arrendersi. Il 23 agosto 408 sottomise tranquillo la testa alla scure. Suo figlio fu ucciso
in Roma, sua figlia Termanzia venne dal palazzo im
periale rimandata alla madre Serena, cui era poco dopo
serbata, nella stessa Roma, un’ assai trista fine. Molti
degli amici e parenti di Stilicone, sopra tutto i soldati
barbari, vennero perseguitati; le loro mogli e i loro
figli uccisi. E quasi a coronare l’ opera nefasta, Onorio
pubblicò un editto contro gli eretici, ai quali vietava di
far parte della milizia palatina, e si mostrò avversissimo
ai pagani, confiscando i beni dei loro tempii, ordinando
la distruzione dei loro altari.
La prima conseguenza di tutta questa disgraziata tra
gedia fu, che un numero grandissimo di soldati barba
rici, trentamila circa, cosi almeno si dice, andarono ad
ingrossare l’ esercito di Alarico, il quale divenne a un
tratto più potente e minaccioso che mai. Ma che cosa
poteva, che cosa voleva egli fare adesso? Certo non
sognava neppure di rovesciare l’ Impero o d’ impadro
nirsene. Egli non se ne dichiarava neanche nemico. Si
trovava alla testa d’ una moltitudine armata, che aveva
bisogno di vivere, e però voleva, insieme coi suoi, in un
modo o V altro, ma in un modo riconosciuto e legale, far
parte dell’ Impero, pronto anche a servirlo, a ricostituirne
l’ autorità contro i ribelli nella Oallia o altrove, assumendo
il grado di Magister utriusque militiae. Ma quando ciò
fosse avvenuto, l’ Impero sarebbe rimasto in balla de’ bar
bari, ed era quello appunto che Onorio non voleva con
sentire. Figlio di Teodosio, per quanto debole e vacil
lante, esso sentiva, in parte almeno, la dignità del suo
grado, e pensava che, cedendo alle voglie d ’Alarico, diffi
cilmente avrebbe potuto resistere poi a domande simili di
altri barbari. Meno che mai tutto ciò sembrava possibile
ora, dopo la insurrezione vittoriosa a Pavia contro il par
tito barbarico, quando Costantino, alla testa delle legioni,
minacciava di staccare dall’ Italia la Grallia, la Britannia
e la Spagna. Queste erano le grandi difficoltà di trovare
una soluzione pratica; e di qui il pericolo gravissimo che
correva adesso l’ Impero.
Alarico intanto s’ avanzava in Italia, con animo d’ asse
diare Poma, e dettare le sue condizioni. Impadronito in
fatti che egli si fu della foce del Tevere e del porto d ’Ostia,
la Città eterna, che non aveva un esercito per difendersi,
e non era stata approvvigionata, si trovò subito stretta
dalla fame, cui tenne dietro la pestilenza. Fu forza quindi
venire a patti; ma egli si dimostrava cosi duro, che gli abi
tanti, spinti dalla disperazione, minacciavano di uscire in
massa fuori delle mura per combattere. — Piò fitto è il
fieno, così avrebbe risposto il barbaro, meglio si falcia. —
E invece di scendere a più miti consigli, alzava sempre
più le sue pretese. — Ma che cosa ci lascerai tu allora? —
dissero i Romani. Ed egli : — La vita ! — Le notizie però
che noi abbiamo di questi tempi sono così incerte, e sem
pre così esagerate in un senso o nell’ altro, che poca fede
si può prestare alla verità intera di simili aneddoti, tanto
piu che, se Alarico era un barbaro rozzo e feroce, non
voleva essere tenuto un nemico, e molto meno un distrut
tore dell’ Impero. Ma egli aveva bisogno di vivere coi
suoi, che erano con le armi in mano, stretti dalla fame.
Bisognò quindi rassegnarsi a pagare un tributo di cin
quemila libbre d’ oro e trentamila d’ argento, oltre una
quantità di vesti di seta e di droghe. E per raccogliere
questa somma voluta dai barbari, i Romani dovettero
fondere le statue delle antiche divinità, e gli ornamenti
dei tempii pagani. Il che fu non solo una grande umi
liazione; ma a molti pareva anche di sinistro augurio,
perchè i Pagani non erano allora scomparsi affatto, e fra
i Cristiani stessi non mancavano di quelli che speravano
tuttavia qualche aiuto da quegli idoli, che sembravano
avere così lungamente protetto Roma.
Un gran turbamento invase gli animi nel vedere l’ an
tica capitale del mondo ridotta ad una umiliazione cre
duta fino allora impossibile, e che pur doveva essere su
perata da altre ancora più crudeli. Si vuole che ora appunto
venisse uccisa l’ infelice Serena, accusata, perchè vedova
d i Stilicone, di benevolenza verso Alarico. Si pretese, che
d ell’ atto inumano e crudele fosse stata istigatrice Galla
Placidia, la figlia di Teodosio, celebre per la sua maravigliosa bellezza. Ma essa aveva allora diciotto anni o poco
più, e se è facile credere che la sorella d’ Ottono dovesse
essere avversa a Stilicone ed ai suoi, non è ugualmente
facile persuadersi, che in sì giovane età potesse avere
l ’ animo così perverso, ed anche l’ autorità necessaria per
riuscire a muovere essa il popolo alla vendetta.
Anche in questo momento Alarico era lontano dal
voler abusare della forza. Cercava invece di venire
ad un accordo, rinunziando a molte delle sue antiche
pretese. Non chiedeva più d’ esser Magister utriusque
militiae ; gli bastava d’ avere per sé e per i suoi la p ro
vincia del Norico, invece delle più vaste e fertili te rre
domandate in passato. Ma Onorio che, per la morte d i
Arcadio, sperava si potesse ristabilire l’armonia, se n on
Punione dell’ Oriente coll’ Occidente, ed aspettava g li
aiuti che aveva chiesti a Teodosio II, respinse ogni idea
d’ accordo. Nè bastò a muoverlo il vedere, che molte e
molte migliaia di schiavi fuggitivi e di barbari sban
dati dell’ esercito imperiale, che alcuni fanno in tutto
ascendere a quarantamila, andassero liberamente sac
cheggiando il paese.
Alarico allora impazientito,* vedendo di non poterne
cavar nulla, circondò Roma per la seconda volta, e ten
tando di mettersi d ’ accordo coi Pagani, che ivi si trova
vano, e cogli Ariani, gli uni e gli altri irritati per gli ul
timi editti contro di essi emanati da Onorio, proclamò
nuovo imperatore Attalo, un greco allora Prefetto della
Città (409). Sperava d’averlo docile strumento della pro
pria volontà, e indurlo a sanzionare, con qualche forma
legale, le sue pretese. Ma invece pareva che nessuno riu
scisse a prenderlo sul serio. Lo stesso Onorio, che dap
prima se n’ era impensierito, e pensava a mettersi in salvo,
avuto ora da Costantinopoli l’ aiuto d’ alcune migliaia di
soldati, riprese animo, sentendosi sicuro di potersi con essi
difendere in Ravenna. E quello che è più, neppure Ala
rico riusciva a mettersi d ’ accordo con Attalo, al quale,
come greco, ripugnava d’ abbandonare Roma e l’ Impero
in mano ai barbari, mentre che poi non sapeva prendere
nessuna propria iniziativa. E la fame intanto era a Roma
giunta a tale, che la moltitudine gli gridava furibonda:
Pone praetium carni humanae. Quasi volessero dire:
dobbiamo noi dunque mangiarci addirittura fra di noi?
Cosi Alarico, persuaso che non c’ era da cavar nulla nep
pure da lui, fini col deporlo, strappandogli le insegne
imperiali, d ie rimandò ad Onorio, col quale tentò dì nuovo,
ma sempre invano,, d’ intendersi. Si decise allora al passo
piò audace della sua vita, e che doveva avere un seguito
fimesto, una grande importanza nella storia del mondo.
11 giorno 24 agosto 410, sia per tradimento, sia per strat
tagemma di guerra, Alarico, senza incontrare resistenza,
entrò col suo esercito per la Porta Salare nella città di
Roma. Ere un fatto nuovo, da otto secoli non mai avve
nuto, ne creduto possibile. La maraviglia fu peroiò cosi
grande, che tutti restarono come sbalorditi, e lo stesso
re visigoto sembrava esserne cosi sgomento, che dopo
tre soli giorni s’ affrettò a ripartire. Certo un esercito
di barbari, venuti in sostanza come conquistatori, non
potò restare in Roma senza molte violenze e saccheggi.
Ma tutto quello che noi sappiamo di sicuro o’ induce
a credere che le violenze furono assai minori di quel
che poteva supporsi, e che s’ andò piò tardi dioendo.
I l palazzo di Sallustio, presso la Porta Salare, fu subito
bruciato, ma d ’ altri incendi non si parla determinata
mente, sebbene possa supporsi che ne siano avvenuti. E
tutti gli aneddoti tramandatici dagli storici o dalla leg
genda tendono solo a provare il grande rispetto ohe
Alarico dimostrò ai Cristiani, alle loro ohiese, sopra tutto
alle basiliche di S. Pietro e di S. Paolo, e al diritto di
asilo. Infatti coloro che si rifugiarono nei luoghi saori
furono salvi. Ma anche fuori delle chiese i Cristiani,
quelli sopra tutto che eran dati a vita religiosa, o che
avevano la custodia di sacri oggetti, furono dai Goti
rispettati, tali essendo gli ordini severissimi del loro
capo. Orosio, S. Agostino, S. Girolamo parlano di questo
sacco di Roma con orrore; ma vi riconoscono una giusta
punizione di Dio contro gl’ increduli, che ancora non
s ’ erano convertiti e speravano aiuto dagl’ idoli pagani.
P e r essi Alarico non ò che uno strumento nella mano
di Dio, il suo ingresso in Roma è destinato ad accelerare
il trionfo del Cristianesimo; e riconoscono che i danni
furono assai minori di quanto poteva supporsi, e di quanto
si disse da molti.
Onorio intanto se ne stava chiuso in Ravenna, dove
si trovava anche il Papa, invano andato colà, per tentare
un qualche accordo fra Alarico ed il sempre titubante
Imperatore. Si narra, a provare sempre più la indifferenza
ed indolenza d’ Onorio, che, quando gli fu recata la deso
lante notizia, Roma è perita, egli credette che si trat
tasse d’ un suo gallo prediletto, cui aveva dato il nome
appunto di Roma; ed esclamò: « Ma come mai è ciò pos
sibile, se pooo fa gli ho dato da mangiare colle mie pro
prie mani? » Questo aneddoto però lo abbiamo da Pro
copio, che scrisse centocinquanta anni più tardi, e che
quando s’ allontana dai suoi tempi, non è più un autore
molto credibile.
Certo è invece che, dopo tre giorni di dimora in Roma,
Alarico mosse per l’ Italia meridionale, e s’ avanzò sac
cheggiando sino a Reggio di Calabria. Colà si apparec
chiava ad imbarcarsi, per andare non si sa ben dove.
Secondo alcuni voleva recarsi in Sicilia, secondo altri
in Africa, che era il granaio dell’ Impero, cui sperava
così d’ imporre condizioni d’ un accordo tollerabile. Ma
ad un tratto andò tutto a monte. Le navi, su cui doveva
traversare lo stretto, naufragarono; ed egli stesso, im
provvisamente ammalatosi, morì (410). I suoi, secondo
si narra, deviarono il letto del fiume Busento e, dopo
averlo colà seppellito, fecero riprendere alle acque il
corso primitivo, per nascondere così a tutti la tomba
del loro valoroso duce.
CAPITOLO V II
Dalla morte di Alarico
alla costituzione del regno dei Visigoti nella Gallia.
L a morte di Alarico mutò sostanzialmente lo stato
delle cose. I Goti elessero a succedergli suo cognato
Ataulfo, il quale, anche meno di lui, voleva esser nemico
dell’ Impero. Abbiamo di ciò una preziosa testimonianza
in Orosio. Questi narra d’ avere incontrato un compa
gno d’ armi d’ Ataulfo, del quale gli riferi i discorsi.
« Dapprima, avrebbe detto il successore d’Alarico, era
stata mia intenzione farmi padrone dell’ Impero, ed as
sumere in esso il posto di Cesare Augusto, trasformando
in Gotia la Romania. <*> Ben presto però l’ esperienza mi
persuase, che ciò non era possibile, perchè Roma aveva
dominato il mondo, non solo con le armi, ma anche colle
leggi e con la disciplina. E i Goti, per la loro indomita
barbarie, non sanno obbedire alle leggi, senza di che Respublica non est Respublica. Pensai perciò di ricondurre,
mediante le armi dei Goti, il nome romano all’ antica sua
gloria. Non potendo essere il distruttore dell’ Impero,
desiderai, colla pace, esserne il restauratore.»
Ad ispirargli questi sentimenti dovè contribuire an
cora un altro fatto. Partendo da Roma, Alarico aveva
menato seco, insieme con la preda, molti prigionieri. Fra
questi era Galla Placidia, la celebre bellezza, che faceva
parte d’ una generazione di donne, tutte per questa loro
bellezza famose, e che ebbero perciò, come già notammo,
una gran parte nei destini del mondo. La sua ava Giu-1
(1) « Iw rt, «t ▼ulgnriter loquar, Gothia qnod Romani* faieset, et fieret
nane Attai t t o qaod quondam Coesor Augnatela > V II, 43.
stina aveva dominato Valentiniano I. La loro figlia G alla
conquistò l’ animo di Teodosio I. Galla Placidia, nata d a l
loro matrimonio, trascinata ora prigioniera in Calabria, in
namorò di sò perdutamente Ataulfo, che voleva sposarla,
il che lo spingeva sempre più ad atteggiarsi da Romano.
Certo è che, appena eletto, Ataulfo abbandonò ogni pen
siero della Sicilia e dell’Africa, e ripartì per condurre
i suoi nella Gallia, dove sperava trovar per essi una sede
adatta, col consenso dell1Impero, di cui voleva possibil
mente essere amico. Era il pensiero che, sotto forme
diverse, rinasceva sempre, d’ unire in qualche modo R o
mani e barbari, accogliendo i Goti come parte dell’ Im
pero, valendosene a difenderlo. Lo avevano avuto T eo
dosio, Stilicone ed Alarico stesso ; nulla di strano che lo
avesse anche Ataulfo. Onorio, è ben vero, s’ era a ciò di
mostrato avverso; ma lo stato delle cose era divenuto
tale adesso, che anch’ egli poteva desiderare d’ accettare
il disegno più volte respinto.
Infatti l’ intera Prefettura della Gallia era caduta in
gran disordine, un vero caos, e pareva che fosse per stac
carsi affatto dall’ Impero. Dopo che Stilicone aveva ritirato
le legioni dal Reno, i barbari, come vedemmo, erano en
trati in essa numerosi (406) ; e poco dopo arrivava Co
stantino, già proclamato imperatore nella Britannia. Que
sti non potè ricacciare i barbari; ma, preso possesso
della regione che è ora Alsazia-Lorena, era riuscito ad
impedire almeno nuove invasioni, occupando molte città
della Gallia, e più tardi anche della Spagna: le altre
parti di queste province rimanevano però in potere dei
barbari. Il fatto è che dopo la morte di Stilicone e di
Arcadio (408), la disciplina militare era andata sempre
più scomparendo. I generali, da un pezzo divenuti tutti
più o meno quasi capitani di ventura, assai spesso si
separavano gli uni dagli altri, operando ciascuno per
proprio conto, innalzando nuovi pretendenti all’ Impero,
che trovavano sempre appoggio in una parte dei soldati.
E cosi, dopo che Costantino era stato eletto nella Britannia, venne nella Spagna proclamato Massimo. In
quella Prefettura si trovavano dunque due pretendenti
all’ Impero, ed una gran moltitudine di barbari, ohe ta
glieggiavano e saccheggiavano il paese. Onorio mandò
nella Gallia un esercito comandato da Costanzo, soldato
valoroso, il quale tentò con energia di ristabilirvi l’ auto
rità del legittimo Imperatore. Massimo allora, ben presto
abbandonato dai suoi, fuggi; Costantino, assediato in Àrles,
si arrese, e fu col figlio Giuliano mandato ad Onorio, il
quale, violando la parola del suo generale, li fece uccidere
ambedue (411). Così pareva che, spariti i due pretendenti,
non rimanessero che i barbari. Ma questi avevano già
messo su un altro pretendente all’ Impero nella persona di
Giovino, appena che il generale Costanzo s’ era ritirato in
Italia. E da capo scorrevano liberamente per tutto.
In tali condizioni, l’ andata d’Ataulfo colà non poteva
dispiacere ad Onorio. Prima di tutto si liberava l’ Italia
dai Goti, il che era già molto. Ataulfo inoltre andava oon
l’ intenzione d’ occupare il paese, e per ciò fare doveva
combattere Giovino ed i barbari ohe lo sostenevano.
Questo spiega, in qualche parte almeno, il fatto, certo
singolarissimo, che Ataulfo potè traversare tutta l’ Italia
dal sud al nord, senza che si sappia se egli trovò ostacoli
d i sorta, anzi senza che si sappia nulla addirittura di
questo suo lungo viaggio. Entrato nella Gallia (412), egli
tenne dapprima una condotta incerta; ma poi attaccò ed
uccise Saro generale romano, che s’ era volto a favore
di Giovino. Subito dopo si mosse contro questo e contro
il fratello di lui ; li vinse ed uccise ambedue, inviando
le loro teste ad Onorio, che le fece esporre a Carta
gine. Ivi era stata poco prima domata un’ altra ribel
lione, la quale fece sentire la sua azione indiretta anche
nella Gallia.
Ataulfo intanto si mostrava sempre più invaghito d i
Galla Placidia, e voleva sposarla. Ma ad Onorio ripugnava
assai il concedere ad un barbaro la sorella e figlia d’ im pe
ratori, tanto più che ne era pazzamente innamorato anche
il suo generale Costanzo, cui egli l’ avrebbe data assai più
volentieri. Ed Ataulfo era tanto desideroso d’accordi, che
sembrava ora, non ostante la sua passione, disposto a ri
mandarla a. Ravenna, avendo da Onorio avuto promessa
di larghi approvvigionamenti di grano, del quale aveva
urgente bisogno per l’ esercito. La ribellione d’Africa rese
però impossibile il mantener la promessa, ed Ataulfo si
sentì allora libero da ogni vincolo verso di Onorio. Prese
quindi, per conto proprio Narbona, Tolosa, Bordeaux, e
tentò di prendere anche Marsiglia, ma gli fu impedito da
Bonifazio, altro valoroso generale di Onorio (418).
Ma quello che è più, invece di pensare a restituire
Galla Placidia, la sposò senz’ altro a Narbona, nel gen
naio del 414. Questo matrimonio, anche pel modo in
oui fu celebrato, ebbe addirittura un’ importanza storica.
Quel giorno infatti non solo la sorella di Onorio, la figlia
di Teodosio, sposava un barbaro ; ma le nozze furono so
lennizzate con una pompa affatto romana, in casa d’ In
genuo, uno dei più autorevoli cittadini di Narbona. H
barbaro Ataulfo portava la tunica romana. Dinanzi alla
sposa, adorna di splendidi abiti romani, s’ inginocchiarono
cinquanta giovani, ciascuno dei quali aveva nelle mani
due vassoi, l’ uno pieno d’oro, l’altro pieno di pietre ©d
oggetti preziosi, che eran parte della preda fatta nel sacco
di Roma, e che ora venivano offerti a lei, preda più pre
ziosa ancora, la quale di prigioniera diveniva regina dei
Goti. A rendere sempre più solenne questa singolare ceri
monia, si recitarono versi latini. E come per porre il colm e
a tutto ciò, il coro era diretto da Attalo, quel preteso im
peratore, che noi vedemmo per breve tempo tenuto su
da Alarico, il quale poi lo depose. Esso era stato costretto
a seguire il campo goto, come una specie d’ ostaggio di
cui potersi valere qualora se ne presentasse l’ occasione.
Adesso dirigeva il coro che celebrava le nozze d’Ataulfo
e di Galla Placidia! Tutto simboleggiava cosi quella
unione goto-romana, che dopo essere stata un pensiero, un
desiderio di moltissimi, doveva finalmente essere in parte
attuata da Teodorico. Dal matrimonio allora celebrato
nacque un figlio chiamato Teodosio, che ben presto mori.
Di tutto ciò rimasero, per diverse ragioni, scontentis
simi Onorio e Costanzo, i quali si trovarono d’ accordo
nel contrariare i Goti in più modi, specialmente ponendo
ogni sorta d’ ostacoli all’ approdo nella Gallia di navi con
vettovaglie. E questo spinse Ataulfo a passare i Pirenei,
per andare nella Spagna, paese assai fertile e ricco, non
ancora esausto dalle invasioni, più adatto quindi a nu
trire le sue genti. Ma qui egli cadde improvvisamente
vittima del pugnale d’ un assassino (416), sia che fosse
una delle vendette molto comuni fra i barbari, sia che
fosse opera del partito avverso alle simpatie romane
d ’Ataulfo, partito assai irritato per le ostilità che in
più modi venivano ora dall’ Italia. Certo è che fu eletto
Singerico, il quale si dimostrò subito avversissimo al
nome romano ed alla memoria d’Ataulfo, di cui uccise
i figli avuti dalla prima moglie. Non osò fare lo stesso
della vedova Galla Placidia; pure la trattò assai dura
mente, costringendola ad andare a piedi, per dodici
miglia, in mezzo ai prigionieri e dinanzi al suo cavallo.
Ma anch’ egli durò poco, essendo stato dopo soli sette
giorni ucciso. Gli successe Valia che, d’ indole assai più
temperata, venne ben presto ad un accordo con Onorio,
gai cedette Galla Placidia, inviandogli anche Attalo ; e
ne ebbe in compenso 600,000 misure di grano per le sue
genti. Onorio celebrò allora il suo undecimo consolato,
entrando in Roma come un trionfatore, menando seco,
legato al suo carro, Attalo, cui fece tagliar due dita della
destra, confinandolo poi nell’ isola di Lipari. E Galla Piacidia, la quale dapprima sembrava assai restìa a sposare
Costanzo, sempre di lei perdutamente innamorato, perchè
egli era un soldato rozzo e dedito solo alla vita militare,
s’ indusse poi a celebrare il matrimonio, e ne ebbe due
figli, Onoria e non molto dopo Valentiniano (419), che fu
terzo di quel nome come imperatore. Costanzo venne as
sunto a compagno nell’ Impero da Onorio ; Galla Placidia
ebbe allora il titolo di Augusta, e più tardi, dopo la morte
del marito (421) e del fratello (423), fu reggente, perchè
suo figlio si trovava tuttavia in età minore.
Valia intanto, mantenendo le promesse fatte, com
battè più volte vittoriosamente nella Spagna i Vandali
e gli Alani. Prese poi con i suoi Goti stabile dimora nella
Gallia (419), occupando varie delle città tenute già prima
da Ataulfo, fra cui Bordeaux e Tolosa, dalla quale ultima
ebbe nome il nuovo regno visigoto, che fu costituito col
consenso d’ Onorio, e che si estese poi oltre i Pirenei. Più
tardi questo regno ebbe, come vedremo, una grandissima
parte nella guerra che l’ Impero d’ Occidente dovè soste
nere contro gli Unni. Narbona però, che da Costanzo era
giudicata strategicamente necessaria ai Romani, e Mar
siglia furon da essi ritenute. A settentrione e ad oriente
scorrazzavano ancora liberamente altri barbari.
Questa può dirsi la fine del primo atto del tragico
dramma, cominciato quando gli Unni cacciarono i Goti al
di qua del Danubio. Una volta che la Tracia riuscì insuf
ficiente a mantenerli tutti, una buona parte di essi si mos
sero, sotto Alarico, in cerca di nuove terre ; e dopo aver
molto vagato e molto combattuto, finalmente si fermarono
nella Gallia. E sebbene tutto ciò si fosse da ultimo com
piuto d’ accordo con l’ Impero, fu nondimeno il principio
della definitiva separazione dell’ intera Prefettura della
Gallia dall’ Italia. La Britannia infatti, che ne faceva
parte, era già abbandonata, e vicina a subire le invasioni
barbariche. La Spagna era ornai invasa, e tutte le succes
sive spedizioni per riprenderla, salvo le temporanee vit
torie di Belisario, non riuscirono a nulla. La Gallia pro
priamente detta, ad eccezione di poche terre al sud, era
interamente nelle mani dei barbari, e quindi destinata
anch’ essa a separarsi per sempre dall’ Italia.
CAPITOLO V i l i
Galla Placidia - L’ invasione dei Vandali in Africa
In Roma, dopo la partenza d’Alarico, lo stato delle
cose era andato migliorando. Molti che avevano abban
donato la Città, vi tornavano, e la popolazione quindi
rapidamente cresceva. A Ravenna invece cominciavano
a germogliare i semi di partiti avversi, ed una vicina
crisi era inevitabile. Onorio continuava ad essere ge
loso della sua indipendenza da Costantinopoli, dove era
assai più vivo il sentimento tradizionale della unità del
l ’ Impero, e si mirava sempre ad una supremazia dell ’ Oriente sull’ Occidente. Teodosio II, il quale allora re
gnava colà sotto l’ ascendente della sorella Pulcheria,
aveva disapprovato vivamente che Onorio avesse assunto
a compagno nell’ Impero il generale Costanzo. Ma questi
poco dopo mori, e rimase la vedova Placidia, la qnale,
come figlia di Teodosio il grande, inclinava ad un ac
cordo coir Oriente, a segno tale da non poter più vivere
in buoni termini col fratello. Se ne andò quindi a Costan
tinopoli, dove rimase fino alla morte di lui, avvenuta
nel 423.
Onorio fu un uomo certamente di poco valore, ma non
quanto vollero far credere. Egli in sostanza rappresentò
tre idee, che formarono il carattere del suo regno: il
principio ereditario, la romanità, il Cristianesimo orto
dosso. E ad esse si mantenne sempre fedele. D ebole
com’ era, dovette lottare continuamente coi barbari, che
invadevano da ogni parte l’ Impero, e con un gran nu
mero di pretendenti, che sorgevan di continuo. In teoria
tutto l’ Occidente obbediva a lui; ma in realtà l’ Europa
centrale, anzi l’ intera Prefettura della Gallia, era già
in potere dei barbari. li dissenso con Costantinopoli,
piuttosto che scemare, andò per opera sua crescendo.
Ma Placidia, in ciò più accorta, gli si oppose. Essa capì
che, di fronte a tanti barbari, i quali d’ ogni parte s’ avan
zavano nell’ Impero, solo da Costantinopoli si poteva
sperare aiuto.
Così fu che, alla morte d’ Onorio, si manifestarono in
Ravenna due partiti. Quello che mirava alla indipen
denza dell’ Occidente scelse, come successore al trono,
Giovanni, Primicerio dei notai. Quello invece che voleva
l’ accordo con l’ Oriente, dove Teodosio II aveva subito
cominciato ad assumere l’autorità di unico e solo Impera
tore, favoriva Placidia come reggente del figlio Valentiniano III, attenendosi al principio ereditario. E per questa
ragione anche i due primi generali a servizio dell-’ Impero
d’occidente, Bonifazio ed Ezio, che per la loro nascita ed il
loro valore, furon chiamati i due ultimi Romani, si trovarono
in lotta fra di loro. Bonifazio, che era in Africa, si dichiarò
per Placidia, alla quale mandò subito aiuto di uomini e
di vettovaglie; Ezio si dichiarò invece per Giovanni.
Ormai i vincoli dell’ antica disciplina militare erano sciolti,
ed i generali parteggiavano anch’ essi, gaidati dal loro
interesse personale.
Giovanni, per non sembrare di voler rompere ogni rela
zione coll’ Oriente, aveva mandato a chiedere d’ essere ri
conosciuto da Teodosio II ; ma sapendo che questi s’ era
già dichiarato favorevole a Placidia, s’ apparecchiava in
tanto alla difesa, raccogliendo anche una flotta nel porto
di Ravenna. E ciò apparve piu necessario ancora quando
seppe che i suoi ambasciatori erano stati malissimo ac
colti a Costantinopoli. Non potendo sperare d’ aver sol
dati dalla Gallia, quasi tutta occupata dai barbari; nè
dall’ Africa, dove comandava Bonifazio; e neppure po
tendo sperar molto in Italia, dove aveva non pochi av
versari, mandò Ezio a chiedere aiuto dagli Unni, presso i
quali questo generale era lungamente vissuto come ostag
gio, ed aveva perciò parecchi amici. Ezio tornò ben pre
sto con un rinforzo, che si fa ascendere a 60,000 Unni,
e giunse in tempo per affrontare le genti mandate da
Costantinopoli in aiuto di Placidia. La fortuna pareva
che volesse secondarlo, giacché il naviglio che portava
una parte dell’ esercito orientale fu disperso da un’ im
provvisa tempesta, ed il generale Ardaburio, gettato a
terra nel porto di Ravenna, fu fatto prigioniero. Ma questi
riuscì di dentro la città stessa a cospirare ed a mettersi
d ’accordo coi suoi compagni d’arme, i quali s’avanzavano
per terra, sotto il comando di Aspar suo figlio. E così,
quando Giovanni era per uscir di Ravenna a combat
tere il nemico, che doveva essere contemporaneamente
assalito alle spalle da Ezio cogli Unni, Aspar, per gli
accordi segretamente presi col padre, potè con un colpo
di mano entrare in Ravenna, ed impadronirsi della per
sona stessa di Giovanni, che menato in Aquileia, dove era
già arrivata Placidia, fu subito messo a morte (425). Ed
Ezio allora, sebbene avesse già avuto col nemico uno
scontro sanguinoso, che fu però di esito incerto, capi che
ormai la sua causa era perduta, e passò dalla parte di
Flacidia, che lo accolse a braccia aperte. Egli stesso
riusci a far tornare indietro gli Unni, mediante buona
somma di danaro, e per diciassette anni fu il primo gene
rale della Corte di Ravenna, essendo Bonifazio rimasto
ancora in Africa.
La notizia della morte di Giovanni pervenne a Teo
dosio II, quando trovavasi nell’ Ippodromo, a Costan
tinopoli. Egli fece subito sospendere i giuochi, e con
dusse il popolo nella Basilica, per rendere solenni grazie
al Signore. Restituì a Placidia il titolo di Augusta, che
le era stato tolto da Onorio, e quello di nobilissimus a
Valentiniano III, il quale allora aveva appena sei anni,
affidandolo alle cure della madre. Più tardi gli conferì
addirittura il titolo di Augusto, inviandogli il diadema e
la porpora. Cosi, dopo che l’ Impero, in apparenza al
meno, era stato qualche tempo riunito sotto Teodosio II,
fu ora da capo diviso. E per un quarto di secolo (426-460)
Valentiniano, o più veramente Placidia, rimase a gover
nare quello che continuò a chiamarsi l’ Impero d ’ occi
dente, sebbene molte parti già ne avessero occupate i
barbari, ed altre dovessero via via andarne occupando,
restringendolo finalmente alla sola Italia.
L ’ antagonismo fra Ezio e Bonifazio, che vedemmo
manifestarsi sin dal principio, continuò sempre più vivo
anche ora che l’ uno e l’ altro erano a servizio di Placidia.
Ambiziosi e valorosi del pari, Ezio era un uomo assai
accorto; Bonifazio invece eccitabile e mutabile in estremo
grado. In Africa questi aveva reso grandi servigi te
nendo a freno i Mori. Morta la sua prima moglie, pareva
che volesse, per zelo religioso, ritirarsi dal mondo ; e
S. Agostino dovette dissuaderlo, nell’ interesse dell’ Im
pero. Sposata allora una seconda moglie, che era ariana,
mutò vita, abbandonandosi alle passioni dei sensi, tras
curando il governo di quella regione, che restò quasi
in balia ai barbari africani, tanto che lo stesso S. A go
stino lo rimproverava nelle sue lettere di non far nulla
per evitare tanta calamità: Nee aliquid ordinas ut ista
calamitas avertatur. Venne perciò richiamato (427) in
Italia, ma non volle obbedire; ed essendo stato mandato
colà un esercito, per metterlo a dovere, resistè colle armi.
Cosi vi fu in Africa una specie di guerra civile fra i ge
nerali dell’ Occidente.
È nota la leggenda a questo proposito narrata da Pro
copio, il quale dà la colpa d’ ogni cosa ad Ezio, dive
nuto geloso di Bonifazio. Per rovinarlo, egli avrebbe
detto a Placidia, che questi la tradiva. Se ne voleva le
prove, lo invitasse a Ravenna, e vedrebbe che si sa
rebbe ostinatamente ricusato d’ obbedire. Nello stesso
tempo avrebbe segretamente fatto dire a Bonifazio, che
Placidia ne tramava la rovina, e che a tal fine lo avrebbe
invitato a Ravenna. Cosi fu che, quando venne richia
mato, non solamente ricusò d’ obbedire, ma per vendi
carsi, si decise al funesto passo d’ invitare i Vandali a
passare dalla Spagna nell’Africa. Ma venuti che furono,
egli, fatto accorto dai suoi amici dell’ inganno in cui era
caduto, si penti dell’ errore commesso, e voleva colle
armi ricacciarli nella Spagna. Era però troppo tardi,
e dovette invece tornarsene a Ravenna. Ivi ebbe un com
battimento personale col suo rivale Ezio, da cui fu ucciso.
E prima di morire, consigliò alla moglie di sposare il ri
vale, nel caso che fosse restato vedovo, perchè era il
solo uomo degno di succedergli.
La forma leggendaria di questo racconto apparisce a
prima vista, e ricorda molte altre simili leggende. Infatti
anche la invasione della Gallia nel 406, sarebbe, secondo
la leggenda, avvenuta per tradimento di Stilicone, come
più tardi la venuta dei Longobardi in Italia, per ven
detta di Narsete. È sempre lo stesso procedimento, cb e
spiega i fatti d’ indole generale con cause esclasivamente
personali, le quali certo non mancano anch’ esse nella
storia, ma non sono le sole. Il vero è che, secondo ogni
probabilità, Ezio si trovava allora a combattere per l ’ Im
pero nella Gallia, e se anche vi fu inganno o tradimento
ordito a Ravenna, non potè essere opera sua. Ma non
c ’ è bisogno di ricorrere a queste spiegazioni, quando la
guerra scoppiata in Africa fra i generali romani poteva
per sè stessa essere un eccitamento bastevole pei Van
dali a venire nel paese, che era il granaio dell’ Impero.
E s’ aggiungeva che l’ Africa, dove i Mori spesso si ri
bellavano, era allora fieramente travagliata anche dalle
sette eretiche dei Donatisti, che negavano l’ efficacia del
battesimo dato da un sacerdote caduto in peccato, e dei
cosi detti Circumcelliones, specie di fanatici vagabondi,
che agitavano le moltitudini. Tatti costoro, perseguitati
dagli editti di Onorio contro gli eretici, e però avversis
simi ai Cattolici, favorivano naturalmente quelli che ve
nivano a combatterli, come i Vandali che erano ariani
intolleranti. Cosi, senza escludere che in mezzo alle pas
sioni di queste lotte civili e religiose, essi fossero da
qualche parte incoraggiati o anche chiamati, si spiega
assai naturalmente come nel 429 passassero in Africa,
mossi dal loro proprio interesse, ed occupassero la Mau
ritania, avanzandosi verso l’ Oriente. G>
I Vandali avevano stretta parentela coi Goti, insieme
coi quali s’ erano in origine trovati fra l’ Elba eia Vistola.1
(1) Tatto ciò che s’ attiene alla venata dei Vandali, ed alla parte avata da
Bonifazio, fa esaminato nuovamente dal Freeman nella Historical Revieiv del
luglio 1887.
D i là, avanzando verso il sud, presero parte alle guerre
dei Marcomanni contro Marco Aurelio. Dopo di che si
mantennero lungamente tranquilli, in buone relazioni
coll’ Impero, che a tempo di Costantino li accolse come
federati nella Pannonia, dove restarono circa settantanni.
Quando Stilicone, per opporsi ad Alarico, chiamò in Italia
le legioni che guardavano il Beno, essi, come vedemmo,
passarono il fiume insieme cogli Alani, cogli Svevi, e
nel 409 erano già nella Spagna. Più di una volta si
trovarono in lotta coi Goti, dai quali vennero battuti ; ed
ebbero perciò la reputazione di poco valorosi, come avevano
già quella d ’avidi, infidi e crudeli fra tutti i barbari. Erano
più sobri nei costumi, ma anche più ardenti nello zelo re
ligioso, che li spingeva ad una intolleranza insolita nei
barbari e qualche volta addirittura feroce. Nel 427 li tro
viamo riorganizzati sotto Genserico, che per la morte del
fratello era rimasto unico loro capo. Piccolo e zoppo, in
conseguenza d ’ una caduta da cavallo, di poche parole,
ma di pronta risoluzione, era audace e crudele. Ariano
al pari di tutti i Vandali, lo dissero, non si sa con qual
fondamento, convertito a questa fede, rinnegando il Cat
tai icismo, in cui sarebbe nato, e quindi, come suole in
questi casi, tanto più intollerante. Dopo avere sostenuto
nel 428 un attacco fortunato contro gli Svevi, lo troviamo
l’ anno seguente in Africa, dove era andato colle donne, i
vecchi e fanciulli : una vera invasione. Gli uomini in armi
non superavano i 50,000.
Questo non era di certo un numero tale da poter facil
mente conquistare il paese, se non fosse stato già indebo
lita dalle discordie, e se non vi si fosse trovato un partito
favorevole agl’ invasori. Essi s’avanzarono saccheggiando,
distruggendo le chiese cattoliche, uccidendo vescovi e
preti, molti dei quali fecero schiavi. E poterono pro
cedere cosi rapidamente che nel 430 tre sole delle
principali città, Citra, Ippona e Cartagine, erano ancora in
mano dei Romani. Bonifazio s’ era ormai svegliato dalla
sua inerzia, e quando i Vandali s’ avanzarono, per met
tere Tassodio ad Ippona, venne con essi a battaglia; ma
fu vinto, e dovè chiudersi nella città che venne assediata.
In essa trovavasi S. Agostino, il quale mori il 28 ago
sto 430, dopo tre mesi di quell’ assedio, che ne durò poi
altri undici. Allora, essendo finalmente arrivati da Co
stantinopoli aiuti sotto il comando del generale Aspar, i
Vandali si allontanarono dalla città, e Bonifazio, unitosi
ai Bizantini, li assalì; ma venne di nuovo battuto (431).
Conseguenza di questa disfatta fu che l’Africa si trovò per
qualche tempo come abbandonata al nemico. Aspar tornò
a Costantinopoli, Bonifazio a Ravenna, dove Placidia, ri
cordando i servigi che questi le aveva resi, quando essa
era combattuta da Ezio, la cui presunzione cresceva sem
pre, lo accolse con gran favore, facendo capire a tutti che
lo preferiva. Così l’ odio fra i due generali si accese, e
finalmente vennero presso Rimini a battaglia. Secondo
alcuni Bonifazio vinse, ma ebbe una ferita mortale, di cui
poco dopo morì. Secondo altri, la vittoria invece fu d i
Ezio, il quale potè prendere i beni del rivale, e sposarne
la vedova, quando esso poco dopo morì di malattia ag
gravata o cagionata dalla umiliazione patita. E da ciò
sarebbe poi venuta la leggenda del duello, e della rac
comandazione fatta dal morente Bonifazio alla moglie
di sposare il rivale fortunato.
Lo stato delle cose a Ravenna non era di certo con
solante. Placidia, dopo la disfatta di Bonifazio in Africa,
e dopo la morte di lui seguita in Italia, trovavasi alla
mercè di Ezio, il solo generale valoroso che ella ora
avesse. E questi, sempre ambizioso, diveniva ogni giorno
più imperioso. La Gallia e la Spagna erano corse dai bar
bari, che d’ ogni parte s’ avanzavano; i Vandali correvano
anch’essi liberamente saccheggiando l'Africa. Questi erano
però in cosi piccolo numero di fronte alla vastità del
paese occupato, da non sentirsi punto sicuri di resìstere
vittoriosamente ad un esercito che venisse da Baverina,
e che poteva essere rinforzato da nuove genti mandate
da Costantinopoli. £ cosi da ambo i lati si trovarono
disposti, pel momento almeno, alla pace, ohe fu infatti
conclusa il di 11 febbraio 435 ad Ippona. Ai Vandali
venne concesso d’ abitare il paese già conquistato, com*
presa una parte della provincia di Cartagine; non la
città stessa, nò il suo territorio, ohe restavano anoora
ai Romani, cui si doveva pagare un tributo. Ma bon
presto i patti furono violati, e nel 439 Genserioo, pro
fittando della guerra che i Romani avevano nella Gallia,
s’ impadroni di Cartagine. Essendo oosì in possesso dei
migliori porti della costa, cominciò le sue escursioni marittime nelle isole vicine, massime in Sicilia, dove già ein
dal 440 s’era avanzato saccheggiando. Intanto oresoevano
per V Impero i pericoli nella Gallia, dove sempre nuove
genti erano richieste; e si venne perciò nel 44‘2 ad una se
conda pace, per la quale i Romani ritenevano laMfturitania
e la Numidia occidentale; ai Vandali restavano la Sicilia,
la provincia di Cartagine o Proconsolare, la Bizacena, la
Numidia orientale. Allora cominciava a governare in Ra
venna Valentiniano III, che aveva ormai raggiunto la
maggiore età, e fin dal 487 aveva sposato Eudossia, figlia
di Teodosio II.
Con la pace del 442 ai Vandali non era stato solamente
permesso d’ abitare il paese come federati; era stata in
vece fatta una concessione incondizionata d ’ occuparlo,
il che finora non s’ era consentito mai a nessuno dei
barbari. Si ammetteva cosi un vero e proprio smembra'
mento dell’ Impero; cominciava uno stato di cose affatto
nuovo. Bisogna però notare che, sebbene i Vandali fos
sero tenuti, ed erano veramente fra i barbari più crudeli,
la loro occupazione riusciva, sopra tutto alle classi infe
riori, assai meno gravosa che non si è creduto. Essi si con
centrarono principalmente nella provincia di Cartagine,
tenendosi uniti, ed impadronendosi delle terre, che divi
sero fra di loro, possedendole senza pagar tasse. Nelle
circostanti province Genserico serbò per sò vasti possessi.
Quelli che in tutto ciò gravissimamente soffrirono furono
i latifondisti, spogliati di ogni avere, ridotti, quando non
emigravano, alla condizione di ministeriali, dipendenti,
qualche volta anche di schiavi ; costretti ad amministrare
o coltivare pei Vandali le terre che una volta avevano
possedute, a cedere perfino la loro proprietà mobile. E
con essi venne oppresso il clero, che era aneli’ esso latifondista,^ che dai Vandali ariani fu sempre crudelmente
trattato. I coloni, i contadini, gli artigiani delle città ri
masero più o meno nelle condizioni di prima. E la stessa
oppressione dei grandi proprietari non fu generale, re
stringendosi principalmente alla provincia di Cartagine. Il
territorio occupato era così vasto, che la parte maggiore
sfuggiva di necessità non solo alla oppressione, ma anche
all’azione diretta del nuovo governo, troppo rozzo e pri
mitivo, in confronto del romano, per far sentire al pari
di questo il peso della sua fiscalità. Le altre province fu
rono come abbandonate a loro stesse, lasciandovi i Van
dali l’ antica amministrazione romana, sottoponendole a
gravi tasse, che tuttavia non raggiunsero mai la regolarità
persistente, continua, opprimente di quelle riscosse dagli
agenti imperiali. Qualche cosa di simile avvenne anche
nella Spagna e nella Gallia, dove si lasciarono sopravvi
vere le assemblee provinciali dei notabili per gli affari
amministrativi. Colà i Visigoti ed i Burgundi pigliarono
due terzi delle terre. Ma anche questo peso, per quanto
odioso, ricadeva principalmente sui soli latifondisti. Nel
l’Africa, è vero, la oppressione esercitata dai Vandali fu
più grave assai; era, però limitata ad una parte sola del
territorio occupato. Grande fu nondimeno contro di eBsi
l’ odio degli spossessati e di tutto il clero, il quale, dove
non veniva espropriato, era oppresso dalla intolleranza re*
ligiosa. E cosi si mantenne sempre vivo un ranoore uni*
versale, anche da parte di odoro che erano meno oppressi,
il che fu poi causa non ultima della rapida rovina dei Van
dali quando i Bizantini vennero in Africa. Ma ohe la op
pressione barbarica fosse davvero minore ohe non si orede,
è confermato dal fatto che Salviano, scrittore del quinto
secolo, dopo aver detto « che tutto nei barbari, persino il
loro stesso odore, era odioso ai Romani, » poteva aggiun
gere, « che assai spesso questi, speoialmente i poveri, pre
ferivano la oppressione barbarica alla imperiale. Le as
semblee dei ricchi Romani, egli diceva, impongono le
tasse, ma essi non le pagano, le fanno pagare ai poveri. E
quando per caso vengono scemate, il sollievo non va a que
sti, ma ai ricchi. Cosi, sé si tratta di pagare tocca al popolo;
se invece si tratta di scemare il peso delle tasse, si opera
allora come se le pagassero solamente i ricchi. I Franchi,
gli Unni, i Vandali ed i Goti non conoscono queste infa
mie. » &> Bisogna però aggiungere che tutto ciò non era
effetto di virtù o sentimento di giustizia; era invece con
seguenza naturale d’un governo troppo imperfetto e rozzo,
per riuscire a stendere su tutto il paese occupato una fitta
rete amministrativa, cui nulla potesse sfuggire.
In questo mezzo Galla Placidia, che aveva quasi rag
giunto i sessant’anni, moriva (27 novembre 450;. Essa non
ebbe di certo nè un grande ingegno nè un grande carat
tere ; ma la sua accortezza e fermezza, paragonate con
la incapacità di suo figlio, parvero a molti assai maggiori1
(1) Saltlutc», De Gubemativne D ei, Hb, V, e*p. V, 7, »,
che non fnrono. Essa potè continuare a governare per un
quarto di secolo fin quasi alla sua morte ; ed in un tem po
di aspre lotte religiose, essendosi appoggiata costantemente al clero cattolico, questo assai naturalmente ne
esaltò la memoria. Sostenuta, come figlia di Teodosio,
dal principio della ereditaria legittimità, che le assi
curava il favore di Costantinopoli; aiutata non poco
dalla sua straordinaria bellezza, che le dava un grande
ascendente sugli uomini, potè esercitare un’ azione effi
cace e costante sulla politica del suo tempo. Chi anche
oggi visita Ravenna, città unica al mondo pei monu
menti del quinto secolo, che sola possiede in Italia, e
vede le molte chiese innalzate colà da Placidia, in una
delle quali essa ha la sua tomba accanto a quella d’ Onorio
suo fratello, di Costanzo suo marito e del loro figlio Valentiniano ; chi vede i molti monumenti, gli splendidi mo
saici, e ode le varie leggende che la ricordano, deve rico
noscere la grande azione esercitata da lei in Ravenna. Il
suo spirito sembra anche oggi presente fra quelle mura.
Ma con tutto ciò, in parte per le condizioni dei tempi,
in parte per le qualità stesse che ella ebbe, la politica che
intorno a lei si fece fu una politica d’ intrighi e di ge
losie. E non ostante qualche guerra condotta, tanto nel
l’Africa quanto nella Gallia, con molto valore, ma con
poca fortuna, si fini col veder l’ Impero andarsi sempre
più decomponendo e smembrando. Sotto di lei infatti le
province cominciarono, l’ una dopo l’ altra, a staccarsi dal
l’ Italia, che rimase come isolata ed abbandonata a se
stessa. Morendo, Placidia lasciava l’ Impero nelle mani
deboli ed incapaci del figlio Valentiniano III, in un mo
mento che era già grave, e stava per divenire gravis
simo.
CAPITOLO I X
Attila e gli Unni - La battaglia di Chàlons
Il generale Ezio - Papa Leone I
Il problema che si presentava adesso nella storia di
Europa, osserva il Ranke, era questo: i popoli latini e
germanici, variamente sparsi e mescolati fra di loro,
potevano amalgamarsi, fondersi insieme, dando origine
ad nn popolo solo, ad una civiltà nuova? 0 pure uno di
essi doveva necessariamente sottomettere 1’ altro, levan
dogli del tutto la propria fisonomia? Un grande ed ina
spettato avvenimento contribuì non poco ad avvicinarli
di fronte ad un comune nemico.
Gli Unni, di stirpe, come vedemmo, affatto diversa dai
popoli latini e germanici, erano rimasti per mezzo secolo
nell’antica Dacia, al di là del Danubio. Fra di essi e l’ Im
pero si trovavano le popolazioni germaniche, che da loro
erano state spinte verso l’ occidente. Più tardi Alarico
era coi suoi Visigoti entrato per la Porta Salara; i Vandali,
gli Svevi, gli Alani avevano passato il Peno. Tuttavia le
relazioni degli Unni coll’ Impero durarono lungamente
abbastanza amichevoli, avendogli essi più di una volta
reso utili servigi, col mandare in suo aiuto soldati, i
quali combatterono accanto alle legioni. Questo contribuì
ad insegnar loro una parte della disciplina romana, al
che si aggiunse che, avendo Attila adoperato nell’ am
ministrazione anche qualche Greco e qualche Romano,
potè renderla più ordinata. Certo è che il suo regno
s’ era andato estendendo con una straordinaria rapidità,
aggregandosi nuovi popoli, i quali restavano sotto i propri
oapi, che dipendevano da lui, divenendogli subito obbe
dienti e devoti. Un tale processo d’ ingrandimento pa
reva che si potesse continuare all’ infinito sino a che
durava l’ autorità del comandante supremo. E intanto,
secondo l’ espressione del Thierry, la valle del Danubio
somigliava ad un immenso formicaio di popoli, rovesciato
a un tratto. Essi facevano da ogni lato, specialmente
nell’ Impero, escursioni minacciose, tanto che Teodosio II
ricorse all’ uso, sempre frequente in Costantinopoli, di
pagare ad Attila un tributo, perchè insieme coi suoi re
stasse tranquillo. Ma ciò dava invece pretesto a nuove
minacce, perchè i barbari solevano chieder sempre che il
tributo venisse aumentato, e non ottenendolo, tornavano
ai saccheggi.
Nel 445 Attila, dopo la morte del fratello Bleda, che
forse da lui stesso era stato fatto uccidere, si trovò solo
alla testa degli Unni. Per le sue selvagge crudeltà, egli è
nella storia conosciuto col nome di Flagellimi Dei. Basso
di statura, di testa grossa, naso schiacciato, occhi piccoli,
aveva il colore olivastro dei Tartari, agitava lo sguardo
feroce a destra ed a sinistra : v ’ era nel suo incesso qual
che cosa che gli dava veramente l’ aspetto d’ un domina
tore di popoli. Non si può dire però che fosse un ge
nio militare, perchè, oltre alle sue molte scorrerie,
saccheggi e stragi, una sola grande battaglia esso dette,
e la perdè. Non mancò a momenti d’ una certa gene
rosità, e quasi grandezza d’ animo, per quanto ciò era
possibile in un barbaro come lui. Ma pur singolare assai
dovette essere la sua potenza di comandare e di organiz
zare, essendo riuscito ad aumentare di molto i popoli che
lo seguivano, fra i quali erano Gepidi, Alani, Ostrogoti,
Svevi. E si formò così uno dei più vasti regni conosciuti
nella storia. Secondo gli scrittori contemporanei infatti, il
dominio di Attila s’ estendeva dalla Scandinavia alla Per
sia, e minacciando Persepoli, confinava da una parto
colla China, da un’ altra coll’ Impero. In sostanza però
questa era più che altro una vasta agglomerazione di
popoli indipendenti, sotto di lui confederati, e che a lui
obbedivano, quando sapeva secondarli nelle loro voglie
di guerra e di rapina, dalle quali egli stesso oavava pro
fitto. U potere effettivo e diretto lo esercitava nella
Transilvania e nell’ Ungheria. Dovendo però oontentaro
e tenere occupate tutte queste genti irrequiete e feroci,
egli fu per diciannove anni, dal 484 al 458, oome una
spada di Damocle sull’ Impero d’ oriente e su quello d’ oc
cidente, i quali perciò si trovarono finalmente uniti contro
il comune nemico.
Ambasciatori andavano ed ambasciatori venivano da
Costantinopoli e da Ravenna alla Corte di Attila, o vice
versa. Invano si cercava di frenare le pretese sempre
crescenti di quel barbaro, che si tirava dietro cosi ster
minata moltitudine di popoli. Sin dal 433 due oratori
erano stati mandati da Teodosio alla Corte degli Unni,
sui quali regnavano allora i due fratelli. Si presentarono
ad Attila, che li ricevette a cavallo, e neppur essi sce
sero di sella. Il resultato dell’ ambasceria fu, che biso
gnò rassegnarsi a raddoppiare il tributo, che l’ Impero
d ’ oriente pagava. Ma non bastava; e non molto dopo
Attila richiedeva minacciosamente gli arredi sacri d’ nna
città da lui presa, sebbene fossero stati già impegnati
per grossa somma di danaro. Il più singolare) pretesto
di guerra fu però un altro. Onoria, sorella di Valentiniano ITI, era stata nella sua età di sedici anni
scoperta in intrigo amoroso con un basso ufficiale della
Corte di Ravenna, e fu per punizione mandata dalla
madre a Costantinopoli. Ivi il Palazzo pareva divenuto
un convento, e Teodosio II passava la vita raccogliendo
reliquie di santi, miniando manoscritti religioni. Kg!)
era sempre dominato dalla sorella Pulcheria, che nel
421 gli aveva fatto sposare Atenaide, figlia d’ un filo
sofo greco, battezzata col nome di Eudocia. Tutti della
Corte passavano colà la vita in orazioni, salmi, vi
site ai poveri, processioni; e però, quando Onoria vi
giunse, si sentì come chiusa in una carcere. Si narra
che per disperazione ricorresse allora allo strano partito
di mandare il proprio anello ad Attila, perchè venisse
a liberarla, accogliendola fra le molte sue mogli. Attila
avrebbe dapprima fatto della singolare proposta il conto
che si meritava. Ma più tardi, quando voleva attaccar
lite con VImpero, se ne valse di pretesto per chiedere
non solo la mano d’ Onoria, ma anche l’eredità cui essa
aveva, secondo lui, diritto. Nel 447 s’ era avanzato fin
sotto le mura di Costantinopoli, obbligando colle minacce
Teodosio a triplicare il sussidio o tributo come lo chia
mava. Ogni anno con nuove ambascerie aggiungeva do
mande a domande, pretese a pretese.
Fra queste ambascerie, ve ne fu una notevole fra
tutte, perchè ne abbiamo assai minuta e autentica de
scrizione da chi ne fece parte. Nel 448 arrivarono a
Costantinopoli Edecone, che alcuni credettero padre di
Odoacre, il primo re barbaro in Italia, ed Oreste, pa
dre di quel Romolo Augustolo, che fu l’ ultimo degl’ im
peratori d’ occidente. Essi fecero varie domande, fra
cui la restituzione d’ alcuni Unni fuggitivi. E mentre
che di ciò si trattava, un eunuco della Corte, promet
tendo danaro a Vigila, che era l’ interpetre di quegli am
basciatori, fece, per mezzo suo, la proposta di far uccidere
Attila. Edecone fìnse d’ accettarla con animo però di ri
velar poi tutto al suo Signore. E intanto, perchè meglio
rimanesse nascosta la tenebrosa trama, si faceva, insieme
cogli ambasciatori d’Attila, partir Massimino ed il re
tore Prisco, quello che ci descrisse il viaggio, lasciandoli
ambedue ^farr-r- ììtm^ di.'-ìa T*<n*ìwst* *:ram* ,v,\via ac
cario a loro. E rio perchè. ìrigwrarutfx.
ìr.ccv
sapevolmexr» iniraimar Tr.^gh* All ila. Mcttax-auc ccv.
loro diciass»eit« fuggitivi unr.ì che dcxevavic vc*tìlaì*v
Con essi, con Edeocme* Orasi* * Vigila tmvnxwvmo
paesi disertati dalle ripetute scorrane degli Unni. Hv>
vendo il suolo sparso di ossa * dì teschi umani* e città
quasi distrutte, nelle quali erano rimasti solo pochi \occhi
e malati abbandonati. Passato il Pannino, arrivarono alla
tenda di Attila, che tornava allora da una in pala* tannali
accolse i donativi; ma, sdegnato noi vodor aoli diciassette
fuggitivi, rimandò indietro V interpol ro a ohiodoro gli
altri, e invitò i due inviati di Costantinopoli a arguirlo
piu oltre nel paese, là dove era il suo palasse, a dova
avrebbe dato loro risposta.
Cosi Massimino e Prisco s* avanzarono noli’ Ungheria,
traversando i fiumi sopra albori scavati n tavola noti
nesso, e giunsero alla oapitulo mina. Cobi videro Ai
tila che arrivava a cavallo, preceduto da fanciullo, la
quali cantavano canti nazionali; o passarono (.ulti sotto
veli tenuti distesi da altre giovanotta. Il r« si l'mmb
a cavallo dinanzi alla porta rie) suo primo ministro, la
cui moglie usci ad offrirgli cibo a vino, manti* nitri
tenevano una tavola <Vargento accanto a lui, Il p#
lazzo di Attila era come una grossa capanna cast mila
con tavole di legno, non senza qualche eleganza In
torno ad essa si vedevano sparge Je ab)*,» /ioni d/,;Jo tru*
vane mogli» Un solo ed^f/^o
pietra ^ trovava
era no bagno co s tri> » o* tU iv,tu*uo, Ma ' ,o ' n* /'/ « di
pifr notevole ;n qveav, 5^r,;r,^/v
A ^ '<•* ogo
di Prisco con 5t ff/CCO
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.. var* Jl<<. ->v *-.*/*,
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e peggio nella pace. Chiamate gli stranieri a difendere
l’ Impero, perchè i vostri tiranni non vi lasciano libero
neppure l’ uso delle armi, e siete oppressi dal fisco,
dalle spie, dalla grande disuguaglianza : i ricchi sfug
gono alle pene ed alle tasse, che s’ aggravano invece
sul povero. Tutto dovete pagare, perfino chi difende
i vostri diritti. — A l che Prisco rispondeva: — Ciò di
pende dalla divisione del lavoro, e dal concedere a cia
scuno la dovuta mercede. Noi non possiamo, al pari di
voi, ammazzare gli schiavi, ma cerchiamo invece come
padri correggerli. Le vostre pretese libertà si restrin
gono nel poter tutti andare alla guerra, senza disci
plina. Abbiamo leggi a difesa di ogni giusto diritto.
È sacra per noi anche la volontà dei morti, che possono
per testamento lasciare a chi vogliono i loro averi.
— Ah ! si, esclamò piangendo il Greco, le leggi son
buone, la legislazione romana eccellente ; ma chi le
esegue, chi le rispetta? I vostri governanti, non più
degni dei loro antenati, spingono lo Stato alla ro
vina. —
Dopo aver visto Attila rendere sommaria giustizia di
nanzi al suo palazzo, i due inviati s’ incontrarono cogli
ambasciatori d’ Occidente, dai quali sentiron dire che
esso si teneva padrone del mondo, voleva comandare a
tutto l’ Impero, e si reputava invincibile, credendo posse
dere la spada di Marte. Un contadino l’ aveva scoperta,
confìtta in terra, fra l’ erba, andando dietro le tracce di
sangue d’ una sua bestia, che vi s’ era ferito il piede nel
camminare. Finalmente assisterono ad un gran banchetto
nella sala del palazzo reale. Attila sedeva sopra una specie
di canapè, dietro cui erano scalini, che conducevano ad un
letto nascosto da cortine. Accanto a lui sedeva silenzioso
il suo primogenito, alla loro destra ed alla sinistra erano
il primo ministro Onégesh, ed un nobile Unno. «C osi nep-
pur questi posti furon serbati a noi », osservava Priseo. Dì
fronte erano i figli del re ; intorno alla sala, lungo le mura
di legno, stavano i convitati, ai quali fu portato in giro del
vino, e poi servito il cibo su piccoli deschi, ciascuno per
tre o quattro persone : su di essi erano piatti d’ argento
e coppe d ’oro. Attila invece, con grande semplicità, man
giava solo carne su piatti di legno, e di legno erano an
che le coppe. Nè l’ elsa della sua spada, che dietro di
lui pendeva, nè la briglia del suo cavallo, nè i fermagli
dei suoi stivali erano, secondo il costume barbarico, or
nati di pietre preziose. Verso sera si cantarono, fra un
generale entusiasmo, canzoni in lode delle imprese di lui.
E poi vennero buffoni, fra cui un Moro, nano e gobbo,
coi piedi torti, che fece ridere tutti, meno Attila, il quale
ne pareva piuttosto disgustato. Sebbene egli si dimo
strasse assai irritato, per aver saputo della trama contro
di lui ordita, pure gli oratori, che sinceramente negarono
tutto, dopo lunghe trattative, obbligandosi a pagar nuove
somme di danaro, par che riuscissero finalmente a con
cludere un accordo temporaneo.
Nel 450 però lo stato delle cose mutò affatto. Teodosio
moriva per una caduta da cavallo, senza lasciar figli ma
schi. La moglie Eudossia era da più tempo in esilio per
accusa d’ infedeltà. Successe la sorella di lui Pulcheria
con Marciano, soldato valoroso, avanzato in età, cui pel
bene dello Stato ella dette nome di marito, a condizione
di non avere nessun contatto con lui. Ed egli cominciò
a governare, condannando a morte l’ eunuco Crisafìo,
che aveva ordito la trama segreta contro la vita di
Attila. Ciò fece credere che il nuovo Imperatore vo
lesse rendersi benevolo il re degli Unni. Ben tosto
però si vide che egli non era della tempra mite di Teo
dosio II, perchè quando Attila, con le solite minacce,
richiese il pagamento del tributo, rispose subito : « Agli
amici i doni, ai nemici il ferro. »
Cosi la guerra si
poteva ritenere ormai inevitabile.
Attila si trovava allora nell’auge della sua potenza, alla
testa d’un formidabile esercito, che alcuni fanno ascendere
a 600, altri a 700 mila uomini. Tutto era pronto per m et
tersi in moto ; bisognava solo decidere se attaccar l’ Oriente
o l’ Occidente. Ad attaccar l’ Oriente, che era più vicino,
sarebbe stato necessario traversare un paese già più volte
saccheggiato, per trovarsi poi sotto le mura di Costan
tinopoli, posizione fortificata, che avrebbe presentato una
formidabile resistenza, specialmente ora che Marciano
era deciso a difendersi. Inoltre un esercito barbarico
come quello di Attila, composto di genti assai diverse,
se non vinceva nel primo impeto, facilmente poteva di
sciogliersi. Nell’ Occidente invece, sebbene più lontano,
tutto pareva che promettesse una facile vittoria agli
Unni. L ’ unico generale che vi fosse, era Ezio, valo
roso di certo, ma stato sempre in buoni termini con
Attila, e più volte da lui aiutato. La Gallia era occupata
quasi tutta da barbari fra loro in discordia. Una parte
dei Franchi già incitava gli Unni a passare il Reno. Il
forte regno dei Visigoti era alleato dei Vandali, che
promettevano di secondare l’ impresa di Attila con uno
sbarco nella Gallia meridionale. Pretesti di guerra a lui
non mancavano mai. Chiese allora appunto non solo la
mano d’ Onoria, che gli aveva mandato il proprio anello,
ma anche la parte d’ Impero che le sarebbe, secondo lui,
spettata in dote. E quando gli fu risposto, che essa era
già moglie d’ un altro, disse che lo avevano fatto per
non darla a lui, e ordinò ai suoi di avanzare.
Se non che, lo stato delle cose in Occidente era in 1
(1) Quiescenti ninnerà largiturnm, bellnm minanti viroH et arma obìeoturnm, Prisci, Fragmenta. X V .
realtà ben diverso da quel che pareva, e che Attila cre
deva. Prima di tutto Teodorico re dei Visigoti, uomo di
molto valore, non che essere avverso ai Romani, inclinava
non poco ad essi. Egli, è ben vero, aveva data la propria
figlia in isposa al figlio di Genserico, e cosi s’ era le
gato con vincolo di sangue ai Vandali, nemici acer
rimi del nome romano. Ma Genserico, credendo o fin
gendo di credere, che la figlia di Teodorico lo volesse
avvelenare, l’aveva rimandata al padre, mutilata del naso
e delle orecchie. Così 1*alleanza s’ era mutata in nimicizia mortale, che richiedeva una delle sanguinose ven
dette barbariche. Il generale Ezio era stato amico degli
Unni, ma si trovava in una posizione simile a quella
di Stilicone; anzi, se questi era stato un barbaro roma
nizzato, egli era invece un Romano lungamente vissuto
coi barbari. Non si poteva quindi supporre che, quando
l’ Impero si fosse trovato in guerra cogli Unni, Ezio
potesse esitare, e non sentire scorrere nelle sue vene
il sangue romano. Ma v ’ era di più. Gli Unni, essendo di
sangue e di razza diversa affatto da quella dei Germani
non meno che dei Romani; essendo nomadi, pagani e po
ligami, la loro vittoria sarebbe stata un trionfo della bar
barie orientale, delle popolazioni turaniche e tartare sulle
ariane. Sarebbe stato come se i Persiani avessero vinto
a Salamina, o i Turchi a Lepanto. La storia del mondo
avrebbe potuto non poco mutare il suo cammino. In ciò
stava la grande importanza storica della prossima lotta.
Tutto dipendeva ora dal sapere se i Visigoti erano di
ciò consapevoli, e se nell’ interesse comune di razza e
di civiltà, si sarebbero uniti ai Romani. Ezio, per mezzo
del suo amico Avito, cittadino autorevolissimo dell’ Im
pero, seppe indurli a stringere l’ alleanza. Lo scontro de
cisivo s’ avvicinava a gran passi.
Nel 451 Attila, passato il Reno, s’ avanzava saccheg-
giando il paese, trucidando gli abitanti, cbe sembravano
incapaci di resistenza, salvo in alcune poche città, nelle
quali lo spirito religioso s’ accendeva contro la pagana
barbarie. Dopo infatti che Metz e Rheims furono deso
late, santa Genoveffa riuscì ad animare la popolazione,
assai scarsa allora, di Parigi, che restò, come per mira
colo, incolume. Orléans, resa più tardi assai celebre dalla
difesa di Giovanna d’Arco, fece anche allora viva resi
stenza, per eccitamento del suo vescovo, il quale, quando
la vide d’ ogni parte circondata, andò, ad avvertire Ezio,
che non era possibile tener testa all’ onda sterminata dei
nemici oltre il 24 giugno. E già la città era agli estremi,
quando apparvero gli eserciti riuniti di Teodorico e di
Ezio, che obbligarono Attila a retrocedere, per appa
recchiarsi alla battaglia, la quale non molto dopo ebbe
luogo, fra Chàlons sur Marne e Troyes. Anche questa
seconda città, che era aperta e poteva facilmente essere
saccheggiata, fu salva per opera del suo vescovo Lupo,
il quale seppe in modo singolare, quasi misterioso, im
porre rispetto ad Attila.
Questi, secondo il suo costume, prima di cominciar la
grande battaglia, fece consultar le viscere degli animali, e
la risposta degli auguri fu, che gli Unni avrebbero per
duto, ma che il generale nemico sarebbe morto. Ciò lo im
pensieri non poco; pure i due eserciti s’attaccarono final
mente (451). Gl’Imperiali si schierarono, ponendo al centro
gli Alani, di cui non parevan molto sicuri. A destra erano
i Romani, comandati da Ezio ; a sinistra i Visigoti, coman
dati da Teodorico. Invece Attila stette al centro coi suoi
Unni ; a destra e sinistra pose i popoli a lui confederati : i
Gepidi e gli Ostrogoti erano di fronte ai Visigoti. Questa
battaglia, notevolissima per la sua storica importanza, fu
anche una delle più terribili che si ricordi. Bellumì dice
Jordanes, atrox, multiplex, immane, pertinace, cui simile
nullum narrat antiquitas. Ed aggiunge che il sangue
versato fu tale e tanto, che mutò in grosso e rosso
torrente un vicino ruscello, liquore concitatus inso
lito, torrens factus est cruoris augmento : e in esso do
vevano dissetarsi i feriti! I Visigoti si batterono con
molto valore, ma Teodorico perdè la vita sul campo.
Attila fece coi suoi sforzi sovrumani, e pareva un
leone ferito. Ma ben presto cominciò a dubitare del re
sultato finale, tanto che aveva fatto apparecchiare un
monte di selle, per farsi su di esse bruciar vivo, se la
fortuna gli fosse stata veramente avversa. Jordanes
afferma che in quel giorno morirono 162,CKX) combat
tenti, senza tener conto di 15,000 caduti in uno scontro
precedente. Ida zio fa arrivare i morti a 300,000. Ciò
dimostra la parte non piccola, che in tutte queste notizie
ebbe la fantasia, allora e per molto tempo di poi. Una leg
genda posteriore illustrata dalla poesia e dalla pittura, ag
giunge che, nella notte seguita alla battaglia, si videro in
cielo le anime dei morti affrontarsi, e cominciar di nuovo
a combatter fieramente fra di loro. Cjerto è che, sebbene
l’esito della battaglia non fosse stato veramente decisivo,
pure Attila si ritirò. E così, essendo morto Teodorico, si
potè affermare che la profezia fatta dagli auguri si era
avverata. Il merito principale del felice resultato fu certo
di Ezio, che, oltre all’ essersi mostrato soldato assai co
raggioso e di gran valore strategico, era riuscito ad assi
curare all’ Impero l’ alleanza dei Visigoti. Ma pareva fa
tale che il suo destino dovesse sempre somigliare a quello
di Stilicone. Infatti, non avendo egli inseguito Attila, su
bito si disse che tradiva, che non voleva la totale distru
zione del nemico, per non lasciar divenire ancora più po
tenti i Visigoti, i quali avevano, secondo lui, già troppo
contribuito alla vittoria. La verità è invece, che i Visigoti
proclamarono sul campo stesso di battaglia il successore
di Teodorico nella persona di Torismondo, che dovè su
bito ritirarsi nel suo regno, per rafforzare la propria po
sizione già assai incerta e combattuta. Così non era fa
cile allora misurarsi nuovamente con Attila, il quale
dapprima, non vedendo che lo inseguivano, temette di
qualche agguato ; ma poi, fattosi animo, ripassò il Reno,
e si ritirò nella Pannonia, per riordinare i suoi ed ap
parecchiarsi a nuove imprese.
Pareva che egli meditasse ora d’ andare a Roma, giac
ché s’ avanzò subito verso l’ Italia, e hel 452 era già
sotto le mura d ’Aquileia, dove trovò una cosi tenace re
sistenza, che stava per levare, scoraggiato, l’ assedio.
Narra però la leggenda, che in quel momento appunto
vide alcune cicogne le quali, volando coi figli, abbando
navano la città ; il che gli fece capire che dentro le mura
non c ’era più cibo per nessuno. Sospese quindi l’ordine d i
ritirata, e poco dopo la città si arrese a lui, che la distrusse
a segno tale da lasciarne appena le vestigia. Aitino, Con
cordia, Padova sopportarono la stessa sorte ; altre terre
si salvarono dalla distruzione, aprendo le porte e sotto
mettendosi, senza resistenza, al saccheggio.
Questi sono i fatti che fecero in Italia dare ad A ttila
il nome di Flagellum Dei, e spinsero i profughi d’A qui
leia e delle vicine città a riparare nella laguna veneta,
dove fu cosi fondata la città di Venezia, unica al mondo
per la sua storia, la sua posizione e la sua incantevole
bellezza. Molti fiumi, come l’Adige, la Brenta, la Piave,
il Tagliamento, il Po ed altri, a breve distanza, l’ uno dal
l’altro, sboccando nel mare Adriatico, e quasi tutti, eccet
tuato il Po, scendendo rapidamente dai monti vicini, por
tano sassi che, secondo la grossezza ed il peso, si arrestano
più o meno lontano dalla riva. Cosi si formarono prima la
Laguna, e poi il Lido, che costituisce dalla parte del mare
come un forte antemurale, superato il quale, può navigare
nella Laguna solamente chi ne è assai pratico. Tatto que
sto costituisce come una grande fortezza naturale, a si
cura guardia delle isole che vi sono sparse. Su di esse i pro
fughi italiani, per salvarsi dalle orde finniche degii Unni,
fondarono la città che, come osserva l’Hodgkin, doveva più
tardi eroicamente difendere V Europa contro i Turchi.
Nulla pareva che potesse ora fermare l’ avanzarsi di
A ttila verso Roma. Se non che il suo numeroso esercito,
che tutto distruggeva, facendo intorno a sè il deserto,
cominciava a soffrire la fame, e ad essere decimato dalie
malattie. Ezio, è vero, non s’ era anche mosso, di che
molti lo accusavano ; poteva però da un momento all’altro
apparire. L ’ imperatore Marciano non solo prometteva di
mandare aiuti da Costantinopoli, ma pareva accennare a vo
lere esso stesso direttamente attaccare le terre degli Unni.
Tutto ciò poneva naturalmente non poca incertezza nell ’ animo di Attila. Pagano, barbaro e feroce, egli era
anche superstizioso. Il nome stesso dell’ Impero metteva
a lui, come a molti dei barbari, una specie di spaventoso
terrore, e la fine di Alarico gli era sempre presente.
L a religione cristiana, a cui egli non credeva, ma che pure,
pel numero grande de’ suoi credenti e per la sua pro
pria natura, esercitava su tutti una straordinaria azione,
anche a lui ispirava un’ istintiva, misteriosa, irresistibile
reverenza. A coloro che in nome di essa autorevolmente
gli parlavano, pareva che non sapesse più che cosa ri
spondere: restava confuso. E fu quando era in queste
disposizioni d’ animo, che gli venne annunziata una so
lenne ambasceria, arrivata da Roma, e della quale face
vano parte l’ ex-console Avieno, l’ ex-prefetto Trigezio.
La guidava lo stesso capo venerabile della cristiana reli
gione, il successore di Pietro, il rappresentante di Dio
sulla terra, Leone I, il vescovo di Roma, l’ uomo forse
più grande in quel secolo.
Nato da genitori romàni, egli univa al suo spirito a l
tamente cristiano V antico spirito di Roma. Da questa
unione nasceva e si determinava in lui per la prima volta
chiaramente il concetto della chiesa universale cristiana,
quale possiamo leggerlo anche oggi formulato ne’ suoi
discorsi. « 8. Pietro e 8. Paolo sono, egli diceva, i
Romolo e Remo della nuova Roma, tanto superiore all’ antica, quanto la verità è superiore all’ errore. Se
Roma antica fu alla testa del mondo pagano, 8. Pie
tro, il principe degli apostoli, venne ad insegnar nella
nuova Roma, perchè da essa si diffonda sulla terra la
luce del Cristianesimo. » Questo concetto ricorre con
tinuamente nei suoi discorsi semplici, chiari, precisi,
pieni di senno pratico. Essi non hanno nulla della pas
sionata sottigliezza teologica dei Greci, anzi non si o c
cupano di teologia. Parlano assai poco dei santi e della
Vergine, molto invece di Gesù Cristo; raccomandano
la carità, condannano l’ usura. E quando le questioni
teologiche si presentavano inevitabili, egli non dispu
tava, ma, con uno sguardo sempre sicuro, vedeva quale,
fra le opposte dottrine, era destinata a trionfare nel
l’ interesse della fede e della Chiesa, e la proclamava
senza esitare. Non fu solo una grande intelligenza, ma
sopra tutto un grande carattere. Mirabile è l’energia, la
fermezza incrollabile di volontà, con la quale, in mezzo
alla tumultuosa, disordinata agitazione di quel secolo,
sostenne l’ unità e l’ autorità della Chiesa di Roma, fon
data da S. Pietro, che solo ebbe da Dio la facoltà di
legare e di sciogliere, e solo poteva trasmetterla ai
suoi successori. Intorno ad essa vuole raccogliere tutto
il mondo cristiano. « L ’ autorità regia e la ecclesiastica
debbono, egli diceva, procedere d’ accordo. La prima
è data all’ Impero per reggere i popoli e difendere la
Chiesa, alla quale è affidato il governo delle anime.
Esulta, o Roma, festeggia i natali di S. Pietro e S. Paolo,
pei quali da maestra d’ errore sei fatta discepola di ve
rità, e messa alla testa del mondo, per tenere con l’opera
della religione più alta ancora la tua dignità. » E questi
pensieri non solo riempiono i suoi discorsi, i suoi scritti,
ma animarono tutta quanta la sua vita, formarono, co
stituirono il suo carattere ; lo misero al di sopra di tutti
i suoi contemporanei. Leone I lavorò continuamente per
sottomettere all’ autorità del Papa, come capo della
Chiesa romana i vescovi non solo dell’ Occidente, ma
quelli anche della Chiesa d’ Oriente. È ben vero che, fin
da quando il Concilio di Sardica (344) sottopose alla de
cisione di Roma la questione sorta in Oriente per la
deposizione di Atanasio, i Papi cercaron sempre di fon
dare su questo caso speciale un diritto generale a favore
d ell’ autorità superiore della Chiesa romana. Ma Leone I
dedicò la vita intera a far riconoscere, a porre in atto
questo principio, ed in parte vi riuscì, avendo investito'
in nome di S. Pietro un vescovo della Macedonia ; il che
voleva dire estendere la sua autorità ecclesiastica in
tutta la Prefettura dell’ Illirico, anche in quella parte di
essa che apparteneva all’ Oriente. Cosi apparecchiò l’ av
venire, entrando per la via che doveva essere costantemente percorsa dai suoi successori, fino al raggiungimento
dello scopo prefisso, di fare cioè di Roma la capitale
della Chiesa universale. Ed è singolare davvero l’ osser
vare come tutta la storia posteriore del Papato si trovi
già quasi in germe nella mente superiore e nella volontà
incrollabile di questo grande vescovo, e che da esso si
vada lentamente svolgendo attraverso i secoli.
Era questi appunto l’ nomo, il quale, animato da quella
fede inconcussa che nulla teme, si presentò ad Attila,
alla testa dell’ ambasceria venuta da Roma, come il vero
rappresentante della Città eterna, la personificazione vi-
vento della Chiesa universale, e della sola vera religione,
con la ferma persuasione» che tutti ad essa, volenti o nolenti, dovevano obbedire. L ’ incontro ebbe luogo nella
state del 452, presso Peschiera. Nessuno sa che cosa il
Papa veramente dicesse ad Attila. Certo è che, dopo il
colloquio, con generale maraviglia, questi si ritirò. Qual
parte abbiano avuto a promuovere una tale risoluzione le
parole e 1’ autorità del Papa, quale invece v’abbiano avuto
lo stato generale delle cose, e le condizioni difficili in
cui l’ esercito unno si trovava allora, non è possibile dirlo.
La leggenda s’ impadronl del fatto, dando tutto il me
rito a Leone 1. Alludendo a lui ed al vescovo Lupo,
che g l’ impedì di saccheggiare Troyes, Attila avrebbe
detto: Io so vincere gli uomini; ma un leone ed un lupo
hanno saputo conquistare il conquistatore. Un’ altra di
queste leggende fu resa immortale dal pennello di R a f
faello, il quale ci rappresentò nelle sale vaticane Attila
‘ spaventato al vedere dietro del Papa, che tranquilla
mente s’ avanza a cavallo e gli fa segno di retrocedere,
S. Pietro e S. Paolo librati in aria, colle spade sguainate
e fiammeggianti. Ma quello che rese ancora più singo
lare, circondandola di maggiore mistero, la ritirata di
Attila, fu il fatto che, avendo poco dopo sposato una
nuova moglie, finito appena il lauto banchetto nuziale,
venne soffocato da una emorragia. Quella stessa notte
l’ imperatore Marciano disse d’ aver visto in sogno l’ arco
di Attila spezzato. Gli Unni deposero nelle pianure d’ Un
gheria, sotto una tenda, il corpo del loro eroe, taglian
dosi il viso col ferro, perchè vi scorresse sangue invece
di lacrime. £ intorno alla tenda correva rapidissima una
squadra di cavalieri, cantando canzoni nazionali, le quali
celebravano le doti dell’ estinto, e deploravano che fosse
morto, non per mano nemica, non in mezzo ai pericoli di
guerra, ma fra i piaceri e la gioia ; e quindi non v ’ era
contro chi vendicarlo.a>P er g l’ italiani Attila restò senipre il Flagéllum Dei, e tale ce lo rappresentano le loro leg
gende. Quelle degli Ungheresi, degli Scandinavi e anche
dei Teutonici ne esaltano invece le gesta. Dopo la im
provvisa sua morte, il vastissimo regno si decompose e
scomparve colla stessa rapidità con cui s* era formato.
Se l’ ambasceria di papa Leone ò il primo fatto ohe
ci renda visibile la enorme potenza morale che andava
assumendo il Papato, la battaglia contro gli Unni, ohe
fu chiamata di Chàlons, quantunque avvenuta assai lungi
da questa città, fu a giusta ragione considerata oome l’ ul
timo fatto eroico dell’Impero di Poma. La vittoria essendo
stata attribuita al generale Ezio, questi fu tenuto oome
il salvatore dell’ Impero, sebbene non si fosse poi fatto
vivo quando gli Unni s’ avanzarono in Italia. Certo esso
era un gran capitano, di valore strategico singolare, di
straordinaria forza muscolare: era perciò instancabile nel
lavoro, che pareva gli aumentasse energia, come si legge
nel suo panegirico. Ma la grande fortuna che ebbe e gli
eminenti servigi che rese all’ Impero, ne aumentarono
V ambizione a segno tale, che voleva farla addirittura da
padrone, e si rese quindi sempre più insopportabile a Va*
lentiniano m f il quale era senza figli maschi, e gli aveva
promesso in isposa la propria figlia. Ma ora che non
aveva più la paura degli Unni, divenuto orgoglioso e intollerante, mandava in lungo l’adempimento della fatta
promessa, per la quale Ezio insisteva con tale alterìgia,
che l’Imperatore meditò di liberarsene, come Onorio
s’ era liberato di Stilicone. Verso la fine del 4M lo io
ti) J o iD ix n ebe ci dà il sunto delle canzoni «crìre ; « S*m ▼trinerò
« non fronde saornn», ted gente incoi orni, fnter gaudi* boto*. *:ne «or,*'* do« tori* occnìmit. Qnu erg» Lane dteat exitem , qnem
****..rnzl
vitò al suo palazzo in Roma, e quando egli tornò ad in
sistere sul promesso matrimonio, Valentiniano gli saltò
addosso ferendolo colle proprie mani, ed aiutato subito da
sicari ivi apprestati, lo finirono. Procopio racconta che,
avendo 1*Imperatore chiesto ad un Romano, se credeva
che avesse fatto bene o male a disfarsi di Ezio, gli fu
risposto: — Se bene o male non saprei; certo è però
che con la sinistra voi avete tagliato la vostra destra.
— E così fu veramente.
L ’ anno seguente Valentiniano venne ucciso nel Campo
Marzio, mentre guardava i giuochi atletici, da due sol
dati, i quali vollero vendicare il loro generale, ed uc
cisero poi anche 1’ eunuco Eraclio, che aveva ordito il
tradimento, facendo la parte stessa di Olimpio contro
Stilicone. Con Valentiniano si estinse affatto la dina
stia di Teodosio, la quale aveva governato settantaquattro anni in Oriente (379-453), e sessantuno in Occidente
(394455). Cominciava cosi per l’ Impero un’ epoca nuova,
la quale si può dir veramente il principio della fine.
Già la rapida decomposizione cui esso andava incontro
appariva sempre più chiara nello straordinario potere
politico, che erano andate assumendo le donne da un
lato, i generali dall’ altro. Dopo la morte d’ Arcadio
aveva di fatto governato Pulcheria, la quale ridusse la
Corte ad un convento, e prese poi a compagno Marciano,
che era un capitano valoroso. In Occidente aveva lun
gamente governato Placidia, e sotto di lei erano divenuti
potentissimi Bonifazio ed Ezio, il quale ultimo, rimasto
solo, divenne onnipotente fino a che non fu levato di
mezzo a tradimento. Colla estinzione della casa di T eo
dosio quei generali simili a capitani di ventura divennero
sempre più frequenti nqll’ Impero d ’occidente, e ne affret
tarono la precipitosa rovina. Intanto ora la sede di esso
era vacante, ed i Vandali s’ avanzavano minacciosi, fa
cendo escursioni continue nella Sicilia, nella Corsica»
nella Calabria e più oltre ancora, sema che qualcuno
fosse in grado di opporvisL
CAPITO LO X
Massimo Imperatore - 1 Vandali saccheggiano Roma Ricimero, Oreste ed Augnatolo
Nel marzo 455 penne eletto imperatore Petronio Mas
simo, senatore romano, che era già stato Console e Pre
fetto: un uomo di circa sessantanni, ritenuto aw erso alla
dinastia di Teodosio, e però a molti assai poco gradito.
Questo malumore venne aggravato dal fatto ohe egli
accolse subito fra i suoi protetti i due uccisori di Valentiniano, il che fece nascere il sospetto che avesse
tenuto mano all’assassinio, di cui ora profittava. S’ ag
giunse che volle per forza sposare la giovane Eudossia, la quale aveva soli trentaquattro anni; era figlia
di Teodosio II, vedova di Valentiniano III, ed avver
sissima ad unirsi con un vecchio, creduto assassino del
proprio marito. Tutto ciò fece al solito nascere la
leggenda che, per vendetta, ella avesse invitato a
venire in Italia i Vandali, i quali allora presero e
saccheggiarono Roma. Ma questa notizia, che è data da
Procopio, è ignota affatto ai contemporanei, o è ri
cordata da qualcuno di essi con un semplice si dice.
Il tempo che sarebbe corso fra la chiamata e la ve
nata dei Vandali è troppo breve, per potere dar fede
alla leggenda. Il dubbio è poi confermato anche dal
fatto, che Eudossia non fu risparmiata, ma venne me
nata in Africa, prigioniera colle due sue figlie. In ogni
modo neppure qui v’ è bisogno di artificiose spiegazioni,
s
giacché l’ invito d’ avanzarsi veniva ai Vandali, che g ià
piu volte avevano fatto scorrerie sulle coste dell’ Italia
meridionale, dallo stato d ’ anarchia in coi si trovava
adesso Roma, priva d’ ogni mezzo di difesa, incapace
affatto di qualunque resistenza. I Vandali, uniti ai Mori
d’ Africa, c o i ‘ quali avevano ingrossato il loro esercito,
erano divenuti una specie di pirati, che mettevano ter
rore nel Mediterraneo ; e le loro selvagge crudeltà veni
vano esagerate dalla leggenda. Si raccontava, fra le altre
cose, che quando non potevano subito prendere una città,
facevano strage nel contado, accumulando i cadaveri sotto
le mura di essa, perchè vi scoppiasse la peste, che obbli
gava poi la popolazione ad arrendersi; come se in questo
caso non sarebbero stati essi i primi a soffrirne. Certo è
che distruggevano le chiese, trucidavano o pigliavano
prigionieri i prelati, i vescovi: spesso anche li mena
vano schiavi. La parola vandalismo è perciò rimasta nel
linguaggio comune.
Per tutte queste ragioni, quando si seppe che i Van
dali erano alle bocche del Tevere, vi fu a Roma come un
timor panico, non avendo l’ imperatore Massimo provve
duto a nulla addirittura per la difesa delle mura. E gli
non seppe far altro che dichiarare di lasciar libero
chiunque volesse abbandonare la Città, apparecchiandosi
egli stesso alla fuga. Ma di fronte a questa condotta v i
gliacca lo sdegno del popolo romano fu cosi grande, che
ne scoppiò un tumulto violentissimo. L ’ Imperatore venne
ucciso, ed il suo cadavere, fatto a brani, con grida feroci
d’ imprecazione fu portato in giro per le vie, e poi get
tato nel Tevere. Intanto la Città restava senza Impera
tore, senza governo e senza difesa, contro un barbaro
nemico, che rapidamente s’ avanzava. Il disordine e
l’ anarchia furono al colmo. V ’ erano amici della dinastia
teodosiana, che maledicevano l’ elezione di Massimo ; pa-
gani, che si ri Tolgevano agli antichi D ei: cattolici» che vii
ciò restavano inorriditi, e prevedevano la vicina vendetta
di D io; barbari soldati in armi, i qnali, essendo ariani, in*
vece d’ apparecchiarsi alla difesa, stavano a guardar* ohe
cosa stessero per fare i Vandali, ariani anoh' essi»
In mezzo a questo spaventoso disordine, una sola voce
si alzò ferma, dignitosa, sublime, e fu anche questa volta
quella di Leone L In uno de’ suoi più oelebri discorsi,
fatto nel giorno di S. Pietro e S. Paolo, egli esula*
mava: «U m ilia il dirlo, ma non si può taoere, che si
ricorre adesso più ai demoni ed agl’ idoli, ohe agli Apo
stoli, e più attenzione si presta ai nuovi spettacoli ohe
ai beati martiri. Ma chi difende, ohi salva questa ( >ittù,
i giuochi del circo o la fede nei Santi? Tornate al Hi*
gnore, intendendo le cose mirabili che Esso ha operato
per noi, riconoscendo la nostra libertà non già, secondo
l ’ opinione degli empi, dalla influenza dogli astri, ma
dalla misericordia dell’ onnipotente Iddio, che *’ ò de
gnato di mitigare il cuore dei furenti barbari* » Questo
discorso, che secondo alcuni (Papencordt) si riferisco
appunto alla venuta dei Vandali, e secondo altri (Daroiiio e Milman) alla invasione degli Unni, ci descrivo
in ogni modo qual’ era in Roma, nella metà do! secolo
quinto, lo stato degli animi, e quale la condotta del
Papa. Anche questa volta Leone I fu il solo che osò
uscire dalla Città per affrontale i barbari; ma con Gen
serico non potè ottenere lo stesso resultato che aveva
avuto con Attila. I Vandali, insieme eoi Mori anche
più selvaggi, erano già vicini alla Città eterna, a i
tati di preda e di sangue. T u tuttavia prometeo che le
chiese cristiane non sarebbero state bruciate, che sa
rebbe stata risparmiata la vita ci coloro che non ave*
sero fatto resistenza.
Pochi giorni dopo la morte di Massimo, i
: cn
trarono in Roma (giugno 455), aiutati, a quanto pare, dal
tradimento d’ un barbaro ariano, che avrebbe insegnato
loro la via più facile. Per quattordici giorni la Città andò
a sacco ; e tutto ciò che avevano di prezioso il palazzo
imperiale e i tempii pagani fu messo sulle navi e portato
via : oro, argento, pietre preziose, un gran numero di sta
tue greche e romane. Lo stesso si fece nella Campania.
Furono imbarcati anche i sacri e venerati arredi, che dal
tempio di Gerusalemme erano stati portati in trionfo a
Roma, e che si vedono ancora oggi scolpiti sull’A rco di
Tito. Sebbene questo fatto sia stato messo in dubbio, esso
trova conferma nel racconto di Procopio, il quale narrò
più tardi, che Belisario li tolse in Africa ai Vandali, e
li portò a Costantinopoli. Certamente si può credere che
la rovina generale di Roma per opera dei Vandali, quale
alcuni la descrivono, sia esagerata, come è provato dal
fatto che, dopo la loro partenza, la Città si trovava tut
tavia piena di chiese e di monumenti splendidi. Ma è
certo pure, che dai tempi di Brenno in poi, essa non
aveva sopportato mai uguale sventura e vergogna. In
sieme colle statue, coi metalli e colle pietre preziose, i
Vandali portaron via moltissimi prigionieri, la più parte
dei quali ridussero in ischiavitù. E fra questi prigionieri
v ’ erano, oltre un gran numero di religiosi, anche l’ eximperatrice Eudossia con le due figlie Eudocia e Placidia. La prima di esse venne poi da Genserico data in
isposa al suo figlio Unnerico, che così mescolava il san
gue vandalico con l’ imperiale ; la seconda invece fu con
la madre tenuta sette anni in onorevole prigionia, per
essere finalmente rimandate entrambe in Costantinopoli
all’ imperatore Leone, che da lungo tempo le richiedeva.
Tutti gli altri prigionieri vennero divisi come schiavi
fra i barbari conquistatori, separati i genitori dai figli, i
mariti dalle mogli. Grandi furono le loro sofferenze, al
leviate solo dalla carità veramente eroica del vescovo
Deogratias in Cartagine. Egli trasformò le chiese in
ospedali per i prigionieri ammalati; vendette gli arredi
sacri d ’oro o argento, i vasi preziosi, per comprare e li
berare gli schiavi, riunire i figli ai genitori, i mariti alle
mogli. La sua chiesa divenne Tinfermeria generale, nella
quale egli, vecchio com’ era, assisteva giorno e notte i
malati, fino a che ne mori di fatica e di stento. I suoi
fedeli lo seppellirono allora devotamente in luogo se
greto, per metterlo al sicuro dalle violenze ingiuriose
dei barbari. E cosi, in mezzo alla spaventosa rovina del
mondo romano, solo i rappresentanti della religione e
della Chiesa sapevano dar prova di umana dignità e di
eroica grandezza. Certo è che col sacco dato dai Van
dali, l’ antica Roma è caduta, la nuova già comincia a
sorgere, facendo prova d’ una grandezza diversa, ma
non meno ammirabile. La gloria del Campidoglio più
non esiste, comincia quella del Vaticano.
Lo sgomento in cui rimase l’ Italia, dopo la partenza
dei Vandali, fu tale, che per alcuni mesi essa non pensò
punto ad eleggersi un nuovo Imperatore. Se ne occupò
invece il re dei Visigoti, Teodorico II, il quale, secon
dato dall’ aristocrazia gallo-romana, radunata in Arles,
e dall’ esercito romano, fece eleggere Avito, che nel lu
glio del 455 assunse la porpora. Questi era un nobile
dell’ Auvergne, valoroso soldato di Ezio, che per mezzo
suo era riuscito a concludere l’ alleanza dei Visigoti coi
Romani contro Attila. Ma la sua elezione, come quella
che rappresentava la prevalenza della provincia e dei
barbari, piacque poco a Roma ed al Senato, sebbene
venisse approvata a Costantinopoli.
Il pericolo maggiore per tutto l’ Occidente, veniva
adesso dai Vandali; e perciò contro di essi Avito mandò
il valoroso generale Ricimero, figlio di padre svevo e
di madre gota, il quale era loro acerrimo nemico, e si
mosse subito a combatterli. Nel 466 ottenne contro di essi
una clamorosa vittoria, secondo alcuni nelle acque della
Sardegna, secondo altri, della Corsica ; ma in verità par
che si combattesse presso l’ una e presso l’ altra isola.
Questa vittoria fece di Bicimero un uomo più potente
dello stesso Imperatore.
Egli si trovò a un tratto nella condizione medesima di
Stilicone e di Ezio. Se non che, fatto accorto dalla espe
rienza del passato, pensò di non lasciarsi, come era se
guito ad essi, disfare dagl’ imperatori; ma invece disfarsi
egli di loro appena ohe li vedeva divenire a lui perico
losi. E cosi, l’ un dopo l’ altro, ne mandò via dal mondo
quattro, sostituendoli con sue creature, alle quali serbava
sempre la stessa sorte. E fu questo il processo della finale
distruzione dell’ Impero d’ Occidente, che, per mezzo ap
punto di Bicimero, passò definitivamente in mano dei bar
bari. Ciò avvenne non solo perchè un generale barbarico
come lui faceva e disfaceva a sua posta g l’ imperatori, ma
ancora perchè, lasciando egli correre più mesi tra la morte
dell’ uno e l’ elezione dell’ altro, l’ Occidente restava qual
che tempo senza un proprio sovrano. E questi lunghi in
terregni finirono col persuadere, che si poteva facilmente
fare a meno di un Imperatore, sostituendovi un barbaro,
ciò che avvenne poi con Odoacre, che assunse il potere
in suo proprio nome.
Primo a subire il duro destino che Bicimero serbava
ai suoi eletti, fu Avito. Quando egli s’ avvide che a Boma
non trovava favore, che il barbaro faceva da padrone,
si senti come mancare il terreno sotto i piedi, e pensò d’andarsene nella Gallia, dove era stato eletto, per raccogliere
colà un esercito e tornare con esso in Italia, sperando cosi
di potersi meglio raffermare sul trono. Ma questo suo in
tendimento accrebbe invece le antipatie dei Bomani, ai
quali non poteva certamente piacere il vederlo andare
a cercare aiuto nella provincia, diffidando della capitale.
£ nell’ ottobre del 456 Ricimero potò arrestarlo a Pia
cenza, costrìngendolo poi a prendere la tonsura ed a farsi
vescovo. Il potere imperiale si trovò allora nelle sue
mani, fino a che egli non si decise a far eleggere un suc
cessore.
Uno stato di cose affatto simile si riproduceva quasi
contemporaneamente in Costantinopoli, per arrivare però
ad opposti resultati. Dopo la morte di Marciano, si poteva
dire anche in Oriente estinta ogni traccia della dinastia di
Teodosio. Il potere effettivo cadde del pari nelle mani
d ’ un generale barbarico, Aspar, il quale era ariano e co
mandava i soldati goti. Ciò nonostante, egli fece eleggere
imperatore Leone I, valoroso soldato della Dacia, orto
dosso, che fu acclamato dall’ esercito il 7 febbraio 467.
Questi assunse la porpora e fu consacrato dal patriarca
di Costantinopoli, consacrazione ohe era un fatto assolu
tamente nuovo. Si volle forse con essa supplire alla man
canza d’ ogni titolo ereditario. Non parendo che bastasse
la sola acclamazione dell’ esercito, si dette alla Chiesa
un’ autorità che essa non aveva mai avuta in passato, e
della quale seppe meravigliosamente profittare nell’ av
venire. Se ne avvantaggiò intanto il nuovo Imperatore,
che ben presto dimostrò di essere un uomo atto più a
disfare gli altri che a lasciarsi disfare.
Vedendo che l’ Italia dal 456 ai primi mesi del 467 era
rimasta senza imperatore, egli propose che s’ eleggesse
Giulio Valerio Maiorìano. Questi era stato un altro va*
lo roso soldato di Ezio, era amico di Ricim ero; e dopo
aver con onore combattuto i Vandali, l’ aveva aiutato a
deporre Avito, ricevendone in compenso la nomina di Magister militum. La proposta della sua elezione fu subito
accolta con favore, noq tanto da Ricimero, che in so
stanza pareva più che altro piegarsi per prudenza alla
volontà di Leone I, quanto dai Romani e dal Senato, i
quali, dopo un imperatore straniero come Avito, ne v e
devano assai volentieri uno che tenevano dei loro. E cosi
il 1° di aprile, presso Ravenna, Maioriano prese la por
pora, e subito dopo scrisse al Senato una lettera nella
quale, con un linguaggio degno degli antichi tempi di
Roma, assicurava che la giustizia, la virtù, la lealtà
avrebbero sotto di lui trionfato. E fece quanto potò per
mantenere la promessa. Cercò di sollevar le province
dalle troppo gravi tasse, sopra tutto dagli arbitrii del
fìsco, che le rendeva ancora più incomportabili ; e tutte
le sue leggi furono ispirate da questi nobili sentimenti.
Egli sapeva d’essere stato messo sul trono con uno scopo
più militare, che politico ; appoggiandosi quindi al Senato
ed ai Romani, cominciò col tenere a freno le province,
sopra tutto i Visigoti, verso i quali die’ prova di grande
energia in una spedizione che fece nella Gallia.
Il pericolo dominante erano però sempre i Vandali. A
combatterli, nell’ interesse dell’ Occidente e dell’ Oriente,
egli s’ apparecchiò per tre anni continui, cercando di
mettere insieme un poderoso esercito, che venne ingros
sato ancora cogli aiuti mandati da Costantinopoli. A p
parecchiò una flotta di 300 navi, essendo suo intendi
mento andare nella Spagna, e di là passare poi in Africa.
Ma le difficoltà furono assai maggiori che non pensava.
Ricimero sembrava starsene a guardare senza aiutarlo ; i
Visigoti nella Spagna gli si mostravano avversi. Gense
rico, sempre minaccioso e forte, devastò la costa africana,
perchè il nemico non vi trovasse vettovaglie, ed avvelenò
anche l’acqua dei pozzi. Ma quello che è più, riuscì a forza
d ’ astuzie e di tradimenti ad impadronirsi d ’ una parte
della flotta di Maioriano, ed a distruggerne il resto. Se
questi fosse riuscito nella sua impresa contro i Vandali,
sarebbe certo divenuto potentissimo, ed avrebbe annul
lato la forza e r&utorità di Bicimero. Ma successe invece
il contrario: fu vinto, e dovette ritirarsi umiliato. Travet^
sando la Galli*, venne poco a poco abbandonato dai suoi
alleati ; e giunto al di qua delle Alpi, colla propria guar
dia, fu il 2 agosto del 461, a Tortona, affrontato, disfatto
ed ucciso dai soldati di Ricimero, che di nuovo restò
solo padrone in Italia.
Nel novembre egli fece eleggere Libio Severo, che
stette quattro anni sul trono ; ma di lui non sì sa nulla,
giacché par che Ricimero continuasse a farla da padrone.
Genserico intanto, il quale non aveva mai dimenticato la
rotta che da questo aveva avuta nel ’66, cercava ora di
rendergli avverso Leone I, con la speranza, dopo averli
prima o poi separati del tutto, di riuscire a far eleggere
in Occidente un imperatore di suo gradimento. A tal
fine aveva già mandato a Costantinopoli Eudossia con la
figlia. Ma Ricimero sapeva anche giocare d’ astuzia; e
quando dopo la morte di Severo (novembre 465) l’ Italia
era restata diciotto mesi senza imperatore, e Leone I
mostrò desiderio che venisse eletto Procopio Antemio,
egli, pigliando la palla al balzo, lo fece subito eleggere
(467), e poco dopo ne sposò la figlia. Cosi l’ Oriente e
l ’ Occidente si trovarono invece nuovamente alleati, e si
cominciarono insieme grandi apparecchi di guerra, per
farla una volta finita coi Vandali. Si narra che a Costan
tinopoli raccogliessero 130,000 libbre d’oro e mille navi,
che partirono con 100 mila uomini nella primavera del 468.
A questa impresa però, con tanta cura apparecchiata,
nocque assai l’ attitudine ostile dei due generali barbari,
onnipotenti l’ uno a Roma, l ’ altro a Costantinopoli. Essi
temevano che la vittoria aumentasse, a loro grave danno,
l ’autorità dei due Imperatori. E quindi Ricimero colla sua
opposizione fece si che Maioriano mandasse poca gente
all’ impresa, alla quale Aspar metteva dal suo lato più
ostacoli che poteva. Fa lui che appoggiò l’ infelice idea
d’ affidare la direzione della guerra a Basilisco, adatto in
capace, ma fratello della imperatrice Verina che lo aveva
proposto. E cosi, nonostante il numero preponderante ed
il valore grandissimo dimostrato dai soldati romani, l ’ im
presa andò a male, per g l’ inesplicabili errori commessi
dai generali, sopra tutto da Basilisco. La pubblica fama
accusò di tradimento Aspar e più ancora Ricimero, il
quale in un momento decisivo avrebbe, cosi almeno si
diceva, impedito che andassero in Africa i rinforzi, ne
cessari ad assicurare il resultato dell’ impresa.
Le conseguenze di questa guerra furono molte e gravi.
L ’ orgoglio dei Vandali ne crebbe a dismisura, l’ Oriente
ne senti il danno finanziario per moltissimi anni; ma quello
che è più, le relazioni tra Leone I ed Aspar s’ inasprirono
per modo da rendere inevitabile un’ aperta rottura. Aspar
andava da un pezzo divenendo sempre più insolente.
S’era fatto promettere, che uno de’ suoi figli sarebbe stato
assunto dall’ Imperatore a compagno nel governo, e più
volte richiese con modi poco rispettosi l’ adempimento
della promessa. Queste sue pretese destavano nella popo
lazione vivissimo scontento anche perchè egli era ariano.
S’abbandonò poi a una vita dissoluta, e nell’ultima guerra
aveva, come vedemmo, per sua colpa messo a gravissimo
pericolo l’ Impero. A tutto questo s’ aggiungeva che egli
non aveva nè l’ audace energia, nè il valore di Ricim ero;
che Leone I non era uomo da rassegnarsi a rimanere
strumento passivo nelle mani d ’ un suo generale; e i
barbari non potevano mai sperare d’acquistare in Oriente
la forza che avevano in Occidente. Consapevole di tutto
ciò, l’ Imperatore aumentò nel suo esercito il numero degl’ Isaurici, montanari indipendenti e valorosi del Tauro.
Con essi cominciò subito a porre un argine alla prepo
tenza dei Goti e degli altri soldati germanici ; e quando
n el 471 gli parve giunto il momento opportuno, per mezzo
di questi suoi nuovi soldati, e di Tarasicodissa loro capo,
ch e poi gli successe nell’ Impero col nome di Zenone, fece
uccidere Aspar. Ordinò anche l’ uccisione dei tre figli di
lui ; ma uno si trovava lontano, un altro si riebbe dalle
ferite avute, e quindi ne mori uno solo. Per questi fatti
a Leone I fu dato il titolo di Macellus. Egli s’era però
liberato da un padrone incomodo e minaccioso, liberando
l’ Impero dalla prepotenza dei Goti e dei loro compagni.
In Italia le cose finirono assai diversamente. Ogni giorno
cresceva la discordia fra Kicimero e l’imperatore Antemio,
che pubblicamente si doleva d’aver dovuto dare sua figlia
in isposa ad un barbaro anoora vestito di pelli. Anche qui
un conflitto era quindi divenuto inevitabile ; se non che
la forza e l’accortezza del generale barbarico erano assai
preponderanti. Kicimero trovavasi a Milano, alla testa
d 'u n eseroito, col quale nel 472 mosse addirittura all’ as
sedio di Roma, dove era Antemio, che aveva sempre il
favore d’una parte della popolazione. Nell’ esercito asse
diente si trovava Olibrio, un romano, che Kicimero voleva
far salire sul trono dopo d’aver deposto Antemio. E cosi si
vide un generale dell’ Impero assumere la parte d’Ala
rico, assediando la Città eterna, dentro la quale era l’Im
peratore stesso. L ’ assedio durò alcuni mesi, e finalmente
Kicimero entrò in Roma, che s’ arrese, parte per fame,
parte per tradimento. Antemio fu ucciso l’ i l luglio 472;
poco dopo lo stesso Kicimero mori di emorragia (18 ago
sto), e ben presto lo segui nella tomba Olibrio (23 otto
bre). Cosi ebbe fine il lungo, confuso e penoso dramma
di Kicimero, ohe lasciò tuttavia dietro di sè un breve
strascico di avvenimenti non molto diversi da quelli finora
narrati.
Egli era stato per sedici anni il padrone dell’ Italia,
che per opera sua venne in piena balla dei barbari. In ciò
sta anzi il suo vero carattere storico. Egli fu il precur
sore di Odoacre e di Teodorico, che sono ora per sorgere
sulla scena: quasi anello di congiunzione fra di essi e i
generali Stilinone ed Ezio. Durante la sua vita l’ Italia si
assuefece a vedere il potere effettivo esercitato da un
barbaro, spesso anche senza pur l’ ombra di un Impera
tore, che questo potere esercitasse almeno di nome. E
non solo essa venne allora in piena balla dei barbari,
ma si andò sempre più staccando dall’ Africa, dalla Spa
gna, dalla Gallia, per costituire una nuova unità politica.
I vari elementi che costituivano ancora l’ Impero, l’ eser
cito, cioè, il governo di Costantinopoli e quello di Ra
venna, finirono col venire fra di loro a conflitto, chiudendo
un’ epoca, iniziandone un’ altra.
Pareva che a Ricimero, nella stessa singolare condi
zione, collo stesso potere, dovesse succedere il nipote
Gundobaldo, un soldato burgundo, venuto in Italia per
far fortuna coll’ aiuto dello zio. Dopo aver lasciato
per cinque mesi vacante il trono d’ Occidente, egli fece
nominare imperatore Glicerio, che era Comes domestù
corum, e fu proclamato a Ravenna il 5 marzo 478. Ma
ora appunto scoppiò il dissenso con Costantinopoli, dove
essendo vicino a morte Leone I, sua moglie Verina, sem
pre inframmettente, fece nominare imperatore d ’ Occi
dente Giulio Nepote, suo parente, che però rimase in
Oriente fin verso la metà del 474. Giunto in Italia, esso
venne acclamato il 24 giugno di quell’ anno, e vediamo
scomparire dalla scena Gundobaldo, che pare andasse a
prendere il posto di suo padre, re dei Burgundi, allora
morto. Glicerio scomparve anch’ esso, senza che si sap
pia nè come, nè perchè. Certo è solo che fu costretto a
lasciarsi consacrare vescovo in Dalmazia, e che non molto
dopo morì.
D el governo di Giulio Nepote, che pur rappresenta la
fine di un periodo storico, sappiamo assai poco. Imposto
da Costantinopoli per opera del partito che aveva colà
vinto i barbari, non piaceva punto all’ esercito, che in
Italia era barbarico ed aveva eletto Glicerio. Il fatto più
notevole del suo regno fu la pace conclusa coi Visigoti
della Gallia. Con essa, per salvare l’ Italia dalla guerra,
egli concedeva a quei barbari ariani l’Auvergne, che dopo
essersi validamente difesa, voleva rimanere unita all’ Im
pero. E ciò gli fece perdere la stima dei Romani, senza
fargli riguadagnare quella dei barbari, che già aveva per
duta. Cosi lo scontento andò sempre crescendo, e final
mente scoppiò una nuova ribellione, della quale, come
per forza naturale dalle cose, si trovò a capo il generale
Oreste. Questi non ebbe nessuna difficoltà, ora che l’ Im
pero d’ Oriente era in gravissimi disordini, a vincere
Nepote, che, assalito a Ravenna, si rifugiò nell’ agosto
del 475 a Salona. Colà si trovava probabilmente ancora
vivo Glicerio, che da lui era stato vinto e costretto a
divenir vescovo in quella stessa città della Dalmazia.
Oreste è l’ ultimo di quei generali, che per molti anni
fecero e disfecero g l’ Imperatori, tenendo nelle loro mani
il potere, fino a che non lo lasciarono addirittura ai soli
barbari. E questo definitivo mutamento fu compiuto ap
punto per mezzo suo. Nato nell’ Illirico, egli era d’origine
romana, e tale era anche sua moglie. Aveva però dimo
rato lungamente presso Attila, che lo aveva, come ve
demmo, mandato ambasciatore a Costantinopoli. S’ andò
cosi immedesimando sempre più coi barbari; ed è questa
forse la ragione per la quale, riuscito come i suoi prede
cessori barbarici ad impadronirsi del potere, non osò
neppur lui assumere la porpora. Osò invece attuare quello
che era stato il disegno invano vagheggiato lungamente
da Stilicone e da Ezio. Fece cioè eleggere imperatore
suo figlio, il quale non era vissuto coi barbari, da parte
di madre era più romano di lui : portava il nome di Itomolo Augusto, che per la sua giovane età, venne mutato
in quello alquanto dispregiativo di Romolo Augnatolo. E
cosi, come per ironia della sorte, colui che fu l ’ ultimo
imperatore d’ Occidente, portava il nome del primo re e
del primo imperatore di Roma.
Sembrerebbe che Oreste, alla testa dell’esercito, col
figlio ancora minorenne dichiarato imperatore, avesse do
vuto sentirsi in una posizione incrollabile, tanto più che
ora appunto Genserico, divenuto vecohio, s’ era indotto
a concludere con Ravenna e con Costantinopoli una pace,
per la quale, durante due generazioni, l’ Occidente e
l’ Oriente furono lasciati tranquilli dai Vandali. Ma in
vece il germe della debolezza era nascosto appunto là
dove pareva che dovesse essere l’ origine della forza. Le
qualità di romano e di barbaro non si potevano facil
mente immedesimare; una delle due doveva soccombere. In Stilicone noi vedemmo il barbaro soccombere
al romano ; in Oreste, pei tempi mutati, avvenne il con
trario. L ’ esercito, alla testa del quale egli si trovava, era
composto di molti e vari elementi : Turcilingi, Sciri, Eruli,
che tutti poco differivano dai Goti. Questi barbari erano
andati da principio aumentando, mediante una continua
infiltrazione; ed ora che essi formavano addirittura l’eser
cito imperiale in Italia, volevano prendervi stabile di
mora, assicurandosi nella pace e nella guerra la propria
sussistenza, come era seguito in altre province occiden
tali dell’ Impero. Chiesero perciò il terzo delle terre. Ma
qui appunto nacque il conflitto, che doveva portar la ro
vina d’ Oreste. La concessione delle terre voleva dire
la permanente dimora dei barbari nell’ Italia, lasciata
in loro balia. A questo passo Oreste, che era e si sentiva
di origine romana, non potè decidersi, anzi deliberata
mente si oppose. Ne nacque allora una ribellione dei
soldati che lo abbandonarono, levando sugli scudi Odoacre (23 agosto 476), un barbaro dell’ esercito di Ricimero,
con cui aveva assediato Roma. Egli promise di dare ai
soldati quello che avevano chiesto, e che era stato loro
negato. Oreste dovette fuggirsene a Pavia, dove fu in
seguito dal suo rivale, e donde potè a mala pena scampare.
La città venne messa a sacco con una strage che durò due
giorni interi, e cessò solamente quando giunse la notizia
che il 28 agosto 476 Oreste era stato preso ed ucciso a
Piacenza. Questa tragedia somiglia molto a quella di
Stilicone, nel 408 avvenuta nella stessa città. Allora però
il grido era stato : morte al barbaro; ora invece era: morte
al romano.
Odoacre corse a Ravenna, dove trovò il misero Augustolo, ultimo avanzo della imperiale romanità. Non lo
uccise, ma lo confinò nella villa Lucullana a Pizzofalcone,^) presso l’antica Napoli, con una pensione di 6000 so
lidi. Colà questi visse tranquillo, non si sa bene quanto
tempo, e si adoperò, come vedremo, ad agevolare il trionfo
di Odoacre. Dopo poco tempo mori Genserico, ed anche
questo contribui molto a rendere più sicura la condizione
di Odoacre, col quale si chiude l’ antichità e s’inizia final
mente il Medio Evo. L ’ Impero d’ Occidente è caduto, la
storia d’ Italia incomincia.1
a
(1) M olti torto credettero che la villa di Lucullo fosse nel piccolo Ca
stello dell' U ovo.
LIBRO SECONDO
GOTI E B IZAN TIN I
CAPITOLO I
Odoacre
Odoacre era nato nel 483, e si trovava ora, a 46 anni,
alla testa d’ un esercito composto di popolazioni diverse,
ognuna delle quali pretendeva che fosse suo connazionale.
I più lo dicono Sciro, e qualcuno lo suppone figlio di quell’Edecone che insieme con Oreste vedemmo ambasciatore
di Attila a Teodosio IL Certo era di quei barbari che a
tempo di Attila si unirono agli Unni, separandosene poi
alla sua morte. Era ancora assai giovane, quando con una
banda di suoi seguaci si mosse a cercar fortuna in Italia.
Traversò allora il Norico, provincia che per trentanni
(458-82) fu desolata, saccheggiata, abbandonata all’ anar
chia. Ivi non esisteva più nessuna forma di governo, e la
sola autorità rimasta a mantenere in vita la società, pa
reva che fosse quella di S. Severino, il quale dal suo chio
stro, nella solitaria cella, esercitava una prodigiosa azione
morale sulle moltitudini, che volontariamente gli obbedi
vano. Ed in quella piccola cella, così narra la leggenda,
entrò Odoacre, che era allora un uomo ignoto. Dovette
piegarsi, perchè era assai alto, e chiese la benedizione del
Santo, il quale, dopo avergliela data, disse : — Vade ad
Italiani, chè, sebbene tu sia vestito di vilissime pelli, ti
aspetta colà grande fortuna. — Fra i l 460 ed il 470 Odoaore
infatti era già in Italia, e nel ’72 combatteva nell'esercito
di Bicimero sotto le mura di Roma. Nel ’ 76 i suoi soldati
lo levarono, come vedemmo, sugli scudi, e prese il posto
di Oreste e di Augnatolo ad nn tempo. L ’ ufficio d’ im
peratore d ’Occidente, già ridotto ad un! ombra, per la
soverchiente potenza dei generali che ne facevan le veci,
è ora scomparso affatto nel barbaro che ne ha usur
pato il posto. £ per la prima volta nella storia del
mondo, apparisce l’ Italia come una nuova unità poli
tica, indipendente. Ma un barbaro, che comandava in
essa alla testa di un esercito di barbari, era un fatto
talmente privo d’ ogni precedente, ohe non si vedeva su
quale base legale si potesse fondare la sua autorità.
Odoacre non osò quindi assumere il titolo nè d’ impera
tore, nè di re d ’ Italia; non fu che un re di barbari. E
con quale diritto poteva egli allora comandare nella Pe
nisola, sede antica dell’ Impero ?
Il solo vero e legittimo sovrano era adesso a Costan
tinopoli, ed a lui, tra il 477 e 478, si presentarono per
ciò due solenni ambascerie. L ’ una veniva da Salone, in
nome di Nepote, che chiedeva d’essere reintegrato nei
suoi diritti a Ravenna, di dove era stato colla violenza
cacciato. L ’ altra veniva in nome del Senato e di Augn
atolo, il quale, assai probabilmente secondo un patto già
prima stipulato con Odoacre, cercava ora ricompensarlo
dell’ avergli esso lasciato la vita nel privarlo del trono.
Infatti gli oratori di questa seconda ambasceria erano
venuti per dire, che i Romani non sentivano nessun biso
gno d’avere un loro proprio Imperatore, bastandone uno
solo per l’ Oriente e per l’ Occidente. <*> Odoacre avrebbe1
(1) «P roprio Imperatore ne nonindjgere; unnm Iniper» torero •utttcere, qui
« ntriaeqae Im perli finse toeretnr.» M alchus, Fragm. 10.
potuto governare l’ Italia col titolo di Patrizio, in nome
dell’ Imperatore, a cui rimandava perciò le insegne im
periali, ornamenta PalatiL
In Costantinopoli a Leone I era nel 474 successo il ni
pote Leone II. Questi essendo ancora un giovanetto, re
stò sotto la reggenza del padre Tarasicodissa, che i Greci
chiamarono Zenone, e che, morto ben presto il figlio,
divenne addirittura imperatore. Poco dopo insorse contro
di lui Basilisco, monofisita, favorito dalla sorella Verina,
vedova di Leone I, sempre intrigante, e lo cacciò dal
trono, su cui fu nel 477 rimesso da una controrivoluzione
ortodossa. Quando adunque, fra il 477 e ’78, si presen
tarono a lui gli ambasciatori del Senato e di Augustolo,
egli si trovò in una condizione molto difficile, perchè non
voleva riconoscere Odoacre, che era fuori di ogni legalità ;
ma sentiva di non essere allora in grado di deporre chi
s’era colla forza impadronito del potere in Italia. Ricorse
perciò ad un mezzotermine diplomatico, di quelli che erano
molto in uso presso i Bizantini. Ufficialmente rispose ai
Romani: — Due imperatori vi furono mandati da Costan
tinopoli, Antemio e Nepote; il primo voi avete ucciso,
il secondo deposto* Ora dovete rivolgervi a Nepote, che
riman sempre in Occidente il solo sovrano legittimo e
riconosciuto. — Se questa fu però la risposta ufficiale,
scrivendo privatamente ad Odoacre, gli dava il titolo di
Patrizio. In sostanza, accettando il fatto compiuto, inten
deva fare ogni riserva sulla questione di diritto, tenendo
ferma la sua propria autorità. Odoacre intanto assunse
il governo d ’ Italia, teoricamente sotto la dipendenza di
Costantinopoli, in realtà operando a suo modo, come prin
cipe indipendente.
Il primo e principale problema di cui si dovette subito
occupare, fu la promessa divisione delle terre, promessa
dalla quale aveva avuto origine il suo potere. In che
modo questa divisione, nei suoi particolari, venisse fatta,
noi non sappiamo. Tutto si riduce a semplici ipotesi.
Certo è però che non si tratta di un sistema nuovamente
introdotto, come molti supposero, in conseguenza della
conquista. Invece esso fu in Italia ed altrove, la mo
dificazione d’ un sistema già prima esistente nell’ Impero.
E l’ aggravio che ne venne alle popolazioni, fu assai più
apparente che reale. L ’ esercito, in un modo o l’altro, era
stato sempre a carico delle popolazioni, come a loro ca
rico erano stati i molti sussidi che si davano ai barbari
per tenerli tranquilli, e le enormi spese sostenute ]5er
le guerre dell’Impero. Dove i soldati venivano alloggiati,
occupavano di diritto un terzo delle case dei loro ospiti,
nelle quali anch’ essi erano chiamati ospiti: e ciò natural
mente oltre le paghe che ricevevano. Quelli poi che erano
lasciati permanentemente a difesa dei confini (limitanei)
avevano, oltre l’ alloggio, una parte delle terre, e le col
tivavano per proprio conto. Se dunque i soldati di Odoacre, i quali erano l’ esercito che doveva difendere l’Italia,
avevano adesso un terzo delle terre, per coltivarle e vi
vere del prodotto di esse, questo in fondo non era qual
che cosa di sostanzialmente nuovo. Bisognava però adesso
mantenere i barbari, anche quando non prestavano ser
vizio, e non solo gli uomini atti a portare le armi, ma i
vecchi, le donne, i bimbi. E ciò in conseguenza d’ una ri
bellione militare, che imponeva la sua volontà colla forza.
Questo era veramente odioso, se anche non era effetto
della invasione e della conquista.
Non bisogna però credere, che una tale divisione si
facesse a un tratto per tutto, nè che dove si faceva, tutte
le terre venissero divise. L ’esercito di Odoacre era ben
lungi dal potere occupare l’ Italia intera. I suoi barbari
alloggiarono quindi in alcune province, ed in esse sola
mente fu fatta la divisione. I piccoli possidenti, là dove
ancora ce n’ erano, furono lasciati in pace, non mettendo
conto dividere le terre che bastavano appena a sostenere
i loro possessori. Essi quindi restarono nello stato di
prima, e furono anche meno aggravati dalle tasse, che i
barbari non erano in grado di riscuotere o far riscuotere
colla regolarità opprimente del fisco imperiale. Nè mutò
gran fatto la condizione degli artigiani nelle città. E
cosi anche i coloni, i contadini, gli schiavi che coltiva
vano le terre, e passarono con esse ai barbari, restarono
più o meno nelle condizioni di prima, spesso anzi mi
gliorarono. Quelli ohe veramente soffrirono furono i la
tifondisti, i quali è però da credere che pagassero mi
nori imposte sulla parte che loro restava delle proprie
terre. In ogni modo la proprietà fu assai più divisa. E sic
come i barbari, per antica consuetudine, preferivano la
campagna alla città, così i campi pei quali da un pezzo
mancavano le braccia necessarie a lavorarli, furono ora
più e meglio coltivati. In tutto il paese rimase inalterata
V antica amministrazione romana, ed anche l’ antico si
stema di tasse, le quali non crebbero ; anzi, per quanto
possiamo indurne, scemarono. Considerevoli esenzioni ot
tenne pei suoi fedeli il vescovo Epifanio a Pavia ed in
tutta la Liguria, dove le imposte erano negli ultimi tempi
enormemente cresciute.
Il regno di Odoacre, che durò circa 13 anni, era limi
tato quasi esclusivamente all’ Italia, da cui si staccarono
affatto le altre province. Anche la Provenza, la parte cioè
più romanizzata della Gallia, venne abbandonata ai Visi
goti. La Rezia, considerata sempre come appendice inte
grante dell’ Italia, ne faceva parte al pari della Sicilia,
la quale era però in più luoghi occupata dai Vandali,
secondo il trattato concluso nel 442. Questi occupavano
anche la Sardegna, la Corsica e le Baleari. Il nuovo stato
di cose, per ora almeno, evitava quelle grosse guerre che
dissanguavano le popolazioni, e quindi il regno di Odoacre
fu per qualche tempo come un periodo di sosta alle pa
tite calamità, sebbene di tanto in tanto si trovino ricor
date nuove violenze e spoliazioni, che negli ultimi anni
andarono crescendo. Sotto un certo aspetto le condizioni
in cui Odoacre si trovava, coll’ andar del tempo miglio
rarono assai. Il suo regno infatti, che era cominciato
coll’ essere sostanzialmente illegale, e tale durò finché
visse il deposto imperatore Nepote, fu in assai diversa
condizione quando questi nel 480 mori. Certo Odoacre
restò ancora col solo titolo di Patrizio, non potò mai as
sumere quello d ’ imperatore, e neppure di re d ’ Italia;
ma potè sempre piò agire da principe indipendente. Co
minciò a nominare anche i Consoli occidentali, che fu
rono riconosciuti in Oriente. L ’ unità generale dell’ Im
pero, cui era a capo Zenone, teoricamente non fu mai
messa in dubbio; ma l’ autorità di Odoaore divenne di
fatto assai maggiore, ed implicitamente almeno fu anche
riconosciuta. A Ravenna egli potò mettere insieme una
flotta, colla quale si difese dalle incursioni vandaliche,
e fra il 481 e 482 si spinse Ano alla Dalmazia, che ag
gregò al proprio Stato. E se questo passo spiacque assai
all’ Imperatore, nè restò piò tardi senza gravi conse
guenze a lui dannose, per ora egli accrebbe il suo terri
torio, e non ne risentì nessun danno.
In tale stato di cose la vita politica del popolo italiano
può dirsi spenta del tutto. Con tanto maggiore energia si
svolgeva quindi in esso la vita religiosa, alla cui testa si
trovava il Papa. Ma in parte non piccola l’ indirizzo del
l’ attività religiosa, era determinato dalle relazioni o per
meglio dire dalla opposizione che persisteva sempre fra la
Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli, dove non ave
vano mai posa quelle dispute dottrinali, cui lo spirito ro
mano-cattolico ripugnava affatto. In Oriente combatte
vano ora accanitamente i Nestori ani, i quali dicevano che
la Vergine era madre di Gesù Cristo, solo in quanto uomo ;
gli Ariani ed i Monofisiti, i quali ultimi sostenevano che
la natura umana e divina di Gesù erano una sola e me
desima cosa. Siccome però in nome appunto di questa
dottrina Basilisco aveva cacciato dal trono Zenone, che
v ’era stato rimesso dagli Ortodossi, oosl questi voleva ora
in ogni modo evitare il riaccendersi della disputa. Fra
il 482 e 83 pubblicò quindi una sua lettera conosciuta
col nome di Henoticon, la quale si credette suggerita o
anche scritta dal patriarca Acacio. In essa, tenendo una
via media, cercava di conciliare ortodossi e monofisiti.
Ma Roma non ammise mai queste vie di mezzo, nò am
mise mai che lTmperatore decidesse le dispute religiose.
Papa Simplicio (468-483) condannò quindi senz’ altro
V Henoticon ed Acacio che lo aveva ispirato.
Questa lotta nella quale Simplicio, sostenuto dagl’ Ita
liani, dimostrò al solito una tenacia veramente romana,
mantenne vivo l’ antagonismo fra l’ Oriente e l’ Occidente,
il che riusciva a vantaggio di Odoacre. Il Papa era allora
moralmente, e non solo moralmente, il personaggio più
potente in Italia. Se Odoacre, come ariano, si fosse messo
in aperta opposizione con lui, questi gli avrebbe facil
mente potuto sollevar contro tutto il paese, e rendergli
impossibile il reggersi a lungo in Italia. Ma finché du
rava la lotta religiosa fra Roma e Costantinopoli, il Papa
ed Odoacre si trovavano dal comune interesse spinti a
sostenersi vicendevolmente.
Il 2 marzo 483 moriva Simplicio, e Odoacre dette al
lora un passo falso, del quale non tardò molto a sentire le
conseguenze. Per lui era certo cosa di grande importanza
assicurarsi della nuova elezione. Voleva non solo evi- ~
tar quei tumulti che in simili occasioni avevano assai
spesso insanguinato le vie di Roma, ma voleva anche
avere trn Papa amico. E cosi, quando l’ assemblea ohe
doveva procedere alla elezione, non potè riuscire a
metterai d’accordo, V intervenne improvvisamente, in
nome di Odoacre, il Prefetto del Pretorio, Geoina Ba
silio, dichiarando che sarebbe stata nulla reiezione,
senza la rappresentanza del Re» Questi, egli aggiunse,
procedeva in ciò d’ accordo colla volontà del defunto
Papa, il quale prima di morire gli aveva raocomandato
la nuova elezione. Fu inoltre emanato un deoreto ool
quale veniva proibita l’ alienazione dei beni della Chiesa,
minacciando l’ anatema contro chiunque non avesse a oiò
obbedito. S’ invitava poi l’ assemblea a sanzionare il de
creto, ed a procedere alla elezione, la quale riuso! a fa
vore di Felice I I d) (483-92), che era appunto il raoco
mandato di Odoacre. Non pare ohe allora sorgessero gravi
lamenti contro questo procedere del Re. Ed in verità
non solamente l’Imperatore di Costantinopoli aveva sem
pre avuto grande ingerenza nei Conclavi, nei Sinodi, nei
Concili, in tutte le faccende della Chiesa; ma anche
in Italia 1*imperatore Onorio aveva nel 418 e 19 definito
la contesa fra Eulalio e Bonifacio ambedue eletti ponte
fici. È provato poi che l’ Imperatore d’Occidente aveva il
diritto d’ intervenire e decidere in siffatte questioni; anzi
non di rado il clero stesso ricorse a lui per risolverle. Può
supporsi perciò che, nonostante ogni contraria apparenza,
Odoacre non avesse creduto di far nulla d’illegale, e molto
meno di usare violenza per imporre un Papa di suo arbitrio;
che la scelta di Felice II fosse veramente stata suggerita
a lui da Simplicio. Se non che egli non era un Impera
tore, ma un re barbaro ed un ariano. Non poteva quindi
sperare che la Chiesa romana, sempre gelosa delle pro
ci) A ltri lo chiamano Felice III, di*pataai4o«i «e Felice II W,r,-r,r,i il riTale di yopo Liborio, fame «tato • no regolarmelite eletto.
prie prerogative, avesse mai potuto approvare il suo p ro
cedere. Comunque sia di ciò, anche Felice II continuò
con ardore la lotta contro VHenoticon e contro A cacio,
che scomunicò, inviando a Costantinopoli la sentenza. E
tutto ciò fu causa d’ uno scisma durato B5 anni (484-519),
nei quali Roma non cedette mai, ottenendo finalmente
il trionfo delle dottrine ortodosse. Ma se questo dissidio
era tutto a vantaggio di Odoacre, Tessersi egli ingerito
nella elezione papale aveva seminato nella Chiesa ro
mana il germe pericoloso d’una profonda diffidenza verso
di lui.
Intanto sorgeva un’ altra e più grave complicazione
d’ indole politica. A l di là della Rezia c’ era il Norico,
la regione in cui ora è Salzburg, e che arrivava fino ai
Danubio, oltre il quale abitavano i Rugi. Questa re
gione, come già vedemmo, era stata desolata, ridotta
ad estrema rovina dal continuo passaggio dei barbari; ed
unica autorità, che vi avesse mantenuto ancora una qual
che forma di vivere sociale, era stata quella di S. Seve
rino, che il suo biografo Eugippo dice uomo interamente
latino: loquela tamen ipsius manifestabat hominem omnino latinum. Nella sua cella raccoglieva abiti, cibi a
sollievo dei miseri, e di là dava consigli e ordini cui tutti,
anche i barbari, volontariamente obbedivano. Era questa
un’ altra prova visibile della forza quasi onnipotente, che
la religione esercitava allora sugli animi. A S. Severino
si dovè se la popolazione romana di quella regione
non fu totalmente distrutta. Ma circa l’ anno 482 egli
morì, e fu questa una grande calamità per il Norico. I
Rugi s’ avanzarono subito devastando, saccheggiando ogni
cosa, perfino il convento e la cella del Santo. Avrebbero,
se avessero potuto, dice Eugippo, portato via anche le
mura. E se i Rugi si fossero stabilmente impadroniti di
quella regione, sarebbe stato di certo un gran pericolo
per Odoacre, che li avrebbe avuti ai confini del suo re*
gno, colla voglia e, per la desolazione del paese, con la
necessità d’ avanzarsi. A questo li spingeva ora Zenone,
per la solita politica orientale di neutralizzare i barbari,
spingendo gli uni contro gli altri, e perchè era assai in
sospettito di Odoacre, il quale non solo agiva sempre
più da principe indipendente, ma si era recentemente
impadronito della Dalmazia. Oltre di ciò, a lui s’ d'ano
poco prima rivolti coloro che cospiravano contro Zenone ;
e sebbene egli avesse ricusato d’ aiutarli, ciò non impedì
che crescessero di molto i sospetti ed il mal animo dell’ Imperatore contro di lui. La conseguenza fu che i
Rugi s’ avanzarono, ed Odoacre fu costretto a muover
loro guerra.
Nel 487 egli si avanzò col suo esercito barbarico, nel
quale, secondo Paolo Diacono, presero parte anohe Ita
liani, nec non Italiae populi. Con esso vinse i Rugi, foco
prigioniero il loro re, ne mise in fuga il figlio. Molte però
e gravi furono le conseguenze di questa guerra. Una
gran parte, la meno disagiata, della popolazione del No*
rico, emigrò in Italia, dove fu menato anche il corpo
del Santo, che dopo essere stato portato in vari luoghi,
venne finalmente, per intercessione d’ una vedova, depo
sto presso Napoli, nel luogo che si chiama ora Castello
dell’ Uovo. Il figlio del re dei Rugi si ricoverò presso gli
Ostrogoti, che erano allora comandati dal valoroso Teo
dorico degli Amali, e cercò d’ incitarlo a muover guerra
contro di Odoacre. Siccome poi lo stesso incitamento
veniva a questo, come vedremo, anche dall’ Imperatore,
cosi ne seguirono avvenimenti di grande importanza nella
storia d ’ Italia.
CAPITOLO II
Teodorico e gli Ostrogoti in Italia
La piti parte degli Ostrogoti era rimasta unita agli Unni
nell’ antica Dacia, e se ne separarono, al pari degli altri
popoli germanici, quandp, dopo la morte di Attila, il suo
impero andò in fascio e spari come un sogno. Essi oc
cuparono allora la Pannonia, sotto il governo di tre fra
telli della nobile stirpe degli Amali. Ivi pare che restas
sero nella condizione,più o meno, di federati; ed ebbero al
solito dispute continue coll’ Impero, per le terre che chie
devano, per lo stipendio o tributo che pretendevano. Que
sto portò ad un conflitto, dopo del quale fu fissato un annuo
tributo, e per garanzia di pace fu mandato in ostaggio a
Costantinopoli il giovane Teodorico allora di soli otto
anni, figlio di Teodemiro, uno dei tre fratelli Amali. Que
sto fatto ebbe grande importanza, perchè fu data cosi
una educazione militare romana a quel giovinetto pieno
d’ ingegno, di valore e di ambizione, che era destinato ad
un grande avvenire. Dei tre fratelli Amali intanto uno
mori, un altro, cacciato dalla fame, andò con parecchi
de’ suoi a cercar fortuna in Italia, di dove, come già ve
demmo, fu per mezzo di donativi, indotto ad andarsene in
Gallia. Nella Pannonia restava cosi solo Teodemiro, il
padre di Teodorico, che nel 472 tornò da Costantino
poli, nella età di 18 anni, gettandosi subito, per proprio
conto, in una impresa militare contro i Sarmati, nella
quale fece prova di gran valore. Nel 474 mori suo pa
dre, e sebbene egli fosse figlio d’ una concubina, pure
il sangue illustre degli Amali ed il valore da lui dimo
strato lo fecero agevolmente nominare capo del suo
popolo. Allora incominciò per lui la difficoltà di far vi
vere i suoi, perchè la Pannonia era esausta, ed i sussidi
dell’ Imperatore venivano assai scarsi.
Nell’ Impero d ’ Oriente v*erano intanto altri Goti, co*
mandati da un altro Teodorioo figlio di Triario, e so*
prannominato Strabono, perchè gueroio. Questi aspirava
a prendere in Costantinopoli il posto del generale Àspar,
la cui misera fine lo aveva irritato profondamento. Si era
perciò unito a Basilisco, quando questi si sollevò contro
Zenone, e lo cacciò dal trono. Teodorioo degli Amali in
vece prese le parti di Zenone, che col suo aiuto trionfò, o
come era naturale, lo colmò di onori, nominandolo Patri
zio, Magister militum, suo figlio adottivo. Ma dopo ciò l’Im
peratore si trovò stretto fra le pretese sempre crescenti
dei due capitani goti, che, ambedue in armi, volevano del
pari esser presi agli stipendi dell’ Impero. Ben volentieri
Zenone si sarebbe invece disfatto dell’ uno e dell’ altro;
ma non era possibile. Consultò quindi il Benato, che ri
spose non doversi aggravare l’ erario con la spesa ne
cessaria a pagare i due capitani coi loro eserciti : ne
scegliesse uno. E naturalmente egli scelse Teodorico
1*Amalo, da cui era stato aiutato nel perìcolo, e lo incaricò
di tenere a freno l’ altro. Ma quando i due barbari si tro
varono di fronte, finirono coll1unirsi a danno di Zenone,
cui non restava perciò altro che fare assegnamento sella
loro mutua gelosia, cercando con ogni mezzo di a«mentarla. Cori, costretto ad oscillare con* irioament.* da;T ono all’ altro, fino a che, morto nel 4HÌ Strabono, 7eodorico l7Amalo ri trovò solo, p ii potente eoe mai,a.;*te*ta
dei Goti insieme riuniti. E per sei anni .0 vediamo ora ay*
vicinarsi all'Imperatore. o~l rendeva importanti serv,#,.
ricevendone onori e tenari : ora Ircene separarsene, r,
tornando a sastegg ia re, per o^er.ere poi anone Oi p
N el 483 & Jfo*
ìv £*74 pr'iAtt**. 4 ; r.e.
sole. Bene a—ora ol n .o- 0 grano *e*- y, a Zeno- e
battendone i nemici ; ma da capo cominciò a minacciarlo
fin sotto le mura di Costantinopoli, saccheggiando la
campagna, incendiando i borghi.
È chiaro che Zenone doveva desiderare di liberarsi in
qualche modo da un si incomodo vicino, e liberare l ’ Im
pero da questa barbarica prepotenza, che minacciava di
far rinascere i tempi di Aspar, di fare anzi sorgere in
Oriente un altro Ricimero. Ma come fare? L ’ antico si
stema di opporre un barbaro ad un altro non sembrava
piu possibile ora che uno dei due goti rivali era morto.
C’ era però sempre in Italia Odoacre, di cui, per le ra
gioni da noi già esposte, Zenone doveva essere sconten
tissimo, massime dopo che s’ era sparsa la voce di suoi
segreti accordi coi ribelli all’ Imperatore. Un tale so
spetto, come già vedemmo, aveva indotto Zenone a far
muovere i Rugi contro Odoacre. Ma questi li vinse, ed
occupò il Norico, penetrò nel Rugiland, ne imprigionò il
re colla moglie, ne mise in fuga il figlio, che andò da
Teodorico per eccitarlo alla vendetta. E Teodorico pa
reva assai ben disposto a gettarsi nell’ audace impresa,
sia perchè i Rugi confinavano colla Pannonia, e la loro
disfatta era per lui pericolosa ; sia perchè sperava, vin
cendo, di occupare le fertili pianure d’ Italia, e trovare
cosi pei suoi una stabile e sicura dimora. A tutto ciò si
aggiungeva, che la discordia già cominciata fra Odoacre
ed il Papa aveva indebolito e reso quindi assai meno te
mibile il primo. L ’ occupazione della Dalmazia, l’ entrata
nel Rugiland, il farla Odoacre sempre piu da sovrano in
dipendente, l’ appoggio dato per lungo tempo al vescovo
di Roma contro l’ Imperatore facevano a questo deside
rare un radicale mutamento in Italia. Teodorico, allon
tanandosi da Costantinopoli, fermandosi nella Penisola,
avrebbe potuto non solo punire Odoacre, ma pigliare am
ebe una più ferma attitudine di fronte al Papa.
Tutto questo spingeva lui a partire, e Zenone a man
darlo. Gli storici hanno lungamente disputato se la prima
iniziativa venisse dall’ uno o dall’ altro. Secondo Jordanes, Teodorico avrebbe fatto la proposta a Zenone, di
cendo : — Se io sarò disfatto, non mi avrai più a tuo
carico; se invece vincerò il tiranno (cosi chiamavano
Odoacre, perchè non legittimo sovrano), governerò io il
paese in tuo nome, vestro dono vestroque munere possidebo. — Frocopio scrive invece che Zenone persuase Teo«
dorico ad andare in Italia, e l’ Anonimo Valesiano dice
che lo mandò ad defendendam sibi Italiani, Il fatto vero
è che l’ uno voleva andare, e l’ altro voleva mandarlo; i
comuni interessi li spingevano verso la stessa meta. E
però Teodorico si mosse finalmente per l’ Italia nel*
l’ autunno del 488.
Non era una impresa esclusivamente militare, ma piut
tosto la invasione d’un popolo in armi; giacché Teodorico,
che si moveva ora in nome dell’Impero, menava seco le
donne, i vecchi, i fanciulli, con carri che trasportavano le
masserizie, e servivano da case, durante il viaggio, con
mulini mobili per macinare il grano. Tutta questa molti
tudine portava il nome di Ostrogoti; ma era al solito
una mescolanza di genti diverse, alle quali gli Ostrogoti,
che in essa prevalevano, davano il nome. Erano riunite
dal valore e dalla reputazione del loro capo, dalle guerre
e saccheggi fatti sotto il suo comando, dal bisogno co
mune, urgente di trovare un paese in cui potessero stabil
mente fermarsi e vivere. Non è possibile dire qual fosse
il loro numero preciso. Chi li porta a 40,000 uomini in
armi, chi ad una cifra anche maggiore. Tutto compreso,
fra uomini, donne, vecchi e fanciulli, gli scrittori variano
da 200 a 800 mila individui. Presero la via delle Alpi
Giulie, e fu una marcia faticosa, qualche volta disastrosa.
Il freddo era grande, il gelo induriva i loro capelli, la
barba, gli abiti. Dovettero procurarsi il cibo, strada fa
cendo, colla caccia, o combattendo, o saccheggiando i
paesi che traversavano. Un primo scontro sanguinoso lo
ebbero ooi Gepidi; ne seguirono poi altri, e finalmente,
dopo otto mesi di pericoli e di stenti, percorrendo la
stessa via percorsa già da Teodosio, da Alarico e da At
tila, nel luglio del 489 erano in Italia. Il 28 agosto, sull’ Isonzo, non lungi da Aquileia, ebbe luogo la prima bat
taglia con Odoacre.
Questi, che pur era capitano di valore, e si trovava
alla testa di un esercito più numeroso, aveva preso anche
una forte posizione. Ma dovette cedere dinanzi al primo
impeto dei Goti, ed alla superiore capacità strategica del
loro capo. Un’ altra battaglia fu data sull’ Adige, presso
Verona, il 30 settembre 489, e sebbene anche questa fosse
da Odoacre perduta, Teodorico dovette subire gravissime
perdite, giacché, invece di avanzare, si ritirò fino a Milano,
per chiudersi poi in Pavia. Odoacre allora andò verso
Poma, sperando di potere senza difficoltà entrare nella
.Città eterna, e stabilmente occuparla, il che gli sarebbe
stato di grande aiuto, non solo morale, ma anche mate
riale, perchè gli avrebbe, nel continuare la guerra, assi
curato alle spalle tutta l’ Italia meridionale. Ma qui si
cominciò invece a delineare assai chiara la difficoltà
della posizione in cui si trovava. Roma gli chiuse le porte
in faccia, e le popolazioni italiane gli si cominciarono a
manifestare avversissime, in parte per la lotta da lui re
centemente sostenuta con la Chiesa, in parte per le spolia
zioni in numero sempre maggiore da lui fatte negli ul
timi anni, sia pei cresciuti bisogni della guerra, sia per
la poco regolare amministrazione. E di tutto ciò la
Chiesa aveva saputo profittare, per eccitar contro di lui
le moltitudini, tanto che poco dopo si parlò addirittura
d’ una generale cospirazione, di una specie di Vespro si
ciliano organizzato contro di lui dal clero. <*> Ma quel che
è più, nelle sue file cominciò la diserzione, la quale sem
bra che pigliasse proporzioni grandi davvero, dopo che
il suo Magister militum Tufa passò al nemico insieme
con altri. Se non ohe Tufa, avuti da Teodorico alcuni
Goti a suo comando, disertò nuovamente, per tornare
con essi a Odoacre, al quale li consegnò, e dal quale
faron subito fatti uccidere. Si potè quindi dubitare, che
il primo tradimento fosse stata una finzione per poter
compiere il secondo. Diserzioni vere e proprie ve ne fu
rono però non poche, ed anche fra i soldati di Teodorico.
Il fatto vero è che questi eserciti misti di varie genti bar
bariche, erano, come abbiamo detto più volte, quasi com
pagnie di ventura al servizio dell’Impero, senza patria e
senza fede, guidate dall’interesse personale dei loro capi;
spesso anche dei sotto-capi, che agivano per proprio conto.
Cosi le difficoltà divenivano da una parte e dall’ altra
sempre maggiori ; ma non meno grandi furono gli sforzi
fatti per superarle, si che la guerra andò assai in lungo.
Odoacre si mostrò degno di tener testa a Teodorico, che
aera dovuto chiudere a Pavia, dove la calca, nel suo primo
entrare, era stata tale e tanta, che le sofferenze de’suoi fu
rono davvero enormi. A soccorso della loro miseria venne
il clero, alla cui testa si trovava il vescovo Epifanio, il
quale si adoperò eroicamente a sollievo di tutti coloro che
soffrivano, senza distinzione di partito o di origine, pa
gando di suo per liberare dalla schiavitù coloro che erano
stati fatti prigionieri da una parte o dall’ altra. Intanto
Odoacre, messe di nuovo insieme le sue forze, entrò con
esse in Milano, pronto ad affrontare il suo rivale. Se non
che, altri barbari vennero a mescolarsi ora in questa1
(1) Dahn I I , 80 seguito de Hodgkin I I I , 225-0, fondandosi ambedue sai
Panegirico di Ennodlo.
guerra, modificandone e confondendone di molto P anda
mento. Scesero i Burgundi a difesa di Odoacre, ma in
realtà più che altro a saccheggiare il paese per proprio
conto. I Visigoti invece, mossi dalla comunanza di sangue,
vennero a difesa di Teodorico, e pugnarono con lui nella
battaglia, che fu data sull’ Adda il di 11 agosto 490. E
qui la disfatta di Odoacre fu inevitabile. Aveva po
tuto con energia resistere a Teodorico, in cui favore
erano Pautorìtà dell’Impero e della Chiesa, non che le po
polazioni insorte; ma di fronte alla coalizione dei Visigoti
e degli Ostrogoti, dovè cedere ritirandosi a Ravenna. Ivi
sostenne valorosamente un assedio che durò tre anni, non
potendo Teodorico stringere il blocco dalla parte del
mare, e dovendo dalla parte di terra resistere a sangui
nose sortite dalla città. Intanto questi poteva dirsi già pa
drone di tutta Italia, nella quale andava ogni giorno acqui
stando maggior favore, divenendo sempre più forte. Quasi
da per tutto pareva che fossero cessati il rumore delle
armi ed il grande spargimento di sangue : ubi primum
respirare fa s est a continuorum tempestate bellorum.O)
Presso Ravenna però la lotta continuava con gran vi
gore. Teodorico potè da ultimo bloccarla anche dal mare,
quando, essendogli riuscito d’ entrare in Rimini, gli fu
possibile raccogliere un certo numero di navi. L ’ asse
diata città cominciò allora a soffrire crudelmente una
fame, la quale, dice il cronista ravennate Agnello, uccise
molti di coloro che il ferro aveva risparmiati. E final
mente, nel febbraio 493, quinto anno della guerra, terzo
dell’ assedio, Odoacre dovè cedere. Il 25 di quel mese
egli consegnò suo figlio in ostaggio, ed il 27 l’ accordo
della resa era definitivamente concluso, per mezzo del
l’arcivescovo di Ravenna. Altra prova anche questa della1
(1) Cosi dice una lettera di papa Gelasio, ohe si erode del 492.
straordinaria importanza assunta allora dal clero, e quindi
dalla Chiesa in tutti gli affari di maggiore gravità.
I termini precisi dell’ accordo non sono ben noti, e det
tero perciò luogo a moltissime dispute. Certo è che
Odoacre s’ arrese, salva la vita, accepta fid e, securus se
esse de sanguine, come dice l’ Anonimo Valesiano. Ma a
questa condizione gli scrittori bizantini ne aggiungono
un’altra assai singolare, secondo la quale il vinto avrebbe
ottenuto di partecipare al governo insieme col vincitore,
restando a capo anche d’ una parte delle forze militari.
Riesce in verità assai difficile capire come mai ciò potesse
avvenire, tanto più che Teodorico era stato mandato da
Zenone a sottomettere, a cacciare Odoacre. Ed ammessa
pure la poco credibile esistenza d’ un tale trattato, non è
credibile che potesse essere stato concluso in bnona fede
da nessuna delle due parti, ed avesse potuto illudere qual
cuno. Infatti il 5 marzo 493 Teodorico entrava solenne
mente in Ravenna, dove gli vennero incontro l’ arcive
scovo ed il clero recitando salmi. Il 15 dello stesso mese
invitava a solenne banchetto Odoacre, il quale appena
giunto venne aggredito da persone ivi nascoste; e poi
lo stesso Teodorico sguainò la spada per ucciderlo colle
proprie mani. — D ov’ è D io? — esclamò il decaduto
principe. E l’altro, nel sentire che il fendente della sua
forte spada scendeva, profondamente tagliando, senza
quasi trovar resistenza, osservò con cinico e barbarico
sorriso : — Si direbbe che non ha ossa. — I parenti e gli
amici d’ Odoacre subirono tutti, più o meno, la stessa
sorte. Non mancò chi disse che Teodorico aveva sco
perto, e perciò voluto vendicare insidie e tradimenti or
diti da Odoacre contro di lui; ma ciò prova solo l’ odio
e la diffidenza reciproca, quindi la impossibilità di un
vero accordo.
io
CAPITOLO i n
Il regno di T eod orico
Dopo questo atto da vero barbaro, Teodorico si potè
dire solo padrone in Italia. La condizione in cui egli
si trovava adesso non era in verità molto diversa da
quella di Odoacre. Questi aveva comandato una molti
tudine incomposta di genti varie, Eruli, Turcilingi, so
pra tutto Sciri. Teodorico era anch’ esso alla testa d’ una
mescolanza di varie genti, Gepidi, Rugi, Breoni, e R o
mani o romanizzati,*1) principalmente però Ostrogoti, che
davano a tutti un nome comune. Non era quindi neppur
questo un popolo unito da sentimento nazionale ; era una
banda di ventura, unita dal bisogno di vivere saccheg
giando e guerreggiando, organizzata, come quella d ’Odoacre, colla disciplina militare appresa dai Romani. Teodo
rico veniva, noi lo abbiamo già visto, non come il re di
un popolo germanico, ma come un Patrizio, rappresen
tante dell’Imperatore e da esso mandato. A l di sotto di
lui c’ era un Magister militum, ed a capo delle varie parti
dell’esercito erano i Comites, che risiedevano nelle diverse
province d’Italia. La grande differenza fra lui ed Odoacre
stava solo nel carattere, nell’ ingegno politico e militare
assai superiore di Teodorico. La sua educazione, in parte
anche il suo spirito, si erano formati a Costantinopoli,
dove egli era divenuto ammiratore della civiltà romana,
senza mai cessare affatto d ’ essere un barbaro. Quantun
que sia certo che egli non avesse nessuna cultura lette
raria, riesce difficile credere, come pur generalmente si
dice, che egli non sapesse addirittura scrivere il proprio
(1) Stbel, EnUUhung dei deutichen Kdnigtthum», 2» ©die., pag. 283-4.
nom e. £ vero d ie per firmare sì serri va d'im a
d ’ oro, in coi « a n o intagliate le prime quattro lettere del
suo nom e; ma questo poteva anche essere nn modo di
guadagnar tempo quando doveva sottoscrìvere in forma
diplom atica i molti atti ufficiali del suo governo.
N o i non dobbiamo aspettarci che negli Ostrogoti di
T eod orico persistessero ancora le antiche e primitive isti
tuzioni germaniche. Sebbene avesse menato seoo anche i
v ecch i, le donne ed i bimbi, tutto nn popolo, o per meglio
d ire una gran moltitudine, egli era in sostanza il capo mi
litare, il dace d’ un esercito di vane genti vissute dap
prim a cogli Unni e poi dentro l’ Impero. Non era quindi
possibile trovare più fra di loro la proprietà oollettiva
d e ll’ antico villaggio germanico, nè quelle assemblee po
polari che frenavano il potere regio. Teodorioo coman
d ava con assoluto imperio di capitano, solo in oasi ec
cezionali consultando il suo esercito. In ogni modo essi
n on avrebbero potuto mai legiferare pei Romani, nè i
R om ani pei Goti. Egli era venuto col titolo di Patrizio,
p e r riconquistare l’ Italia all’ Impero, che restava sempre,
teoricamente almeno, nella sua unità, non mai interamente
distrutta. Infatti anche quando v’erano due Imperatori, se
quello d’Occidente moriva, il suo potere ricadeva in quello
d ’ Oriente, fino a che non veniva eletto il suooessore. Di
certo, come Ricimero, come Oreste, come Odoacre, anohe
Teodorico voleva essere il vero, effettivo padrone in Italia,
possibilmente una specie d’ imperatore d’ Occidente. Ma
questo potere cui egli mirava e che in parte raggiunse,
era in contradizione manifesta con la missione a lui affi
data, e che egli aveva accettata: bisognava quindi le
galizzarlo, e ciò non poteva farlo che l’ Imperatore, a
e o i egli si rivolse quindi senza indugio. Subito dopo la
battaglia dell’Adda, nel 490, quando ancora non era en
trato in Ravenna, ma già si sentiva padrone dell’Italia,
aveva mandato un*ambascerìa all’ Imperatore, per potere
assumere la dignità regia, ab eodem sperane se vestem
induere regiam. O) Questa ambasceria non ottenne però
nessun resultato, essendo nell’ aprile del 491 morto Z e
none, cui successe Anastasio, che non mandò risposta. E,
Teodorico, il quale era allora già entrato in Ravenna dove
aveva ucciso Odoacre, si lasciò nominare re dai suoi Goti,
che non aspettarono la risposta del nuovo Imperatore. <1
2>
Una tale elezione non gli dava però sui Romani, quella
legale autorità che solo dall’ Imperatore poteva venirgli.
In sostanza non era un re, ma un tiranno come Odoacre,
che egli perciò appunto era venuto a combattere in nome
dell’ Impero.
Questa sua difficile condizione migliorò non poco
nel 498, quando, essendo divenuto di fatto assai più po
tente, riusci finalmente, con una nuova ambasceria, ad
ottenere dall’ Imperatore Anastasio le insegne, omnia ornamenta Palatii, che Odoacre aveva mandate a Costanti
nopoli. Non bisogna però credere che la nuova autorità
gli fosse concessa, senza fissarne limiti e senza qualche
determinazione. Tanto Cassiodoro quanto Procopio ac
cennano a patti e condizioni. Il secondo di questi scrit
tori ci narra infatti come i Goti, quando più tardi fu
rono vinti da Belisario, gli affermassero d’ aver sempre
fedelmente rispettato i patti e le condizioni imposte ad
essi dall’ Impero. Teodorico di certo aveva il comando
dell’esercito, era giudice supremo, nominava tutti gli uffi
ciali dello Stato. Ma s’ illuderebbe assai chi lo credesse
perciò divenuto una specie d’ imperatore d’ Occidente, o
(1) Anonimo YaUsia.no, X I, 53.
(2) « Gothi eibi confirmaverunt Theodoricum regern, non expeotantes jus« sionem novi Prinoipis. » An. Val., X II , 57. Ciò conferma ohe finora egli non
era stato nn vero re dei Goti ; ma forBe solo nn Prinespt germanico, o come
dice il Sybel, nn Oaukonig.
anche nn re dei Romani indipendente da colui che lo
aveva mandato. Egli non poteva promulgar vere e proprie
leggi, ma solo editti per l’Italia, i quali dovevano restare
dentro i confini di ciò che avevano già prescritto le leggi,
che si facevano a Costantinopoli, e si applicavano a tutto
l’ Impero. Continuò pure a far l’ elezione dei Consoli, i
quali erano una magistratura comune del pari a tutto
l’ Impero. Uno di essi veniva eletto in Oriente; l’ altro
era eletto in Italia da Teodorico, ma doveva essere con
fermato a Costantinopoli. E così pure solo l’ Imperatore
poteva coniar moneta colla propria effigie. Son tutte cose
che riconfermano la persistenza della unità dell’ Impero.
Il potere di Teodorico si limitava alla sola Italia,
sebbene qualche volta egli pretendesse di esercitarlo
anche nelle isole e nell’Africa. D ’ impero di Occidente
non si parlava neppure. Anzi l’ Imperatore non riconobbe
mai un regno goto ereditario, e perciò i successori di
Teodorico dovettero sempre essere riconfermati a Co
stantinopoli, altrimenti rimanevano solo tiranni. U suo re
gno ebbe un altro carattere affatto speciale. Tutta l’ am
ministrazione rimase nelle mani dei Romani; le armi
restarono ai Goti, che formarono l’ esercito. E questo
fece dire a piò d’ uno scrittore, che fu allora vietato af
fatto l’ uso delle armi ai Romani. Si fece confusione con un
ordine di severa proibizione, emanato assai piu tardi da
Teodorico, quando egli cominciò a temere di una ribel
lione in Italia. Anzi non è facile neppur credere alla
loro esclusione assoluta dall’ esercito, massime se si pon
mente al significato assai lato, che aveva allora la pa
rola Romano, ed all’ essere l’esercito goto composto di
genti diversissime. Esso era certamente goto, e chiunque
ne faceva parte aveva quel nome. Ma lo stesso Cassiodoro, il quale ripete più volte che la difesa dello Stato
era affidata ai Goti, cita nelle sue lettere (vili, 21 e 22)
l’esempio di qualche nobile romano, sotto la sorveglianza
di Teodorico, educato nella lingua dei Goti, e insieme
con essi nell’ esercizio delle armi. Dei Romani certo ne
furono ammessi pochi e con difficoltà, ma non vennero
esclusi del tutto. Altra prova che l’uso delle armi non era
ad essi vietato, l’abbiamo nel fatto ricordato dallo stesso
scrittore, quando narra che una volta dovè abbandonare
il proprio gabinetto, ed armare le sue genti per difendere
l’ Italia meridionale, minacciata da un assalto dei Bizan
tini. Una divisione assoluta e matematica non era possi
bile. E quindi sebbene l’amministrazione fosse certo in
mano dei Romani, non si può neppure presumere che i
Goti ne fossero esclusi del tutto. Alcuni dei loro grandi
erano intimi consiglieri di Teodorico, e nella condotta
della politica generale, esterna ed interna, avevano una
parte importante, assai più reale che apparente.
I Goti serbarono le proprie leggi, e furono giudicati dai
Comites Gothorum; lasciarono ai Romani le loro leggi, le
loro istituzioni, i loro giudici, che erano i rettori delle pro
vince, nelle quali i Comites comandavano solo come capi
militari. Nelle cause miste il magistrato goto doveva aggre
garsi un Romano, e giudicare secondo equità, il che finiva
col far prevalere anche in questi casi il diritto romano.
Essendo poi i Goti un esercito, la loro legge aveva na
turalmente un carattere principalmente militare. Nel di
ritto civile, e più ancora nel penale, che è di sua natura
territoriale, prevaleva la legge romana. Cosi si spiega
come quello che si chiama VEdictum Theodorici, perchè
è il più importante di quanti egli ne fece, venisse com
pilato su leggi romane, e fosse obbligatorio anche pei
barbari, sebbene non si trovi in esso traccia visibile di
quelle consuetudini germaniche, che certo non potevano
presso di loro essere spente del tutto.
Quantunque le due legislazioni, gota e romana, restassero
in vigore, e si possa anche credere, che tra le condizioni
imposte dall’ Impero a Teodorico, vi fosse quella appunto
di lasciare agl’ italiani l’ uso della loro legge, pure si af
ferma che da principio egli non volesse concedere un tal pri
vilegio a nessuno di coloro che avevano combattuto a di
fesa di Odoacre. — Un principe nuovo, egli avrebbe detto,
si trova spesso nella necessità di punire, senza poter gu
stare la dolcezza della pietà. — Ma Epifanio vescovo di
Pavia lo condusse a più mite consiglio. E Teodorico al
lora non solo rinunziò al suo primo proposito; ma gli
dette anche larghi sussidi in danaro, per aiutare le op
presse popolazioni. Il concetto fondamentale del nuovo
governo fu certamente la unione, la fusione dei Goti coi
Romani. I primi dovevano avere le armi, i secondi dar
loro da vivere. L ’amministrazione doveva restare in mano
dei Romani, cui correva 1’ obbligo di cedere una parte
delle terre, di riscuotere le tasse, e raccogliere il danaro
necessario allo Stato. I due popoli però restarono lunga
mente l’ uno accanto all’ altro, senza potersi mai fondere
insieme; restarono anzi in continuo antagonismo fra di
loro. Non era possibile andar contro le leggi della natura.
Liberio, che aveva fedelmente servito Odoacre, ebbe
l’ amministrazione delle finanze, e con essa l’ incarico di
condurre a termine l’operazione difficilissima della nuova
divisione delle terre, che egli esegui con tanta prudenza
da non far nascere nessun malcontento. E non era poco.
Si trattava di dividere fra i Goti quello che era stato
dato ai soldati di Odoacre, e i Goti erano in numero
maggiore. Ma questa divisione, come vedemmo, era ornai
divenuta nell’ Impero un fatto quasi ordinario e normale.
Molti dei seguaci di Odoacre erano morti, altri partiti,
altri s’ erano aggregati ai Goti, i quali, di fronte alla po
polazione ed alla estensione del paese, erano anch’ essi
in piccolo numero. Le guerre, le stragi avevano, è vero,
diminuito non poco il numero degl’ italiani, ma ciò ren
deva più estese le proprietà da dividere, e tornava per
ciò, in qualche modo, a vantaggio dei latifondisti, sui
quali ricadeva il peso della divisione. Anche sotto Teo
dorico l’ aggravio delle imposte fu minore che sotto l’Im
pero. Più di una volta egli avrebbe detto che gli doleva
di dover riscuotere tasse da paesi esausti, da contri
buenti impoveriti ( Cassiodoro, III, 40). Le condizioni
dell’ agricoltura continuarono a migliorare. S’ aggiunse,
che per molto tempo non vi fu guerra, e che il governo
barbarico aveva meno lusso, meno bisogno di danari.
L ’ Italia quindi, sebbene fosse in balia dei barbari, ebbe
anche ora un periodo di pace e di tregua.
Fra i più ricchi e celebri latifondisti erano i Cassio
doro delle province meridionali. Colui che fra di essi
fu terzo di questo nome, era anche un gran possessore
d ’ armenti di cavalli, dei quali fece largo dono a Teo
dorico, che servi fedelmente come aveva già fatto con
Odoacre. Egli fu padre di quel Cassiodoro, che ebbe an
che il nome di Senatore, ed è notissimo come il Mini
stro per eccellenza degli Ostrogoti. Nato a Squillace,
nella Calabria, verso il 480, fu Patrizio, Console, e nella
sua qualità di Questore fece addirittura le parti di primo
ministro; fu anche Magister officiorum, Prefetto del Pre
torio. Le lettere d’ affari, scritte da lui quando era in
questi vari uffici, sono il monumento più prezioso della
storia di quei tempi. Tutto pieno dell’ idea romana, egli
cercò di mantenerla viva sotto i Goti; la infuse in Amalasunta, la figlia di Teodorico, che sembra essere stata
da lui educata, e che egli certo servi col suo solito zelo
quando ella successe al padre. Continuò, anche dopo la
morte di lei, a lavorare pel governo goto fino al 689,
quando si ritirò definitivamente nel suo paese, dove
fondò, come vedremo, due monasteri, dandosi in essi a
vita religiosa e letteraria. Egli era stato sempre un uomo
dato agli studi, ai quali attese con ardore anche quando
si trovava in mezzo agli affari : alle lettere infatti dedicò
ogni momento di libertà, che gli restava. E così fece
più che mai quando si ritirò finalmente nella solitudine.
Scrisse, fra le altre sue opere, una storia dei Goti, dei
quali cercò esaltare le origini ed il destino. Di essa c ’ è
rimasto solo il compendio che Jordanes ne fece di memo
ria, come egli dice, dopo averla rapidamente letta una
volta sola. Cassiodoro fu certo un uomo d’assai buona in
dole, che avrebbe voluto romanizzare i Goti, da lui sincera
mente amati ed ammirati ; un ottimo e fedele impiegato ; un
facondo e fecondo scrittore, ma senza originalità e senza
energia di carattere. Cominciò la sua vita pubblica con
un panegirico di Teodorico, e si piegò di continuo alla
volontà dei suoi vari padroni. Come scrittore fu quasi
sempre retorico ed ampolloso, affogando il proprio pen
siero in un mare di parole e di frasi convenzionali, abban
donandosi a lunghe, eterne digressioni, le quali assai
spesso poco o punto avevano da fare col soggetto che
trattava. Si potrebbe dirlo addirittura il primo dei seicentisti. Era nondimeno un uomo d ’ ingegno, instancabile
nel lavoro ; e la stessa sua poco originale loquacità, con
la quale riproduceva e ripeteva le idee, i sentimenti
d e ’ suoi tempi, ne fece come uno specchio di essi. Dei
quali assai spesso potè darci un ritratto più fedele, per
ch è più impersonale ed obbiettivo, che non avrebbe sa
puto fare uno scrittore di più alto ed originale ingegno,
d i più vigorosa personalità.
Teodorico, che era in sostanza un alto ufficiale militare
e politico, mandato dall’ Imperatore a governare l’ Italia,
lasciò inalterate in Roma e nelle province l’ antica am
ministrazione, le antiche magistrature, che affidò esclu
sivam ente a Romani. Le province restarono sotto Ju-
diees da lui nominati, che amministravano la giustizia. A
Ravenna c ’ era nn Prefetto del Pretorio, a Roma un Vi
carivi* Urbis. Il Senato serbava l’ antico splendore uf
ficiale, senza l’ antica autorità. Esso non legiferava ora
nè pei Qoti nè pei Romani, pei quali ultimi le leggi vere
e proprie si facevano a Costantinopoli. V ’ era però sempre
una nobiltà senatoriale ereditaria, che aveva uffici deter
minati, ai quali erano annessi doveri e diritti. Ed accanto
a Teodorico s’ andò formando, per forza inevitabile delle
cose, un’ altra nobiltà di grandi personaggi goti, i quali
facevano parte del suo seguito, lo circondavano e con
sigliavano sui grandi affari di Stato. In tutte le città con
tinuava l’ ordinamento municipale con a capo iDuumviri,
ed insieme con essi, quasi come regi ufficiali, erano il D e
fen sor, che sorvegliava l’ amministrazione, ed il Curator,
che s’ occupava della finanza. La Curia continuava ad es
sere destinata più che altro a riscuoter tasse.
Questa monarchia era quindi, nello stesso tempo, una
continuazione dell’ Impero, ed una istituzione germanica;
era formata cioè di due società diverse, che restavano
sempre separate, ma che pure s’ andavano vicendevolmente modificando, per la vicinanza e contatto in cui si
trovavano. Il disegno però di fonderle insieme era un
sogno : una delle due doveva inevitabilmente, prima o poi,
soccombere, cedere all’ altra. Teodorioo non creò nessuna
nuova istituzione; nulla anzi di veramente nuovo egli
fece nè amministrativamente nè legislativamente. A tutto
credeva di poter provvedere con una ben regolata am
ministrazione della finanza e della giustizia. Il Goto in
tanto restava sempre fuori dell’ amministrazione, non era
cittadino romano, nè tale poteva esser fatto dallo stesso
Teodorico. Era un forestiero, che formava l’ esercito, d i
cui i Romani non potevano come tali far parte : questi ave
vano diretta ingerenza nell’ indirizzo generale della po
litica. Il carattere sostanziale della monarchia rimaneva
quindi militare e straniero, sebbene Teodorico fosse stato
nominato Patrizio e Console, adottato come figlio dall’ Im
peratore che lo aveva mandato. Era uno stato di cose as
sai pericoloso, perchè pieno di sottintesi, di finzioni, di
forme, che non rispondevano, che anzi contradicevano
alla sostanza e realtà vera delle cose; non poteva perciò
durare a lungo. Tuttavia il primo periodo di questo regno
assicurò alle popolazioni alcuni anni non solo di pace, ma
anche di prosperità.
Secondo Procopio, Teodorico « difese l’ Italia, amò la
giustizia, fu tiranno di nome, ma di fatto veramente re. »
Molti esempi s’ adducono della sua giustizia, della sua
tolleranza religiosa, la quale qualche volta par degna di
un vero filosofo, quasi d’ uno spirito moderno. Nelle let
tere scritte per lui da Cassiodoro, egli dice, « che non si
può a nessuno imporre la fede religiosa, perchè nessuno
può essere costretto a credere contro sua voglia. » (II, 27).
Non solo rispettò i cattolici, ma adorò solennemente in
Roma le reliquie di 8. Pietro. Moltissimi sono gli edifizi e le opere pubbliche da lui compiute, sopra tutto in
Ravenna, nella quale si può dire che lasciasse la propria
impronta. Ivi è la chiesa bellissima di S. Apollinare ; ivi
sono gli splendidi mosaici, gli avanzi del sno palazzo, la
sua tomba di stile romano, coperta da un gran monolite.
Altre opere pubbliche fece a Verona ed in molte città
dell’alta Italia. Restaurò gli acquedotti, le mura di Roma;
prosciugò una parte delle Paludi Pontine; promosse l’ in
dustria, il commercio e l’ agricoltura, a segno tale che il
prezzo chi grano scemò grandemente, e l’ Italia cominciò
a bastare a sè stessa, cosa che da lungo tempo non
succedeva più. Nè sotto di lui fioriron solo le arti belle,
per opera di quegli artisti italiani e bizantini, i cui la
vori si ammirano anche oggi in Ravenna; ma rifiorirono
del pari le lettere. Se gli scritti di Cassiodoro, nono
stante un valore incontestabile, hanno pur molti difetti
nella forma ampollosa e retorica, quelli di Boezio, del
quale avremo occasione di parlare più oltre, hanno anco
nella forma pregi non comuni, che dettero al loro autore
una fama ben meritata. Ma s’ illuderebbe chi volesse at
tribuire tutto ciò all’ opera esclusiva, all’ azione diretta e
personale di Teodorico: fu piuttosto conseguenza indi
retta del suo governo. La pace da lui assicurata all’ Ita
lia, l’ amministrazione affidata alle mani esperte di uf
ficiali romani contribuirono non poco a fare per qualche
tempo prosperare il paese. Ma non era una civiltà nuova
che nascesse; era l’ antica società e l’ antica civiltà che
risorgevano di sotto alle rovine lasciate dalla barbarie.
Tutto ciò avvenne in modo cosi rapido e generale,
che Teodorico stesso fini coll’ impensierirsene assai. Ed
era naturale, perchè diveniva sempre più evidente la di
versità grande, irreconciliabile, che per sangue, tradi
zioni, lingua, costumi, religione, passava fra Goti e R o
mani. Ariano e capitano di barbari ariani, egli si trovava
in un paese essenzialmente romano e cattolico. Generale
di un impero teoricamente indiviso, e sotto la dipendenza
di un imperatore, cui diceva di volere obbedire, era e
voleva essere re indipendente dei Goti, che lo avevano
levato sugli scudi. E però anche ora, come a tempo di
Odoacre, fino a quando l’ Imperatore si trovava in lotta
col Papa, a questo ed al Re conveniva essere buoni amici,
proteggendosi a vicenda contro le pretese di Costanti
nopoli. Il giorno però in cui Papa e Imperatore si fossero
intesi, il pericolo per Teodorico poteva divenire gravis
simo.
Ma anche senza di ciò, la questione politica era per
sè stessa molto pericolosa. L ’ Impero era pieno di bar
bari. Seguendo il vecchio sistema bizantino di rivolgerli
gli uni contro gli altri, l’ Imperatore poteva facilmente
ripeter contro Teodorico quello che, per mezzo di lui ap*
punto, aveva fatto contro Odoacre. Teodorico perciò volse
ben presto il suo pensiero a fortificare il proprio Stato,
essendo chiaro che non poteva fare sicuro assegnamento
su Costantinopoli, dove non si era punto disposti a ri
conoscerlo in modo definitivo. Possedendo egli già la
Rezia, tenuta sempre come parte integrante dell’ Italia,
s’ avanzò nell’ Illirico, l’ anno 504, per impadronirsi di
Sirmio, dove era stato in passato un Prefetto del Preto
rio, e che era la prima stazione dei barbari, quando dal
Danubio venivano in Italia. Cosi poteva difendere da quel
lato i confini d’ Italia contro nuove invasioni. Ma ciò ap
punto irritava grandemente l’ Imperatore, perchè Teodo
rico s’ impadrooiva di quella parte dell’ Illirico che ap
parteneva all’Oriente. E dette nel 508 occasione ad un
assalto improvviso di navi bizantine contro le coste dell’ Italia meridionale, dove esse riportarono, come dice
uno scrittore del tempo, « una disonesta vittoria di R o
mani contro Romani. » Era sempre la stessa perenne
contradizione, che si riproduceva. Le lettere di Teodo
rico riconoscono l’ autorità dell’ Imperatore di tutto il
mondo, totius orbis praesidium. Da lui egli desidera es
sere riconosciuto, da lui ha imparato a reggere i Romani.
Il suo governo altro non vuole, altro non può essere,
« che una copia dell’ unico e solo Impero, unici exemplar
Imperii. Come si potrebbe separare da voi uno che da
voi è plasmato ? Una divisione fra le due Repubbliche,
che hanno sempre formato un sol corpo, non è possibile.
Un solo volere, un solo pensiero è quello che deve ani
mare tutto il regno romano, romani regni unum velie, una
semper opinio sit » ( Variae, i, 1). E mentre che colla
penna del suo ministro, Teodorico scriveva queste lettere,
quando si trovava invece fra i suoi intimi consiglieri goti,
posito del prosciugamento di una palude. Ivi Teodorico
è chiamato victor ac tf\umphator semper Augustus, borio
Reipublicae natus, custos libertatis et propagator romani
nominis. (D È sempre la ripetizione dello stesso singolare
fenomeno, la stessa contradizione. Essendo e volendo
essere un re barbaro, pretendeva di legalizzare e legit
timare questo suo stato, atteggiandosi a principe romano,
a nuovo Imperatore d’ Occidente, cosa che Anastasio cer
tamente non avrebbe potuta mai tollerare in un bar
baro. E però invano il re ostrogoto fece di tutto per
renderselo propizio. Il non potervi riuscire lo angustiava
ora piu che mai, giacché avendo data sua figlia Amalasunta in isposa ad Eutarico, che era un barbaro, di
veniva sempre più necessario, perchè questi potesse le
galmente ascendere al trono, ottenere l’ approvazione
dall’ Imperatore. Se però Teodorico non riuscì mai ad
averla da Anastasio, l’ ottenne invece dal successore Giu
stino, dopo che ebbe promosso un accordo fra questo ed
il papa Ormisda. Le conseguenze però di tale accordo
furono a lungo andare assai diverse e più gravi di
quel che non si sarebbe pensato. La questione religiosa,
che aveva in Italia una straordinaria importanza, mutò
adesso sostanzialmente carattere, e s’ aggravò in modo
da divenire più tardi causa non ultima della rovina del
regno ostrogoto.
Sebbene ariano, Teodorico era stato lungamente in
buona armonia col Papa, favorendolo nel conflitto reli
gioso, che tra Roma e Costantinopoli da lungo tempo con
tinuava assai aspro. Già papa Gelasio I (492-6), sostenitore
fermo e costante della supremazia della Chiesa di Roma,
aveva, come vedemmo, condannato V Henoticorij dichia
rando eretico Acacio, aggiungendo, che se V Imperatore1
(1) Corpus Ime. lat., voi, X, 1, n. 68ò0.
ne avesse seguito le idee, sarebbe stato eretico anch’esso.
« Come romano, così egli scriveva, io dovrei esser sem
pre favorevole all’ Imperatore; ma la tolleranza degli
eretici ò più pericolosa delle devastazioni dei barbari. »
Nè c’ era ragione che matasse attitudine o linguaggio
per favorire Teodorico, il quale non aveva interesse al
cuno di contrariarlo nella disputa, perchè il dissidio era
tutto a suo vantaggio. Se non che l’ Imperatóre d’Oriente
che aveva mandato Teodorico, sperando fra le altre cose
che egli avrebbe saputo meglio di Odoacre tenere a freno
il Papa, restava affatto deluso, e quindi sempre più irri
tato contro di lui.
A Gelasio successe Anastasio I I (496-8), che aveva il
nome stesso dell’ Imperatore, ed era un Romano d’ indole
assai più mite del suo predecessore. Teodorico ne profittò,
per mandare a Costantinopoli un’ amichevole ambascerìa,
alla cui testa era il patrizio Pesto, il quale s’ adoperò
molto ad ottenere una conciliazione politico-religiosa, la
sciando sperare all’ Imperatore di far piegare il Papa nella
questione àelYHenoticon, ed in questo modo riuscì a far
mandare a Teodorico le tanto desiderate insegne. Pace
fa cta de praesumptione regni, dice a questo proposito
l’ Anonimo Valesiano. Ben presto però papa Anastasio mo
riva, e ne segui una elezione violentemente contrastata, du
rante la quale Teodorico si condusse con grande prudenza.
I candidati eran due. Lorenzo, tenuto più pieghevole e
m eno avverso elYHenoticon, aveva il favore dei Senatori,
e quello sopra tutto di Pesto, come era naturale per le spe
ranze che appunto suWHenoticon egli aveva date a Costan
tinopoli. L ’ altro candidato, Simmaco, era invece più fermo
n ella dottrina ortodossa, e godeva quindi il favore degli
ardenti cattolici. Così la lotta fra i due partiti s’accese per
m od o, che ne venne minacciato l’ ordine pubblico, e Teo
d o rico fu costretto ad intervenire. Con molto accorgimento
il
egli dichiarò, che l’eletto doveva essere colui al quale s’ era
dato un maggior numero di voti. E cosi vinse Simmaco
(498), quegli appunto che a lui conveniva di più, perchè
meno disposto a troppo sottomettersi a Costantinopoli.
Nell’ anno 500 Teodorico fece il suo ingresso solenne
in Roma. Fuori delle mura gli vennero incontro il nuovo
Papa, il Senato, i nobili. Egli andò in S. Pietro ad ado
rare le reliquie del Santo; dichiarò di voler concedere
tutto ciò che g l’ Imperatori avevano promesso a vantag
gio della Città eterna; attese con ardore al restauro dei
monumenti; fece celebrare i giuochi nel Circo; assegnò
al popolo un annuo sussidio di 120 mila moggia di grano.
Intanto gli oppositori di Simmaco non si erano acque
tati ; mossero* anzi contro di lui ogni sorta d’ accuse, per
fino di adulterio. Teodorico dichiarò di non volersene
mescolare, e rimise la decisione ad un Concilio, che fu
chiamato Sinodo palmare (501), nel quale mandò suo rap
presentante il vescovo di Aitino. Gli fu opposto che il
Concilio doveva essere radunato dal Papa, non dal R e ;
e Teodorico rispose, che aveva in tutto proceduto d’ ac
cordo con Simmaco. Si protestò allora che non si voleva
il regio visitatore, che non si poteva da nessuno giudicare
il capo della Chiesa; e Teodorico disse che egli pregava
solamente il Conoilio di ristabilire la pace religiosa nel
m odo#che credeva migliore. Si sarebbe, egli aggiunse,
uniformato senz’ altro alle deliberazioni prese, limitandosi
da parte sua a mantenere l’ ordine, a difendere da ogni m i
naccia la persona del Papa. Il Concilio finì col riconoscere
Simmaco senza giudicarlo ; e Lorenzo, dopo avere invano
tentato di resistere, si ritirò. La pace religiosa fu cosi ri
stabilita in Occidente ; ma ricominciò subito la lotta con
Costantinopoli. Ben presto Simmaco assunse un’ assai d e
cisa attitudine; ed in un Concilio tenuto l’ anno 502 fe c e
leggere ed annullare i due decreti di Odoacre (483) circa
la elezione papale e la proibizione d’ alienare le p rò -
prietà della Chiesa, ritenendoli illegali, come opera di
un laico, indebitamente poi sanzionata. E quanto all’ Henoticon, scrisse all’ Imperatore: « Invano tu credi di po
terti levare contro la potenza di S. Pietro, e liberarti dal
giudizio di Dio. » Nè l’ Impératore poteva allora reagire,
perchè il popolo era a Costantinopoli divenuto fautore
della dottrina ortodossa. Il Papa quindi procedeva fermo
e sicuro, occupandosi, senza altri pensieri, di costruire
in Roma nuove chiese, dando le sue cure maggiori ad
abbellire S. Pietro, iniziando la costruzione del Vaticano :
e cosi, per opera sua e di Teodorioo, l’ antica capitale
dell’ Impero sembrava fiorire di nuovo. A Costantinopoli
invece la disputa religiosa dava origine a tumulti, a ri
bellioni, che indebolivano l’ Imperatore ed incoraggia
vano sempre più il Papa. E quando a Simmaco successe
Ormisda (514-23), anche questi continuò a lottare con
energia contro l’ Imperatore, che finalmente, perduta la
pazienza, mandò via gli ambasciatori papali dicendo,
che poteva sopportare d’ essere addolorato ed anche in
giuriato, ma non voleva rassegnarsi a ricevere comandi
da Roma.
Inasprite le cose fino a questo punto, cominciavano a
dar grave pensiero anche a Teodorico, cui certo non gio
vava che l’ Imperatore venisse troppo irritato. E fu que
sto il momento nel quale la questione religiosa subì la
profonda modificazione, più sopra accennata. Morto l’im
peratore Anastasio, gli era successo Giustino (518-27),
un contadino ignorante della Dardania, valoroso soldato,
affatto ortodosso in religione, che si lasciò guidare da
su o nipote Giustiniano, uomo di grande ingegno e or
tod osso al pari di lui. Fu questo veramente il principio
d i un nuovo indirizzo religioso e politico nell’ Impero,
a n zi di un’ era novella. Il popolo a Costantinopoli esaltava
c o n grande ardore le dottrine cattoliche, e gli eretici
e ra n o perseguitati : il Papa naturalmente ne gioiva. Teo
dorico, impensierito allora del nuovo stato di cose in
Oriente, e della opposizione crescente che vedeva sorgere contro di lui in Italia, pensò di farsi addirittura ini
ziatore d’un accordo fra Papa e Imperatore, sperando cosi
di guadagnarsi il favore dell’ uno e dell’ altro. La cosa
riuscì dapprima assai facilmente; ma le conseguenze furon poi inaspettate. Nel 519 arrivavano a Costantinopoli
gli ambasciatori del Papa, che furono solennemente accolti
dal popolo, dal Senato e dall’ Imperatore. Essi portavano
il libellvs, o sia la forinola già concordata della esplicita
sottomissione dell’ Impero alle dottrine cattoliche; e fu
subito accettata. L ’ Henoticon, cagione di tante dispute,
venne solennemente condannato ; Àcacio fu anatomizzato.
Cosi Roma, dopo una lotta sostenuta sempre con energia,
senza mai nulla cedere, aveva finalmente trionfato. E pa
reva che l’ Imperatore si fosse stabilmente messo d ’ ac
cordo non solo col Papa, ma anche con Teodorico. Infatti
Eutarico fu nominato Console e adottato come figlio, p e r
armafilius (Varieté, V il i, 1): era questa la forinola usata.
Se non che ben presto tutto si volse a danno di T eodorico, il quale era ariano, e non poteva andare a lungo
d’ accordo con un Papa e con un Imperatore, che, essendo
ambedue ortodossi, dovevano trovarsi, come ben presto
si trovarono, uniti contro di lui.
CAPITOLO IV
Fine del regno di Teodorico - Governo di Am&lasunta
Verso il 524 1*imperatore Giustino cominciò a p e r s e
guitare gli Ariani, il che rese subito assai difficile l a
condizione di Teodorico, massime perchè suo g e n e r o
Eutarico era un ariano fanatico ed intollerante. Il Re
fa quindi costretto a reagire, perseguitando i Catto
lici, e si trovò subito in urto col Papa, eccitando lo
scontento delle popolazioni. In questo tempo appunto,
avendo il popolo bruciata la Sinagoga a Ravenna, Teo
dorico lo costrinse a ricostruirla; il che aumentò sem
pre piti il malumore. E non era cosa di poco momento.
Nei Romani, sopra tutto nei Senatori e nei latifondisti,
che più avevano sofferto per la divisione delle terre,
dirigevano l’ amministrazione ed avevano i principali
uffici civili, s’ era, insieme colla prosperità favorita dalla
pace, cominciata a manifestare una crescente avversione
ai Goti, con una maggiore fiducia in sé stessi. Questa
fiducia, come era naturale, aumentava grandemente ora
che si poteva esser sicuri del favore del Papa e del
l ’ Imperatore. Così la società e la cultura romana gua
dagnavano rapidamente terreno, e i fautori di esse co
minciavano a intendersela direttamente coll’ Imperatore.
Tutto questo fini coll’ irritare assai Teodorico, i r quale
vedeva a un tratto minacciato di rovina l’ edilìzio con
sì gran cura innalzato. L ’ alleanza, la fusione dei Goti
e dei Romani da lui tanto vagheggiate, apparivano ora
come un sogno che s’ andava a un tratto dileguando.
F u allora che egli emanò contro i Romani l’ ordine ri
cordato dall’Anonimo Valesiano, ut nullus eorum arma
usque ad cultellum uteretur. Ed a poco a poco parve che
in lui andasse scomparendo ogni traccia di romanità;
tornò ad essere il feroce barbaro d’ una volta, quello
stesso che colle proprie mani aveva, nel banchetto di
Ravenna, assassinato Odoacre.
Non tutti i Romani erano però concordi, essendovi
fra loro, anche negli ordini superiori della società, di
quelli che restavano ciecamente attaccati ai Goti, e
che, come tutti i rinnegati, erano intolleranti e vendi
cativi. Alla loro testa si trovava il referendario Ci
priano, che fu poi Conte delie sacre largizioni, Maestro
degli affici, e che non solamente aveva egli stesso preso
servizio nell’ esercito dei Goti, ma da essi aveva fatto
educare nella loro lingua e nelle armi i suoi propri figli.
Costui ad un tratto accasò il patrizio Albino d’ avere
scritto all’ Imperatore lettere segrete, per cospirare con
tro Teodorico. Albino negò recisamenté ogni tentativo
di congiura ; e la cosa non avrebbe avuto le grandi pro
porzioni che prese, se all’ agitazione che già s’ era mani
festata nei Romani, ai sospetti già fieramente accesi nel
l’ animo di Teodorico, non si fosse aggiunto l’ intervento
inaspettato e spontaneo d’ un personaggio di grande re
putazione ed autorità.
Il senatore Boezio della illustre famiglia Anicia era stato
amico di Teodorico, e ne aveva fatto l’ elogio in Senato;
nel 510 era stato Console, dignità che nell’ anno 522 venne
contemporaneamente conferita ai suoi due figli, fatto ec
cezionale davvero. Egli era studiosissimo dell’ antica filo
sofia, sopra tutto di Aristotele, di cui aveva commentato
la Logica; di Platone e dei Neoplatonici. Aveva tradotto
dal greco opere di matematica e di magia ; aveva scritto
opere filosofiche, ed anche teologiche: Cassiodoro ce lo
descrive come un uomo enciclopedico. « A lui si ricorse,
egli dice, quando si voleva costruire un orologio ad acqua,
ed uno a sole pel re dei Burgundi; quando si cercava
un buon citaredo per mandarlo al re Clodoveo, e cosi
pure quando si volle scientificamente esaminare se era
stata alterata la moneta con cui venivano pagati i s o l
dati. » Egli era un cristiano, ammiratore dello spirito dell’ antica Roma, animato fino all’ entusiasmo da un senti
mento stoico e neoplatonico. Una prova di questo suo
esaltamento si vide nel modo con cui si gettò nella p e
ricolosa disputa, a proposito di Albino. Ne difese a viso
aperto l’ innocenza, sostenendo esser falsa l’accusa fattagli
da Cipriano, aggiungendo che i sentimenti d’Albino erano
quelli di tutto il Senato; che congiura non v’ era stata,
e se vi fosse stata, nessuno dei Senatori l’ avrebbe ri
velata. Cipriano allora portò falsi testimoni, che riconfer
marono l’ accusa mossa contro Albino, estendendola anche
a Boezio. E così furono ambedue chiusi in carcere.
Non sappiamo qual fosse il destino finale di Albino,
ma Boezio venne processato e condannato dal Senato.
La forma del processo ci è però ignota: non si può dire
con certezza se la condanna fu pronunziata da una com
missione o da tutto il Senato. Ma quest’ ultimo caso non
par probabile, se si pensa ai sospetti che Teodorico
continuò sempre ad avere contro i Senatori. Non si sa
neppure qual fosse veramente la sentenza pronunziata
contro Boezio, che se aveva con troppa audacia sparlato
del Re, aveva però a viso aperto difeso il Senato. Assai
probabilmente venne da una commissione condannato al
carcere, pena che più tardi Teodorico, accecato dall’ ira,
mutò di suo arbitrio in una morte crudele, anzi barbara
addirittura.
Nella lunga prigionìa Boezio scrisse la sua Consolatio
Philosophiae, che è la propria confessione ed apologia, il
libro che rese immortale il suo nome. « Di che cosa sono
io accusato?, egli diceva. Di avere amato la libertà di
Roma, difeso la dignità del Senato. » Chiamava corrotti
i suoi accusatori, e si doleva di essere stato condannato,
senza venir prima interrogato, da quel Senato stesso
di cui aveva assunto le difese. La ragione dell’ accusa,
egli proseguiva, « furono gli odii contro di me suscitati
nell’ adempimento del mio ufficio, opponendomi io alle
ingiustizie di cui erano vittime i provinciali romani.
L ’ avidità dei barbari, sempre impunita, diveniva ogni
giorno maggiore verso le terre dei provinciali, dei quali
assai spesso volevano la testa, per aver poi gli averi.
Quante volte non difesi e protessi i miseri contro le
infinite calunnie dei barbari, che volevano divorarli!»
Questo libro dettato nel carcere, senza F ampollosa re
torica di Cassiodoro, in buona e corretta prosa latina,
di tanto in tanto interrotta da versi, è un vero inno alla
virtù. E fu scritto colla certezza della morte vicina, per
chè la irritazione di Teodorico, già arrivata al colmo, di
venne, come era naturale, per questo audace linguaggio,
addirittura furibonda. Boezio si dichiarava apertamente
difensore della giustizia e degli oppressi, pei quali non
aveva mai ricusato nessun sacrifizio. « Gloria, potenza, ric
chezza, egli continuava, sono vanità. Solo la virtù ha va
lore, essa sola rende l’uomo veramente libero. Iddio che è
il sommo bene, cui 1*universo intero aspira, deve essere
anche la mira costante del filosofo. » Fra i caratteri più
singolari del libro, che ebbe una prodigiosa popolarità
in tutto il Medio Evo, e fu tradotto in ogni lingua, v ’ è
ancora questo, che, leggendolo senza conoscerne Fautore,
sarebbe difficile dire se esso è l’ opera'd’ un pagano o
d’ un cristiano. È di certo la manifestazione d’ un eroismo,
che potrebbe credersi pagano e cristiano ad un tempo.
Non si può affermare che vi sia nulla di sostanzialmente
contrario al Cristianesimo, ma è strano davvero che un
cristiano, il quale s’ apparecchia alla morte, non accenni
una sola volta nè al Paradiso, nè all’ Inferno, nè a Cri
sto, e neppure alla speranza d’ una vita futura. Pare il
linguaggio d’ uno stoico, tanto che per qualche tempo
si giunse a dubitare se Boezio fosse stato davvero cri*
stiano e autore delle opere religiose a lui attribuite. Ma
la grande popolarità che nel Medio Evo godette il suo
libro fra i Cristiani, rendeva assai difficile ammettere
il dubbio, ed oggi la critica storica lo ha interamente
eliminato. C’ è in lui qualche cosa che ricorda i Neo*
platonici italiani del secolo xv, come Marsilio Ficino e Fico
della Mirandola, nei quali Paganesimo e Cristianesimo
sembravano fondersi e confondersi in una dottrina sola.
1 cospiratori allora affilavano i pugnali contro i tiranni,
invocando Bruto, e nello stesso tempo si raccomandavano
alla Madonna, perchè guidasse il loro braccio, e non fa
cesse fallire il colpo omicida.
Teodorico si decise finalmente a far morire il prigioniero.
Una fune venne legata intorno al capo di Boezio così
strettamente, che gli occhi quasi ne schizzarono fuori, ed
allora con un colpo di mazza sulla testa lo finirono (524).
Nè contento di ciò, Teodorico, che aveva ormai perduto
il dominio di sè, temendo che Simmaco, capo dei Se
nato, anch’ esso della famiglia Anicia, e che aveva dato
sua figlia in moglie a Boezio, potesse voler vendicare il
parente suppliziato, fece prendere e porre a morte anche
lui, senza neppur fargli processo. Ciò dimostra che Albino
e Boezio non erano soli ad avere sentimenti romani nel
Senato, e fa quindi sempre più credere che questo non sa
rebbe stato allora concorde a pronunziare, per ragioni po
litiche, la sentenza di morte contro uno dei suoi membri.
A papa Ormisda era successo Giovanni I (523-6), che si
mostrò lieto anch’ esso che l’ Imperatore perseguitasse gli
Ariani, ciò che spinse il furore di Teodorico fino al paros
sismo. Egli, nonostante la viva resistenza, costrinse il
Papa a partire per Costantinopoli, pretendendo che an
dasse colà a difendere la causa degli Ariani, a chiedere
la restituzione delle loro chiese; altrimenti minacciava se
vere rappresaglie. Il Papa assai di mala voglia parti per
l ’ Oriente, e fu accolto con grande entusiasmo. Ottenne
tutto quello che domandò nell’ interesse del Cattolicismo ;
nulla però, com’ era naturale, ottenne, nè gl’ importava
ottenere, a favore degli Ariani. Lo sdegno di Teodorico
fu tale allora che, quando Giovanni tornò, lo chiuse in
carcere, dove il 25 maggio 526 mori. Ed ora il R e volle,
per propria sicurezza, ingerirsi nella elezione del nuovo
Papa, indicando colui che fu poi eletto col nome di Eelice IIL Tutto questo destò d ’ ogni parte uno straordi
nario ed universale malcontento contro di lui. Pareva
che l’ Impero ed i Vandali, profittando della occasione,
fossero per mettersi d’ accordo, e muovergli guerra da
un momento all’ altro. Ma quando egli con febbrile atti
vità raccoglieva navi ed armati per difendersi, fu im
provvisamente sorpreso dalla morte.
In questa morte, avvenuta solo novantasette giorni
dopo quella di papa Giovanni, molti videro la mano di
Dio, e più d’ una leggenda s’ andò formando intorno ad
essa. Procopio racconta che, trovandosi Teodorico ad
un banchetto, gli fu portato un grosso pesce, il quale,
digrignando i denti e rivolgendo minacciosamente gli
occhi, pareva che assumesse le sembianze di Simmaco.
Spaventato di ciò, il R e si senti preso da brividi che
10 costrinsero a mettersi in letto, dove non vi furono
panni che bastassero a riscaldarlo, ed il 30 agosto 526, in
età di settantadue anni, fu da una forte dissenteria condotto
a morte. Un’ altra leggenda, narrata assai più tardi nei
Dialoghi di Gregorio Magno, racconta che un collettore
di tasse, passando per V isola di Lipari, vi trovò un ere
mita che subito esclamò: — È morto Teodorico! — Come
mai, rispose r altro, se non è molto che io lo lasciai in
buona salu te?— Eppure, soggiunse l’ eremita, io l ’ ho
visto or ora passare colle mani legate, fra papa Gio
vanni I e Simmaco, ed essere gettato nel cratere del
Vulcano di Lipari. — Questa leggenda si connette assai
probabilmente al fatto, che qualche tempo dopo la morte,
11 corpo del R e non fu più trovato nel suo mausoleo, e se
ne perdè ogni traccia. Nel 1854 si credette che alcuni mu
ratori, i quali scavavano la terra non molto lungi dal mau
soleo, avessero trovato colà sepolto il suo cadavere. Ma
anche allora, per colpa di quegli operai mal fidi, tutto
scomparve insieme colla corazza d’ oro, che era stata
del pari trovata, e di cui solamente alcuni brani si sal
varono.
Teodorico, morendo, lasciava la figlia Àmalasunta, ve
dova per la morte già avvenuta del marito Eutarico,
da cui aveva avuto un bimbo, Atalarico, che era allora
di dieci anni circa. E però, quando Teodorico si sentì vi
cino a morte, chiamati intorno a sè i capi dei Goti,
presentò loro il nipote, raccomandando, come dice Jordanes, «ch e lo rispettassero quale loro re, amassero il
Senato ed il popolo romano, tenessero soddisfatto e
propizio l’ Imperatore: Principemque orientale placatimi,
semperque propitium haberent post Deum. » Necessaria
mente il governo venne di fatto nelle mani della madre
Àmalasunta, la quale aveva avuto un’ educazione romana;
parlava il .goto, il greco ed il latino. Ella ci è descritta
come bella e d’ animo virile; ma in realtà non riuscì pari
alle molte e gravi difficoltà in mezzo alle quali si trovò.
A tempo di lei non solo l’ Impero d’ Occidente si decom
pose affatto, ma s’avviò a rovina anche il regno ostrogoto.
E prima di tutto, la sua successione al governo, non
approvata dall’ Imperatore, non era, neppure secondo le
consuetudini gote, legale. Si cercò di rimediarvi, facendo
prestare giuramento dal popolo goto e romano ad Ata
larico, che a sua volta dovè giurare ad essi ed al Senato.
J u ra t per quem juratis, scriveva Cassiodoro (V ili, 3), il
quale divenne ora nella Corte piu potente che mai; fu
Maestro degli uffici, Questore, e più tardi Prefetto del
Pretorio, tanto che diceva di sè stesso: Erat solns ad
universa sufficiens (IX , 25). Àmalasunta sembrava che vo
lesse seguire una politica mite e conciliatrice, senza troppo
allontanarsi dalla via seguita da suo padre nei primi anni
del regno. Restituì ai figli di Boezio e di Simmaco i beni
loro confiscati ; e nello stesso tempo, con singolare con
tradizione, favori ancora il partito avverso. Infatti Ci
priano, 1*accusatore, il calunniatore di Albino e di Boezio,
ritenne i suoi alti uffici. Sotto di lei vi furono Romani che
ebbero nell’esercito gradi elevati, e Goti che entrarono
nel Senato. <l> La forza delle cose la costringeva a tenere
una via diversa da quella seguita da Teodorico; e ciò
nella politica estera più ancora che nella interna.
Il concetto d7una grande confederazione barbarica,
sotto la presidenza del re ostrogoto, andò in fumo. L ’ Ita
lia si trovò isolata, ed a Costantinopoli s’ aveva ora assai
buon gioco, e si cercò presto di trarne profitto. Intanto
Amalasunta faceva scrivere da Cassiodoro, in nome di
Atalarico, una lettera che diceva all’ Imperatore: « Mio
avo fu innalzato da Onorio alla dignità di Console, mio pa
dre fu da voi adottato p e r arma fi lia s ; questo è un titolo,
ch ea me adolescente s’ addice anche m eglio» ( V ili, 1).
Ma nulla s’ ottenne da Giustino, che anzi l’ Italia meri
dionale si trovò da lui minacciata di guerra, tanto che fu
allora appunto che Cassiodoro dovè accorrere per assu
merne coi suoi la difesa. A settentrione minacciavano i
Gepidi; all’ interno v’ era un grandissimo scontento fra i
Goti, i quali si dolevano aspramente, che il giovane Ata
larico venisse educato alla romana piuttosto che alla gota,
alle lettere piuttosto che alle armi. Nel 527 Giustino as
sociava all’Impero suo nipote Giustiniano, il quale dopo
quattro mesi (1° agosto 527), per la morte dello zio, di
venne Imperatore. Egli era un uomo assai più accorto,
che ad una grande ambizione univa un altissimo in
tigno. Riconobbe subito la successione di Atalarico e la
reggenza di Amalasunta, non per affetto che portasse
0) «
suhIODORO,
V i l i , 0, 9, 10, 11; X I, 1.
loro; ma perchè voleva assicurarsene il favore, medi
tando adesso di muover guerra ai Vandali. Finita questa,
avrebbe poi pensato ad attaccare l ’ Italia. Intanto era lieto
che il malumore dei Goti crescesse, perchè così si spia
nava a lui la via per mescolarsi nelle loro faccende, e
trovar futuri pretesti di guerra. Già i loro capi prote
stavano ogni giorno più vivamente contro Amalasunta,
per la educazione che dava al figlio. Teodorico, essi an
davano ripetendo, aveva giustamente affermato, che non
avrebbe saputo mai affrontare le spade nemiche colui
che temeva la sferza del pedagogo. Ed un giorno che il
fanciullo piangeva per una guanciata ricevuta, chi dice
dal maestro, chi dalla madre, le sdegnose proteste arri
varono a tale, che essa dovette cedere, affidandolo a capi
militari, i quali lo educarono fra le armi, le donne, il
vino, i cavalli. Ed egli allora, per questo subito muta
mento, datosi alla dissolutezza, cominciò a deperir tanto
nella salute, che si previde subito non poter vivere a
lungo.
In Italia si trovava un altro nipote di Teodorico per
nome Teodato; questi era figlio d’Amalafrida e di un
Goto, morto il quale, ella aveva in seconde nozze sposato
Trasamondo re dei Vandali, l’uno e l’altro già morti adesso.
Da lei Teodato aveva ricevuto un’ educazione romana, ed
era divenuto appassionato cultore delia letteratura latina
e della filosofia di Platone, il che lo rendeva poco accetto
ai Goti. Pure, secondo le loro consuetudini, la successione
sarebbe toccata a lui, come figlio d’una sorella di Teo
dorico, in caso che Atalarico fosse morto prima, cosa che
pareva assai probabile. Ambizioso ed avido, egli s’ era
reso poco accetto anche ai Romani, per le sue prepo
tenze. Teodorico gli aveva concesso vaste terre in To
scana, ed egli le aveva, a forza di astuzie e di prepo
tenze, aumentate in modo da rendersi padrone di quasi
tutta quella regione. Amalasunta dovette quindi porre
un freno a queste ingiustificate spoliazioni, e ciò le rese
Teodato avverso per modo che cominciò a tramare contro
di lei a Costantinopoli.
L ’ avversione dei Goti per Amalasunta era intanto
giunta a tale, che ella dovette mandarne ai confini tre
dei più potenti e riottosi. Tuttavia si sentiva sempre
cosi poco sicura, che si rivolse anch’ essa a Giusti
niano, al quale aveva, come vedremo, reso già assai
utili servigi nella guerra contro^ i Vandali (5BB). Vo
leva rifugiarsi presso di lui, ed a sua dipendenza gover
nare poi l’ Italia. Giustiniano, come è naturale, accolse
la proposta; e già le aveva apparecchiato splendido al
loggio a Durazzo ( Dyrrachium), dove essa spedi so
pra navi i tesori dello Stato, 40,000 aurei. Ma Ama
lasunta, che era donna assai mutabile, essendo in questo
mezzo riuscita a disfarsi dei tre Goti che aveva confi
nati, richiamò le navi e depose a un tratto ogni pensiero
di lasciare l’ Italia.
Giustiniano allora, non sapendo qual fosse veramente
l’animo di lei, mandò tre ambasciatori per indagarlo (5B4).
Egli adesso aveva vinto i Vandali, e s’ apparecchiava a
fare l’impresa d’ Italia. Aveva in passato chiesto ad Ama
lasunta la fortezza di Lilibeo (Marsala) in Sicilia, e la
chiedeva ora nuovamente. Questa fortezza era stata con
cessa in dote ad Amalafrida ; e i Goti ritenevano che, per
la morte di lei, tornasse di diritto a loro. Giustiniano
invece riteneva che, avendo egli sottomesso i Vandali,
la fortezza spettasse a lui, e la chiedeva con insistenza
anche perchè gli poteva giovare non poco nel cominciare
l’ impresa d’ Italia. Amalasunta 1’ avrebbe facilmente
ceduta; ma temeva lo sdegno del suo popolo, e però
esitava.
Il 2 ottobre 534 moriva Atalarico, ed Amalasunta si
trovò in una nuova, difficilissima condizione. Non poteva
essere regina, perchè le leggi dei Goti non lo consen
tivano ; non poteva essere reggente, perchè il figlio era
morto; non poteva quindi neppur trattare in proprio nome
con Giustiniano. Capì allora che ‘bisognava rivolgersi a
Teodato, e gli propose d’ associarsi a lei nel governo del
l’ Italia. Sperava di contentarlo coll’apparenza del potere,
che egli invece intendeva assumere ben presto nelle sole
sue mani. Ma intanto le lettere sempre ampollose e re
toriche, scritte da Cassiodoro in loro nome, annunziavano
all’ Imperatore la nuova unione: « Come il corpo umano
ha due orecchie, due occhi, due mani, così il regno goto
ha ora due sovrani. » E con altre lettere, scritte sempre
da Cassiodoro, essi facevano vicendevolmente le proprie
lodi presso l’ Imperatore, e dinanzi al Senato. Pare che
Giustiniano, persuaso che non vi fosse da temer grande
resistenza da parte di due sovrani deboli e discordi, si
dimostrasse pronto a riconoscerli senza difficoltà. Ma in
tanto Teodato, già stanco d’avere il secondo posto, riuscì
a confinare Amalasunta nel lago di Bolsena, dove fu ben
presto strangolata nel bagno (585) dai parenti di quei
Goti, che essa aveva fatti uccidere. Procopio, nei suoi
Anecdota,, pretende che istigatrice di questo assassinio
fosse stata l’ imperatrice Teodora, la quale temeva che
Amalasunta, venendo a Costantinopoli, avesse colla sua
bellezza potuto esercitare troppo grande predominio
sull’ animo dell’ Imperatore. Teodato da parte sua si di
chiarò affatto innocente, ma nessuno gli credette, mas
sime quando si vide che gli uccisori furono da lui pre
miati. Chi intanto da tutto questo potè veramente cavar
vantaggio fu Giustiniano. Appena che Amalasunta era
stata messa in prigione, egli aveva protestato, dicendo
che l ’ assumeva sotto la sua protezione. E quando la
seppe uccisa, egli, sotto l'apparenza di vendicare la giu
stizia offesa, si credette in pieno diritto di muover con
tro Teodato e gli Ostrogoti quella guerra, che già da
lungo tempo meditava.
CAPITOLO V
Giustiniano e Belisario - La guerra vandalica
Il principio della guerra gotica
Ci è forza ora tornare un passo indietro, per parlare
di Giustiniano, che cosi gran parte ebbe nelle cose
d’ Italia.
Egli nacque nella Dardania l’ anno 482 o 83; ebbe a
Costantinopoli una educazione ed istruzione greco-romana.
Nel 521 fu da suo zio Giustino nominato Console. Ed in
questa occasione vi furono feste straordinarie davvero,
nelle quali si spesero 280,000 aurei, e furono adoperati
venti leoni, trenta pantere ed altri animali feroci. Questo
fu il primo segno di quel sontuoso lusso, di cui Giustiniano
fu sempre assai vago, in parte per sua propria indole, in
parte perchè lo credeva utile a crescergli autorità presso
le moltitudini. Nel 527 venne associato all’ Impero da suo
zio, cui poco dopo successe. Egli era certamente un uomo
di grande ingegno, ed aveva un alto concetto dell’ Im
pero, che voleva restaurare in Occidente. Mirabile fu in
lui l’ attitudine a scegliere le persone adatte all’ attua
zione de’ suoi disegni. Questo si vide nella scelta che fece
prima di Belisario, poi di Narsete, il quale a sessant’ anni
venne per la prima volta messo alla testa d ’ un esercito, e
riuscì ottimo generale. La stessa felice attitudine dimostrò
nella elezione di Triboniano e degli altri che chiamò a com
pilare il Corpus Juris, non che degli architetti che costrui
rono il meraviglioso tempio di Santa Sofia. Non aveva però
capacità amministrativa; profondeva danari nelle opere
pubbliche, nelle molte fortezze che costruì, nelle continue
guerre. Tutto questo lo portò ad aggravar di tasse il po
polo, provocando un gran malcontento, che, aggiunto alla
continua mancanza di danaro, piu d’ una volta mandò a
monte i disegni meglio concepiti. Oltre di ciò s’ innamorò
d ’ una bella e trista donna, che fu addirittura una specie
di Lady Hamilton, dissoluta, crudele e di un orgoglio
smisurato. Figlia d’ un guardiano delle bestie del circo,
morto il padre, essa si sarebbe, secondo la pubblica fama,
prostituita a tutti, mostrandosi anche nuda nel teatro ; e
finalmente, tornata dopo molte peregrinazioni a Costan
tinopoli, sposò Giustiniano, che, salito sul trono, la volle
partecipe al governo. Certo è però che d’ allóra in poi
ella seppe frenarsi, menando vita decorosa, e si dimostrò
donna di molto ingegno, di grandissimo coraggio.
La fonte principale e piu autorevole di tutto questo
tempo ò Procopio, che accompagnò Belisario nelle sue
guerre, delle quali ci lasciò un diario fedele e prezioso.
P iù tardi egli scrisse una seconda opera, conosciuta col
titolo di Storia arcana o anche Anecdota, nella quale di
mostrò contro Giustiniano e Teodora un’ avversione di
cui non v’ è traccia nella prima storia. Pare che, dopo la
loro morte, si sentisse più libero nello scrivere, e che
ciò lo inducesse a parlare assai più chiaro, qualche volta
anche ad eccedere ne’ suoi giudizi.
Quello che più di ogni cosa tramandò ai posteri il nome
d i Giustiniano fu la sua opera legislativa. Varie commis
sioni da lui nominate, sotto la presidenza di Triboniano,
riunirono in diverse raccolte tutte le fonti del diritto
romano, aggiungendovi anche un Manuale (Institutiones)
pei principianti, e formando cosi quel Corpus Juris,
che è la gloria principale di Giustiniano. Una di queste
raccolte è il Codice {Codex constitutionum,), collezione
in dodici libri degli Editti imperiali ; la più importante
è però quella conosciuta col nome di Digesto o Pan
dette. In essa la Commissione riassunse tutti gli scritti
classici dei giureconsulti, scritti che contenevano i loro
pareri sulle Leges e sui Senatus-consulta, di cui qualche
volta riproducevano preziosi frammenti. Fu un’opera ve
ramente immane, divisa in cinquanta libri, nei quali erano
compendiati duemila volumi. E venne condotta a termine
nel breve spazio degli anni 580-33. Ciò che domina in tutto
quanto il Corpus Juris è il concetto dell’ assoluta auto
rità imperiale, uno spirito coordinatore ed accentratoro,
che era il carattere di quel tempo, privo d’ ogni produt
tiva originalità intellettuale, come si vide anche nella
filosofìa e nella teologia. Gran torto fece a Giustiniano
l’ avere per eccessivo zelo religioso, soppresso la scuola
di filosofia greca in Atene, che sebbene fosse già deca
duta, aveva pur sempre un nome antico e gloriose tra
dizioni.
Nonostante le grandi qualità e le grandi opere di Giu
stiniano, la sua cattiva amministrazione, le continue spese,
le tasse oppressive produssero ben presto uno straordi
nario malcontento. Si aggiungeva ancora un profondo dis
senso religioso fra i Monofisiti, che erano protetti dalla
Imperatrice, e gli Ortodossi, che erano sostenuti dall’ Im
peratore. E tutto ciò condusse ben presto ad una violenta
rivoluzione, la quale scoppiò nell’ Ippodromo, dove la mol
titudine era già divisa negli Azzurri, che inclinavano ai
Monofisiti, e nei Verdi, che inclinavano agli Ortodossi.
Una tale divisione turbava allora ed agitava tutte le prin
cipali città dell’ Impero; ma a Costantinopoli essa aveva
preso proporzioni addirittura spaventose. L ’Imperatore fa
nell’ Ippodromo insultato con una indegna violenza di lin
guaggio, specialmente da parte degli Azzurri, che, accu
sandolo di favorire i Verdi, gli davano di ladro, di tradì-
toro, di asino. Per mostrarsi imparante, egli feoe uooidere
alcuni malfattori dell’ uno e dell’ altro partite, ma oiò iovece li uni tutti contro di lui. La rivoluzione ohe ne segui
ebbe il nome di Nika (Vittoria), dal motto d’ ordine, ohe
avevano assunto i due partiti temporaneamente riuniti. In
conseguenza di essa, scoppiò un inoendio, ohe durò oinque
giorni, accumulando grandi rovine ; e venne proclamato
perfino un nuovo Imperatore, tanto ohe Giustiniano, per
suaso di non poter più resistere, voleva abbandonare Co
stantinopoli e l’ Impero. Teodora diè prova allora del suo
virile coraggio. — Morire bisogna pure una volta, ella
esclamò al marito, ma condurre l’ esistenza da principe
fuggiasco non è vita. Fuggi, se tu vuoi, io non voglio vi
vere senza la porpora. — £ allora venne chiamato il gio
vane Belisario, il quale condusse la repressione con tale
energia, che si parlò di 35,000 morti. Ipazio, che era il
nuovo imperatore proclamato dai ribelli, fu anch’ egli uc
ciso, e Giustiniano restò finalmente sicuro sui trono (532),
che dovette a Teodora ed a Belisario.
L ’ Impero di Costantinopoli era una singolare mesco
lanza, non solo di Greci e di Romani, ma di popoli diver
sissimi: Slavi, Bulgari, Turchi, Firmi, Armeni, Persiani,
Egiziani, anche Mori. £ tutte queste genti di razze, di
costumi, di religioni, di lingue diverse, che non pote
vano essere unite da spirito nazionale, erano unite dalla
legge e dalla disciplina romana. È questo un fatto ve
ramente straordinario, reso ancora più notevole dalla
lunga durata che, in mezzo a tante rovine, ebbe l’Impero
d'Oriente, fino cioè alla metà del secolo xv. L'Im pera
tore, che si trovava alla testa dello Stato e della Chiesa,
aveva ai suoi ordini una burocrazia accentrata e po
tente, una diplomazia accortissima, un esercito valoroso,
che ai tempi di Giustiniano si faceva ascendere a circa
150,000 nomini. Composto principalmente dalle popola
zioni montanare della Tracia, del Tanro, della Valachia,
non fu in tutti i tempi uguale a sé stesso ; ma piti volte
dette splendide prove del suo valore, ed ebbe una serie
di generali di merito veramente eccezionale. Questi so
levano come Belisario, che fu certo dei più illustri, avere
anche una propria guardia d ’ alcune migliaia di soldati
scelti, da essi dipendenti e da essi pagati. La flotta, che
era composta di gente venuta dall’ Asia Minore, dalla
Tracia, dalla Grecia, mantenne del pari lungamente ono
rato il suo nome.
Giustiniano acquistò una grande importanza storica pel
fermo proposito che ebbe di restaurare l’ antica unità,
l’ antico splendore dell’ Impero, iniziando una grande rea
zione del Romanesimo contro il Germanesimo : reazione
che per qualche tempo fu davvero trionfante, sino a che
la mancanza d’ industria e di commercio, lo scontento
prodotto dalle tasse eccessive e dalle angherie del fisco,
la corruzione e le gelosie della. Corte, che alimentavano
sempre la discordia dei generali, non mandarono a rovina
un’opera gloriosamente iniziata, e favorita anche dalla for
tuna. Lo strumento principale di questa impresa fu Belisa
rio. Nato (606) nella Dardania, come Giustino e Giustiniano,
egli entrò assai giovane nell’ esercito, e diò subito prove
di grandissimo valore nella guerra contro i Persiani (530),
nella quale con 26,000 uomini potò respingerne 40,000.
Conchiusa la pace, tornò a Costantinopoli dove, come ve
demmo, ebbe occasione di domare la rivoluzione del 632.
Aveva allora già sposato Antonina, una donna che molto
somigliava a Teodora. Figlia anch’ essa di gente dell’ I p
podromo, e già due volte madre quando sposò Belisario
assai più giovane di lei, dissoluta, energica, intrigante,
esercitò sul marito, ohe accompagnò in tutte le imprese
militari, un’ azione grandissima, la quale riusci spesso a
lui funesta.
Scopo principale di Giustiniano fu il riconquistare
l’ Italia all’ Impero; ma per ciò fare occorreva assicurarsi
prima le spalle, ripigliando l’Africa, dopo aver vinto i
Vandali. Colà da un pezzo i disordini interni e la conse
guente debolezza del regno non erano molto diversi da
quel che abbiamo visto in Italia. Nel 528 era salito sul
trono Ilderico, poco atto alle armi, che dalla madre Eudocia, figlia di Valentiniano III, aveva ereditato simpatie
romane e cattoliche. Questo provocò nei Vandali una rea
zione del sentimento ariano e barbarico, tale che ne scop
piò una rivoluzione, promossa da Amalafrida sorella di
Teodorico, e vedova di Trasamondo, al quale era successo
Ilderico. La rivolta fu domata, ed Amalafrida venne messa
in carcere, dove restò fino alla morte di Teodorico, quando,
non essendo più necessario usarle riguardi, la uccisero. Si
accese perciò un odio profondo tra gli Ostrogoti ed i Van
dali, che tornò a vantaggio di Giustiniano, il quale potè
sperare, come difatti avvenne, d’ essere secondato dai
primi nel combattere i secondi. Ma Ilderico non restò a
lungo sul trono, perchè i Vandali ne lo cacciarono, po
nendovi invece Gelimero (531), nomo bellicoso, senza
simpatie romane. E anche da ciò Giustiniano seppe trarre
profitto, pigliando occasione a muover guerra ai Van
dali, dal pretesto di voler difendere tanto il giusto di
ritto d’ Ilderico, quanto i sentimenti romani e ortodossi
d i bri.
Nel 533 salpava finalmente da Costantinopoli una
flotta condotta da un numero assai grande di marinari,
con un esercito di ÌO.OCO fanti o d o 8000 cavalieri, la piu
p arte della Tracia. Li comandava Belisario, che era ac
compagnato dalla moglie e da Procopio, il quale era stato
suo segretario anche in Persia. Sotto Belisario combat
teva il valoroso capitano armeno Giovanni. Dopo due mesi
d ’ una navigazione piena di pericoli, arrivarono a Catania.
dove poterono liberamente sbarcare, perchè avevano il
favore degli Ostrogoti. Colà seppero che i Vandali erano
affatto ignari della loro venata, tanto che il fratello di
Gelimero era andato ad una impresa militare nella Sarde
gna. Dato quindi V ordine della partenza, Belisario sbarcò
ben presto a nove giorni di marcia da Cartagine. Si pre
sentò in Africa non come un conquistatore, ma come un
liberatore dei Cattolici, dei Romani, del clero e dei pro
prietari, tutti ugualmente oppressi dai Vandali, eretici,
stranieri e barbari. Dette ai suoi soldati ordine severis
simo di rispettare le proprietà e le persone ; e col favore
delle popolazioni potè condurre assai fortunatamente la
guerra. Il 13 settembre ebbe luogo la prima battaglia,
ohe fu da lui vinta, nonostante il numero superiore dei
nemici. Il 15 entrò in Cartagine, e prese alloggio nel
palazzo stesso di Gelimero, dove invitò i suoi uffiziali
superiori al pranzo, che il re vandalo aveva, nel giorno
precedente, apparecchiato per sè e per i suoi, ritenen
dosi siouro della vittoria.
Ritiratosi allora nella Numidia, dove fu raggiunto dal
fratello venuto in fretta dalla Sardegna, Gelimero dette
una seconda battaglia, che andò anch’essa perduta. E cosi,
dopo avere assistito allo scempio de’ suoi, dopo aver per
duto il proprio fratello, si ritirò in mezzo ai Mori, soste
nendo ogni sorta di crudeli privazioni. Narra la leggenda,
che si ridusse a tale estremità da dover supplicare B e
lisario, perchè gli mandasse un pezzo di pane, chò da
più tempo non ne aveva avuto ; una spugna per lavarsi
gli occhi, dal lungo piangere divenuti malati; ed una
lira, per sollevar col canto lo spirito umiliato. Nel marzo
del 534 finalmente si arrese, e fu allora assai onorevol
mente accolto da Belisario.
Il resultato più notevole di questa guerra fu che i
Vandali, dopo avere portato tanto terrore, tante rovine
nell’ Impero, scomparvero affatto dalla storia, senza che
più se ne sentisse parlare. Questa rapida caduta dovette
essere in gran parte conseguenza del loro governo op
pressivo e male costituito, come più sopra accennammo.
Molti di essi furono mandati ai confini dell’Impero, verso
la Persia ; non pochi vennero incorporati nell’esercito di
Belisario, ed alcuni furono ammessi addirittura a far parte
delia sua guardia. Quelli che, per conto proprio, rimasero
in Africa, ebbero confiscati i beni, e furono cacciati dalle
loro chiese, messi in carcere o fatti schiavi.
Dopo una sì pronta vittoria si cominciarono subito a ve
dere le conseguenze di quella gelosia, di quella discordia
che, ora come sempre, era il verme roditore della Corte
bizantina. Quando Belisario aveva in tre mesi compiuta
una campagna che sembrava miracolosa, e doveva perciò
aspettarsene riconoscenza ed onori, cominciò invece a
sentire i morsi dell’ invidia e della calunnia, che lo lace
rarono sanguinosamente. Lo avevano accusato presso
l’ Imperatore di sfrenata ambizione, dicendo che voleva
farla da re, avendo osato assidersi sul trono stesso di
Gelimero. Giustiniano insospettito, lo invitò a mandare
subito i prigionieri a Costantinopoli ; ma Belisario volle
andarvi anch’ egli, per smentire le accuse degl’ invidiosi.
Il suo ingresso fu trionfale davvero : precedevano i pri
gionieri, fra cui lo stesso Gelimero, insieme con le spo
glie ricchissime. Fra queste erano anche quelle che dal
Tempio di Gerusalemme Tito aveva menate a Roma, di
dove Genserico le aveva portate in Africa. E Giustiniano
temendo che, come ai Romani ed ai Vandali, cosi anche a
lui portassero sventure, le restituì al luogo di loro prima
origine. In Africa rimase un governatore, e si mandò su.bito un eseroito d ’ impiegati, che incominciarono a tor
mentare, a dissanguar colle tasse il paese.
Ed ora Giustiniano rivolse il suo pensiero alla guerra
d’ Italia. La uccisione di Amalafrida, che aveva seminato
odio fra gli Ostrogoti ed i Vandali, gli aveva offerto un
primo pretesto. Trovandosi inoltre, per la disfatta dei
Vandali, padrone dell’ Africa, chiedeva, con maggiore in
sistenza, la fortezza di Lilibeo in Sicilia ; ed Amalasunta,
come vedemmo, esitava ancora, non volendo offendere
sempre più l’ amor proprio nazionale degli Ostrogoti, a
lei già assai poco benevoli. Quando però, dopo la morte
di Atalarico (584), Teodato la confinò, e poi la fece uc
cidere (535), Giustiniano che l’ aveva presa sotto la sua
protezione, disse di volerla vendicare, e si decise a co
minciare la guerra.
Amalasunta era morta nella primavera, e già nella state
un esercito di tre o quattro mila uomini partiva da Costan
tinopoli per la Dalmazia, a combattere i Goti che erano
colà. Cosi si costringeva il nemico a dividere le sue
forze, e si rendeva più facile il vincerlo in Italia, dove
già s’ era avviato Belisario con un esercito di 7500 uo
mini, oltre la sua guardia. Questo esercito, composto anch’ esso principalmente di montanari della Tracia, della
Georgia, dell’ Isauria, fece ben presto prodigi di valore.
Belisario, ohe lo comandava, disse un giorno a Proeopio,
che egli doveva in gran parte le sue vittorie alla caval
leria, la quale era stata da lui riformata. S’ era accorto,
che la cavalleria gota combatteva solo col giavellotto e
la spada, occupata principalmente a difendere la fante
ria, quando era impegnata corpo a corpo col nemico. Pensò
quindi a fondare la forza del suo esercito sugli arcieri
a cavallo, educandoli a questa nuova forma di combatti
mento. Ma nonostante il suo valor personale, i suoi in
finiti accorgimenti, la sua capacità strategica, egli non
avrebbe mai, con le poche sue genti, per quanto valorose,
potuto fare tutto quello che fece, se non avesse avuto il
favore e la cooperazione dei Romani, ai quali, con molta
accortezza, seppe presentarsi fin dal principio, come ano
che veniva a liberarli dal giogo barbarico e dalla perse
cuzione ariana, ed anche come un restauratore dell’ an
tica grandezza romana.
Infatti, appena sbarcato in Sicilia, tutti gli aprirono
le porte, e potò facilmente percorrere l’Isola in lungo
ed in largo, senza trovar vera resistenza che a Palermo,
dove era una forte guarnigione gota, difesa dalle mura.
Belisario allora fece entrare nel porto alcune navi cari
che di soldati, i quali, arrampicandosi agli alberi di esse,
poterono inaspettatamente coi loro archi saettar dall’alto
nella città, con grande maraviglia e spavento della guar
nigione, che poco dopo s’ arrese. In sette mesi la Sicilia
fu riconquistata all’ Impero. Alla nuova di questi fatti
Teodato rimase cosi impaurito, che già voleva cedere,
offrendo addirittura di rinunziare allo Stato, mediante
una rioca pensione. Ma quando la sua proposta era stata
accolta, gli pervenne notizia di qualche rovescio avuto
dagl’ imperiali in Dalmazia, e subito, mutato animo, non
volle più arrendersi. Poco dopo, verso la fine del 636,
g l’ imperiali riguadagnarono anche colà il terreno per
duto, entrando in Salona, la moderna Spalato; ed allora
fu Giustiniano a non voler più sentir parlare di patti e
di accordi con Teodato. Ogni decisione dovette quindi
essere inesorabilmente rimessa alle armi.
Se non che, appunto allora Belisario venne improvvi
samente chiamato d ’ urgenza nell’ Africa, dove, per la ti
rannia e la incapacità di chi governava, era scoppiata
una minacciosa rivoluzione capitanata da un tale Stuzza,
ch e pareva volesse formare un principato indipendente,
e si trovò subito alla testa di 8000 ribelli, cui s’ aggiunse
u n migliaio di Vandali. La vita del governatore imperiale
s i trovò in grave pericolo, il moto si estendeva minac
c io s o ; ed egli corse subito insieme con Procopio in Si
cilia, per informare di tatto Belisario, che parti come un
fulmine, e si trovò in Cartagine quando i ribelli s’ avvici
navano per impadronirsene. La notizia del suo improv
viso arrivo bastò a sgomentarli per modo, che si ritira
rono subito a cinquanta miglia dalla città, e colà furono
raggiunti da Belisario, che con soli 2000 uomini osò af
frontarli, e li debellò interamente. Dopo di che, saputo
che un altro valoroso generale, capace di mantenere sta
bilmente l’ ordine in quelle province, era già partito da
Costantinopoli, se ne tornò in Sicilia; e lasciata una pic
cola guarnigione in Siracusa, un’ altra in Palermo, passò
sul continente.
Anche qui egli potè procedere assai rapidamente, aiu
tato non solo dal favore delle popolazioni, ma anche dalle
diserzioni dei Goti, che incominciarono allora e furono
in tutta quella campagna assai frequenti. A Napoli però
la guarnigione e la popolazione si mostrarono decise a
fare aspra resistenza; e quando Belisario parlò coi capi
del popolo per indurli a cedere, li trovò insieme coi Goti
risoluti a tutto. Gli stessi Ebrei, che s’ erano adoperati
molto a procurare gli approvvigionamenti, fecero ad una
delle porte ostinata resistenza. Quel popolo adunque, ro
mano o italiano chè dire si voglia, che tanti scrittori pre
sumono spento del tutto, combatteva e contava ancora
nella decisione delle battaglie. Teodato intanto se n e
stava lontano, e non s’ indusse punto a mandare gli aiuti
urgentemente richiesti. Secondo la leggenda, consultò la
sorte in un modo assai singolare. In tre diverse stie pose
dieci maiali, distinguendoli coi nomi di Goti, di Romani
e d’ imperiali. Dopo dieci giorni, apri le tre stie, e trovò
che i Goti eran morti tutti, meno due; i Romani metà
eran morti e metà vivi, avendo però questi perduto le
setole; gl’ imperiali invece eran tutti vivi. E ne indusse
la disfatta dei Goti e la vittoria degl’ imperiali con la
cooperazione dei Romani, metà dei quali avrebbero per
duto la vita, metà i loro averi. È chiaro che una tale
leggenda riconosce anch’ essa nella guerra la coopera
zione dei Romani, la quale poi apparisce più volte mani
festa nella narrazione stessa di Procopio, sebbene questi,
come greco, cerchi sempre di attenuarla, dimostrando
poca o nessuna stima pei Romani. In ogni modo a Na
poli la resistenza fu tale, che Belisario, contro il suo
solito, ne fu addirittura sgomento, e pensava di ritirarsi,
quando seppe che si poteva, pei condotti dell’ acqua, en
trare inavvertiti nella città. Ed allora egli mosse da una
parte ad un fìnto assalto delle mura, per richiamare
colà l’ attenzione degli assediati, mentre che dall’ altra
600 de’ suoi, entrati per gli acquedotti, corsero improv
visamente alle porte, e dopo avere ucciso i soldati che
v ’ erano a guardia, le aprirono. Allora l’ esercito entrò,
e cominciò subito il saccheggio; ma Belisario, minac
ciando pene severissime, lo fece cessare. Cosi g l’ impe
riali furon padroni di Napoli, e presero prigionieri gli
800 Goti che la difendevano.
A Roma intanto lo sdegno contro Teodato, per la sua
condotta vigliacca, era giunto al colmo. E quindi raduna
tisi i Goti nella Campagna, lo deposero, eleggendo in sua
vece Vitige, che ben presto trovò modo di disfarsi di lui.
Pece poi divorzio dalla moglie, per sposare una figlia di
Amalasunta, colla speranza, certamente vana, di rendersi
così amico o meno avverso Giustiniano. Ma ormai solo il
ferro poteva decidere la lite; tutto il resto era inutile.
La elezione di Vitige, che Cassiodoro, pomposamente al
solito, annunziò a tutti come fatta € per grazia divina e
volontà libera del popolo, nell’ aperta campagna, » non
fu punto felice. Egli era un soldato valoroso, non già
un uomo di Stato, nò un buon capitano, ed aveva contro
di sò il primo generale del secolo. Cominciò coll’ abban
donare Roma, lasciandovi una guarnigione di 4000 uo
mini, ritirandosi verso Ravenna per riunire colà tutte le
sue forze. Non tenne conto dello straordinario effetto
morale, che avrebbe avuto l’ entrata di Belisario nell’ an
tica capitale del mondo. Questi sarebbe sempre più ap
parso come il restauratore dell’ Impero, e virtualmente
padrone dell’ Italia. Vitige intanto cercava da Ravenna di
far pace a qualunque costo coi Franchi, che Giustiniano
aveva tentato muovere contro di lui, per potere cosi as
salire i Goti da tre parti contemporaneamente: dalla
Galli a cioè, dalla Dalmazia, dall’ Italia meridionale. £
quindi Vitige, per poter ritirare le sue genti dalla
Gallia, ed ingrossare con esse il proprio esercito in Ita
lia, senza dover pensare a difendersi da più nemici ad
un tempo, cedette loro la Provenza e il Delfinato, pa
gando anche 2000 libbre d’oro, cose tutte certamente umi
lianti per lui. Ma il pericolo era assai grave, ed il tempo
stringeva.
Tutto andava invece per Belisario a seconda. Papa Silverio, che pur sembrava essere stato amico di Teodato
e di Vitige, lo invitava adesso a Roma ; ed egli, lasciata
in Napoli una guarnigione di soli 300 uomini, potè avan
zarsi per Cassino, favorito al solito non solo dalle popola
zioni, ma anche da altre diserzioni dei Goti. Fra il 9 ed il
10 dicembre 586, senza difficoltà, entrava in Roma per
la Porta Asinaria, mentre che i Goti ne uscivano per la
Porta Flaminia. E cosi, dice Procopio, dopo 60 anni d i
barbarico dominio, Roma tornò di nuovo all’ Impero. B e
lisario s’ istallò sul Pincio, di dove, dato uno sguardo alla
Città, piena ancora di quasi tutti gli antichi monumenti,
ordinò subito che si cominciasse ad approvvigionarla, ch e
si ponesse mano a restaurarne, fortificarne le mura. Co
struite 260 anni prima da Aureliano e da Probo, dopo
130 restaurate da Onorio, erano rimaste da quel tempo in
poi affatto trascurate, ed avevano quindi grande bisogno
di riparazione.
Vitige, che presso Ravenna raccoglieva quante più
genti poteva, era riuscito a mettere insieme 150,000 uo
mini, coi quali s’ avanzò verso Roma (537). Essendosi av
vicinato a Ponte Salario, la piccola guarnigione che Be
lisario v’ aveva posta si sgomentò per modo, che una
parte di essa, composta di barbari, disertò al nemico;
un’altra si ritirò, sbandandosi. Mille uomini che, nulla an
cora sapendosi dell’ arrivo d ’ un cosi formidabile esercito
nemico, erano stati mandati a rinforzarla, incontrate le
forze preponderanti dei Goti, dovettero retrocedere. Beli
sario allora, avvertito del pericolo, corse subito in aiuto,
gettandosi in mezzo alla mischia. Il suo cavallo aveva
sulla fronte alcuni peli bianchi, che formavano come una
stella, e però i Greci lo chiamavano Phalion, e i Goti,
Baiati. Non appena questi ebbero riconosciuto il gene
rale nemico, che subito tiravano tutti a lui, che ciò no
nostante restò miracolosamente illeso. Dopo essersi di
nanzi al suo impeto ritirati alquanto, i Goti, avuti altri
rinforzi, ritornarono all’assalto in così gran numero, che
gl’ Imperiali dovettero retrocedere più che di passo fino
alla Porta Salaria. La trovarono chiusa, nò vi fu modo di
farla aprire, perchè i Romani temevano che amici e ne
mici sarebbero entrati insieme. Il sole cadeva; si era
sparsa la voce che Belisario era morto ; e però, quando
egli sopraggiunse co’ suoi, gridando che aprissero, trasfi
gurato com’era pel lungo combattere, non fu riconosciuto,
e non gli dettero ascolto. Ma neppure in così grave mo
mento si perdè d’ animo. Visto il pericolo in cui si tro
vava, visto che i Goti già gli erano addosso, egli che
più d ’ una volta, per le subite, audaci risoluzioni, ci ap
parisce quale un Garibaldi d’ esercito regolare, rivoltosi
improvvisamente ai suoi, e stringendoli intorno a sè, li
condusse ad un ultimo impetuoso ed inaspettato assalto
contro il nemico, il quale, credendo che nuovi rinforzi
fossero allora usciti dalla Porta, si ritirò spaventato. E
cosi finalmente Belisario potò, alla testa de’ suoi, entrare
in Città, dove fu clamorosamente accolto.
C APITOLO V I
Roma assediata dai Goti
I Bizantini vittoriosi entrano in Ravenna
Ed ora incomincia il più lungo assedio di Roma, che la
storia ricordi. Esso durò dai primi del marzo 537 al marzo
inoltrato del 538, un anno e nove giorni, nel qual tempo
Belisario dette prove infinite del suo genio militare e del
suo valore. Egli era partito con un esercito di 7500 uo
mini, oltre la propria guardia; ma aveva per via perduto
parecchi de’ suoi, massime dinanzi a Palermo ed a Na
poli. Alcune guarnigioni aveva dovuto lasciare nelle
città principali dell’ Italia meridionale; e però si trovava
adesso, secondo Procopio, con un esercito di soli 5000 uo
mini, in una città che aveva 12 miglia di circuito. Resi
stere con tali forze ad un esercito di 150,000 uomini sa
rebbe stato impossibile addirittura, senza la oooperazione
efficace del popolo romano. E questa cooperazione appa
risce ora manifesta dalle parole stesse di Procopio, seb
bene egli cerchi al solito nasconderla. Certo nei casi più
difficili, nei punti più pericolosi il prode capitano fece as
segnamento principale sulle truppe regolari; ma nella di
fesa delle mura i Romani ebbero una parte notevole assai.
Fortunatamente esse erano state già restaurate, quantun
que in fretta, ad eccezione di quella parte ohe, presso la
Porta Flaminia \del Popolo\ è chiamata Muro torto. Que
sto era assai forte, e generalmente si credeva che fosse
sotto la protezione diretta di S. Pietro : nessuno infatti
osò attaccarlo.
I Goti dunque circondarono la Città con sette accampa
menti, dinanzi alle principali porte : uno di essi era al di là
del Tevere, nel così detto Campo di Nerone. Infiniti furono
gli accorgimenti da una parte e dall’ altra adoperati in
questo assedio. Vitige cominciò col far rompere gli acque
dotti, costringendo i Eomani a valersi della sola acqua
dei pozzi, e privandoli così della forza motrice pei mulini.
Belisario fece allora costruire nuovi mulini fra gli archi del
Ponte Elio, ora S. Angelo, e altrove, mediante ruote mosse
dal fiume. Ed i Goti subito mandarono giù per esso lunghe
travi, cadaveri d’ uomini e d’ animali, per intralciare così
il moto delle ruote, e corrompere sempre più l’ acqua. A
questo si riparò, in parte almeno, ponendo catene attra
verso il fiume. Ma i Goti non se ne stavano, e ricorsero a
molti altri stratagemmi di guerra. Idearono alcune torri
mobili, tirate da bovi, che dovevano trascinarle presso
le mura, perchè così i soldati potessero salire su queste.
Quando però le torri erano vicine alla Porta Pinciana, Be
lisario ordinò ai suoi che mirassero ai bovi, uccisi i quali,
esse restarono ferme in mezzo alla Campagna. Nello stesso
tempo l’assalto nemico era dato anche ad altri punti della
Città, e sopra tutto vicino alla Porta Prenestina (Mag
giore), presso la quale era un doppio muro. Ma quando
i Goti, superato il primo, si trovarono ammassati, coi
loro arnesi di guerra, fra esso ed il secondo, che cerca
vano di superare, Belisario avvertito vi corse subito, ed
uscito dalla Porta, ordinò che fosse dato contemporanea
mente l’ assalto alle spalle e di fronte. Il nemico allora
si pose in fuga, abbandonando torri, arieti ed altre mac
chine d’ assedio, che furono bruciate dai Eomani. Un al
tro assalto dettero i Goti al di là del Tevere, presso la
Lf i
L O B O SBCOXDO, CAP. T I
d'Adriano. ora Castel S. Angelo, rivestita allora
li Marmo, piena all'esterno di statue, e già ridotta a
ton iém . Parerà dapprima che i Goti eressero il van
taggio ; ma quando i difensori si videro a mal partito,
cominciarono a gettar sa di essi le statue, recando loro
tali danni, che li costrinsero alla fuga. Procopio parla
di 30,000 Goti acciai, il che può essere un’ esagerazione ;
ma prova in ogni modo che la strage fa assai grande.
Belisario scriveva a Costantinopoli, che era stato vera
mente un miracolo l'aver potato con an esercito di
5000 nomini resistere vittoriosamente a 150,000. Adesso
era però necessario mandargli aiati, se non si voleva
da nn momento all’ altro essere esposti ad nna catastrofe.
Finora s’ erano avute le simpatie e l’ aiuto dei Romani ;
ma se questi per le continue sofferenze e i pericoli del
l’assedio, per le tasse enormi, mutavano animo e diveni
vano favorevoli ai Goti, che cosa sarebbe mai seguito ?
Le condizioni di Roma e dei Bizantini ai facevano
sempre più gravi. Vitige mandava ordini a Ravenna,
che fossero uccisi i Senatori tenuti colà in ostaggio ; oc
cupava Porto, cosa che Belisario non potè far prima
di Ini, non essendogli possibile disporre neppure d’ una
guarnigione di 300 nomini, necessari a tenerlo. £ fa
grave danno, perchè da Porto sopra tutto Roma v e
niva pel Tevere approvvigionata. Ostia era allora assai
meno adatta a ciò. La fame si faceva quindi sentire nella
Città, e bisognò allontanare le bocche inutili. Gli nomini
validi, divisi in ischiere, furono messi a guardia delle
mura; ak uni vennero anche mescolati nell’ esercito. QueHt (j - li in e mutavano assai spesso di luogo; i nomi di co
loro elio le componevano venivano riscontrati di continuo;
lo chiavi delle porte erano anch’ esse di tanto in tanto
mutate: tutto ciò per assicurarsi contro ogni possibile
tradimento, ora che le sofferenze crescevano, e lo scon-
tento cominciava a manifestarsi. Sebbene Roma fosse
ormai da gran tempo divenuta cristiana, pure vi furono
allora alcuni i quali, non sapendo che fare in mezzo a
tante calamità, cercarono aprire di nascosto il tempio
di Giano, sperando aiuto dal Dio pagano, stato sempre
favorevole ai loro padri. Se non che le porte di bronzo,
da lungo tempo chiuse, s’ erano arrugginite per modo che
si potò appena muoverle tanto da lasciarle accosto.
Finalmente arrivò un rinforzo di 1600 cavalieri, la
più parte Unni; e questo aiuto, con la speranza non lon
tana di altri, avendo rianimato gli assediati, fece subito
incominciare una serie di nuove scaramucce che, nono
stante la inferiorità del numero, riuscirono sempre as
sai fortunate ai Romani. Di ciò inorgogliti, essi volevano
procedere subito ad un assalto generale, cui Belisario
s’ oppose energicamente, conoscendo lo scarso numero
delle sue forze regolari. Ma il cieco ardore de’ suoi soldati
non conosceva adesso misura nè prudenza, e bisognò
cedere. Ordinò quindi che da Porta Salaria a Porta
Pinciana si movesse all’ assalto; che al di là del Tevere,
da Porta Aurelia (S. Pancrazio) si facesse un fìnto at
tacco verso il campo di Nerone, e ciò solo per impe
dire che i molti Goti ivi stanziati, passato il fiume, an
dassero in aiuto dei loro compagni, là dove si doveva
combattere davvero. Le turbe popolari che volevano pi
gliar parte a questo fìnto attacco, non essendo ancora bene
educate alle armi, ebbero ordine di restar ferme, con
tentandosi di tenere in rispetto il nemico col loro numero.
D all’ altro lato del fiume, Belisario voleva combattere
colla sola cavalleria, perchè di essa solamente si fidava,
come quella che era più disciplinata e non aveva accolto
nelle proprie file cittadini inesperti ; ma dovette cedere
alle insistenze della fanteria, che volle anch’ essa prender
parte alla mischia. E tutto ciò fu per riuscirgli funesto.
Cominciato infatti l’ assalto, i Romani s’ avanzarono vit
toriosi ; ed anche nel Trastevere i Goti, vedendo il gran
numero di genti ivi schierate, cominciarono a ritirarsi.
Allora però quelli che avevano avuto ordine di star fermi,
vollero avanzarsi; ma invece d’ inseguire il nemico, si
dettero a saccheggiarne il campo, dandogli cosi modo
di riordinarsi, di assalirli e metterli in fuga. Quando poi
dall’ altro lato del fiume, la cavalleria romana fu co
stretta a retrocedere dinanzi ai Goti che s’ avanzavano
numerosissimi, la fanteria, invece di venirle in aiuto,
si dette alla fuga. Fortunatamente i capitani di essa,
quelli appunto che avevano' insistito per condurla al
combattimento, fecero onore al loro nome, dando prova
d’ un grandissimo coraggio. Con pochi dei più. valorosi
tennero fronte al nemico fino a che vi lasciarono la vita;
ed in questo modo assicurarono la ritirata dei Romani.
Quando i Goti, arrivati alle mura, le videro guardate
da una gran moltitudine d’ uomini in armi, si ritira
rono. Così tutto fu salvo, ma il grave pericolo che s’ era
corso fece capire quanta ragione Belisario avesse avuta
di non volere arrischiare un generale assalto contro un
nemico tanto più numeroso. Si ritornò quindi alle ripe
tute scaramucce, le quali riuscirono di nuovo vittoriose
pei Romani, ed assunsero qualche volta carattere ad
dirittura eroico.
Da Ostia intanto arrivavano vettovaglie, che entra
vano nella Città. I Goti non potevano impedirlo, per
chè la estensione delle mura era tale, che riusciva assai
faoile ai Romani chiamar colle scaramucce l’ attenzione
del nemico in un punto, per potere in un altro libera
mente aprire le porte ai soccorsi. Nel giugno del 537,
terzo mese dell’ assedio, secondo anno della guerra, si
seppe che un drappello di cento uomini era giunto da
Costantinopoli a Terracina, con denaro per dar le paghe
ai soldati. Era cosa di somma importanza, e Belisario,
per assicurare 1’ entrata di questi aiuti in Città, ordinò
una doppia sortita, che fu delle più vigorose. A l di là del
Tevere, verso il campo di Nerone, i Goti vennero facil
mente respinti. Fuori di Porta Pinciana invece la lotta
fu accanita, ed i soldati di Belisario dettero prova d’un
entusiasmo singolare, d’ un valore straordinario, e vi
furono episodi veramente omerici. Un capitano nativo
della Tracia continuò a combattere quando aveva un gia
vellotto infitto nella testa; un altro combatteva del pari,
quando una freccia gli era penetrata tra l’ occhio ed il
naso. 11 primo di questi due valorosi dovè soccombere ;
il secondo potè, mediante un’ operazione, farsi estrarre
la freccia e salvarsi. Colui che aveva guidato il combat
timento al di là del Tevere, per le molte ferite fini col
soccombere ancb’ esso. Tutto questo ci racconta Procopio,
il quale aggiunge che i combattimenti seguiti finora nel
l ’ assedio arrivavano già al numero di sessantasette.
Vitige adesso, ricorrendo ad un nuovo accorgimento
di guerra, accampò 7000 de’ suoi a tre miglia dalle mura,
in un luogo dove s’ incrociavano due acquedotti, for
mando cosi come un punto fortificato, assai adatto a
porre di là ostacoli all’ approvvigionamento degli asse
diati. Certo è che la fame divenne insopportabile; e di
nuovo i Romani, spinti dalla disperazione, volevano uscire
a combattere per vincere o morire. Ma di nuovo Belisano si oppose energicamente, cercando di calmarli coll’ assicurar loro, che altri soccorsi di uomini e vettova
glie sarebbero giunti fra poco. Infatti egli mandava a
Napoli Procopio, per vedere quanti ne fossero già arri
vati colà ; e questi trovò 500 uomini con vettovaglie, che
avviò subito verso Roma, con altri che erano già nella
Campania.
Ma se questa gita di Procopio riuscì utile agli asse
diati, essa gli fece interrompere il racconto assai pre
zioso, che finora abbiamo avuto della guerra da un testi
mone oculare. Siamo quindi poco informati di quello che
fece adesso Antonina, la moglie di Belisario, la quale da
Napoli andò verso Roma per essere accanto al marito.
Pare che, fra le altre cose, andasse a secondare le mene
della imperatrice Teodora, che voleva far deporre papa
Silverio, ed eleggere in sua vece Vigilio. Questi già da
un pezzo aveva aspirato al papato, invano adoperandosi
a ciò con ogni sorta d’ intrighi. A Costantinopoli però
s'era guadagnato il favore di Teodora, facendole spe
rare che avrebbe favorito il Monofisismo; e potè quindi,
con una lettera dell’ Imperatrice arrivare a Roma, dove fu
assai bene accolto da Antonina, la quale s’ adoperò ener
gicamente a favore di lui. La conseguenza fu che papa
Silverio venne da Belisario accusato di voler dare la Città
ai Goti, e quindi fu deposto. Gli successe Vigilio (537),
che tenne ora come sempre una condotta ambigua e mu
tabile, cominciando col non osservare le promesse fatte
all’ Imperatrice. L ’ arbitraria deposizione di Silverio, che
mori esule nell’ isola di Palmarola presso Ponza (21 giu
gno 538), e la non meno arbitraria elezione di Vigilio
seminarono il primo germe di discordia fra Belisario e
la Chiesa romana, il che fu poi causa di debolezza pel
dominio bizantino in Italia.
Intanto arrivavano nuovi aiuti. Trecento cavalieri erano
già entrati in Roma, 3000 Isaurici ebbero ordine di re
carsi da Napoli ad Ostia, 2300 nomini sotto il comando
del capitano Giovanni e di altri scortavano verso Roma
carri di vettovaglie. Belisario faceva allora sortite vitto
riose da Porta Pinciana e da Porta Flaminia, per agevo
lare l’ entrata degli uomini e delle vettovaglie. Ed i Goti,
stanchi finalmente del lungo ed infruttuoso combattere,
fecero proposte di pace. — Poniamo fine, così dissero
a Belisano, ad una guerra che non giova a nessuno, e
nuoce a tutti. Perchè mai combattete contro di noi, che
in Italia venimmo, non di nostro arbitrio, ma per vo
lontà dell’ imperatore Zenone? Fu lui che mandò Teodo
rico, nostro capo, a combattere Odoacre, il quale s’ era
fatto tiranno, ed a prendere in suo nome legittimo pos
sesso del paese. Noi rispettammo le leggi, le istituzioni,
la religione romana. Teodorico ed i suoi successori non
fecero nuove leggi; tutte le magistrature le lasciammo
ai Romani, che ebbero anche il Consolato. Se dunque
abbiamo rispettato i patti e gli ordini dell’ Imperatore,
che ci mandò, perchè ci fate voi guerra? — E chie
devano che i Bizantini si ritirassero, portando pur via
la preda che sino allora avevano fatta. Ma Belisario ri
spose : — Teodorico fu mandato a punire Odoacre, a re
staurare l’ autorità dell’ Impero, non a farsi signore dell ’ Italia. Che cosa importava all’ Imperatore sostituire un
tiranno ad un altro? Non sarà mai da noi ceduto un
paese, che appartiene all’ Im pero.—
I Goti allora offrirono di abbandonare la Sicilia, Na
poli, la Campania, e pagare anche un annuo tributo all ’ Impero; ma tutto fu vano. Proposero finalmente una
tregua di tre mesi, per potere intanto trattar direttamente a Costantinopoli ; e questa fu da Belisario accettata
subito, profittandone per far entrare in Roma altri uomini
e vettovaglie, fortificare le mura, prendere tutti i prov
vedimenti che voleva. E sebbene tutto ciò non fosse
giustificato, non fosse legale, Vitige si tacque. Protestò
invece, ma senza resultato, quando essendosi egli ritirato
da Porto, da Albano, da Civitavecchia, quei luoghi furono
senz’altro occupati da Belisario. Questi mandò inoltre il
suo capitano Giovanni alla testa di 2000 uomini negli
Abruzzi, con ordine di stare colà fermo finché durasse la
tregua; ma non appena venisse rotta, fare man bassa su
tutti i Goti, che si trovavano nel Piceno, e prenderli
schiavi; confiscare, saccheggiare i loro averi e divi
derli fra i suoi soldati. Infatti, quando i Goti, stanchi
di veder Belisario giovarsi della tregua a tutto suo van
taggio, tentarono con un colpo di mano d’ entrare in
Roma, essi non solo furono respinti, ma Giovanni ebbe
l’ ordine di saccheggiare il Piceno. E questi, dopo aver
messo quel paese a soqquadro, andò a Rimini, che prese
facilmente, essendosi la guarnigione ritirata a Ravenna.
Alla quale s’ avvicinò subito Giovanni, perchè di là, retro
cedendo, poteva anche minacciare alle spalle i Goti che
erano accampati presso Roma. Tutto questo li sgomentò
per modo che, finiti i tre mesi della tregua, levarono
senz’ altro l’ assedio il 12 marzo 538, cioè trecento settantaquattro giorni dopo averlo cominciato ; e bruciati i
loro accampamenti, cominciarono a ritirarsi. Belisario
non poteva, per la insufficienza delle sue forze, inse
guirli e dar loro una vera battaglia; ma li assali quando
passavano il Tevere, ponendoli in gran disordine, sì che
molti ne affogarono.
Nonostante questi suoi fortunati successi, si presenta
naturale la domanda: Come mai Belisario che in tre
soli mesi, con scarse forze, aveva quasi sterminato i
Vandali, non era invece, dopo tre anni, riuscito a vin
cere del tutto i Goti, che resistevano ancora? Arrivato
a Roma, non s’ era potuto più avanzare, e solo dopo
altri due anni potè entrare in Ravenna. Tutto ciò sembra
anche piu strano, se si tien conto dell’ aiuto che ebbe
dalle popolazioni, e delle diserzioni che di continuo
avevano luogo fra i Goti. Il fatto è che Belisario era
venuto in Italia con un esercito assai scarso, il quale,
prima di giungere a Roma, fu ridotto a minime propor
zioni, per le guarnigioni che era stato necessario lasciare
in Sicilia e nel continente dell’ Italia meridionale. Si
trovò quindi con assai deboli forze di fronte ad un formi
dabile esercito di Goti. Più tardi, è vero, cominciarono
a giungere aiuti da Costantinopoli; ma allora appunto le
gelosie dei cortigiani operarono sull’animo di Giustiniano
in modo, che egli dette ai nuovi capitani che mandò in
Italia poteri quasi uguali a quelli di Belisario ; il che fu
disastroso all’ andamento d’ una guerra, la quale desolava
il paese, ed aggravava colle tasse le popolazioni. In esse
cominciò subito uno scontento che andò sempre cre
scendo, e fu anche inasprito dalla condotta tenuta ora da
Belisario verso il capo della Chiesa romana.
La guerra intanto continuava lungo la via Flaminia,
che da 'Roma per Fano conduceva a Rimini. A sinistra
v ’ erano, tutte più o meno sui monti, Orvieto, Chiusi,
Todi, Urbino, occupate dai Goti; le città a destra, ad
eccezione di Osimo, erano invece in mano dei Bizantini.
L ’avanzarsi peroiò, senza prima impadronirsi di quelle
tenute dal nemico, esponeva i Bizantini ad essere assa
liti alle spalle. £ però Belisario, temendo che Giovanni,
con soli 2000 uomini, si potesse trovare a mal partito
fra Rimini e Ravenna, gliene mandò in aiuto altri 1000,
con ordine che, lasciata in Rimini una piccola guarni
gione, tornassero tutti indietro per unirsi a lui. La cosa
pareva che riuscisse felicemente, perchè le genti colà man
date s’ avanzarono senza difficoltà. £ giunte che furono al
passo del Furio, detto anche Pietra Pertusa, una specie
di tunnel, che è come una fortezza naturale nell’Appen
nino, ebbero colà uno scontro coi Goti, i quali, dopo es
sere stati vinti, s’ unirono ai Bizantini, proseguendo in
sieme con essi il cammino. Ma quando furono a Rimini,
Giovanni dichiarò di non volere obbedire agli ordini che
essi portavano da Roma, per il che dovettero senza di
lui tornarsene a Belisario, che ne restò indignato.
Intanto sbarcavano nel Piceno nuovi aiuti, comandati
da Narsete, ohe veniva con ampi poteri di generalis
simo, non solo per aiutare, ma anche per tenere a freno
Belisario, contro il quale la Corte pareva ingelosita. Nato
nel 478, questo nuovo capitano aveva allora già sessant’ anni; era uomo accorto ed ambiziosissimo, di grado in
grado salito ai più alti uffici amministrativi. Ma, quello
che è singolare davvero, egli arrivava adesso in Italia
investito dall’ Imperatore del grado di generale, senza
aver mai prima servito nell’esercito. Infatti, anche quando
aveva efficacemente cooperato con Belisario a reprimere
la rivolta seguita nell’ Ippodromo, lo aveva fatto solo
corrompendo i capi con danaro. L ’ avergli perciò, in tali
condizioni, affidato il comando d’ un esercito, fera cosa
davvero senza esempio. E l’ essere poi Narsete riuscito
uno dei primi capitani del secolo, fece grandissimo
onore all’ accortezza, alla conoscenza quasi divinatrice
che, in questa come in tante altre occasioni, Giustiniano
mostrò avere degli uomini. Se non che, arrivato che
fu in Italia, Narsete, sicuro della piena fiducia della
Corte, consapevole della crescente gelosia che v ’era colà
contro Belisario, lo trattò subito alla pari, senza punto
curarsi di nascondere la propria alterigia. E di ciò si ebbe
una prima prova nel Consiglio di guerra tenuto a Fermo
in quello stesso anno 538. Giovanni chiedeva allora da
Rimini soccorsi, perchè, dopo avere respinto i primi as
salti dei Goti, si trovava, come Belisario gli aveva pre
veduto, ridotto ad assai mal partito, minacciato da tutto
l’ esercito di Vitige. Si trattava dunque di decidere se
si doveva correre in suo aiuto, avanzandosi per la via
Flaminia sino a Rimini, lasciando le città fortificate,
come Osimo, in mano dei Goti, o pure abbandonar per
ora al proprio destino chi aveva con la sua disobbedienza
messo a grave pericolo il resultato finale di tutta la
guerra. Belisario era per questo secondo partito, al quale
Narsete decisamente s’ oppose. Si poteva, questi diceva,
pensare più tardi a prendere Osimo ; non si doveva in
tanto permettere che i Goti, appena sfiduciati, ripiglias
sero animo, e s’ impadronissero di Rimini, colla disfatta
ed umiliazione d’ un generale romano e de’ suoi soldati.
Quanto al punirlo della disobbedienza, si poteva aspet
tare a farlo più tardi, senza mettere adesso a repentaglio
la fortuna e l’ onore dell’ Impero.
Belisario assai di mala voglia si dovette arrendere a
queste ragioni, che non eran di certo senza valore.
Mandò quindi 1000 uomini a tenere in iscacco la guar
nigione d’ Osimo, ch’ era di 4000 Goti. Ed a Rimini
mandò una parte dei suoi per mare, un’ altra per terra,
avanzandosi egli con Narsete alla testa d’ una colonna
volante, per dare, quando se ne presentasse l’ occasione,
il colpo decisivo. L ’ esercito imperiale s’ avanzava sparso
per la campagna, accendendo la notte un gran numero
di fuochi, ohe lo facevano parere assai più numeroso che
non era. E però quando i Goti videro da un lato le
navi entrare nel porto di Rimini, da un altro la cam
pagna sparsa di nomini, che di notte sembravano coi loro
fuochi occupare una vastissima estensione, temettero
d ’ esser presi in mezzo, e si posero in ritirata verso Ra
venna. La guarnigione di Rimini era troppo estenuata
per inseguirli; ma gl’ imperiali sopravvenuti poterono
saccheggiare i loro accampamenti. Giovanni si ritenne
in questa occasione liberato dal grave pericolo per opera
di Narsete, al quale solamente si dichiarò riconoscente.
E questo fu il principio d’ una discordia che doveva es
sere funesta all’ Impero, alimentata com’ era continuamente anche dagli altri generali.
Tutto ciò seguiva in un momento assai difficile. Vitige era a Ravenna con 80,000 uomini ; Osimo, Orvieto,
Urbino e molte altre città dell’ Italia centrale erano oc-
capate dai Goti. Al nord i Franchi pareva che minac
ciassero di scendere in loro aiuto ; a Milano si tro
vava una guarnigione di soli 800 imperiali, in mezzo
ad un paese tutto in potere del nemico. E questo fu il
momento in cui Narsete decise di mettersi addirittura
in aperta opposizione col generale in capo. Belisario
propose in un consiglio di guerra, che l’ esercito si di
videsse in due grosse colonne, una per occupare Mi
lano e tutta la Liguria, l’ altra per pigliare Orvieto e
le città dell’ Italia centrale ; dopo di che si poteva pen
sare ad una grossa battaglia campale contro Vitige. Nar
sete voleva invece che si occupasse anche l’ Emilia, e
si attaccasse Ravenna, insistendo molto su di ciò. E
quando Belisario impazientito gii disse che il coman
dante era lui, mostrando le lettere di Giustiniano, Nar
sete gli rispose, che esse imponevano di operare nell’inte
resse dell’ Impero, e che questa solamente doveva essere
la norma. La conclusione fu che nell’esercito mancava ora
ogni unità di comando. Belisario si decise quindi a pren
dere Urbino, poi Orvieto (538), e Narsete insieme con G io
vanni andò nell’ Emilia. Vitige allora dette ordine a suo
nipote di assediare Milano, mentre che Teudiberto, re dei
Franchi, lasciava scendere in Italia 10,000 Burgundi suoi
sudditi, i quali dicevano di venire in aiuto dei Goti, ma per
ora non facevano altro che predare il paese. La piccola
guarnigione di Milano, ridotta agli estremi, chiedeva
aiuto a Belisario, che mandò alcuni de’ suoi ; ma questi,
trovando già occupato il paese da Goti e da Burgundi, non
poterono avanzare. E quando Narsete, sollecitato da ogni
parte, si decise finalmente a mandare anch’ egli i neces
sari aiuti, era già troppo tardi. La piccola guarnigione di
Milano s’ era dovuta arrendere, salva la vita; ma i cittadini
furono trucidati fino al numero di 300,000, se si deve pre
star fede a Procopio. Le donne vennero lasciate schiave ai
Burgundi, per l’ aiuto da essi dato nell’ assediare la città,
clie venne ora uguagliata al suolo. E cosi la Liguria fu
ora dei Goti. Pure da tutto ciò ne venne un vantaggio a
Belisario, il quale, rendendo conto a Costantinopoli del
disastro seguito, potè dimostrare che esso era conse
guenza inevitabile della mancata unità di comando, ed
indurre finalmente Giustiniano a lasciar di nuovo a lui
solo il comando supremo, richiamando Narsete (539).
E ve n’ era veramente bisogno, perchè le difficoltà
della guerra si andavano sempre moltiplicando. Vitige
era riuscito a spingere la Persia a minacciare Giustiniano,
il quale si mostrava perciò inclinato alla pace, che Beli
sario non voleva, pieno com’ era sempre di fiducia nella
vittoria. Questi si fermò intanto ad assediare Osimo, fece
assediar Fiesole da due suoi capitani, ed inviò anche al
cune genti nell’ alta Italia, verso Tortona. In questo mo
mento precipitarono giù dalle Alpi i Franchi, sotto il co
mando del loro re Teudiberto, in numero, dice Procopio,
di 100,000. Pareva che venissero in aiuto dei Goti, ma
giunti che furono a Pavia, la saccheggiarono, uccidendo
uomini, donne, bambini. Corsero verso Tortona, e sbara
gliarono i Goti, che si ritirarono a Ravenna; affronta
rono poi gl’ imperiali che, presi alla sprovvista, si ritira
rono anch’essi, cercando di raggiungere Belisario, il quale
si trovava ancora all’ assedio di Osimo. Fortunatamente
questa bufera dei Franchi scomparve a un tratto, perchè
essi, trovandosi in un paese esausto e privo di tutto,
costretti a bere acqua del Po, furono colpiti da una dis
senteria, la quale fece tra loro tale strage, che moltissimi
ne morirono, e gli altri si ritirarono (539).
Fiesole adesso si arrendeva, e le genti che l’ avevano
assediata poterono riunirsi a quelle che circondavano
Osimo. Essendosi poi dovuta arrendere anche questa,
sebbene fosse in una posizione strategica importantis
sima, la guarnigione gota, che s*era ivi battuta con valore,
sdegnata di non avere ricevuto soccorsi da Ravenna, di
sertò, passando a servizio dell’ Impero sotto Belisario. I l
quale si mosse ora verso Ravenna, che sperava avere per
accordi, non essendo possibile prenderla colla forza fino a
che non riusciva ad avere un naviglio. E non si poteva spe
rare d’ averlo ora che l’ Imperatore, spaventato dalle mi
nacce della Persia, e dalle promesse d’ aiuti considere
voli che i Franchi facevano a Vitige, desiderava in ogni
modo conchiudere la pace in Italia. I Franchi infatti
promettevano di venire in aiuto dei Goti con un eser
cito di 600,000 uomini, quando Vitige avesse consentito
a divider con essi il regno dell’ Italia superiore. Ma que
sti preferiva dividere l’ Italia coi Bizantini piuttosto che
con barbari infidi, potenti e crudeli come i Franchi. E
Belisario, che era anche accorto diplomatico, seppe
aumentare la naturale diffidenza del re goto, ricordan
dogli i saccheggi che poco prima i Franchi avevano fatti
in Italia, pur dicendo di venire ad aiutarlo. Intanto egli
stringeva sempre più l’assedio di Ravenna, e d’ogni parte
aumentavano le diserzioni dei Goti, che abbandonavano
Vitige per venire a lui. A tutto ciò s’ aggiungeva, che
nella già affamata città bruciarono i magazzini del grano,
chi diceva in conseguenza d’ un fulmine che vi cadde, e
chi a cagione d’ un incendio provocato dalla trista moglie
di Vitige, la quale nell’ ora del pericolo lo tradiva (540).
Per tutte queste ragioni, quando Giustiniano cominciò
a parlare d’ accordi con Vitige, Belisario fece il sordo,
affermando che prima condizione di pace doveva in ogni
caso essere la resa di Ravenna. Ed i Goti, che si trovavano
già ridotti all’ estremo dalla fame, finirono col credere ohe
l’ Imperatore volesse ingannarli, fingendo di desiderare la
pape ; ed unitisi perciò a consiglio, mandarono ambascia
tori a Belisario, facendogli la singolare proposta di ri
conoscerlo come Imperatore d’ Occidente, e di prestargli
obbedienza, come a loro duce e signore. Ma Belisario,
che era deciso a non tradire la bandiera sotto cui aveva
finora combattuto, continuò a temporeggiare ed a trat
tare, sapendo che la fame avrebbe fra poco costretto i
Goti a cedere senz’ altro. Ed infatti non andò guari che
egli potò entrare in città, promettendo solo di rispettare
la vita e gli averi dei Goti : quanto al farsi Imperatore,
se ne sarebbe parlato poi con Vitige. Così nella prima
vera del 540 Belisario, alla testa de’ suoi soldati, entrò
in Ravenna. I Goti che avevano ceduto la città senza dar
prima una battaglia, e avevano proposto di rinunziare an
che alla loro personalità nazionale, se ne stavano ora
umiliati, quasi semplici spettatori, a guardare l’ esercito
bizantino che, assai meno numeroso di loro, s’ avanzava
trionfante per le vie della città. Più di tutti parevano
sdegnate le donne, alle quali s’ era parlato sempre del
gran numero, della gran forza fisica dei Bizantini, e in
vece li vedevano ora pochi, piccoli e scuri, assai meschini
di fronte ai Goti biondi, robusti, alti. Esse, dice Pro
copio, erano cosi inferocite, che sputavano in faccia ai
loro mariti, chiamandoli vili.
Belisario, secondo il suo solito, serbò fede ai patti
giurati. La vita e gli averi dei cittadini furono, sotto
minaccia di gravi pene, fatti rispettare dai soldati. S’im
padronì del tesoro reale, e tenne prigioniero Vitige in
sieme coi suoi nobili : tutti gli altri Goti, lasciati liberi,
andarono dove vollero. Ravenna d’ ora in poi fu dei B i
zantini, che la tennero fino al 762, quando venne loro
tolta dai Longobardi, ai quali poco dopo la tolsero i Fran
chi. Treviso, Cesena ed altre città s’ arresero subito an*
ch’ esse; resistettero invece Verona e Pavia, nella quale
i Goti offerirono la corona ad Uraias, valoroso nipote di
Vitige. Ma egli la ricusò, per non volere aver l’ aria
d’ usurpare il trono dello zio prigioniero, e consigliò che
l’ offrissero invece a Hdibaldo, il quale si difendeva al
lora in Verona, ed era parente del re dei Visigoti. E IIdibaldo l’ accettò, proponendo però che si facesse prima
un altro tentativo d’ indurre Belisario a farsi Imperatore
d’ Occidente, dichiarandosi pronto senz’ altro a prestargli
obbedienza. Ma tatto fa invano, perchè Belisario s’ ap
parecchiava già a partir per Costantinopoli, dove era
con grande istanza chiamato, e dove andò, menando seco
insieme col tesoro goto, Vitige ed i nobili, che dovevano
come prigionieri seguire il sao carro trionfale. Con l’ en
trata in Ravenna, e col trionfo di Belisario in Costan
tinopoli finisce il primo periodo della guerra bizantina
in Italia. Avrebbero dovuto cominciare adesso i grandi
trionfi ed onori resi a Belisario; ma ben presto comin
ciarono invece quelle sventure che ne dovevano avve
lenare l’ esistenza. Con tutti i molti elementi di forza,
ohe si trovavano pur sempre nella società bizantina, la
corruzione, l’ invidia, la gelosia erano in essa tali da
rendervi impossibile ogni vero e sicuro progresso. E noi
vedremo fra poco colmata d’ ingratitudine e di amarezza
la vita di colui che aveva dato tante splendide prove di
fedeltà all’ Imperatore ed all’ Impero, ai quali aveva reso
cosi segnalati servigi in Persia, in Africa, in Italia; ed
altri ancora, nonostante la nera ingratitudine, doveva
continuare a renderne.
C APITOLO V II
Desolazione deir Italia - S. Benedetto fonda il sao Ordine.
%
La guerra, che doveva ancora continuare in Italia,
era già durata cinque anni, ed aveva .desolato, esausto
il paese in modo da superare ogni immaginazione, rida-
condolo in condizioni tali da non essere sperabile, per
lunga pezza, di vederlo pia risorgere. Procopio descrive
gli effetti che nel 688 la morte, la carestia e la fame
avevano portato specialmente nella Toscana, nella Liguria
e nell’ Emilia. La cdltora dei campi, egli dice, era stata
da due anni abbandonata del tatto, ed il poco e cattivo
grano, che spontaneamente vi nasceva, era spesso lasciato
imputridire. Gii abitanti della Toscana si erano ritirati ai
monti, dove si cibavano di ghiande; quelli dell’ Emilia
si recarono nel Piceno, sperando di trovare presso il
mare di che sfamarsi. Ma la desolazione era tale colà
che si parlava di 50,000 contadini morti per mancanza
d i nutrimento. Lo stesso scrittore ci descrive, come te
stimonio oculare, il modo e la natura di queste morti.
P er eccesso di bile, egli dice, ingialliva il colore della
pelle, che aderiva come cuoio alle ossa, essendosi la
carne consumata affatto. Il giallo mutavasi poi in rosso
cupo, in nero, con una espressione da maniaci negli o c
ch i; e cosi quegl’ infelici morivano. Perfino i corvi e gli
uccelli di rapina non volevano cibarsi dei loro corpi dis
seccati. Quando poi quegl’ infelici affamati trovavano per
caso del cibo, ne mangiavano con tale avidità e in così
gran misura, che ne morivano, avendo per debolezza
perduto ogni forza digestiva. Si giunse a tale, che gli
uomini divennero qualche volta addirittura cannibali.
Procopio ricorda due donne, che rimaste sole presso Ri
mini, accoglievano i viandanti e li uccidevano nel sonno,
per poi divorarli. E cosi, egli afferma, ne divorarono
diciassette; ma il diciottesimo riuscì a scampare, am
mazzandole invece ambedue. Si vedeva la gente trasci
narsi carpone pei campi, mangiando come capre le erbe ;
spesso, non avendo più la forza di estirparle dal suolo,
morivano estenuati, e restavano insepolti. In mezzo a
tanti esempi di desolazione e ferocia lo stesso scrittore
ci racconta nn caso assai pietoso. Traversando l’Appen
nino per andare a Rimini, egli vide nn bimbo abbando
nato, affettuosamente nutrito da nna capra, cbe accorreva
al pianto e non voleva che altri s’ avvicinasse a lui, il
qnale a sua volta ricusava il latte offertogli dalle donne
del vicino borgo. Pare che la madre, al passaggio del
l’ esercito di Giovanni rimanesse, fuggendo, separata a
un tratto dal figlio, senza poterlo più ritrovare. Nè altro
si seppe più di lei, rimasta forse prigioniera, o uccisa
nei campi.
Il disordine, lo sconforto e la spaventosa desolazione,
sin dal principio portati da questa guerra, andarono, per
la sua continuazione, crescendo sempre più. Ed in mezzo
a cosi prolungate calamità, non è da meravigliarsi che
il pensiero si volgesse a Dio, e che un fatto nuovo, già
da più tempo cominciato, ricevesse uno straordinario in
cremento. Il monachiSmo d’ Occidente ebbe ora appunto
una cosi rapida diffusione da parer che divenisse quasi
contagioso. Suo definitivo riformatore, che parve perciò
nuovo fondatore, era stato un uomo veramente straordina
rio e santo, il quale ad una grandissima bontà univa nna
profonda conoscenza dell’ umana natura e del proprio
tempo. Egli compiè la trasformazione del monachiamo,
rendendo nei monasteri dell’ Occidente più tollerabile ed
umana la vita religiosa, che gli anacoreti della Tebaide
avevano spinta ad una esagerazione che confinava qual
che volta colla follia, e trovava in Italia ostacolo insu
perabile nell’ indole del popolo. Il .suo merito principale
apparisce chiaro nella Regola monastica del suo Ordine,
che fu da lui formulata. Per sette secoli, fino cioè a
S. Francesco ed a S. Domenico, i Benedettini furono
quasi i soli monaci nel mondo occidentale, e si diffu
sero dalla Polonia al Portogallo, dalla Gran Brettagna
alla Calabria, obbedendo tutti al loro capo in Monte
Cassino, che fu come la nuova Roma, la nuova Geru
salemme, la Mecca dei Cristiani. La leggenda, la poesia,
la pittura italiana hanno in mille modi illustrato la vita
del Santo e de’ suoi discepoli. Dalie mura dei chiostri,
dagli affreschi, dalle tele dei pittori, dai versi dei poeti,
che vennero ispirati da questi monaci, i quali vissero
in tempi di feroci passioni, in mezzo agii orrori d’una
guerra che faceva scorrere il sangue a fiumi, discende
ancora oggi su di noi il loro spirito di pace, di fede, di
carità, di tranquillo e costante lavoro, che in tutto il
Medio Evo fu sorgente perenne d’arte, di poesia e di
civiltà.
La nuova Regola, in settantatre articoli, rispondeva
certo ad un bisogno del tempo, e mantenendo rigorosa
obbedienza, rifuggiva da ogni eccesso. Le sostanze di
quelli che divenivano monaci, e tutto ciò che più tardi
i parenti avessero voluto lasciar loro, andava integral
mente ai monastero, nel quale spariva ogni proprietà
individuale. L ’ ozio era proibito, come dannoso alla sa
lute dell’ anima (otiositas inimica est animi). Questi reli
giosi infatti pigliavano direttamente parte al lavoro dei
campi, a tutto ciò che era necessario alla comune esi
stenza. Un articolo assai notevole, utile e pratico nello
stesso tempo, voleva che prima d’ essere ammessi nel
convento, si dovesse con un periodo di noviziato dar
prova di vera vocazione alla vita monastica. S. Bene
detto non faceva distinzione di sorta fra ricchi o poveri,
coloni o schiavi, Romani, Bizantini o barbari. Dinanzi
alla sua Regola tutti gli uomini erano, come dinanzi a
Dio, uguali; e ciò spiega la rapida, la straordinaria dif
fusione che essa ebbe nel mondo.
La vita di questo, che fu il più grande monaco che
sia mai vissuto, ci venne narrata da Gregorio I, forse
il più grande dei papi, che da taluno si volle credere nato
il giorno stesso in cui moriva 8. Benedetto (21 marzo 543).
Sebbene la sua narrazione sia piena di miracolose leg
gende, essa ci fa pur comprendere quale era il vero ca
rattere del Santo. Nato a Norcia (480), nei monti della
Sabina, a venti miglia da Spoleto, a duemila piedi sul
livello del mare, da un nobile romano, circa quattro
anni dopo che Odoacre fu signore d’ Italia, cominciò
a studiare in Roma. Ma ben presto lasciò tutto, per ri
tirarsi nella solitudine e nella contemplazione, verso le
sorgenti dell’Arno. La sua balia, che lo aveva accompa
gnato a Roma, lo accompagnò ancora adesso, dominata
da quel nobile ascendente morale, che egli esercitava
maravigliosamente su tutti. Ben presto i miracoli da
lui compiuti, e la fama della sua santità affascinarono,
attirarono un cosi gran numero di seguaci entusiasti,
che egli pensò di rifugiarsi a Subiaco, dove erano solo
alcuni pochi anacoreti. Ivi fu vestito dell’ abito mona
cale, da un tale che si chiamava Romano; e si ritirò in
una grotta, dove questi, a giorni fissi, gli portava dal
suo convento il cibo necessario a vivere, facendolo con
una fune, dall’ alto d’ una rocca discendere nella grotta.
Ma Romano scomparve a un tratto, senza che più se
ne sapesse nulla; ed allora il cibo fu portato prima da
un santo uomo, che viveva assai lontano ; poi da alcuni
pastori miracolosamente ispirati dal Signore. Essendo an
cora nel vigor degli anni, il Santo venne assalito dagli
stimoli della carne, e per attutirli si gettò nudo sulle
spine e sui pruni della foresta, che, lacerando le sue
carni, furono fecondati dal sangue che ne scorse, e ne
sbocciarono rose, le quali dopo sette secoli S. Francesco
vide tuttavia fiorire, ed il viandante le vede fiorire an
che oggi.
Essendo intanto grandemente cresciuta la fama di
S. Benedetto, i monaci di Vicovaro, che avevano perduto
il loro abate, pregarono lui d’assumerne l’ufficio. E quando
egli d’ assai mala voglia si lasciò indurre ad accettare,
furono subito scontenti della severa disciplina da lui im
posta, e pensarono d’ avvelenarlo. Liberato che fu mira
colosamente da questo nuovo pericolo, si ritirò sdegnato
nella solitudine. Ma anche colà la gente, attirata dalia
fama della sua bontà, accorse numerosissima, e così tra
il 500 ed il 520 si formarono intorno a Subiaco 12 mo
nasteri, con capi da lui eletti. Egli se ne stava ritirato
nel sacro speco, con pochi de’ suoi, presso Subiaco, al di
sopra della sua antica grotta. Nonostante però questa sua
riserva, questo gran seguito, la gelosia di quelli che facevan parte del clero regolare non lo lasciava in pace.
Ed uno di essi fece andar donne di mala vita a ten
tarlo, cosa di cui S. Benedetto fu così disgustato, che
se ne andò via a Monte Cassino. Ivi trovò la statua
d’Apollo con un altare, e li fece subito demolire, fon
dando sullo stesso luogo il suo principale convento, nel
quale risiedette quattordici anni (529-543). Colà venne a
visitarlo Totila re dei Goti (542), prostrandosi ai suoi
piedi ; ed il Santo gli rimproverò i mali recati all’ Italia,
annunziandogli vicina la morte. Un anno dopo questa
visita mori anche lo stesso S. Benedetto. Poco prima
era morta la sorella Scolastica, che lo aveva seguito a
Subiaco ed a Monte Cassino, menando anch’ essa vita re
ligiosa, non molto lungi da lui, che andava a visitarla
una volta l’ anno, e che volle essere sepolto vicino a lei,
là dove era stato l’ altare di Apollo.
Una prova che l’ opera di S. Benedetto era la crea
zione d’ un uomo di genio, e rispondeva ad un vero bi
sogno dei tempi, noi l’ abbiamo nella grande e rapida
diffusione che essa ebbe, nel fatto assai notevole ohe,
quasi nello stesso tempo e indipendentemente da lui,
Cassiodoro, il quale aveva passato tutta la sua lunga
vita negli affari politici, iniziò anch’ egli qualche cosa di
simile nel suo paese nativo. A tempo di Yitige, quando
già da un pezzo Imperiali e Goti erano violentemente
venuti a conflitto fra loro, egli s’ era dovuto accorgere
che il concetto di Teodorico, al quale anch’ egli cosi
lungamente aveva dedicato tutte le forze, di fondere cioè
in uno Italiani e Goti, era un sogno contradetto dalla
realtà. Essendo adunque pervenuto all’ età di 60 anni,
quando aveva già raccolto le sue lettere e scritto il suo
Trattato sull’ anima, si ritirò nel paese nativo, dove fondò
vicino a Squillace due conventi. Uno di essi era un sem
plice eremitaggio sul colle, per chi voleva assoluta soli
tudine; l’ altro, il vero e proprio Convento, venne isti
tuito poco più lungi, a Vivarium, presso il fiume Pellena
(589). E come S. Benedetto, nel fondare i suoi mona
steri, aveva voluto unire il lavoro manuale alla contem
plazione, così Cassiodoro unì a questa il lavoro intellet
tuale, dandone egli stesso l’ esempio. Infatti colà scrisse
molte delle sue opere, fra le quali il comento ai Salmi, e
quello alle Epistole degli Apostoli; la Historia tripartita,
la quale è un compendio di tre storie della Chiesa, che
per sua commissione Epifanio tradusse dal greco. Scrisse
ancora alcune regole del ben vivere, ed il suo libro D e
ortographia, in cui sono precetti sull’ arte del comporre.
Cassiodoro era di certo più un letterato ed un retore, che
un santo; non aveva le qualità d’ un vero fondatore d i
Ordini religiosi. Pure il suo concetto d’ introdurre nei
monasteri il lavoro intellettuale, rispondeva, come quello
del lavoro manuale imposto da S. Benedetto, talmente
ad un bisogno dei tempi, che venne anch’ esso accolto
dai Benedettini. E cosi questi trascrissero molte delle
più preziose opere antiche, le quali per opera loro ven
nero salvate dalla distruzione, cui sarebbero altrimenti
andate incontro. Monte Cassino divenne come un faro di
civiltà, la cui luce, riflettendosi in tutti quanti i conventi
benedettini, potè in mezzo alla oscura notte del Medio
Evo rischiarare la via ad un migliore avvenire.
CAPITOLO V i l i
Totila re dei Goti - Belisario torna in Italia, ed occupa Boma
Suo ritorno a Costantinopoli e sua morte
L ’ anno 540 in cui i Persiani presero Antiochia, Be
lisario arrivava a Costantinopoli alla testa di 7000 uo
mini della sua guardia, menando seco il tesoro dei Goti,
con Vitige e gii altri prigionieri. Era il secondo re barba
rico che egli conduceva nella capitale orientale. Aveva
allora 36 anni; era quindi nel pieno vigore della sua
forza, come era nel colmo della fortuna e della gloria.
Ma pur troppo si cominciavano a vedere i non lon
tani prodromi di quelle sventure che dovevano lace
rargli il cuore, avvelenarne l’ esistenza, invecchiandolo
prima del tempo. Non gli fu concesso un trionfo uffi
ciale, come quello avuto al ritorno dall’Africa, sebbene
il popolo lo accogliesse di fatto come un vero trionfa
tore, quale egli era certamente. La sua prima sventura fu
il sospetto della infedeltà della moglie, la quale ama
reggiò molto la sua esistenza. Partendo per la guerra
persiana, con quest’ atroce tormento nell’ animo, per
seguitato da Teodora, che proteggeva Antonina, non
potè concludere gran cosa. Tornato a Costantinopoli, e
non essendogli possibile avere più dubbi sulla sua do
mestica sventura, dovè decidersi ad imprigionare la
moglie infedele, che pure amava. Ma il peggio era, che
Antonina aveva saputo con grandissima arte guadagnarsi
l’ animo di Teodora, secondandola ne’ suoi intrighi, aiu
tandola a perseguitare i suoi nemici.
Da un pezzo era nella Corte divenuto potentissimo G io
vanni di Cappadocia, uomo dato a tutti i vizi, divorato
dall’ ambizione, ma attissimo a riscuotere tasse, ricor
rendo per esse anche ai tormenti più crudeli: dicevasi
che per evitarli, qualcuno si fosse perfino impiccato. Giu
stiniano lo proteggeva, quale strumento utilissimo ad au
mentare le entrate dello Stato, e Teodora invece l’ odiava
per la sua ambiziosa prepotenza. Antonina, che voleva
conquistare sempre più il favore dell’ Imperatrice, riu
scì, con singolare accorgimento, a fargli confessare i
suoi ambiziosi disegni, le sue mire segrete contro lo stesso
Imperatore. In conseguenza di che, Giovanni fu mandato
in esilio, ridotto alla miseria, costretto a vestir l’ abito
ecclesiastico, ad andare limosinando. Pare anzi, come os
serva l’ Hodgkin, che questa sua fine infelice desse ori
gine alla leggenda che fece poi attribuire a Belisario una
fine non molto diversa. Certo è che Teodora sempre più
grata ad Antonina, sempre più avversa a Belisario, l’ ob
bligò a liberare la moglie infida ed a riconciliarsi con
essa, nò si stancò mai di tormentarlo e di umiliarlo.
Intanto, dopo la partenza di Belisario dall’ Italia, donde
aveva menato seco la sua guardia ed i migliori capitani,
le cose andavano nella Penisola di male in peggio. Non
v ’ era un capo autorevole che potesse comandare, non
s’ era ancora ordinata una nuova amministrazione. Tutto
rimaneva affidato a capitani militari, sparsi coi loro sol
dati in diverse città, ed ai riscuotitori delle imposte. L e
entrate andavano rapidamente diminuendo, nè si poteva
sperare danaro da Costantinopoli, dove bisognava provve
dere alla guerra persiana, ed a mantenere, con sussidi con
tinui, tranquille le vicine e minacciose popolazioni bar
bariche. Si ricorreva quindi in Italia ad ogni più misera
e meschina arte per risparmiare. Si tosavano le monete ;
si ritardavano le paghe e le promozioni dei soldati ; si
vendevano gli uffici ; si lasciavano in abbandono le opere
pubbliche più necessarie, come gli acquedotti ; si trascu
ravano per tutto le più urgenti riparazioni. Lo scontento
era quindi divenuto grandissimo nei soldati, che comin
ciavano a disertare, o cercavano rifarsi sulle popolazioni,
che avevano assai contribuito al trionfo delle armi im
periali. Ridotte ora all’ estremo d’ ogni miseria, esse fini
vano col rimpiangere i tempi in cui erano state sotto il
dominio dei Goti, la fortuna dei quali cominciava perciò
rapidamente a risorgere.
Ildibaldo infatti, che era rimasto con soli 1000 uo
mini, vide a un tratto accrescere il suo esercito, e fu
padrone di quasi tutta l’ Italia settentrionale. Ma neppur
tra i Goti le cose procedevano senza gravi disordini.
Essi, che non avevano mai potuto formare in Italia una
vera e propria nazione, apparivano sempre più come un
esercito di ventura, sotto il comando di capitani che non
andavan d’ accordo fra di loro. Tra la moglie di Uraias,
il quale aveva ricusato il comando supremo, e quella
d’ Ildibaldo, che lo aveva accettato, la gelosia era di
venuta tale che si comunicò ai mariti. In conseguenza
di che il primo venne ucciso dal secondo, e questi fu
poi, a sua volta, ucciso nella primavera del 541. Insieme
coi Goti erano in Italia venuti parecchi Rugi, i quali
non s’ erano potuti mai interamente amalgamare coi loro
compagni; ed ora innalzarono sugli scudi Erarico, che
fu dai Goti accettato. Ma questi non seppe far altro che
trattare con Costantinopoli, tentando di costituirsi un
piccolo Stato nell’ Italia settentrionale, tra i Franchi ed
i Bizantini, ponendosi alla mercè dell’ Imperatore, tra
dendo cosi tutte le speranze de’ suoi soldati, i quali, dopo
cinque mesi d’ inglorioso governo, lo uccisero, avendo
prima offerto la corona a Baduila, noto nella storia col
nome di Totila. Questi era parente d’ Ildibaldo, ed ac
cettò a condizione che levassero di mezzo Erarico, il
che essi fecero.
Totila rialzò il destino dei Goti, alla testa dei quali
si trovò per undici anni, combattendo sempre gloriosamente. Egli fu il più nobile fiore del valore ostrogoto, di
mostrandosi costantemente capitano non solo assai corag
gioso, ma ancora di molta capacità strategica e politica.
Mentre infatti i Bizantini, per sostenersi in Italia, taglieg
giavano, saccheggiavano le popolazioni, favorendo cosi
i latifondisti, che formavano il loro sostegno, sebbene
poi scontentassero anche questi colle continue tasse, To
tila invece s’ appoggiava sul popolo, sui contadini e co
loni, trattandoli meglio che poteva, accogliendo nel suo
esercito gran numero anche di schiavi. « A i contadini,
dice Procopio, egli in tutta Italia non recò alcuna mo
lestia ; ma invitolli a lavorare liberamente la terra, se
condo il consueto, pagando a lui i tributi, che già prima
solevano dare all* erario ed ai proprietari » (III, 13).
Aggravava invece la mano sui latifondisti, che spesso
espropriava; s’ impadroniva delle loro rendite, ed anche
di quelle della Chiesa, che era già fin d’ allora uno dei
principali latifondisti, e che perciò fu a lui doppiamente
avversa, essendo i Goti di religione ariana.
I generali imperiali, radunati a Ravenna, decisero
d’ avanzarsi con 12,000 uomini per assalire Verona e Pa
via; ma dopo un primo fortunato successo, dovettero
retrocedere a Faenza. Totila, che aveva potuto racco
gliere già 5000 uomini, prese allora l’ offensiva, passando
il Po, e con abile strategia riuscì ad infligger loro una
vera disfatta, obbligandoli a ricoverarsi nella città. Dopo
di che traversò risolutamente l’ Appennino, con l’ inten
dimento d’ impadronirsi dell’ Italia meridionale, dove po
teva sperare maggiore facilità di trovar vettovaglie, aiu
tato anche dalla vicinanza della Sicilia. Di là avrebbe
potuto minacciare Roma, costringendo il nemico a di
videre le sue forze. Ma intanto un primo tentativo d’ as
sediare Firenze con parte dei suoi, falli, perchè i Bizan
tini, avuto soccorso da Ravenna, uscirono dalle mura e lo
respinsero. Furono però poco dopo disfatti, e così Totila
potè procedere sicuro fino a Napoli (542). Gl’ Imperiali si
trovavano allora padroni solamente di Firenze, Spoleto,
Perugia, Roma, Ravenna e Napoli. La presa di quest9ul
tima città avrebbe avuto pei Goti una grandissima im
portanza, sia perchè era una delle principali dell’ Italia
meridionale, ed in relazione colla Sicilia, sia perchè di
là potevano facilmente cominciare le operazioni contro
Roma. Totila portò quindi presso Napoli il suo quartier
generale, inviando nello stesso tempo alcuni de’suoi verso
le Puglie, la Basilicata e le Calabrie. Napoli aveva solo
una guarnigione di 1000 fanti; e però Giustiniano, ri
conoscendone l’ importanza strategica, vi spedì alcune
navi con soccorso di uomini e di vettovaglie. Totila
però seppe tener testa a tutto, e favorito da una tem
pesta, che ritardò l’ arrivo d’ una parte dei soccorsi, scon
fìsse il nemico e costrinse la città ad arrendersi (543). La
guarnigione fu lasciata libera, e nulla soffrirono gli abi
tanti, avendo egli, con ordini severissimi, mantenuta la
più stretta, disciplina fra i suoi Goti, coi quali si appa
recchiava ora all’assedio di Roma.
A Totila pareva d’ esser vicino ad impadronirsi di
tutta Italia, giacché i Bizantini possedevano ora solo al
cune poche città, i loro generali non andavano d’ ac
cordo, e già scrivevano a Costantinopoli, come se lo
stato delle cose fosse disperato. Egli invece, pieno di
fiducia, scriveva al Senato e spargeva ovunque pro
clami, invitando le popolazioni a fare con lui causa co-
mime. Tutto ciò fini col decidere Giustiniano a rimandar
di nuovo in Italia Belisario (544), che non era però più
quello d’ una volta: infinite erano state le sue traversie,
le ingiuste persecuzioni da lui sofferte. Affranto dai do
lori e dalla più nera ingratitudine, costretto ad umi
liarsi dinanzi alla moglie che lo aveva tradito, accusato
d’ aver rubato parte del tesoro goto, per sopperire alle sue
spese eccessive, era stato richiamato dall’ Oriente, dove,
oppresso da tanti dolori, non gli aveva arriso la fortuna
della guerra. Oltre di ciò la sua guardia era stata disciolta,
ed egli privato d’ ogni ufficio, d’ ogni emolumento. Era vie
tato agli amici d’ avvicinarlo; e quindi, abbandonato da
tutti, si vedeva girar solo e pensoso per le strade di Costan
tinopoli, col sospetto di potere da un momento all’ altro
essere assassinato. Ed ora che la peste aveva desolato
l’ Impero, che lo stesso Imperatore ne era stato colpito,
ed a fatica era scampato dalla morte; ora che tutto anche
in Italia pareva andasse a rovina, bisognò di nuovo ricor
rere a lui, restituirgli parte della sua fortuna, ridargli il
comando supremo delle forze nella Penisola. Non potè
però riavere la sua guardia, che era stata già disciolta ;
non gli si potè costituire un nuovo esercito, nè dar da
nari : doveva a tutto provvedere da sò ; la guerra doveva
alimentare la guerra. Ciò nonostante, dimenticando ogni
cosa, si rimise con ardore all’ opera, e raccolse a sue spese
nella Tracia un corpo di 4000 Illirici, che condusse su-*
bito nella Dalmazia, dove li organizzò ed esercitò. D i là
riuscì a far pervenire qualche soccorso di uomini e vetto
vaglie alla guarnigione assediata e pericolante in Otranto,
per avere in sue mani un punto da cui ricominciare la con
quista dell’ Italia meridionale. Ed infatti i Goti che asse
diavano la terra, quando videro che di mezzo alle loro file
erano potuti passare i soccorsi, si ritirarono per andarsi
a ricongiungere con Totila. Questi s’ era intanto avviato
verso Roma; aveva preso Tivoli, facendo strage della po
polazione, e poteva di là impedire che pel Tevere scendes
sero vettovaglie nella Città eterna. Belisario avrebbe do
vuto e voluto soccorrerla subito, se avesse avuto il danaro
e gli uomini, che invece gli mancavano affatto. S’ avviò
quindi verso Ravenna, con la speranza di raccogliere
colà i veterani sbandati; ma l’ antico entusiasmo e l’ an
tica disciplina piò non esistevano. Impadronitosi infatti
di Bologna, invano aspettò che i veterani tornassero
sotto le sue bandiere. E i nuovi soldati illirici, che seco
aveva e che intanto non ricevevano le paghe, avuta no
tizia d ’ un assalto che gli Unni movevano al loro paese,
se ne partirono senz’ altro. Totila allora, avanzandosi
per la Via Flaminia, prese parecchie delle città rimaste
ancora ai Bizantini (545); e la guarnigione di Spoleto
non solo s’ arrese, ma si unì a lui. Egli così potò impedire
al nemico ogni comunicazione fra Ravenna e Roma, che fu
subito da lui assediata. Belisario, convinto della estrema
necessità di rialzare le sorti della guerra, ardeva del de
siderio di tentare un colpo ardito, per liberare l’ antica
capitale del mondo ; ma non aveva modo. Con grande in
sistenza chiese a Costantinopoli aiuto d’uomini e danaro;
dom andò sopra tutto d’ avere la sua guardia, esponendo
lo stato disperato delle cose in Italia, dove non c’ era da
aspettar piu nulla dalle popolazioni esauste e disgustate.
C orse poi con pochi de’ suoi a Durazzo in Dalmazia, per
andare incontro ai soccorsi che dovevano finalmente ar
riva re da Costantinopoli.
E ran o passati già dodici mesi, nei quali egli nulla asso
lutam ente aveva potuto concludere. Roma era assediata
dai G oti, che occupavano da padroni il paese circostante,
riscuotendo le imposte, raccogliendo il prodotto delle
terre. Dentro le mura la guarnigione imperiale assai de
b o le cominciava a mancare d’ogni cosa; la fame si fa
ce va già crudelmente sentire; e quello che era anche
peggio, alcuni dei capitani, specialmente il comandante
Bessa, avendo raccolto grano per l’esercito, ne vende
vano ai privati, facendovi lauti guadagni, e cercavano
perciò di mandare le cose in lungo. Molti, esausti dalla
fame, si trascinavano a fatica, come spettri, per le vie
della Città. Fu quindi necessario mandar fuori delle mura
i non combattenti, che spesso venivano uccisi dai nemici,
quando li vedevano lentamente traversar la Campagna.
Non è perciò da maravigliarsi se appena arrivati da
Costantinopoli gli aiuti cosi lungamente attesi, Belisa
rio che già ardeva del desiderio d’ andare a soccorrere
Roma, si mosse senza indugio. Ma di nuovo trovò osta
colo grandissimo in quella mancanza di disciplina, che
pareva ornai divenuta epidemica. Il generale Giovanni,
che per la sua parentela aveva potenti relazioni nella
Corte, era stato sempre nemico di Belisario, che per
avere gli aiuti necessari aveva dovuto pur decidersi a
mandar lui a Costantinopoli. E Giovanni adesso voleva
dalla Dalmazia avanzarsi coi suoi nell’ Italia meridionale,
per combattere i Goti, i quali erano colà sparsi e deboli.
Dopo averli vinti, egli diceva, sarebbe stato più facile ot
tener vittoria sotto le mura di Roma, dove egli e Belisa
rio avrebbero nello stesso tempo potuto assalire il nemico
da due lati, cooperando all’impresa comune anche la guar
nigione con una vigorosa sortita. Ma Belisario, che ri
teneva invece non doversi metter tempo in mezzo,
voleva recarsi direttamente per mare alla bocca del
Tevere, e risalendolo, avanzarsi senz’ altro a soccorrere
Roma d’ intesa con Bessa. Non essendo stato possibile
mettersi d’ accordo con Giovanni, si dovette finire al so
lito coll’ appigliarsi al peggiore dei partiti : operare cioè
ognuno per conto proprio. Cosi egli andò per mare a
Porto, e Giovanni sbarcò a Brindisi, entrandovi d op o
aver battuto i Goti, sottoponendo poi l’ antica Calabria
(Terra d’ Otranto), le Puglie e la Lucania. Di là, invece
di pensare a raggiungere Belisario, s’ avviò nel paese
dei Bruzi (Calabria), ed occupò Peggio, sbaragliando
i pochi Goti che v ’ erano, favorito dai latifondisti coi
loro contadini. Così fu padrone dello Stretto di Mes
sina, e potè annunziare a Costantinopoli, che aveva ricon
quistato r Italia meridionale. Quanto ad avanzarsi verso
il nord, come voleva Belisario, pare che non ci pen
sasse neppure. E quindi i pochi Goti, mandati da Totila nella Campania, erano più che sufficienti a tenerlo
d ’occhio.
Belisario intanto si trovava con poche genti a Porto,
invano dolendosi d’ esser lasciato solo. A d Ostia, che
egli poteva quasi toccar con mano, erano sempre i Goti,
e per mancanza di uomini, non poteva cacciarli, sebbene
anch’ essi fossero colà in assai piccolo numero. A quattro
miglia di distanza, là dove il Tevere è più stretto, Totila aveva potuto chiudere il fiume, mediante una ca
tena ed un ponte galleggiante, difeso da due torri di
legno, costruite sulle opposte rive. Pure Belisario era
deciso a soccorrere Poma, sperando di farvi entrare le
vettovaglie, e di penetrarvi poi egli stesso, giacché nep
pure dopo tanti disinganni il valoroso capitano s’ era
perduto d’ animo. Mandò quindi due finti disertori a
misurare l’ altezza delle torri; e poi, congiunte due bar
che con tavole, su di esse costruì una torre di legno,
sulla quale pose una piccola barca con materie infiam
mabili, che erano una mescolanza di zolfo, di pece,
di resina, qualche cosa di simile a ciò che più tardi fu
chiamato fuoco greco. Alle due barche che lentamente
s’avanzavano, teneva dietro una piccola flottiglia carica
di grano, con uomini armati, accompagnata da altri a
piedi ed a cavallo, i quali s’ avanzavano sulle due rive,
in compagnia di coloro, che colle corde su pel fiume ti
ravano le navi.
Prima di partire, Belisario aveva lasciato Isaace d’A r
menia a guardia di Porto, con ordine espresso di non
abbandonar mai quel posto, neppure per soccorrere lui
stesso, quando si fosse trovato in pericolo. Avvertì dei
suoi movimenti Bessa, invitandolo ad uscir dalle mura in
tempo, per potere ambedue contemporaneamente assalire
i Goti, di fronte ed alle spalle. Ma Bessa, occupato più che
altro de’ suoi propri guadagni, non dette segno di muo
versi, ed i Goti poterono liberamente andar contro Beli
sario, che sembrava avanzarsi con buona fortuna. Era in
fatti riuscito a levare la catena, ad incendiare una delle
due torri, quando sopraggiunsero i Goti, coi quali venne
subito a battaglia, e li respinse dopo averne uccisi 200.
Il ponte galleggiante era rotto, il fiume pareva ormai
libero al passaggio delle vettovaglie, quando a un tratto
la ruota della fortuna girò a suo danno. Nò Bessa, nò
Isaace d’Armenia, sebbene per diverse ragioni, avevano
obbedito agli ordini ricevuti, e questo fu causa della
rovina dell’ impresa nel momento stesso in coi Belisa
rio pareva che avesse già in pugno la vittoria. Giunta
a Porto la notizia, che i Bizantini s’ avanzavano vitto
riosi verso Roma, Isaace non potò più stare alle mosse,
e con 100 cavalieri traversò l’ Isola Sacra, che divide
Porto da Ostia, la quale egli prese senza difficoltà. Ma
sopraggiuusero allora i Goti, che poteron facilmente dis
fare i 100 cavalieri, uccidendone la più parte, e facendo
prigioniero Isaace, che li comandava in persona. La no
tizia assai esagerata di tutto ciò, arrivò a Belisario, come
un fulmine a ciel sereno, nel momento appunto in cui egli
si credeva decisamente vittorioso. E fu questa la prima
volta in sua vita, che perdò veramente la testa. S’ im
maginò che Porto fosse stato occupato dal nemico, che
sua moglie, la quale pur sempre amava, fosse prigioniera,
che i nemici potessero attaccarlo alle spalle e di fronte ;
ordinò quindi senz’ altro la ritirata. Ma quando giunse
a Porto, e vide come stavano veramente le cose, fu pel
dolore della perduta vittoria, preso da una febbre che
per qualche tempo lo rese affatto inabile a proseguire
la guerra.
Bessa se ne stava intanto tranquillo in Roma, pen
sando a guadagnare sulla fame che aveva ridotto al
l’ estremo i cittadini, irritatissimi perciò nel momento
in cui l’ opera loro era più che mai necessaria alla di
fesa delle mura. I soldati erano assai pochi ed anch’ essi
scontentissimi per essere trascurati affatto dal loro capo,
che li lasciava senza paghe e senza vettovaglie. La con
seguenza fu che quattro Isaurici, messi a guardia di
Porta Àsinaria, la tradirono al nemico. E cosi il 17 di
cembre 546 i Goti entrarono nella Città, che i Bizantini
abbandonarono, uscendo nello stesso tempo da un’ altra
porta in tal fretta, che Bessa dovè lasciare tutto il da
naro da lui così disonestamente guadagnato. V i fu al
lora come una fuga generale da Poma, dove, secondo
Procopio, sarebbero rimaste appena 500 persone, che
si ricoverarono nelle chiese, temendo la crudeltà dei
Goti. Questi infatti cominciarono subito la strage; ma
quando ebbero ucciso 26 soldati e 60 cittadini, furono
con ordini severissimi fermati da Totila, il quale venne
indotto alla clemenza anche dalle preghiere del diacono
P elagio, che in Roma faceva ora le veci di papa V i
gilio, il quale trovavasi nella Sicilia in via per Costan
tinopoli.
Totila, che era vittorioso, e si sentiva sicuro del fatto
suo, disse allora alle sue genti queste notevoli parole:
— In principio della guerra 200,000 Goti furono vinti
da 7000 Bizantini; ma oggi invece 20,000 Bizantini,
che tanti se ne trovano sparsi in Italia, furono vinti
dai deboli e disprezzati avanzi dei Goti. Ciò & avve
nuto, perchè allora i Goti si condussero ingiustamente
verso i Bizantini, e vennero puniti; ma ora che ab*
biamo invece osservato la giustizia, siamo stati da Dio
remunerati colla vittoria. — Entrato poi in Senato, rim
proverò ai Romani la loro condotta favorevole agl’im pe
riali, che li avevano spogliati di tutto. — Che male, egli
esclamò, vi hanno mai fatto i Goti ? — Mandò poi a C o
stantinopoli il diacono Pelagio, per concludere una pace
definitiva. « Io, egli scriveva a Giustiniano, ti rispetto
come un figlio deve il padre, e sarò sempre tuo fido al
leato. Ma se tu non accetti la pace, distruggerò Roma,
perchè da essa non possa venir nuovo danno ai Goti. »
E Giustiniano a tali minacce non si degnò neppur di ri
spondere, rimettendosi in tutto e per tutto a Belisario,
il che voleva dire alla sorte delle armi. Non c’ era quindi
da far altro, che apparecchiarsi a continuare la guerra.
Totila si vedeva ora costretto a recarsi nell’ Italia me
ridionale, dove i Bizantini in buon numero occupavano
molte terre, e rendevano sempre piò difficile il fornire
Roma di vettovaglie. Partendo, egli non poteva, per man
canza di uomini, lasciarvi una guarnigione sufficiente; co
minciò quindi a demolirne le mura, con animo di distrug
gere addirittura la Città. Ma quando procedeva in que
st’opera nefasta e di vera barbarie, ricevette una lettera di
Belisario, che gli fece una profonda impressione. « Non sai
tu dunque, questi gli scriveva, che le ingiurie fatte a Roma,
sono ingiurie ai trapassati, ai posteri ; sono una vera pro
fanazione ? Vuoi tu rimanere nella storia come il distrut
tore, piuttosto che come il preservatore della più grande
e magnifica città del mondo? » Totila, seoondo P roco
pio, restò da tali parole siffattamente colpito, che smise
la mal cominciata demolizione, e partì senz’ altro pel
Mezzogiorno, menando seco in ostaggio i Senatori, ordi
nando che tutti abbandonassero Roma, che, secondo lo
stesso scrittore, rimase davvero per qualche tempo de
serta. Lasciò sui monti Albani una piccola guarnigione,
come a guardar da lontano la desolata Città, in cui spe
rava di tornare ben presto, dopo aver vinto i Bizan
tini. Questo racconto può sembrare una leggenda; è
certo però che da una parte Totila non ayeva modo di
tenere occupata la Città eterna, e da un’ altra il fascino
grandissimo che essa esercitava ancora sui barbari era
sempre tale, che le dava ai loro occhi qualche cosa di
sacro e d’ inviolabile : il distruggerla doveva quindi pa
rere a tutti un delitto contro gli uomini e contro Dio. Si
aggiungeva poi che Totila non voleva romperla addirit
tura coll’Impero, e chiudersi cosi ogni possibilità di nuove
trattative.
Comunque sia, Roma si trovò ora per sei settimane
affatto abbandonata, restando, cosi almeno si narra, addi
rittura deserta. E Belisario, lasciata una piccola guarni
gione in Porto, respinti i pochi Goti che, scesi dai monti
Albani, gli vennero incontro, entrò dentro le mura e si
pose subito a restaurarle. Molti tornarono allora dalla
Campagna, ed insieme coi soldati s’ adoperarono a tutt’ uomo per riparare i guasti portati ad esse. Manca
vano però gli operai capaci di rimettere a posto gli usci
delle porte, che erano stati abbattuti. Si provvide quindi
alla meglio, chiudendole in fretta, essendosi saputo che
Totila, avuta notizia dell’ entrata di Belisario, tornava in
dietro a gran passi. Tre volte infatti diede l’assalto ; ma
fu sempre respinto ed inseguito, fino a che si ritirò a
Tivoli. E Belisario allora potè trovar modo di far rimet
tere gli usci alle porte della Città, di cui mandò le chiavi
a Costantinopoli. Correva l’ anno 547, dodicesimo della
guerra bizantina, terzo della seconda campagna.
I Goti erano sempre assai potenti in Italia. Padroni
nel Settentrione, dove si trovavano ancora i Franchi ve
nati in loro aiuto, essi occupavano la Venezia, e s’ erano
avanzati nell’ Italia centrale, che tenevano quasi tutta,
ad eccezione di Ravenna, Perugia, Ancona, Roma e Spo
leto. Nel Mezzogiorno invece dominavano i Bizantini,
sebbene anche colà non mancassero Goti, disseminati
in diversi punti, qualcuno dei quali strategicamente im
portante. Certo per g l’ Imperiali riusciva di grande
vantaggio morale e materiale il possesso delle due ca
pitali, Roma e Ravenna. Ma l ’ opera di Belisario era
paralizzata dal disaccordo persistente con Giovanni ; nè
l’ Imperatore mandava aiuti di sorta. Cosi corsero an
cora da e anni, nei quali i Bizantini non fecero altro
che accrescere sempre più il malcontento delle popola
zioni, con vantaggio dei Goti, i quali perciò andavano
ripigliando nuove terre, fra le altre Rossano e Peru
gia. Belisario era quindi in uno stato di sconforto di
sperato, tanto che sua moglie Antonina si decise a
partire per Costantinopoli, sperando d’ ottenere per lui
i necessari aiuti, mediante la protezione che aveva sem
pre avuta di Teodora ; ma, arrivata colà, trovò invece che
questa era già morta il 1° luglio 648. E non potendo far
altro, chiese ed ottenne il ritorno del marito, che nel 549
era da capo a Costantinopoli, carico al solito di ricchezze
accumulate nella guerra, ma con la sua antica gloria
molto offuscata, giacché nulla d’ importante aveva po
tuto concludere in questa seconda campagna d ’ Italia.
E tatto ciò appariva anche assai più evidente, se si fa
ceva il paragone cogli strepitosi successi ottenuti nella
prima. Egli restò a Costantinopoli, sempre onorato, ma
senza mai più avere, per dieci anni continui, il comando
dell’ esercito.
Nel 659 però gli Unni, essendo entrati nella Media ©
nella Tracia, cominciarono a fare stragi crudeli, minac
ciando la stessa città di Costantinopoli. Ed allora Giusti
niano, che era già vicino ai 77 anni, e s’ era per modo
spaventato, che voleva fuggire dalla capitale, ricorse di
nuovo all’ ormai vecchio, ma pur sempre glorioso capi
tano. Questi aveva già superato i 54 anni, e i dolori pa
titi lo avevano assai fiaccato ; pure, senza esitare, corse
alle armi, raccolse alcuni de’ suoi veterani e parecchi con
tadini; formò cosi un piccolo esercito, e con un nuovo mi
racolo d’ audacia, di accortezza e di valore strategico, re
spinse un nemico assai più numeroso, che lasciò 400 morti
sul campo di battaglia. E fu allora appunto che Giusti
niano, sopraffatto dalla puerile o per dir meglio senile
gelosia, lo richiamò, preferendo accordarsi definitiva
mente col nemico mediante danaro, piuttosto che otte
nere una pace onorevole che avrebbe fatto rivivere l’ an
tica gloria del suo invidiato generale. Questi fu di nuovo
accolto dal popolo come un trionfatore, ma restò poi
sempre lontano dagli affari e dal comando dell’ eser
cito. Ciò dette ai suoi nemici tanto ardire, che lo ac
cusarono di cospirazione contro lo stesso Imperatore,
il quale da capo lo privò d’ ogni suo avere, ponendolo
anche sotto sospettosa vigilanza. Ma alcuni mesi dopo,
forse ravveduto o pentito, restituì ad esso gli emolumenti
di cui lo aveva privato (luglio 563). Nel 565 il valoroso
capitano trovò finalmente pace nella tomba, circa nove
mesi prima che morisse l’ Imperatore, da lui così fe
delmente servito. La leggenda, secondo la quale egli
avrebbe finito la sua vita, cieco, povero, seduto alla porta
d’ una chiesa, con una scodella di creta in mano, chie
dendo limosina, D ate óbolum B elisario, si formò tra i
secoli x i e x n ; ma di essa nulla sanno i contempo
ranei, i quali tacciono quasi affatto degli ultimi suoi
anni infelici. Assai probabilmente, come fu già osser
vato, ri fece confusione con quello che avvenne a Gio
vanni di Cappadocia, che realmente fini limosinando, non
però cieco.
C A PITO LO I X
La dìsputa dei Tre Capitoli - Ritorno di Narsete In Italia
D isfatta di Totila e di Teja - Fine del regno ostrogoto
La definitiva ritirata di Belisario dagli affari segna la
fine, anzi ri pnò dire il fallimento della politica estera di
Giustiniano. Da ogni parte infatti i barbari sembravano ora
avanzarsi di nuovo. Più di tutti orgogliosi e sicuri del loro
avvenire parevano i Franchi; la fortuna di Totila sembrava
anch’ essa rapidamente risorgere. In Roma v’ era una guar
nigione di soli 3000 soldati imperiali, poco o punto pa
gati, privi di tutto, e però scontentissimi, i quali ave
vano ucciso il generale Conon, che sembrava voler come
Bessa, in mezzo alla comune calamità, far guadagno colla
vendita del grano. Li comandava ora Diogene, stato già
della guardia di Belisario, e che alla testa de’ suoi aveva
respinto gli ultimi ripetuti assalti di Totila. Questi potè
tuttavia occupar Porto, di dove riuscì ad affamare la
Città, fino a che alcuni soldati isaurici, stanchi di soffrire
senza mai avere le paghe, la tradirono al nemico, aprendo
la Porta S. Paolo, per la quale esso entrò, facendo strage
della guarnigione. Diogene si salvò con parte de’ suoi;
altri 400 si chiusero nella tomba d ’Adriano, ma dovettero
poi anch’ essi arrendersi per fame, unendosi ai soldati
di Totila (549), che si mostrò generoso verso di loro, giac
ché si riteneva ornai sicuro di vincere, e cercava perciò
di vivere in armonia colla popolazione romana. Diverse
città s’ andavano infatti ogni giorno arrendendo a lui come
fecero Rimini e Taranto, come promettevano di fare, se
non venivano presto soccorse dagl7Imperiali, anche Ci
vitavecchia ed Ancona. Egli pensò quindi d’ andare verso
il sud, prendere le isole, e colla flotta rendersi padrone
del mare, per interrompere le comunicazioni degl’ im pe
riali con Costantinopoli. Passato quindi il Faro, sbarcò in
Sicilia, e trovando resistenza a Messina, penetrò nell’ in
terno dell’ isola, e ne occupò facilmente la campagna.
Questo sarebbe stato per Giustiniano il momento di
provvedere con energia alla guerra, se non voleva ad
dirittura rinunziare all’ Italia. Sfortunatamente però egli,
già assai vecchio e piò o meno invaso sempre da una
manìa religiosa, s’era da qualche tempo siffattamente
immerso nella teologia, che per essa trascurava i bisogni
più urgenti della guerra e dello Stato. Aveva l ’ ambi
zione d’ essere il sostenitore della vera fede, il restau
ratore della unità non solo dell’ Impero, ma anche della
Chiesa. Se non che l’ Oriente e l’ Occidente non riusci
rono mai ad andar pienamente d’ accordo sul concetto
fondamentale della suprema autorità religiosa. Nelle cose
della fede il Papa non poteva ammettere nò superiori,
nò uguali, qualunque fossero d’ altronde i meriti e i ser
vigi che altri avesse resi alla Chiesa. Giustiniano invece,
che faceva derivare la sua autorità politica non dal po
polo, dal Senato o dall’ esercito, ma direttamente da
Dio, sebbene riconoscesse la superiorità del potere spi
rituale sul temporale, riteneva che l’ uno e l’ altro do
vessero metter capo all’ Imperatore. E però voleva, an
che nelle cose della fede, stare alla testa della Chiesa,
dei sacerdoti e dei credenti. « La nostra principale sol
lecitudine, così egli scriveva, ò rivolta ai veri dogmi
di Dio, alla onestà del clero.» Condannava perciò gli
eretici e le dottrine eterodosse ; non voleva riconoscere
valore definitivo ai decreti dei Sinodi e del Papa, ma
solo a quelli del Concilio ecumenico, convocato da lui,
che ne sanzionava e promulgava le deliberazioni. A tutto
ciò Roma non poteva mai consentire.
Animato costantemente da siffatti pensieri, Giustiniano
s’ era da un pezzo stranamente esaltato per la scoperta
che era stata fatta d’ alcuni errori o piuttosto inavver
tenze in cui era caduto il Concilio di Calcedonia, e vo
leva avere la gloria di correggerli : a tal fine si chiudeva
assai spesso nel suo studio a meditare, a discutere ar
dentemente con preti e con frati. La questione di cui
da qualche tempo s’ occupava, è nota sotto il nome dei
Tre Capitoli o sia tre punti controversi. Essa era molto
oscura, molto intricata, e senza grande valore teologico ;
ma aveva per lui anche una importanza politica. Ora
come sempre l’Imperatore desiderava piena concordia con
Roma; ma questa concordia, appena veniva conclusa,
suscitava la discordia in Oriente, dove, come in Egitto,
numerosissimi e passionati erano i seguaci della dottrina
monifisita, fieramente avversata dalla Chiesa romana.
La nuova controversia versava sulle dottrine di tre ve
scovi orientali, nelle quali s’ erano scoperte tracce evi
denti d’eresia, sebbene il Concilio di Calcedonia non le
avesse notate. Pare che Teodoro Ascida, iniziatore di que
sta disputa, facesse sperare all’ Imperatore che, avendo
quei tre vescovi aspramente combattuto la dottrina monofisita, il condannarli gli avrebbe potuto indirettamente
conciliare i seguaci di essa, senza irritare la Chiesa ro
mana. E Giustiniano, persuaso, non senza ragione, che i
tre vescovi avessero veramente errato, ne fu come in
fatuato, ed « In nome del Padre, del Figlio e dello Spi
rito Santo », anatemizzò i Tre Capitoli, invitando i Monofisiti a fare adesione alla vera dottrina da lui esposta
(544 e 551). Ma s’ era questa volta pienamente ingan
nato. Il suo decreto non gli guadagnò punto i Monofisiti,
e suscitò invece una viva opposizione in Occidente, dove
si vedeva in esso un’ offesa all’ autorità del Concilio di
Calcedonia (451), ed a quella del Papa. Oltre di che, i tre
vescovi condannati col decreto imperiale, non solo erano
stati rispettati a Calcedonia, ma erano già morti da un
secolo. A che dunque turbare adesso le loro ceneri ? La
disputa sollevata era per lo meno inopportuna, e senza
pratico valore. Pure Giustiniano non sapeva pensare ad
altro, e non voleva in nessun modo recedere.
Chi si trovava ora peggio di tutti era papa Vigilio, il
quale, per gl’ intrighi di Teodora salito sulla cattedra di
S. Pietro, era stato chiamato a Costantinopoli, dove pa
reva che fosse fra l’incudine ed il martello. Se infatti con
dannava i Tre Capitoli, destava un vespaio in Occidente;
se non li condannava, si poneva in lotta coll’Imperatore. E
fini col cedere a questo, pubblicando nel 548 la condanna
dei Tre Capitoli. Ma quando vide la fiera tempesta che
si sollevò in Occidente contro di lui, della quale Giu
stiniano non teneva nessun conto, mutò avviso, ponendosi
in aperta opposizione con l’ Imperatore. Non intervenne
nel Concilio ecumenico, del quale egli stesso aveva sug
gerito la convocazione, anzi protestò contro di essa (553).
Il Concilio, come era da aspettarsi, condannò esplicita
mente i Tre C apitoli; e ne seguirono disordini, nei quali
fu in pericolo la vita stessa del Papa, che, dopo aver sop
portato gravi violenze, venne confinato in un’isola del Mar
di Marinara. Dopo sei mesi finalmente, stanco delle patite
calamità, oppresso dagli anni, tormentato dal mal della
pietra, cedette, ed il 23 di febbraio 554 pubblicò la con
danna dei Tre Capitoli. Potè allora ripartire per l’ Italia;
ma appena che fu arrivato in Sicilia, mori il 7 gen
naio del 555.
Pur tali erano allora la potenza della Chiesa e l’au
torità dei Papi, che anche in questi anni di debolezza
e di patite violenze, si ottennero per essa dall’ Impero
nuove e notevoli concessioni. Nel 554 infatti era stata
pubblicata quella Prammatica Sanzione, che sanzionando
definitivamente il diritto giustinianeo in Italia, concedeva
al clero nuova autorità anche nelle cose temporali. I giu
dici dovevano essere eletti dai Vescovi e dai principali
cittadini ; nei pesi e nelle misure si dovevano osservare le
norme fissate dai Vescovi e dal Senato. £ tutto ciò dopo
molte altre concessioni fatte anche prima. Sin dal 546
era stato deciso che il clero doveva esser giudicato dai
soli tribunali ecclesiastici. In molti casi si poteva dai
giudici ordinari appellare al Vescovo, che diveniva cosi
come una specie di tribuno della plebe: a lui era affi
data la cura dell’ annona, degli edilìzi pubblici, degli
acquedotti. Di certo tutte queste concessioni erano fatte
ai Vescovi come ufficiali dipendenti dall’ Impero. Ma la
Chiesa le accettava senza discutere, e quando l’ autorità
dell’Impero cominciò a decadere, ed essa potè sempre più
affermare la propria indipendenza spirituale, una uguale
indipendenza si estese naturalmente anche all’ esercizio
di quelle temporali facoltà che, senza riflettere alle ine
vitabili conseguenze, le erano state concesse. L ’ Impero
aveva dato alla Chiesa le armi con le quali essa doveva
poi combatterlo. £ la Prammatica Sanzione che poneva
come il suggello a tali e tante concessioni, era stata pub
blicata da Giustiniano, come in essa ò detto esplicita
mente, per seguire i consigli di quello stesso papa Vigilio
che egli aveva cosi maltrattato, cosi umiliato!
Giustiniano, ò vero, poteva esser lieto d’ aver trion
fato nella questione dei Tre Capitoli, essendo riuscito a
farli condannare dal Papa ; ma era ben lungi dall’ avere
ottenuto lo scopo finale che s’ era prefisso, giacché egli
non aveva guadagnato alla sua causa un solo Monofisita,
e s’ era invece sempre più alienato l’ animo delle po
polazioni italiane. La lotta religiosa da lui provocata
aveva inoltre messo in chiaro, che sotto i Bizantini il
Papa non era, non poteva essere libero. Per sei anni
infatti Vigilio era stato costretto a fermarsi in Costan
tinopoli, dove risiedeva il Patriarca a lui avverso, ed
era stato malmenato dall’ Imperatore, che lo aveva trat
tato come un suo dipendente.
Certo la condotta di papa Vigilio era stata poco ono*
revole, e risaltò a grave danno della Chiesa, che dopo
di lui soffri circa un mezzo secolo d’ oscurità e di deca
denza fino a che non venne a sollevarla Gregorio Magno.
Ma in tutto ciò il procedere di Giustiniano fu assai im
prudente, e causa non ultima della caduta del dominio
bizantino in Italia e della venuta dei Longobardi. Il vero
è che egli voleva ricostituire l’ unità dell’ Impero, ed i
papi volevano invece fondare l’ unità e l’ autorità univer
sale della Chiesa cattolica; ma nessuno di questi due di
segni poteva essere pienamente attuato, perchè l’ Oriente
doveva politicamente e religiosamente separarsi dall’Oc
cidente.
Già da gran tempo Giustiniano, chiuso nel suo studio,
èra talmente immerso nelle sue sottigliezze teologiche,
che avrebbe per esse abbandonato anche quella guerra
d ’ Italia, con tanto ardore da lui intrapresa, ma che con
grande spargimento di sangue, con crudele rovina delle
misere popolazioni, era durata assai più a lungo, che egli
non avrebbe mai pensato. Se non che da tutte le parti
gli si facevano premure, perchè conducesse una volta a
compimento la restaurazione dell’ Impero, e molti emi
grati erano dall’Italia stessa venuti per deciderlo a ciò.
Il problema principale per lui era allora : trovare un ge
nerale in capo, cui affidare quella unità di comando così
necessaria a condurre con fortuna la guerra. A Belisario,
dopo gli ultimi fatti, non era più da pensare. Elesse
quindi Germano ano nipote che, avendo sposata mia ni
pote di Teodorico, vedova di Vitige, pareva dovesse ispi
rare qualche simpatia anche nei Goti. E gli era ricco di
ano, e per poter condurre la guerra ebbe a sua libera
disposizione la cassa dell’ Impero. Ben presto si vide
quindi da ogni parte accorrer gente sotto le sue ban
diere, non esclusi anche alcuni Goti. Ma quando aveva
raccolto in Dalmazia buon numero d’ armati, ed era
pronto a partire, fu colpito dalla morte. L ’ esercito ri
mase perciò a svernare presso Salona (560-651).
Totila aveva intanto assediato Ancona, città assai im
portante per g l’ imperiali, massime quando avessero vo
luto fare uno sbarco dalla Dalmazia nell’ Italia centrale.
E per questa ragione il generale Giovanni, uomo ardito
ed ambizioso, che assai bene conosceva l’ Italia ed i
Goti, si decise, non ostante gli ordini avuti in contrario,
a muoversi dalla Dalmazia per tentar di liberare quella
città dalla parte del mare. Messosi quindi d’accordo con
Valeriano, che era a Ravenna, riunirono i loro navigli, e
nelle acque di Sinigaglia s’ affrontarono con la flotta dei
Goti, i quali sul mare non avevano potuto mai tener testa
ai Bizantini, e la distrussero affatto, rimanendo padroni
dell’ Adriatico, che liberamente poterono percorrere. I
Goti allora, levato l’ assedio da Ancona, si ritirarono in
Osimo, e Totila s’ indusse a far nuove proposte di pace,
dichiarandosi pronto a lasciare la Dalmazia e la Sicilia
all’ Impero, cui avrebbe anche pagato un tributo, rico
noscendone la superiore autorità. In questo modo, egli
diceva, si sarebbe impedito che tutto finisse a vantaggio
dei Franchi, i quali occupavano sempre parecchi punti
importanti nell’ alta Italia. Ma ormai ogni discussione
era vana, perchè Giustiniano aveva già nominato il nuovo
generale in capo nella persona di Narsete (551).
Questo oelebre eunuco aveva allora circa settantatrè
anni, era curvo e piccolo della persona. Fino a sessan
tanni era stato sempre nell’amministrazione, acquistando
in essa gran nome e grande perizia. Estremamente ac
corto ed ambizioso, era cattolico ardente, ed aveva la
reputazione d’essere sotto la diretta protezione della Ver
gine, per la quale professava un culto speciale. Giusti
niano, col suo istinto divinatore, lo aveva nominato gene
rale la prima volta, quando era già arrivato a sessantanni,
senza aver mai avuto occasione di dare una prova qua
lunque delle grandi qualità militari che poi mostrò di
possedere, e delle quali nessun altro s’ era fino allora
accorto. Mandato in Italia quando v ’ era sempre Belisa
rio, non aveva potuto allora far conoscere il suo valore,
perchò, venuto subito in urto col comandante in capo,
aveva più che altro recato danno all’ esito della guerra.
Pure dimostrò un singolare ascendente non solo sui sol
dati, ma anche sui generali suoi compagni d’arme. Questo
valse sempre più a confermar l’ Imperatore nella grande
opinione che di lui s’era come per istinto formata. E per
ciò lo mandava ora nuovamente in Italia, generale in
capo, a rialzare le sorti della guerra e dell’ Impero. Narsete, che era anch’ egli ricchissimo, e sapeva come cavar
danari dall’ Impero, pensò innanzi tutto di porre insieme
un grosso esercito, non parendogli punto sufficiente quello
che era stato già riunito in Dalmazia. Fece quindi leva
di uomini a Costantinopoli, nella Tracia, nell’ Illirico.
Raccolse anche 2500 Longobardi, i quali menaron seco
altri 3000 armati, ed erano comandati da Audoino, padre
di quell’Alboino, che sedici anni più tardi occupò coi
suoi l’ Italia; raccolse 3000E ruli; ebbe a suo comando
Gepidi, Unni, perfino Persiani. E con queste genti si recò
nella Dalmazia, per unirsi a coloro che già v ’erano, ordi
narli, organizzarli tutti, e partire poi per l’ Italia.
Sebbene g l’ imperiali fossero ora padroni dell’ Adria
tico, pure non avevano naviglio capace di trasportare un
grosso esercito. In ogni caso dava pensiero il pericolo
d’ una possibile tempesta o d’ un improvviso assalto dei
nemici contro navi da trasporto, cariche d’ nomini e di
materiale da guerra. Narsete decise quindi d’ avanzarsi
per terra, lungo la costa, accompagnato per mare da navi
con vettovaglie, e di esse si giovò anche per traversare i
grossi fiumi come il Tagliamento, l’ Isonzo e la Brenta.
Continuando il suo cammino, evitò i luoghi fortificati, e le
terre occupate dai Franchi. Verona, che era tenuta dai
Coti, sotto il comando del valoroso generale Teja, si
trovava assai lontana. E cosi gl* Imperiali poterono arri
vare sicuri fino a Ravenna, poi a Rimini, ove, disfatta
una parte della guarnigione che usci a sfidarli, ucciso il
generale che la comandava, continuarono verso il sud
per la via Flaminia. L* abbandonarono però nel punto in
cui essa, allontanandosi dal mare, ripiega verso l’Appen
nino, che traversa al passo detto del Furio o di Pietra Pertusa. È questo una specie di tunnel naturale, fortificato e
tenuto allora dai Goti, difficilissimo quindi a sforzarlo.
Narsete lo evitò, proseguendo la sua marcia lungo il mare,
e volgendo poi a destra, raggiunse di nuovo la via Flami
nia. Passato che ebbe l’Appennino, pose il campo là dove
si distende una vasta pianura, tra Scheggia e Todino,
che distano fra loro circa quindici miglia: ivi dette la
sua prima grande battaglia.
Totila si trovava allora presso Roma, aspettando che
le genti di Teja lo raggiungessero. Ed arrivata che fu
la più parte di queste genti, s’ avanzarono insieme con
tro gl’ imperiali, sebbene li sapessero in forze prepon
deranti. Narsete, esaminato il luogo, mise un manipolo
di 60 uomini sopra un piccolo colle da lui riconosciuto
come il punto strategico del campo. Quei pochi militi,
durante una giornata intera, difesero il colle con un
valore, con un eroismo degno degli antichi Romani, re
spingendo i ripetuti assalti della cavalleria gota. Nar
sete aveva messo nel centro i barbari, dei quali poco si
fidava, ordinando che, scesi da cavallo, combattessero a
piedi, acciò più difficilmente, per paura o tradimento,
potessero darsi alla fuga. A sinistra ed a destra erano i
Romani, ed in ciascuna delle due ali si trovavano 4000 ar
cieri che, contro l’ uso adottato da Belisario, combatte
vano anoh’ essi a piedi. Cinquecento cavalieri erano a
sostegno dell’ ala sinistra, distendendosi verso il colle,
che abbiam visto già occupato come punto strategico del
campo. Mille altri cavalieri eran tenuti in riserva, pronti
ad ogni evento.
Il concetto di Narsete era : attendere l’ assalto del ne
mico, il quale, trovando più debole il centro, avrebbe
contro di questo diretto lo sforzo maggiore, e cosi, avan
zandosi, sarebbe stato facilmente circondato dalle due
ali. Totila che aveva allora indugiato, per aspettare altri
aiuti da Teja, giunti che furono gli ultimi 2000 uomini,
cominciò la battaglia. Gli arcieri imperiali fecero grande
strage dei Goti. I Longobardi e gli Eruli, dopo un mo
mento di esitazione, assalirono anch’ essi con gran vigore
il nemico, che volse le spalle. E la cavalleria gota, su cui
Totila aveva fatto il maggiore assegnamento, si dette
a così precipitosa fuga, che molti dei fanti morirono cal
pestati dai cavalli. Egli stesso, ferito gravemente, si dovè
ritirare dal campo, e morì nella capanna d’ un villaggio,
detto allora Caprae, ora Caprara, a quindici miglia dal
luogo della battaglia, fra Gubbio e Tadino (662).
I barbari dell’ esercito imperiale, sopra tutto i Lon
gobardi, insofferenti della disciplina, si dettero ad ogni
eccesso, saccheggiando, bruciando le capanne dei con
tadini, violando le donne, suscitando un tale malcontento,
che Narsete, il quale non era di certo nò mite, nò pietoso,
si dovette decidere a disfarsi dei Longobardi. Mediante
buona somma di danaro li indusse quindi a tornarsene
a casa, col loro seguito, per la via delle Alpi Giulie, ac
compagnati da Valeriano. Questi voleva nel ritorno as
sediare Verona; ma vi si opposero i Franchi, che occu
pavano molte terre nella parte orientale della regione
transpadana, e che agl’ imperiali preferivano i Goti, più
deboli assai ed aspramente combattuti ora nell’ Italia
meridionale. Oltre di che, avendo i Goti appunto consen
tito che i Franchi occupassero le terre che ora tenevano
in Italia, poteva a questi sembrare atto di buona e leale
politica il favorirli, ben inteso, fino a quando il proprio
interesse non avesse consigliato altrimenti. Valeriano
perciò, non volendo suscitare una seconda guerra, quando
non era anche finita la prima, si fermò, cercando solo
d’impedire che i Goti, i quali s’ andavano raccogliendo
sempre più numerosi nei nord, andassero verso Roma a
rinforzare i loro compagni d’ arme ora che nuovi scontri
parevano inevitabili ai sud. Dopo la disfatta e la morte
di Totila, essi s’ erano andati adunando a Pavia, la quale
sin da quando perdettero Ravenna, era divenuta una delle
loro principali città, e colà elessero a loro re il valoroso
Teja, che venne accettato con favore universale. Questi
cercò subito d’assicurarsi la sempre incerta amicizia dei
Franchi ; ma riuscì solo ad ottenere che restassero neu
trali, ed anche ciò l’ ottenne abbandonando ad essi il
tesoro dai re Goti raccolto a Pavia. Certo ai Franchi
metteva conto di starsene ora a guardare, aspettando che
i due rivali si consumassero a vicenda, per dar poi ad
dosso al vincitore.
Intanto le città dell’ Italia centrale e meridionale s’ ar
rendevano rapidamente ai Bizantini. Così fecero Narni,
Spoleto, Perugia, così fece anche la guarnigione di Pietra
Pertusa, Narsete già camminava verso Roma, occupata dai
Goti, i quali s'erano concentrati premo la Mole Adriana,
che TotOa «vera fortificata. Emi non orano in numero
tale da poter difendere le mura della città, ma gl'Im
periali non erano sufficienti a circondarla. Si venne per
ciò da capo ad una serie d'assalti e difese alla spic
ciolata, fino a che uno dei capitani di Narsete, essendo
riuscito a scalar le mura in un punto dimenticato, potè
aprire le porte ai moi. che entrarono rapidamente, I
Goti si dettero allora alla foga, e quelli che erano chiusi
nella Mole Adriana, poco dopo s'arresero. Cosi furono
di nuovo mandate a Giustiniano le chiavi di quella Roma
invitta, che cinque volte, sotto questo solo imperatore,
era stata presa e ripresa.
Ne segui un periodo di nuove stragi. Molti dei Sena
tori ancora prigionieri nell'Italia meridionale, furono nccisi. E Teja macchiò la sua fama di valoroso, facendo tru
cidare anche 300 giovanetti romani, che erano stati scelti
come paggi, ma che in realtà erano tenuti in ostaggio.
Il fatto è che i Goti, ornai pochi e dispersi, erano come
inferociti per la disperazione ; e cosi le piò selvagge pas
sioni si scatenarono sulla misera Italia, di cui pareva
s’awicinasse la fine. Alcuni di essi da Pavia andarono ad
unirsi coi Franchi nei nord; altri nel sud, sotto il co
mando di A ligem o fratello di Teja, si chiusero in Ouma,
dove era un’altra parte del tesoro nazionale. E Narsete
vi mandò subito un drappello de’ suoi, per tentare d ’ imp&dronirsene dopo aver preso la città» No mandò altri
in Toscana, ad impedire che Teja, avanzandosi di là,
s’ unisse col fratello e cogli altri compagni nel sud. Ma
quel valoroso riuscì ad evadere ogni ostacolo, n traver
sato l’Appeunino, andò oltre verso il sud, ove da capo
i Goti erano in gran numero. Una nuova battaglia era
quindi inevitabile. Narsete perciò si mosse ad incontrare
Teja prima che riuscisse ad unirsi al fratello; e lo rag
giunse presso Napoli, a Nocera, sul fiume Samo. Colà il re
goto s’era fermato, avendo alle spalle il Monte S. Angelo,
e ricevendo dalle sue navi aiuto continuo di vettovaglie.
Ma queste navi lo tradirono ad un tratto, passando ai
Bizantini ; ed allora egli retrocesse alquanto fra le balze
del Monte Lettere (Lactarius), che è parte del Monte
S. Angelo. Colà egli non poteva, per mancanza di vetto
vaglie, restare a lungo; dette perciò l’ordine di attaccare.
I suoi allora si spinsero con irresistibile impeto contro
il nemico, che non ebbe neppure il tempo d’ ordinarsi: si
dovette perciò combattere alla spicciolata. Teja si con
dusse eroicamente, alla testa de’ suoi. Gl’ Imperiali mi
ravano tutti a lui, e le loro frecce restavano infisse nel
suo scudo. Di tanto in tanto, non potendo pel grave peso
più reggerlo, lo dava ad un soldato, che glielo mutava
con un altro. Ed in uno di questi momenti, il suo petto
essendo rimasto scoperto, egli venne mortalmente ferito. I
nemici allora gli tagliarono la testa, e sopra una lancia
la portarono in giro pel campo, dinanzi ai due eserciti. I
Goti combatterono ancora due giorni, ma poi s’ arresero,
salva la vita, con facoltà di portar via i loro beni mo
bili, con l’ obbligo però di non continuare a combattere
contro l’ Impero. Cosi molti di loro passarono le Alpi,
andando a confondersi con altre genti; non pochi si
sparsero per le terre d’ Italia, con la speranza di farsi
dimenticare. Nè mancarono quelli che, non avendo ac
cettato i patti, s’andarono ad unire coi Franchi, cercando
d’ indurli ad attaccare i Bizantini, i quali, essi dicevano,
dopo aver disfatto i Goti, avrebbero certamente voluto
disfare e cacciar via dalla Penisola anche i Franchi. Altri
finalmente preferirono chiudersi e difendersi, per proprio
conto, in alcune città fortificate. Cosi fecero quelli che
erano in Crema, cosi un migliaio ohe si rifugiarono a
Pavia, cosi altri in altre città; ma furon tutti prima o
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ma dovettero ben presto tTredersi e ie l'Italia era esan*
sta, die si poteva f i l r e di rovinar.*, non però piò sperare
di fiffti ricca prela. A n i: era divenuto in essa assai d if
ficaie trovar da vivere per no esercito che non avesse
ricevuto aiuto di fuori.
Comunque sia di ciò, Narsete aveva ora contro di *ò
gli avanzi dei Goti, i quali erano chiusi nelle cittò ter
tificate, e l’ esercito franco-alamanno, ohe non era pie
colo, e se la fortuna lo secondava o la guerra andava
in lungo, poteva avere rinforzi da casa sua* Kgli lasciò
quindi che si continuasse il blocco di Guma, nella quale
Aligerno pareva deciso a fare ostiuata reni Klemm, e eoi
grosso de’ suoi si recò in Toscana, dove le città occupate
dai Goti s’ arresero tutte facilmente, saivo Lucca che si
difese con energia, sperando soccorso dai Franco-Ala
manni, i quali allora appunto s’ avanzavano con audacia.
Infatti i Bizantini, che Narsete aveva mandati verso
Parma, per affrontarli o almeno arrestarli nel loro cam
mino, furono invece battuti, e dovettero retrocedere verso
Faenza, lasciando libera ai Franchi la via di Toscana.
Tutto questo portò, come era naturale, un grande sgo
mento nel campo imperiale presso Lucca, temendosi di
potere essere contemporaneamente assaliti alle spalle e
di fronte, per qualche sortita fatta dalla città. Narsete
però dette prova di tale e tanta fermezza, ohe non solo
rialzò l’ animo de’ suoi; ma indusse la città ad arrendersi.
Anche Aligerno, che si trovava sempre in Cuma, vedendo
che era inevitabile arrendersi o all’ Impero o ai FrancoAlamanni, che continuavano, come barbari che erano, a
saccheggiare, a distruggere tutto quello che incontravano,
si decise d’ andare in persona a Classe, per presentarsi a
Narsete, il quale s’ era allora avanzato fino a Ravenna.
Colà non solamente il Goto si arrese; ma egli, fratello
di Teja, divenne fedele soldato dell’ Impero, pel quale
d’ ora in poi si battè valorosamente (553).
Restavano adesso da vincere solo i Franco-Alamanni,
che continuavano rapidamente il loro cammino verso
il sud. Narsete riuscì a farne battere due mila da poche
centinaia de’suoi, che li assalirono presso Ravenna. Si ri-,
tirò poi verso Roma, perchè quei nemici s’ avanzavano
saccheggiando senza mostrare nessuna voglia di venire
a battaglia. Passato l’Appennino, essi si divisero in due
schiere, una delle quali comandata da Butelin, che gl’ita
liani chiamavano Baccellino, si spinse per la Campania
e la Lucania nei Bruzi; l’ altra, comandata da Leutari,
s’avanzò per la Puglia e l’antica Calabria fino ad Otranto.
Ma. i dae fratelli ben {vesto non andarono più d’aocordo»
Baccellino voleva continaaro F impresa; L w ta ri voleva
invece ritirarsi verso casa coi prigionieri e la preda già
fatta. A Pesaro però questi venne assalito dai Bizantini;
perdette i prigionieri, che si dettero alla fraga, e la preda
che gli fa tolta. Arrivato nel Veneto, la peste uccise con
lui la più parte de’ suoi. Non molto diversa fra la sorte dì
Baccellino. Avanzandosi attraverso un paese già deva
stato, che Narsete gli faceva trovar sempre più devastato,
per privarlo d’ ogni vettovaglia, dove cibare i suoi sol
dati di sola uva, il che produsse una violenta diarrea, la
quale costrinse anch’essi a retrocedere. Arrivato eoa
30,000 uomini sul Volturno, e saputo che i Bizantini gli
venivano incontro con soli 18,000, si fortificò ool fiume
da un lato, i carriaggi da un altro, pronto a resistere.
Narsete a sua volta rinforzò le ali del proprio esercito,
con animo di cedere al centro, per ricevere il nemico ohe
s’ avanzava in forma di cuneo, e cosi facilmente oiroondarlo. La battaglia, in cui prese parte anche Aligerno,
fu lunga e sanguinosa. I Franco-Alamanni vennero total
mente distrutti, e il loro capitano Buccellino fu ucciso (554).
Scomparsa questa nuova e sanguinosa meteora, Narsete
potè ritirarsi colla preda a Roma. Non rimaneva adesso
che un sol luogo fortificato, a cinquanta miglia da Na
poli, detto Campsa da alcuni, Gonza da altri. Ivi si trova
vano 7000 Goti, che finalmente s’arresero anch’essi, salva
la vita; e furono mandati a Costantinopoli, dove assai
probabilmente accettarono di servire l’ Impero.
Cosi ebbe fine la guerra greco-gota, durata venti anni,
che ridusse l’ Italia all’ estrema rovina. Il regno degli
Ostrogoti, durato sessantaquattro anni, fu distrutto per
sempre, ed essi, come popolo, scomparvero affatto al pari
dei Vandali, quasi un esercito di ventura che si fosse
disciolto. Alcuni, come vedemmo, passate le Alpi, anda
rono in Oriente; altri restarono in Italia, combattendo
per proprio conto o uniti ai Franchi. Certo è che nei
quattordici anni, nei quali Narsete continuò ancora a
comandare in Italia, dovè sostenere cogli uni e cogli
altri parecchi scontri sanguinosi, dei quali pur troppo
non abbiamo nessuna notizia precisa. La distruzione dei
due fratelli alamanni e delle loro genti aveva natural
mente irritato molto i Franchi, i quali occupavano sempre
alcune terre dell’alta Italia; e questa irritazione cresceva
tanto più adesso che s’ erano uniti a loro i Goti fuggia
schi, pieni anch’ essi d’ ira e rancore, assetati di vendetta
contro i Bizantini. Nel 555 si trova infatti ricordato che
i Franchi vinsero un esercito romano, il quale potè poi
pigliar la rivincita, cacciando dall’Italia quei barbari (Mu
ratori, Annali, V il i, 302). Paolo Diacono accenna più tardi
ad un altro combattimento, nel quale un generale franco
venne ucciso, ed un Conte goto fu preso e mandato pri
gioniero a Costantinopoli. Altri fatti d’ arme sono ricor
dati nel 563 e nel 565, sempre a vantaggio degl’imperiali.
In sostanza si può affermare che, finita la guerra gotica,
vi fu il pericolo, anzi addirittura il principio di un’ altra
guerra per parte dei Franchi, la quale sarebbe potuta di
venire assai pericolosa, se essi non fossero stati appunto
allora, come del resto continuamente seguiva, travagliati
dalle civili discordie che per qualche tempo resero loro
impossibile il passare le Alpi in gran numero. E cosi vi
furon solo grosse scaramucce con quelli che già si tro
vavano nell’ alta Italia, e che dovettero finire coll’ abban
donarla, tornandosene a casa.
Narsete allora, alla testa del suo esercito, assunse il go
verno di tutta la Penisola col titolo di Maestro dei mi
liti e di Patrizio. Egli non ebbe mai (come per errore fu
creduto da alcuni) il titolo di Esarca, che in Italia ap
parisce ufficialmente solo più tardi. La Prammatica San-
zione riconobbe il valore degli editti emanati dai primi
re goti fino a quelli di Totila e di Teja, che rimanevano
esclusi, perchè questi due sovrani erano tiranni e non re,
non essendo mai stati riconosciuti a Costantinopoli. E per
ciò vennero annullate tutte le disposizioni prese da essi,
quelle specialmente a vantaggio del popolo, dei conta
dini, dei piccoli proprietari, che i Goti avevano cercato
di rendersi amici; e furono in loro vece messe in vigore
le disposizioni delle leggi romane, quasi sempre favore
voli ai latifondisti. La Prammatica Sanzione inoltre man
teneva, teoricamente almeno, il potere militare separato
affatto dal civile, pel quale restava in Italia sempre un
Prefetto del Pretorio. Ma Narsete era un generale, che
alla testa del suo esercito, aveva riconquistato l’ Italia, e
con esso continuava a governarla, a difenderla. E però,
non ostante ogni opposta teoria, i due poteri rimasero di
fatto concentrati in lui, che continuò ad essere una specie
di dittatore militare. Per la stessa ragione i Duchi che,
sotto la sua dipendenza, erano sparsi nelle ' province, ed
i Tribuni, che dipendevano dai Duchi, furono anch’essi
ufficiali civili e militari ad un tempo. Tutto ciò portava in
certezza e disordine. Sarebbe stato necessario riordinare
il paese, dando forza alle leggi, sollevandolo alquanto
dalle crudeli calamità cosi lungamente sopportate. Ed in
vece bisognava pensare a trovare in Italia danaro, per
mantenere un grosso esercito, ora che da Costantinopoli
non c ’ era da sperarne, perchè Giustiniano non ne aveva,
e trovavasi sempre più immerso nella teologia. Si con
tinuò quindi a dissanguare le già esauste popolazioni.
E ciò seguiva quando il malcontento era cresciuto an
che a causa della questione religiosa. Morto infatti papa
Vigilio, tanto malmenato a Costantinopoli, era stato eletto
Pelagio, già da molto tempo favorito dall’ Imperatore.
Egli tergiversò alquanto nella questione dei Tre Capitoli,
|>» .vi condannarli, pur dichiarandosi ossequente
t •Sin i' m» M C&loedonia. Questa sua condotta provocò
'..i » un > icoppio di sdegno nei vescovi e prelati ita\ ....(
del nord, alcuni dei quali lo accusarono
un » >t uvore procurato la morte del suo predecessore,
r . j> >Lui^li succedere. L ’ irritazione arrivò al colmo
, .in In Naraste, pel quale, secondo il concetto orienlv' v,, U Chiesa doveva essere sottoposta all’ Impero, fece
..u lei e alcuni vescovi più riottosi, inviandoli a Costan
t e ‘pulì, perohè colà venissero puniti. Cosi il disordine
iwlo ed il conflitto religioso aumentavano la confuomuo, Tutte le opere pubbliche erano abbandonate; le
unti 4 cittadine, le case, le chiese, gli acquedotti anda
vauo iu rovina: alcune delle città, come ad esempio
Mdauo, erano state nella guerra addirittura distrutte,
li mantenimento delle strade era abbandonato; i fiumi,
Ubi dati senza argini, inondavano le campagne, ed au
mentavano la malaria. Finalmente scoppiò la peste, che
ammazzava in tre giorni, e desolò sopra tutto l’ Ita
lia superiore. L e campagne e le loro case, dice Paolo
Diacono, rimanevano deserte ; gli armenti vagavano pei
campi senza pastore. Le messi abbandonate marcivano;
le uve seccavano sui tralci delle viti, già privi di foglie.
A i primi oasi del morbo, le città rimanevano spopolate
per la fuga degli abitanti. I figli lasciavano insepolti i
cadaveri dei genitori, e questi, senza aver viscere di pietà,
abbandonavano i figli ammalati. Se qualcuno voleva sep
pellire le vittime del morbo, era preso dal male, e re
stava egli insepolto. Non era possibile numerare i morti,
perchò gli occhi non bastavano a tanto: visum oculorum
superabant eadavera mortuorum (II, 4).
Tale era lo stato delle cose in cui Giustiniano lasciava
l’Impero. Non tutti i guai da noi accennati si possono
dire conseguenze dirette della sua politica; ma conse
guenze più o meno indirette ne erano certamente. Egli
era stato senza dubbio gaidato da alcuni concetti i quali,
se non sempre pratici, erano sempre elevati, ed esercì'
tarono una grande azione nella storia del mondo. Ma se,
come abbiam detto più volte, maravigliosa fu davvero la
sua abilità nella scelta delle persone, per attuare questi
concetti, la sua cattiva amministrazione, le spese ecces
sive che faceva sempre, i larghi tributi che allora si solevan dare ai barbari, quando non si poteva con essi ado
perare il ferro, e le continue guerre esaurirono sempre
più le forze d’ un Impero in cui l’ agricoltura era assai
decaduta, e non fiorivano nè l’industria, nè il commercio.
Tutto ciò, unito alla corruzione della società imperiale e
della Corte, alla cui malefica azione Giustiniano non potè
sempre sfuggire, gli resero impossibile il fondar mai
nulla di veramente stabile.
In un Impero composto di tante parti e così diverse,
circondato da tanti nemici, senza la possibilità di un vero
patriottismo nazionale, e per la sua corruzione privo af
fatto di un’ alta guida morale, v ’ era sempre il pericolo
che un qualche generale, potente e fortunato, riuscisse
ad insorgere, formando per suo proprio conto uno Stato
separato ed indipendente, che qualcuno dei grandi uf
ficiali della Corte cospirasse a danno degli altri o dello
stesso Imperatore, per accrescere il proprio potere. Era
quindi una continua lotta degli uni contro gli altri, e se
ne vedevano perciò sempre rapidamente salire e rapida
mente precipitare, come era seguito allo stesso Belisario,
nonostante la sua provata fedeltà, i continui e grandi
servigi resi all’ Impero. E se a tutto ciò s’ aggiunge che
negli ultimi anni Giustiniano, divenuto vecchio, trascu
rava assai il governo dell’Impero, si capirà facilmente
a che punto dovessero allora essere giunte le pubbliche
calamità. Tuttavia un grande risultato, se non duraturo,
temporaneo certamente, egli lo aveva ottenuto. I Per
siani erano stati respinti; i Vandali e gli Ostrogoti di
strutti; la Romanità aveva avuto una splendida vittoria
sul Germanesimo; l’Africa, l’ Italia erano state riconqui
state. Tutto ciò dimostrava chiaro che, nonostante ogni
contraria apparenza, v’ era pur sempre nell’ Impero una
grande vitalità, quella che riuscì infatti a farlo vivere
per otto secoli ancora, sebbene fosse continuamente cir
condato da sempre nuovi pericoli. Prodigiosa veramente
dovette essere quella civiltà greco-latina che anche nella
sua decadenza potè riunire, assimilare elementi così di
versi, ed in mezzo a tanto disordine veder sorgere un
grandissimo numero di accorti amministratori, di grandi
e gloriosi generali, che seppero con intelligenza e valore
difenderlo.
Ma alla morte di Giustiniano si vide subito, che i pe
ricoli da noi qui sopra accennati dovevano crescere non
poco. Da una parte minacciava la Persia eterna nemica
dell’ Impero; da un’altra ripigliavano vigore le popola
zioni germaniche, specialmente pel rapido crescere della
potenza dei Franchi. Nello stesso tempo gli Slavi s’avan
zavano in gran numero verso l’ Occidente, e cosi pure
s’ avanzavano dall’Asia le popolazioni finniche, mongo
liche, tartare, che dovevano portare nel mondo un’ altra
grande rivoluzione. Sarebbe stato necessario che a Giu
stiniano succedesse nell’ Impero un uomo di uguale o
maggiore capacità; ma avvenne, come vedremo, preci
samente il contrario. E peggio di tutti si trovava l’ Italia.
Esausta, disfatta da una lunga guerra, senza speranza di
ricevere aiuto da nessuna parte; oppressa da Narsete,
che per mancanza di danari vedeva ogni giorno scemare
i suoi soldati, essa restava senza difesa efficace in un
momento nel quale i barbari ripigliavano forze, e mi
nacciavano d’ avanzarsi. La distruzione del regno ostro
goto, il quale si era esteso anche al Norico ed alla Pannonia, lasciava indifesa 1’ Italia appunto da quel lato di
dove le genti barbariche eran sempre passate, e ricomin
ciarono ben presto a passare.
E questo era il momento in cui a Giustiniano succe
deva Giustino ir, figlio d ’ una sorella di lui, la quale
era nipote di Teodorico. Il nuovo Imperatore dichiarò
subito di voler fare grandi economie, il che voleva dire
mutar sostanzialmente politica. Egli infatti rinunziò alle
grosse guerre, e sospese i sussidi fino allora pagati ai
barbari, che si scatenarono perciò nuovamente contro
r Impero, nel quale mancavano ora i danari ed i soldati
per difenderlo. Scontentissimo fra tutti era Narsete, il
quale si vedeva ridotto all’ impotenza nel momento in
cui sarebbe stato necessario apparecchiarsi a difendere
i confini nuovamente minacciati; nò poteva sperar nulla
in Italia. Infatti allora appunto arrivava a Costantinopoli
un’ ambasceria di nobili romani, venuti per dire all’ Im
peratore che non era più possibile sopportare il dispotismo
di Narsete, il quale aveva ridotto l’ Italia a tale che ogni
altro governo era divenuto preferibile. Se non si trovava
modo di provveder subito, sarebbe stato agl’ italiani ne
cessario gettarsi in braccio ai barbari, che certo li avreb
bero trattati meglio. Le cose erano infatti giunte a tale
estremità, che vedendo non esser ormai possibile indurre
a mutare strada un uomo assai vecchio, usato a far sem
pre quel che voleva, si dovè finire col richiamarlo nel 567,
nominandogli un successore, che ebbe ordine di partir
subito.
E qui ha origine una leggenda, che non è ricordata
dagli scrittori bizantini, ma si diffuse allora assai larga
mente in Italia, e fu narrata anche da Paolo Diacono.
Secondo questa leggenda Narsete avrebbe ricusato d’ ob
bedire, e l’ imperatrice Sofia avrebbe allora esclamato:
.richiudere il vecchio eunuco nel gine* \oro posto, costringendolo a filar lana
Kd io» cosi avrebbe risposto Narsete,
- invìi riferite le ingiuriose parole» saprò filarle
. i . umssu, che in tutta quanta la sua vita ella non
. -a mai a dipanarla. — Aggiungendo poi alle parole
I, Narse te avrebbe, per vendetta, chiamato i Longov . in Italia, inviando, per meglio allettarli, ambascia> i. ì quali portaron loro le più belle frutta che il fertile
p.i '.-io produceva. I Longobardi allora, accettando l’invito,
sarebbero mossi, passando le Alpi nel 568. Narsete
che, sempre più accecato dallo sdegno, s’ era ritirato a
Napoli, s'avvide finalmente dell’ errore commesso; e
(piando papa Giovanni UT, successo a Pelagio nel 561,
lo scongiurò, perchè si movesse a difendere il paese,
andò subito a Roma; ma ivi fu sorpreso dalla morte. Il
carattere leggendario di questo racconto è troppo evi
dente perchò vi sia bisogno di dimostrarlo. I Longobardi,
come noi abbiasi visto più sopra, erano in buon numero
già stati in Italia, dove avevano combattuto sotto Narsete, e non avevano quindi bisogno, per conoscerne la
fertilità, ohe egli ne mandasse loro le frutta, le quali
poi, massime se spedite da Napoli, si può ben immagi
nare in quali condizioni sarebbero arrivate. L e ragioni
che mossero i Longobardi a passare le Alpi furono ben
altre ohe il dispetto capriccioso d’ un nomo, sebbene non
sia da escludere affatto, che questo dispetto possa avere
contribuito ad agevolar loro la strada, lasciando andar
tutto a rovina, senza apparecchiar nessuna difesa.
« ■ .
LIBRO TERZO
I LONGOBARDI
C A P IT O L O
I
Guerra dei Longobardi contro i Gepidi - Loro venuta in Ita
lia e loro conquiste - Morte di Alboino - Elezione di Clefi
e sua morte - Interregno - Duchi - Divisione delle terre Il Papa si rivolge la prima volta per aiuto ai Franchi (580).
I Langobardi, poi Longobardi, così chiamati, secondo
il loro storico Paolo Diacono, dalle lunghe barbe che
portavano, sono ricordati da Velleio Patercolo, che li
dice più feroci della germanica ferocia. Si trovavano al
lora presso V Elba. Più tardi ne parlò Tacito, lodandone
il coraggio. Essi sembrano aver preso parte a quel gran
movimento di barbari, che s’ avanzarono verso il sud, e
furono respinti da Marco Aurelio nella guerra dei Marcomanni (178-79). Per tre secoli dipoi non se ne sente più
parlare; ma par certo che fossero tra coloro che fecero
parte del regno degli Unni a tempo di Attila, separando
sene quando esso si disciolse. È un fatto però che ben
poco sappiamo di certo sulla loro origine. Paolo Diacono
ne parla a lungo, dandoci una serie di leggende, dalle
quali non si può cavare nulla di veramente storico. Se
condo lui i Longobardi sarebbero originari della Scandi
navia. Di là, per la ristrettezza del luogo, un terzo di essi
si sarebbero mossi verso il sud, sotto la guida di due fra
telli, Ibor e Aione, della famiglia dei Gangingi o Gagingi.
Da Aione sarebbe nato Agelmondo, che fa il loro primo re,
coi ne successero altri sei della stessa famiglia, l’ altimo
dei quali fa Tato, che combattè e vinse gli Eruli, il che
dovrebbe essere avvenuto verso il 508. Seguirono a que
sti, altri due re, sotto il secondo dei quali sarebbe dive
nuto onnipotente Audoino, quello stesso che mandò aiuti a
Narsete, quando questi venne la seconda volta in Italia.
Audoino fu il padre d’Alboino, col quale finalmente cessa
la leggenda e comincia veramente la storia.
I Longobardi erano allora penetrati nel Hugiland, al
di là del Danubio; al di qua, nella Pannonia, erano i
Gepidi, per lungo tempo loro acerrimi nemici. E que
st’ odio crebbe quando gli Eruli, vinti e disfatti dai Lon
gobardi, s’unirono ai Gepidi, i quali, vedendo cosi aumen
tate le loro forze, profittarono della guerra che ferveva
tra i Bizantini e Totila, per occupare altre terre dell’ Im
pero. Giustiniano allora, secondo la politica tradizionale
di Costantinopoli, incitò contro di essi i Longobardi ; e
già nel 554 Alboino, ancora giovanissimo, dimostrò il suo
valore, combattendoli, ed uccidendo in singoiar tenzone
Torismondo, il figlio del loro re Torisindo. Questi, se
condo un’ altra leggenda, avrebbe cavallerescamente ac
colto a mensa Alboino, per vestirlo poi delle armi del
l’ucciso suo figlio. Ma vi mancò poco che non si venisse
alle mani. Il re dei Gepidi, pensando a Torismondo uc
ciso da Alboino, sospirava malinconicamente; ed allora
un altro de’suoi figli, alludendo ad una specie di ghette
o fasciature di tela, che i Longobardi portavano alle
gambe, avrebbe lor detto con disprezzo: — V oi siete come
cavalle balzane. — A i che gli sarebbe stato da un Lon
gobardo risposto: — Se vai al campo di Asfeld, capirai
che calci sanno tirar queste cavalle, vedendo colà le ossa
di tuo fratello, sparse al suolo come quelle d’ un vile giu
mento. — E si sarebbero subito sguainate le spade, se il
R e non fosse personalmente intervenuto, in nome delle
sacre leggi della ospitalità, vestendo Alboino delle armi
di Torismondo. Comunque si pensi della leggenda, Al
boino tornò trionfante a casa, e verso il 565 successe al
padre, come re dei Longobardi.
Egli era allora giovane, forte, audace, ambizioso, e
sembrava godere anche il favore dell’ Impero. Se non
che i Gepidi, valorosi al pari dei Longobardi, erano in
numero maggiore, ed una guerra di sterminio pareva di
venuta fra loro inevitabile, anche perchè non si poteva
dimenticare la morte di Torismondo. Fortunatamente pei
Longobardi, era sin dalla seconda metà del secolo quinto
apparsa sul Caspio una gente nuova, che portava il nome
di Avari, ed era della stirpe medesima degli Unni. Favo
riti da Giustiniano, che voleva servirsene pe’ suoi fini,
avanzatisi sotto un capo, che portava il titolo di Cagàno,
avevano formato un forte regno nel basso Danubio, dove
ricevevano un sussidio imperiale. Così Longobardi, Ge
pidi ed Avari si trovarono ora a contatto in una regione
che, desolata da continue guerre, non potendo nutrirli, li
teneva sempre irrequieti e pronti ad azzuffarsi fra di loro.
Fu questo il momento in cui Giustino, a un tratto, negò
sdegnosamente il sussidio agli Avari, dicendo che l’ Im
pero non doveva rendersi tributario dei barbari. Ed Al
boino, profittando della occasione, propose loro che s’ unis
sero a lui per combattere i Gepidi. Dopo averli disfatti,
egli diceva, noi saremo più al largo in questo paese de
solato, e volendo, potremo più facilmente occupare altre
terre dell’ Impero.
Bisogna credere che fin d’ allora Alboino meditasse
l’ impresa d ’ Italia, e volesse prima, vendicandosi dei Ge
pidi, assicurarsi le spalle, altrimenti sarebbe difficile ren
dersi ragione dei patti che stipulò allora cogli Avari. Ad
«.atti iufatti i longobardi promettevano di cedere metà
«falle tìpuglie ohe avrebbero fatte al nemico, un terzo dei
faju anuouti, e le terre conquistate. Anzi, quando i Longu U idi fossero partiti, gli Avari avrebbero potuto occu
pare lo terre da essi abbandonate, e ritenerle, per resti
tuii lo buio uol caso ohe essi fossero tornati ad occuparle,
i ( lepidi quiudi si trovarono di fronte a due nemici.
A vi ublmro, ò vero, avuto ragione di fare assegnamento
siigli aiuti del l’ Imperatore; ma questi, fedele sempre alla
pulitila orientale di far ai che i barbari si consumassero
fi a di fa i o, so no stette più che altro a guardare, lasciando
t i i doro olio avrebbe coi suoi tenuto a bada gli Avari. A l
luni i Wopidi si spinsero con grande impeto contro i Longubui-di, bperaudo di potere, dopo averli vinti, rivolgersi
contro gli Avari. Ma Alboino s’ avanzò con impeto alla
tosta do1suoi, li vinse, e colle proprie mani accise Cnniinondo loro re, tagliandogli la testa, e facendo poi del te
schio una tazza, per servirsene, secondo Fase barbarico,
nei solenni banchetti. Questo atto crudele doveva però,
come vedremo, costargli assai caro. Ma per ora la sua
v noria fu piena. Si parla di 40,000 morti fra i Gepidi,
corto è che d'ora in poi la storia non si occupa più di
•ro. Immensa fu la preda, grandissimo il numero dei
i igioaieri, che o accettarono di combattere sotto le band ere del vincitore o ne furono schiavi. Fra questi pri
gionieri v'era Rosmunda, la giovane figlia di Canimondo,
falla quale Alboino s'invaghi per modo che volle spow la , non ostante la grande ripugnanza che ella mostrava
unirsi coll’ uccisore del proprio padre. E sebbene da
poco fosse morta la sna prima moglie Clotsuìnda, figlia
- Clotario re dei Franchi, le nuove nozze vennero cele
s t e senza indugio. Dopo di ciò Alboino si volse almpresa d'Italia.
A lui non poteva essere ignoto che questo paese era
adesso senza difesa. Parecchie città importanti avevano
insufficientissime guarnigioni, altre l’avevano a mala pena
un po’ più numerose; solamente Pavia era in grado di
fare lunga resistenza. Le popolazioni esauste e scontente
non avrebbero di certo fatto oausa comune coi Bizan
tini, dei quali anche il clero era scontentissimo. Gli ul
timi avanzi dei Goti disseminati 'per la Penisola, erano
naturalmente per unirsi ai primi barbari che avessero
passato le Alpi. Narsete, privo del comando e già richia
mato, se ne stava ritirato a Napoli, lieto forse ohe con
la sua caduta tutto andasse a rovina. Il suo successore
Longino, già arrivato, ma con pochissime genti, si dovette chiudere in Ravenna. Le porte d ’ Italia erano dun
que aperte al nemico.
Il 2 di aprile 568 i Longobardi adunque lasciarono la
Pannonia, e per Enooa (Leibach) e la valle della Save
passarono le Alpi Giulie, avanzandosi nel Veneto. Me
navano seco le donne, i vecchi, i bimbi e le suppellettili
sopra carri, nei quali passavano la notte. Da una pittura
alquanto posteriore, fatta per ordine della regina Teodo
linda, essi apparivano vestiti con larghi abiti di tela e di
vario colore; avevano i calzari aperti dinanzi e legati con
lacci, i capelli tagliati fino all’occipite, divisi sulla fronte,
donde cadevano da ambo i lati. Con i Longobardi si
trovavano al solito mescolati Bavari, Bulgari, Gepidi,
Svevi, sopra tutto Sassoni, i quali ultimi si facevano
ascendere al numero di 20,000. Professavano quasi tutti
l’Arianesimo, sebbene non mancassero fra di loro anche
i pagani; non erano però intolleranti in fatto di reli
gione. Molta incertezza regna sul loro numero, variando
gli scrittori da 20 a 120,000 armati. Certo non erano
m olti; ma se i soli Sassoni arrivavano a 20,000, e po
terono più tardi partire, senza che perciò ne risentis
sero grave danno i Longobardi, che continuarono le loro
schiere presero direzioni diverse per proprio conto. A l
cune s’avviarono verso il sud, dove iniziarono la fonda
zione dei Ducati di Spoleto e di Benevento, i quali,
divennero poi affatto indipendenti. H resto dell’ Italia
meridionale, sopra tutto le coste dell’Adriatico e del
Mediterraneo, restarono all’ Impero, col quale si tennero
unite specialmente Napoli e Roma, la cui comunicazione
con Ravenna era agevolata da Perugia che, sebbene cir
condata per tutto da terre occupate dai Longobardi, con
tinuò ad esser quasi sempre fedele all’ Impero. £ non
solamente queste guerre e queste occupazioni di città pro
cedevano alla spicciolata, senza un disegno prestabilito ;
ma tra il 569 ed il 571 alcune schiere di Longobardi si spin
sero, per proprio conto, dall’Italia settentrionale ad assa
lire i Franchi nella Gallia meridionale. Non pensarono al
pericolo che correvano di richiamare al di qua delle A lpi
un nemico potentissimo, che avrebbe facilmente potuto
strappar loro di mano le recenti conquiste, che essi avreb
bero dovuto invece pensare a consolidare. Più volte eb
bero la peggio in questi loro dissennati attacchi, e si sa
rebbero trovati certo ad assai mal partito, se i Franchi
non avessero continuato a lacerarsi fra di loro. Pareva
proprio che la fortuna li volesse secondare in tutto. Infatti
da una parte le loro guerre contro i Franchi non ebbero
le tristi conseguenze che potevano facilmente avere; e da
un’altra le loro conquiste in Italia si succedevano senza dif
ficoltà. Nel 572, dopo tre anni d ’assedio, s’arrese finalmente
anche Pavia, che fu sin d’allora la capitale del regno.
Alboino entrò trionfante nel palazzo di Teodorico, e
trattò umanamente il popolo, sebbene avesse dapprima
mostrato un gran desiderio di vendetta. Nella primavera
del 573 (secondo alcuni del 572) egli mori nel palazzo
di Verona; e di questa morte si dà una narrazione molto
particolareggiata, che apparisce alquanto fantastica e log-
gendaria. In un solenne banchetto Alboino, presa la tazza
formata col teschio di Cunimondo padre di Rosmunda,
l’ avrebbe invitata « a bevere in compagnia del padre. »
Ed ella ne fu offesa per modo che decise di vendicarsi.
Manifestò il suo pensiero ad un fratello di latte del Re,
chiamato Elmichi; ma questi, non volendo macchiarsi le
mani nel sangue fraterno, le consigliò di parlarne ad un
tal Peredeo, uomo audace e fortissimo. Siccome anche
questi esitava, la Regina prese il luogo d’ una cameriera
amante di lui, e quando erano insieme, facendosi ricono
scere, gli disse, che se esitava ancora, avrebbe rivelato al
R e quanto era seguito fra di loro. Cosi venne finalmente
deciso il delitto. Un giorno, dopo il meriggio, quando il
R e avvinazzato s’ era addormentato, Rosmunda legò la
spada che pendeva a capo del letto, in modo che non si
potesse sguainare. Non andò guari che Peredeo entrò
nella camera, gettandosi sopra Alboino, il quale, dopo
avere invano tentato di far uso della spada, si difese con
un panchetto; ma dovè soccombere. Rosmunda sposò
l’ uccisore del marito, sperando di potersi con lui impadronire del trono. Lo sdegno dei Duchi longobardi fu
però tale, che gli autori del delitto dovettero invece pen
sare alla fuga. Chiesero una nave a Longino, il successore
di Narsete, che la mandò da Ravenna su per il Po. In essa
con pochi soldati, con Albsuinda figlia d’Alboino, ridisce
sero il fiume. Rosmunda, secondo la leggenda, concepì al
lora il pensiero di sposare Longino, ed a tal fine dette il
veleno a Peredeo, quando egli era nel bagno. Ma essen
dosene qugpti accorto, obbligò colla punta della spada
anche lei a beverlo, e cosi morirono ambedue. Longino
mandò a Costantinopoli la giovane Albsuinda, con le
gioie che la madre aveva portate seco fuggendo. Tutta
questa leggenda proverebbe, secondo il Ranke, che fra
i Longobardi v’ era allora grave dissenso, una parte di
essi volendo aderire ai Bizantini, un’ altra opponendovisi.
Certo è che l’indignazione provocata dal tradimento fece
andare a monte tutti i disegni di Rosmunda, e trionfare
il partito nazionale.
Ma neppure i Duchi eran fra di loro d’ accordo. A suc
cessore d’ Alboino, elessero Clefi duca di Bergamo, del
quale sappiamo solo che dopo un anno e mezzo di regno
fu ucciso da uno schiavo (575). E intanto si continuava
a tener sempre la stessa incerta condotta politica, senza
cioè nessuna unità di concetto. Già nel 569 e ’70, come
accennammo, alcuni dei Duchi avevano assalito i Fran
chi ed erano stati battuti. Un altro assalto poco fortu
nato del pari era stato dato dai Sassoni, che facevano
parte dell’ esercito longobardo, e volevano vedere se era
possibile aprirsi una via per tornarsene a casa. Essi erano,
lo abbiamo già detto, in numero di 20,000, e non avendo
potuto dai Longobardi ottenere di vivere in Italia, p ro
prio iureì cioè secondo le loro consuetudini e le loro isti
tuzioni, avevano deciso di andarsene. Nel 573 partirono
colle famiglie e gli averi, ottenuto libero passaggio dai
Franchi, ai quali non poteva certo dispiacere che le forze
dei Longobardi si assottigliassero. Questi tuttavia, per.la
speranza di preda, continuarono nel 574-76, i loro mal
consigliati attacchi, ma furono di nuovo respinti con ener
gia. Finalmente si venne ad un accordo, che per qualche
tempo assicurò la pace.
Ma questa pace, aggiunta al fatto che i Bizantini, oc
cupati com’ erano nella guerra persiana, nulla potevano
fare in Italia, garantendo ai Longobardi la sicurezza
esterna, provocò la discordia fra di loro. Infatti, morto
Clefi nel 575, i Duchi non si poterono intendere fra loro
sulla scelta del nuovo re, e finirono col farne senza, la
sciando che ciascuno di essi governasse il suo Ducato in
proprio nome, come sovrano indipendente. E cosi conti
nuarono per dieci anni, fino a che, tornato il pericolo
esterno, dovettero decidersi a ricostituire la monarchia.
Per ora V Italia longobarda restava divisa in trentasei
Ducati, d’una sola parte dei quali (come Pavia, Brescia,
Trento, Cividale, Milano, Spoleto e Benevento) cono
sciamo con sicurezza i nomi. Di altri non pochi i nomi si
sanno con qualche incertezza, <1> e meno ancora si cono
scono quelli dei Duchi.
Questo nuovo stato di cose tornò certamente a danno
delie popolazioni italiane. Da principio la venuta dei Lon
gobardi, non ostante la violenza della conquista, assai
poco contrastata del resto, aveva portato qualche sol
lievo, liberando le popolazioni dalla insopportabile op
pressione fiscale dei Bizantini, costituendo una forma
più stabile di governo, dando una maggiore sicurezza,
dopo che Narsete, irritato per essere stato deposto, aveva
abbandonato tutto al caso, per non dire all’anarchia. E di
questo miglioramento al tempo d’Alboino, noi troviamo
conferma nelle parole stesse di Paolo Diacono. Egli in
fatti, ricordando l’ abbondantissima raccolta che s’ ebbe
nel primo anno del dominio longobardo, aggiunge che
le popolazioni italiane « crebbero come le biade. » Non
ci parla ancora della divisione che si fece poco dopo
delle terre; sicché è possibile supporre che incomincias
sero coll’ impadronirsi dapprima solo di quelle che dai
Goti erano passate al fisco bizantino, e del danaro da
esso raccolto.
Sospesa però la monarchia, continua Paolo Diacono,
le cose, durante l’ interregno, peggiorarono assai, perchè1
(1) Pavia, Milano, Bergamo, Trento, Foroginlio (Cividale) o Frinii, Spoleto,
Torino, Asti, Benevento, Ivrea, Isola di San Giuliano nel lago d’Orta, Verona,
Vicenza, Treviso, Ceneda, Parma, Piacenza, Chiosi, Lacca, Firenze, Fermo.
Sono ricordati anche i Ducati di Rimini, Brescello, Reggio, Istria ed altri ; ma
non si sa bene se tatti questi furono istitaiti veramente allora o più tardi.
in vin e d’un padrone, se ne ebbero trentasei, i quali, ciadimuM a muo modo, taglieggiarono il paese. Molti dei noitili nummi, ricchi possessori di latifondi, furono uccisi
ilai Mimiti, che s’impadronirono delle loro terre. Gli altri,
ili vitti fra i vincitori, ne divennero tributari, costretti a
pagar loro un terzo delle proprie entrate, tertiam partem
aua rum frugum. E questo, possiam noi osservare, era
peggio che dare un terzo delle terre, perchè non restava
agl’ italiani nessuna libera proprietà. Oltre di ciò, molte
chiese furon saccheggiate dagl’ invasori ariani, i quali uc
cisero anche parecchi sacerdoti, per spogliarli delle loro
sostanze, come avevano fatto dei nobili ; e cosi in mille
modi angariarono le popolazioni.
Male assai si trovarono allora Roma ed il Papa, circon
dati, minacciati com’ erano dai Longobardi, sopra tutto
dai Duchi di Spoleto e di Benevento. Le comunicazioni
con Ravenna erano interrotte per modo che, morto nel
luglio del 574 papa Giovanni III, il suo successore Be
nedetto I solo dopo dieci mesi fu consacrato, non essendo
stato possibile aver prima la sanzione imperiale, della
quale nel 579 Pelagio II dovette decidersi a fare ad
dirittura a meno. Tutto questo spinse piu tardi a cercar
di costituire in Roma un proprio esercito per difendersi,
ed a trovare una propria forma di governo autonomo. Ma
per ora si continuava sempre a sperare, a cercare aiuto
dai Bizantini. Da Longino però non c’ era, per la sua in
capacità, nulla da aspettarsi. Baduario, parente dell’ Im
peratore, era stato, è vero, mandato da Costantinopoli
a ^incendergli; ma prima che arrivasse a Ravenna, fu
ontlii Campania, poco lungi da Napoli, battuto in uno
nconlro avuto coi Longobardi, e poco dopo mori (576).
Si |mimò quindi di rivolgersi direttamente all’ Imperatore,
«*«ii furono spediti ambasciatori, che gli portarono tre
mila lil.lire d’ oro, perchè mandasse dei soldati a difen
dere il Papa e la Città eterna contro i barbari e contro
gli Ariani, sostenendo cosi nello stesso tempo V autorità
dell’ Impero e della Chiesa. Ma nel 578 Vimperatore Giu
stino l i era ammattito, e Tiberio II, che ne faceva le veci
e poi gli successe, trovandosi occupato nella guerra per
siana, non poteva fare nulla per l ' Italia. Consigliò quindi
ai Romani, che si valessero del danaro che gli avevan
portato, per indurre invece i Longobardi a desistere dalla
guerra. Non riuscendovi, egli diceva, provassero di per
suadere con esso i Franchi ad attaccarli. Certo è che i
Bizantini erano in Italia ridotti a tale impotenza, che il
Duca di Spoleto potè nel 579 impadronirsi di Classe,
che era il porto di Ravenna sull7Adriatico, e rimase in
mano dei Longobardi fino al 588. Essi scorrazzavano libe
ramente anche il territorio intorno a Perugia ; e il Duca
di Benevento assediava Napoli, che resistette però valoro
samente (581). Fu saccheggiato e distrutto (Tanno pre
ciso è incerto) il convento di Montecassino, e i monaci
dovettero fuggirsene a Roma, portando seco la regola
autografa di S. Benedetto, e fondando colà un nuovo
convento.
Durante questo lacrimàbile bellum, come lo chiama
rono i cronisti, papa Pelagio II, abbandonato dalTImpero,
minacciato dai Longobardi, si rivolse la prima volta ai
Franchi. Il 5 ottobre bSOW secondo alcuni, 581 secondo al
tri, egli scriveva al vescovo di Auxerre, perchè ricordasse
ai Franchi «ch e essi, come ortodossi, avevano da Dio Pobbligo di difendere Roma e tutta Italia dalla nefandissima
gente dei Longobardi, dai quali si dovevano separare, se
non volevano esporsi alla stessa fine che a questi era cer
tamente fra poco serbata. » E quello che è più singo-1
(1) Secondo il Weise, Italien und die Langobardenherncher ; il Troya in
vece ha la data 5 ottobre 581.
lurts, tali pratiohe venivano ora secondate dall’ Imperatore
stesso, presso il quale, in nome del Papa, continuamente
insisteva T apooriaario Gregorio, quegli che fu poi Gre
gorio Magno, uno dei più grandi uomini del secolo. L ’ im
peratore Maurizio di Cappadocia, che nel 582 era successo
a Tiberio li, per indurre i Franchi ad assalire i Longo
bardi, mandava loro la somma di cinquantamila aurei. E
esosi lilialmente i Longobardi vennero a un tratto assaliti
emù tale impeto, ohe dovettero rinchiudersi nelle città per
ditoudersi, Ma i Franchi al solito furono di nuovo trava
gliati dalla guerra civile, e quindi, mediante ricchi douatisi, vennero facilmente indotti a tornarsene a casa.
fc qui opportuno osservare come fin d’ ora comincino
uluat amento a delinearsi alcuni caratteri, che si riprodu
rmi» poi costantemente in tutta quanta la storia d’Italia.
Por opera dei Longobardi la Penisola è già divisa in brani
staccati, ohe non si riesce più a riunire stabilmente fra
loro. Il potere civile ed il religioso si trovano in opposi
zione, e comincia quella lotta fra la Chiesa e lo Stato che
riempie tutto quanto il Medio Evo, nè ancora oggi è ces
sata. I Papi fin da questo momento iniziano coi Franchi
quella politica, che per due secoli costantemente segui
rono, elio trionfò ai tempi di Pipino e di Carlo Magno, nè
fu mai da essi abbandonata del tutto. In questo momento
però i Franchi essendosi ritirati, il Papa si rivolse di
nuovo all'Imperatore. Il 4 ottobre 584, egli scriveva al
suo apocrisario Gregorio, perchè esponesse in Costantino
poli quali erauo le H w sa ita tes rei pericula totius U aliaey
e In Tribolazioni con le quali i Longobardi continuamente
affienavano il Ducato romano, affinchè si mandasse al
men o iin Maestro dei Militi ed un Duca,- non potendo
Ir
Dooìo far nulla per difendere Roma, giacché a
ernie peno egli era in grado dì difendere le altre province
Ha liane dell' Impero. Questa lettera è notevole anche
perchè ci dà la prima menzione ufficiale che abbiamo
finora del titolo di Esarca. Nel 585 venne da Costantino
poli Smaragdus o Smeraldo, con buon nucleo di genti,
firmo copiarum supplemento. Egli che fu certamente uno
dei primi Esarchi, si pose subito con grande energia ed
accortezza a riannodare gli accordi coi Franchi contro
i Longobardi.
CAPITOLO II
Bicostituzione della Monarchia - Elezione di Autari - Sue guerre
coi Bizantini e coi Franchi - Matrimonio con Teodolinda Condizione dei vinti.
Dinanzi alla minacciata alleanza dei Bizantini e dei
Franchi, i Longobardi furono costretti a pensare sul se
rio ai casi loro. Si decisero quindi a ricostituire la mo
narchia, per dare unità all’amministrazione, e sopra tutto
alla difesa. Adunatisi a Pavia, tra la fine del 584 e i
primi del 585, elessero a loro re Autari figlio di Clefi.
Era adesso necessario costituirgli un patrimonio, una li
sta civile, perchè potesse mantenersi con decoro, e pagare
gli ufficiali della Corte. A questo fine i Duchi gli fecero
cessione d ’ una metà dei loro averi, quelli che avevano
tolti ai nobili uccisi o che in altro modo avevano confi
scati. Restava sempre ad essi il terzo della rendita delle
terre possedute dai Romani. Si vuole però da alcuni
scrittori, che ora appunto questo terzo della rendita ve
nisse mutato in un terzo delle terre, il che avrebbe la
sciato gli altri due terzi in proprietà libera agli antichi
possessori, e ciò sarebbe stato a loro vantaggio. Essendo
poi negli ultimi anni cresciuto non poco il numero delle
province occupate dai Longobardi, è assai probabile che
si procedesse ad nna divisione delle nuove terre, a van
taggio di coloro che avevano dovuto cedere al R e parte
dei propri averi. Sa tatto ciò hanno avuto luogo dispute in
finite, e le parole a questo proposito adoperate da Paolo
Diacono faremo tórtarate in mille modi, per trovarvi quello
che non v’ era, per fargli dire quello che non disse nè
poteva dire sopra un argomento che forse egli stesso im
perfettamente conosceva, essendo vissuto circa due secoli
piò tardi. Dice infatti solamente che i Duchi cedettero
metà delle loro sostanze al Re, e che i popoli tributari
furono divisi tra i vincitori (populi tamen adgravati p er
langobardog hospite» partiuntur, III, 16). Dedurre da ciò,
come molti pretesero, che i Romani non solo peggiora
rono assai la loro condizione, ma furono ridotti allo stato
di schiavi o quasi, non è possibile; si può anzi asserire che
una tale deduzione contraddice alle parole dello storico.
Paolo Diacono, dopo aver detto che la cessazione della
monarchia fu a grave danno dei Romani, parlando della
ricostituzione di essa, aggiunge: «in questo regno nes
suno ora angariato, oppresso o spogliato; a tutti si ren
deva giustizia; non si commettevano farti; ognuno andava
sicuro dove voleva. » Non sarebbe questo certamente il
linguaggio di chi avesse voluto dire che sotto Autari le
cose erano assai peggiorate. E noi sappiamo che tutto
allora, nella pace e nella guerra, procedette con maggiore
ordine e regolarità; che la lunga durata del dominio lon
gobardo si deve alla ricostituzione della mon&rohia, ed
in parte anche all’ opera personale del re Autari.
Dinanzi alla minaccia d ’ un accordo tra Franchi e Bi
zantini, i Longobardi tentarono di fare alleanza coi primi.
Ma non vi riuscirono, perchè l’ accordo fh rotto quasi
prima che concluso, e si combattè nuovamente da ogni
parte. Nel 587 i Longobardi guerreggiavano nel Frinii
e noli'Istria contro i Bizantini, ai quali l’ anno appresso
ATJTÀRI CHIEDE LA MANO DI TEODOLINDA
267
tolsero Fisola Comacina che era fortificata. Nello stesso
tempo Smeraldo ripigliava finalmente Classe, ed i Fran
chi scendevano per lo Spluga a combattere i Longobardi.
Ma Autari era questa volta apparecchiato, e si precipitò
contro di essi c^n tale impeto, che li vinse, facendone ad
dirittura strage. Tantaque, dice Paolo Diacono (III, 29)
ibi strages facta est de Francorum exercitu} quanta usque
ibi non memoratur.
li non avere Smeraldo, in questa occasione, dato nessuno
aiuto ai Franchi dispiacque all* Imperatore. Ma ad ag
gravar la cosa s’aggiunse la condotta assai imprudente e
poco misurata che egli tenne nella questione religiosa.
Il Papa, per secondare l’ Imperatore e porre termine alla
disputa oziosa ed incresciosa dei Tre Capitoli, li aveva
condannati, dicendo che la condanna si poteva tenere già
implicitamente ammessa anche dal Concilio di Calcedonia. Ma le popolazioni dell’ Istria e della Venezia vennero
allora in preda ad una tale agitazione, che minacciavano
addirittura uno scisma. E Smeraldo, invece di calmare
quest’ agitazione, come gli era stato ordinato da Costan
tinopoli, ricorse alla violenza, facendo imprigionare e
condurre a Ravenna alcuni vescovi per punirli. In con
seguenza di ciò fu richiamato, e gli successe l’ esarca
Romano (589) che si dimostrò assai più accorto.
In questo mezzo Autari, pensando sempre più a raf
fermare sul trono sè stesso e la propria famiglia, si de
cise a prender moglie, e chiese la mano di Teodolinda,
figlia di Garibaldo duca di Baviera, che dipendeva da
Childeberto re dei Franchi, col cui regno il suo Ducato
confinava. La scelta era suggerita da ragioni politiche,
perchè in caso di guerra coi Franchi, l’alleanza della Ba
viera poteva molto giovare ad Autari. Si narra che, giunta
favorevole risposta alla prima domanda, egli, travestito
da ambasciatore, parti subito con altri, per fare la richie-
sta ufficiale (588). £ come si trovò in presenza della
giovane sposa, fa talmente preso dalla bellezza di lei,
che quando ella, secondo il costarne, portò loro da bere,
non sapendo piò trattenersi, le baciò fartivamente la
mano, il che rivelò che egli era lo sposo. Giunto poi
al confine, Antari, rizzandosi sulle staffe, si fece ricono
scere da tatti, lanciando con vigore la scure ad un albero,
ed esclamando : — Così ferisce il re dei Longobardi. —
Alla notizia di queste trattative di matrimonio, Childeberto fu cosi irritato, che mosse guerra alla Baviera, e
Teodolinda dovè fuggire in fretta col fratello Gundebaldo, il quale la condusse a Verona, dove fu incontrata
dallo sposo; ed il 5 maggio 589 si celebrarono le nozze.
Questo matrimonio inasprì per modo i Franchi, che
mossero ad un assalto improvviso contro Autari, il quale
venne preso alla sprovvista, e si sarebbe trovato a mal
partito, se la guerra civile scoppiata al solito nel loro
paese non li avesse obbligati a ritirarsi. A questa ritirata
contribuirono forse anche le inondazioni che desolarono
per modo la Gallia e 1’ Italia, che Paolo Diacono dice non
essersi mai visto nulla di simile dopo il diluvio univer
sale. In conseguenza di che scoppiò poi anche la peste
bubbonica, di cui, fra gli altri, fu vittima lo stesso P e
lagio II. Successe papa Gregorio Magno consacrato il
3 settembre 590, che tanta parte doveva avere nella storia
d’ Italia, e che piò volte si trovò a lottare energicamente
contro i Longobardi.
Appena vi fu un poco di tregua a queste calamità, Autari
continuò la sua opera di organizzazione del regno, esten
dendo sempre più le sue conquiste nell’ Italia superiore.
La leggenda però che egli giungesse fino a Reggio di Ca
labria, esclamando: — Qui sono i confini del regno d’Autari, — non merita nessuna fede. Si fece probabilmente
confusione con Reggio d’ Emilia. Nel sud già v’ erano al
lora i Ducati di Spoleto e di Benevento; oltre di che
Antari non poteva troppo allontanarsi dal nord ora che
l’Imperatore eccitava continuamente i Franchi a ripigliare
la guerra che avevano promesso di fare, e per la quale
invano egli aveva loro mandato danaro. « Era ornai tempo,
cosi scriveva, di passare dalle parole ai fatti, enarrata
viriliter.... peragere. » L ’ esarca Romano riusci finalmente
a stringere con essi gli accordi per un assalto da muo
versi in comune contro i Longobardi. E nella prima
vera del 590 i Franchi s’ avanzarono da una parte verso
Milano, da un’ altra, per la valle dell’ Adige, verso Ve
rona. Da Ravenna s’ avanzarono nello stesso tempo i Bi
zantini, e molte terre, e parecchi Duchi longobardi sponta
neamente si sottomisero ad essi. Fra i Duchi serpeggiava
allora non poco scontento, alcuni essendo stati avversi
alla ricostituzione della monarchia, altri avendo sperato
d’essere eletti in luogo d’Autari. Profittando di ciò, s’era
fissato, secondo gli accordi presi, che fra tre giorni i Fran
chi ed i Bizantini si sarebbero trovati insieme uniti contro
i Longobardi. Il fumo del fuoco, che i Bizantini avreb
bero acceso sopra un vicino colle, sarebbe stato il se
gnale del loro arrivo. Ma nulla di tutto ciò avvenne.
I Franchi, senza aver fatto altro che saccheggiare, im
provvisamente si ritirarono, accusando i Bizantini di non
essersi avanzati, e di averli lasciati soli. L ’esarca Romano
invece scriveva a re Childeberto, « che s’ era sul punto di
circondare i Longobardi, quando seppe che già i Franchi
trattavano accordo con Autari. Aveva dovuto ordinare la
ritirata, appunto quando era giunto il momento di poter
liberare affatto l’ Italia dalla nefandissima gente dei Lon
gobardi. » E poco dopo esprimeva la speranza, che il Re
volesse ricominciare la guerra, « mandando in Italia fidati
capitani, dignos duces, i quali non pensassero solo a far
prigionieri i Romani, ed a saccheggiare le loro terre. »
Ma non se ne fece altro. Il fatto vero è che Franchi e
Bizantini s’ erano intesi nel voler cacciare i Longobardi
dall* Italia, ma ognuno di loro la voleva poi tenere per
sè. E però andavano d’ accordo nell’ attaccare il nemico
comune; ma quando la vittoria diveniva probabile, subito
si dividevano, ed agivano ciascuno per conto proprio, anzi
gli uni a danno degli altri. Tutto questo, com’era naturale,
riusciva a vantaggio di Autari, il quale s’ era perciò assai
rafforzato, quando il 5 settembre 690 cessò di vivere.
Autari si può ritenere uno dei principali fondatori del
regno longobardo. Egli, come Odoacre, come altri bar
bari, prese il nome di Flavio, e con ciò sembrava volesse
andare d’ accordo coll’ Impero. Ma Odoacre e Teodorico
erano venuti in Italia a governarla in nome dell’ Impe
ratore; Alboino ed i Longobardi invece erano venuti
in loro proprio nome, e la nuova monarchia da essi fon
data fu affatto indipendente, anzi più volte mosse guerra
ai Bizantini, che voleva cacciare addirittura dall’ Italia.
I Longobardi furono i primi barbari che fecero in Italia
vere e proprie leggi, sanzionandole senza punto occuparsi
dell’ Imperatore. Nò ai Romani fu lasciato allora nessuno
dei privilegi concessi loro da Teodorico. In sostanza i
barbari sono ora finalmente divenuti padroni del paese,
e non vogliono riconoscere altra legge, altra autorità che
la loro. E questo contribuì non poco a diffondere l’erronea
opinione, che gl’ italiani fossero allora ridotti nella con
dizione di servi o per lo meno di aldi, il che vorrebbe
dire una semi-servitù. A sostegno di questa tesi si tortu
rarono, come già accennammo, le parole di Paolo Diacono.
Altro argomento favorevole ad essa si credette trovarlo
nel fatto, che la legge longobarda fìssa il guidrigildo da
pagarsi per la uccisione di un Longobardo, e nulla dice per
quella d’ un Romano. La vita adunque dei vinti, si disse,
non aveva pei vincitori nessun valore, perchè essi erano
schiavi. Ma dedurre così gravi conseguenze dal solo si
lenzio della legge, è addirittura eccessivo. 11 silenzio, fu
osservato dal Capponi, potrebbe anche significare che il
guidrigildo dei vinti era fissato dalla consuetudine. P o
trebbe provare, arrivò a dire invece il Sybel, che teorica
mente almeno non si facesse differenza alcuna tra la vita
del Romano e quella del Longobardo; ed il guidrigildo
sarebbe stato perciò nei due casi identico. Ma non è fa
cile credere che i vinti non fossero trattati assai peggio
dei vincitori.
Del resto la opinione una volta tanto diffusa della ser
vitù dei Romani, è adesso abbandonata. Riesce piut
tosto difficile comprendere come potesse essere stata
accolta così largamente, senza tenere nessun conto delle
enormi difficoltà che si oppongono a renderla credibile.
Ed in vero è egli mai possibile che, se i Longobardi
avessero tolto la libertà personale ai Romani, di un fatto
così importante non si trovasse mai nelle cronache, nelle
leggi, nei documenti pubblici o privati una sola espli
cita menzione? E dato pure che ciò fosse possibile, si
può supporre che questi schiavi o servi o aldi che siano,
arrivassero, come arrivarono, alla piena libertà, senza che
neppure d’ una tale e tanta rivoluzione rimanesse traccia
o ricordo alcuno? Siccome poi, nelle continue guerre fra
Longobardi e Bizantini, molte erano le terre che pas
savano ripetutamente dagli uni agli altri, e viceversa,
cosi bisognerebbe supporre ancora, che gli abitanti di
queste terre passassero dalla libertà alla schiavitù e dalla
schiavitù alla libertà, senza che un grido di gioia, di
protesta o di dolore s’ udisse mai; senza un tentativo di
ribellione, senza che il fatto stesso venisse mai da nes
suno ricordato. V’ erano inoltre latifondi che appartene
vano ad un solo proprietario, e si trovavano parte in
territorio bizantino, parte in longobardo. Si deve forse
credere che i coltivatori, i possessori di queste terre fos
sero schiavi quando si trovavano in una parte del loro
fondo, liberi quando si trovavano in un’ altra? Le lettere
di Gregorio Magno parlano di cittadini romani che dimo
ravano nelle terre longobarde di Brescia e di Pisa. Erano
essi liberi? E allora perchè non potevano essere liberi
anche gli altri Romani ? Divenivano invece servi quando
abitavano in paese longobardo? E allora si dovrebbe cre
dere, che essi lasciassero le terre bizantine, dove erano
liberi, per andare di propria volontà a divenire schiavi
sotto i Longobardi ? E se poi si ammettesse, come alcuni
suppongono, che rimanessero liberi gli operai delle città,
i quali nulla possedevano, e schiavi i proprietari, le cui
terre erano state divise, si avrebbero i nulla-tenenti in
una condizione superiore a quella dei latifondisti, nobili
e Senatori. Le contradizioni sarebbero insomma tali e
tante, che bisogna pur finire col riconoscere, come nono
stante la grande dottrina adoperata a sostenerla, la teoria
della servitù degl’ italiani sotto i Longobardi in nessun
modo si regge in piedi.
NOTA
Non sarà forse inutile accennare qui in nota qualcuna delle
molte dispute che, interpetrando in diversi modi le parole di
Paolo Diacono, si sono fatte sulla condizione degl’ Italiani sotto
i Longobardi.
I brani discussi, come è ben noto, sono due. Il primo dice:
H is
diebiis
m u lti
nobilitivi B o m a n o r u m
ob
cu pid ita tem
in terfecti
8unt. R eliq u i vero pei' hospites d ivisi, ut terciam p a r te m suai'um f r u -
(II, 32). I Lon
gobardi, si è interpetrnto, uccisero molti dei nobili Romani, gli
altri {reliq u i), cioè tutto il resto della popolazione, furono divisi
tra gli ospiti longobardi, con l’ obbligo di pagare ad essi il terzo
delle loro entrate (tertiam p a rtem su a ru m f r u g u m ) , e divennero
perciò tributari. Ma, lasciando da parto che il reliqui troppo evi-
gu m L a n goba rd is p ers o lv e ren t, tribu tarli effid u n tu r
clentemente si riferisce a n obile*, come sarebbe stato mai possi
bile render tributari tutti i Romani, obbligando a pagare il terzo
delle loro entrate anche coloro che nulla possedevano? Il farli poi
schiavi, come qualcuno ha supposto, è cosa che Paolo Diacono
non accenna in nessun modo, e sarebbe anzi, come notammo, in
contradizione con quello che dice poco dopo. Osserva poi il Sybel
(p. 429), a questo proposito, che non si può interpetrare quel
passo, supponendo ohe anche i nulla-tenenti venissero divisi
p e r longobardos hosp ites, perchè la h-ospitalitas era una rela
zione che passava fra il p r o p rieta rio romano ed il longobardo,
il quale dei coloni e dei coltivatori della terra era p a t r o n m ,
non hospes.
L ’ altro brano che ha dato alimento alla discussione, si rife
risce a ciò che avvenne nella restaurazione del regno, quando
fu eletto Autari. Dopo avere affermato che i Duchi dettero al
Re, per suo uso personale, e per pagare i suoi ufficiali o ade
renti, metà dei loro averi, om nem su bsta n tia ru m su a ru m m edie tatem , Paolo Diacono aggiunge : P o p u li tam en adgra va ti p ei' la n qoba rd os hospites p a r tiu n tu r (III, 16). Le parole p o p u li adgravati
fecero supporre che le popolazioni fossero state, dopo la elezione
del Re, più duramente aggravate, perchè i Duchi si vollero su
di esse rifare di quello che avevano dovuto dare al Re. Ma ciò
non si trova punto nelle parole, e non era nel pensiero di Paolo
Diacono, il quale dice invece che le popolazioni stavano assai
meglio sotto i Re. Nel regno longobardo, secondo lui, n u lla e r o i
violen tia , n u lla e stru eb a n tu r in s id in e ; n a n o aliquem in iu ste a n g a ria b a t, nem o e p o lia b a t; n o n e r a n t fu r t a , n o n la tr o c in io ; u n m q u isq u e quo
libebat secu rus sin e tim ore p erg eb a t (Ib id em ). I popoli aggravati
adunque non sono altro che quelli stessi che già prima erano
stati fatti tributari, e che perciò erano stati e rimasero divisi
fra i proprietari longobardi, i quali avevano cedute al Re metà
delle terre che erano di loro libera e piena proprietà, quelle cioè
che avevano confiscate ai nobili romani uccisi. Si può anche sup
porre, come dicemmo, che, essendosi il regno ingrandito, avesse
avuto luogo allora una nuova divisione di terre, e quindi una
nuova distribuzione di vinti tributari fra i vincitori. Ma è solo
una induzione, perchè Paolo Diacono non lo dice.
Siccome poi, in questo secondo brano, egli non parla più di
rendite (fr u g u m ), cosi si è, non senza qualche ragione, da al
cuni supposto, che a tempo di Autari non si facesse più una
divisione delle rendite, ma delle terre stesse, di cui un terzo
sarebbe divenuto proprietà dei Longobardi, e due terzi sareb
bero restati libera proprietà dei Èomani, con vantaggio evidente
degli uni e degli altri. Questa interpetrazione troverebbe soste
gno nella variante (che si legge però in un solo codice, e non
dei più autorevoli), la quale, invece di p e r hosp ites p a rtiu n tu r,
dice, hospitia p a r t iu n t u r : non sarebbero cioè stati divisi i p o p u li
nè le rendite, ma le terre stesse, h osp itia . Più di questo non si
può dire; ed è vana fatica sforzarsi, per trovare in Paolo Dia
cono quello che egli non dice, e che forse non sapeva, essendo
vissuto tanto più tardi. Questo anzi può spiegare V incertezza
del suo linguaggio, della quale non bisogna però abusare, per
fargli dire quello che a noi piace.
CAPITOLO III
Ordinamento del regno longobardo e del governo bizantino
Importa ora formarsi un’ idea chiara, almeno somma
riamente, della forma di governo, che ebbero fra di noi
i Longobardi, perchè se mai una volta, come alcuni pre
tesero, il filo della tradizione romana si spezzò del tutto
in Italia, se ogni traccia di leggi e d’ istituzioni romane
spari affatto, questo non potrebbe essere avvenuto che
sotto il loro dominio. Non solamente esso durò su di noi
più a lungo di ogni altro dominio barbarico ; ma è certo
che gli Ostrogoti lasciarono in vigore le leggi e le isti
tuzioni romane, i Bizantini non ne avevano altre essi
stessi, e i Franchi quando vennero più tardi erano già
in parte romanizzati. I Longobardi, come vedemmo, ave
vano invece avuto assai minore contatto coll’ Impero, col
quale s’ erano messi in aperta guerra, per cacciarlo addi
rittura dall’ Italia. Avendo però da lungo tempo abban
donate le loro antiche sedi, vagando sotto forma più o
meno d’ una compagnia di ventura, non potevano neppur
essi aver, serbate intatte le primitive istituzioni germa
niche. E quelle che ora avevano, non potevano dirsi na
turalmente, esclusivamente svolte dalle antiche, che di
necessità erano state profondamente alterate dalle nuove
condizioni in cui s’ erano trovati, dal contatto che ave
vano avuto con altri popoli. Rimase tuttavia costante in
essi la loro tendenza disgregatrice, la incapacità di co
stituirsi in una forte unità. Questo fu causa del disordine
continuo in cui vissero; rese loro impossibile arrivar mai
alla conquista di tutta Italia, e portò finalmente la to
tale rovina del regno.
Alla loro testa era un R e non del tutto ereditario,
nè del tutto elettivo. Il popolo lo eleggeva o ne sanzio
nava la elezione fatta dai suoi capi, la quale soleva essere
circoscritta nella cerchia d’ una stessa famiglia o paren
tela. Qualche volta il popolo trasmetteva ad altri la fa
coltà di fare l’ elezione. Cosi dopo la morte d’Autari, si
dette facoltà alla sua vedova Teodolinda d’ eleggersi un
marito, che sarebbe stato, come poi fu, il nuovo R e dei
Longobardi. Questi era il capo civile e'militare della na
zione; comandava l’ esercito, amministrava la giustizia
in compagnia di assessori, che di volta in volta sceglieva.
Le leggi proclamate in suo nome erano le consuetudini
stesse formatesi nel popolo, le quali egli, d’ accordo coi
grandi, formulava e sottoponeva poi all’approvazione dell’ assemblea popolare, perchè decidesse se riproducevano
esattamente le consuetudini. Il R e poteva anche di sua
autorità emanare ordini o decreti, i quali, coll’ andare del
tempo e sotto l’ azione persistente del diritto romano,
andarono crescendo di numero e d’ importanza. Quello
che soprattutto determinò il carattere di questa monarchia,
fu la sua divisione in Ducati, i cui Duchi, nominati dal
R e a vita, erano specie di Viceré indipendenti, piuttosto
che veri e propri ufficiali regi. Essi tendevano a rendersi
non solo sempre più indipendenti, ma anche ereditari ; e
qualche volta vi riuscirono, come fecero quelli del Friuli,
di Spoleto e di Benevento. R duca di Spoleto assunse
il titolo di D u x gentis Langóbardorum, quello di Be
nevento divenne addirittura un vero e proprio sovrano
autonomo ed ereditario. Tutto questo non poterono tut
tavia riuscire a fare gli altri Duchi meno lontani, perchè
il Re, come era naturale, vi si opponeva, per tenerli sot
tomessi alla propria autorità. Di qui un conflitto perma
nente, che fu causa di rivoluzioni continue, della morte
violenta di molti Re, e produsse la debolezza continua
del regno, che non si riuscì mai ad organizzare forte
mente. Ed in più di due secoli di dominio, di violenze
e di prepotenze i Longobardi, invece di germanizzare
gl’italiani, finirono coll’ essere essi romanizzati, formando
coi vinti un popolo solo.
Nel regno longobardo v’ erano alcuni veri e propri uffi
ciali regi, chiamati Gastaldi, e nominati dal Re, che po
teva revocarli. Essi amministravano la Ourtis Regia, cioè
i beni della corona nei Ducati, nei quali erano mandati.
Sorvegliavano i Duchi, e là dove esercitavano il proprio
ufficio, facevano anche da giudici e capi militari. Aumen
tare il numero di questi Gastaldi fu il pensiero costante
dei Re, perchè era il solo mezzo di accrescere V autorità
propria, di dare una qualche organica unità al regno. E
però, coll’ andare del tempo, nelle terre nuovamente con
quistate, cercaron sempre di porre Gastaldi invece di
Duchi. Intorno al Re erano anche i Gasindi, specie di
familiari o cortigiani, il cui potere andò col tempo an-
ch’esso aumentando. Ma quel che è più, v ’ era un Con
siglio di Duchi, del quale naturalmente non facevano di
regola parte i Romani; v’ entravano però i Vescovi, i
quali, massime in principio, erano sempre romani.
Tutto ciò, come è evidente, non bastava a formare un
regno saldamente costituito. I Duchi cercavano continuamente ed in ogni cosa d’ imitare il Re. Giudicavano nel pro
prio Ducato, ne comandavano l’ esercito, facevano anche
spedizioni militari per loro conto; qualche volta,per ordine
del Re, assumevano in tutto o in parte il comando del
l’ esercito nazionale. Avevano anch’ essi i loro Gasindi,
ed ufficiali che facevano le veci di Gastaldi, ed altri che
chiamavano Sculdasci, i quali tutti avevano, più o meno,
poteri amministrativi, giudiziari e militari. A l Re sarebbe
di diritto spettato il nominare gli ufficiali dei Duchi ; ma
questi tendevano sempre a nominarli essi, e spesso vi
riuscirono. Nel Ducato di Benevento non vi furono i Ga
staldi regi, ma solo ufficiali nominati dal Duca.
Si è molto disputato per sapere se i Longobardi in ge
nere o i Duchi in ispecie risiedevano nelle città o nella
campagna. E certo non è difficile trovare molti argo
menti per sostenere che risiedevano in città, soprattutto
nelle principali. Queste avevano ciascuna un proprio ter
ritorio, determinato dalle antiche circoscrizioni romane,
su cui si erano formate le Diocesi vescovili, identiche alle
cosi dette Giudiciarie dei Ducati. Tutto ciò, insieme riu
nito, aveva il nome di Civitas, ed in essa di certo dove
vano risiedere i Longobardi in genere, e i Duchi in ispecie.
Ma che risiedessero generalmente dentro le mura delle
città, le quali erano ab antico la sede della popolazione
romana, è, secondo noi, più facile affermarlo che dimo
strarlo. Colle invasioni germaniche il centro di gravità fu
trasferito nelle campagne. I Tedeschi erano popolazioni
rurali, che non conoscevano le città; nei castelli del con
tado si costituì piu tardi il feudalismo, che dette la forma
predominante alla società medioevale; ed i grandi feu
datari del contado sono dai nostri cronisti continuamente
chiamati i Teutonici, i Lombardi.
Di fronte al governo dei Longobardi, in tutti i luoghi
di cui essi non riuscirono ad impadronirsi, restava sem
pre il governo bizantino, il che doveva contribuire non
poco a far si che, pel mutuo contatto, si modificassero
l’un l’altro. Secondo la Prammatica Sanzione il potere ci
vile ed il militare dovevano essere divisi. Alla testa del
primo restava infatti il Praefectus Praetorio, che risie
deva a Ravenna; a Roma c’ era un Vicarius Urbis; a Ge
nova un Vicarius Italiae, e tutti e tre dovevano curare
l’ amministrazione. Le liti fra Romani venivano decise da
Judices provinciarum eletti dai Vescovi. La Prefettura
d’ Italia, separata dalla Rezia e dalle isole, s’ era andata
sempre più restringendo, e s’ era ad esso ridotta ad alcuni
brani solamente della Penisola. La Sicilia aveva un suo
proprio Prefetto ; la Sardegna e la Corsica dipendevano
dall’ Esarca dell’Africa. Siccome però lo stato di guerra
continuava sempre, nè poteva cessare per ora, così, nono
stante l’ esistenza del Prefetto e dei Vicari, il potere ci
vile ed il militare si riunivano di fatto nei Duchi bizan
tini. Questi, mandati a governare e difendere le province
ancora dipendenti dall’ Impero, le quali spesso erano non
solo separate, ma anche assai lontane le une dalle altre,
si trovavano di fronte ai Duchi longobardi, anch’ essi se
parati e indipendenti. Così fin da ora l’ Italia andò sem
pre più dividendosi e suddividendosi.
La tendenza burocratica, accentratrice dei Bizantini
rendeva necessario un capo che rappresentasse l’ Impero
nella Penisola, e nel quale tutti i poteri si riunissero come
nell’ Imperatore. Questo capo era l’ Esarca,*^ui si attri-
buiva anche la dignità assai onorifica di Patrizio, e risie
deva a Ravenna. Il titolo di Esarca era generalmente dato
a tatti coloro che conducevano una spedizione all’ estero,
ed in questo senso potè esser da qualcuno attribuito an
che a Belisario ed a Narsete. Ma esso ebbe in Italia un
significato, un valore affatto speciale, perchè concesso
solo a chi governava in nome dell’ Imperatore e lo rap
presentava, quasi una continuazione o trasformazione del
l’ufficio affidato già a Teodorico. In questo senso Belisario
e Narsete non furono Esarchi, ma solo capi dell’ esercito,
e con esso governarono. Si è molto disputato per sapere
chi fosse il primo Esarca in Italia. La piu antica men
zione ufficiale di questo ufficio si trova, come già di
cemmo, nella lettera di papa Pelagio II, scritta in data
4 ottobre 584, che alcuni credono di dover mutare in 585.
Decio perciò fu di certo Esarca, e prima di lui si ritiene
da alcuni che anche Baduario (575-76) avesse quel ti
tolo. A Decio, che governò breve tempo, successe (585)
Smeraldo. I Duchi bizantini teoricamente dipendevano
dall’ Esarca, che li nominava; ma, separati e lontani gli
uni dagli altri, agivano di fatto come indipendenti; e
cosi l’ Esarcato andò a poco a poco divenendo anch’ esso
una specie di Ducato, da cui gli altri dipendevano sola
mente perchè in esso governava il rappresentante su
premo dell’ Imperatore.
In questo senso più ristretto l’ Esarcato si estendeva
dall’Adige alla Marecchia, dall’Adriatico all’Appennino;
conteneva Ravenna e Bologna coi loro territori, ed altre
città di minore importanza. Accanto ad esso erano la
Pentapoli marittima (Rimini, Pesaro, Fano, Sinigaglia,
Ancona) e la Pentapoli annonaria (Urbino, Fossombrone,
Jesi, Cagli, Gubbio), che, insieme riunite, secondo alcuni
formavano la Decapoli, secondo altri invece questo nome
davasi alla seconda Pentapoli. W Nel settimo secolo ap
partenevano ai Bizantini anche il Ducato di Venezia,
parte deH’Istria, l’Apulia e la Calabria (Terra d’Otranto),
il Brnzio (Calabria moderna), Napoli, Roma, Ceno va con
la Riviera. In generale tutte le città della costiera adriatica e mediterranea restarono ai Bizantini, non essendo
i Longobardi stati mai navigatori. L ’ Esarca era mandato
a governare Regnum et Principatum totius Italiae, per
chè l’ Impero restava attaccato sempre alle antiche for
molo, anche quando non rispondevano più alla realtà.
Da principio l’ Esarca nominava i Duchi ed i Maestri dei
militi, due ufficiali che spesso si confondon tra loro, seb
bene in origine questi fossero inferiori a quelli, e più
esclusivamente militari: a Roma il Maestro dei militi oomandava le milizie della città, il Duca quelle di tutto il
Ducato. Di fatto poi finirono, così gli uni come gli altri, coll’ esercitare le funzioni giudiziarie e militari, spesso anche
amministrative, e vi fu fra di loro poca differenza. I Ducati
eran divisi in sezioni, nelle quali comandavano i tribuni,
che vennero spesso confusi coi Conti, risiedevano nelle
città secondarie, e dipendevano dal Duca o dal Maestro
dei militi, che risiedevano nelle città principali e coman
davano in tutto il Ducato. Il numero e la estensione di
questi Ducati variavano secondo le necessità della guerra.
Prima della venuta dei Longobardi ne erano stati già for
mati parecchi ai confini, verso le Alpi, con soldati limitanei, che in pace coltivavano i campi loro concessi, lascian
doli poi in eredità ai figli con lo stesso obbligo della difesa.
La tendenza a rendere ereditari gli uffici era, come è noto,
assai generale presso i Bizantini. Colla venuta dei Lon
gobardi, con la divisione e suddivisione dell’ Italia, che1
(1) Comprendendo in essa anche Osimo, Umana, Montefeltro, il Terri
torio Valvense e Luccoli. V. Bury, History of later roman Empire, II, 140, n. 4.
per opera loro ne segui, i confini si moltiplicarono. Essi
furono a poco a poco quasi per tutto, perchè ai Bizantini
era necessario difendersi per tutto dal nemico. E s’ an
darono continuamente formando nuovi Ducati, i quali va
riarono di numero e di estensione, secondo che per le
vicissitudini della guerra s’ avanzava o si retrocedeva.
L ’ Esarca, come nominava i Duchi, perchè rappresen
tante dell’ Imperatore, cosi per la stessa ragione s’inge
riva nelle cose* ecclesiastiche. Esso presumeva di dover
ricondurre i sudditi alla vera fede, imprigionava i vescovi,
sorvegliava ed approvava la elezione del Papa: qualche
volta ebbe da Costantinopoli persino l’ ordine d ’ impri
gionarlo. Da un tale stato di cose sorgevano, come era
naturale, cause infinite di conflitti ; e non solamente con
Roma. A Costantinopoli si temeva sempre che l’ Esarca
volesse rendersi indipendente : più d’uno di essi infatti ci
s’ era provato* Si cercava quindi d’ indebolirne il potere,
favorendo invece l’ autorità dei Duchi, facendoli nominar
direttamente dall’Imperatore, o confermandoli quando il
popolo cominciò esso ad eleggerli. E ne seguì non solo
che i Ducati bizantini s’ andarono sempre più separando
gli uni dagli altri e dall’ Esarca, dividendo sempre più
l’ Italia; ma finirono coll’emanciparsi, qualche volta pro
clamando addirittura la loro indipendenza. Questo av
venne a Venezia, a Napoli, a Roma ed anche a Ravenna,
come vedremo.
Nel 584 noi vedemmo come papa Pelagio II, si dolesse
che a Roma non vi fosse nè un Duca nè un Maestro dei
militi. Nel 592 invece Roma aveva già un suo Maestro
dei militi che ne difendeva le mura, e nel 625 YExercitus Romanus (che nel 640 è ricordato la prima volta dal
Libro Pontificale) assisteva ufficialmente alla elezione del
Papa. E non molto dopo troviamo che Gregorio Magno fa
obbligo alle popolazioni del Ducato di difendere colle
loro armi contro i Longobardi le mura della città, la
quale sembra così già avviarsi ad una propria autonomia.
Si è lungamente voluto supporre, che sotto i Longobardi
fosse scomparso ogni avanzo di diritto e di istituzioni
romane, e che degli antichi municipi non fosse rimasta
traccia alcuna. L ’ antica Curia, si è mille volte ripetuto,
era ridotta a riscuoter tasse, che i Decurioni dovevano
pagare anche quando non riuscivano a riscuoterle. L 'ap
partenervi non era quindi più un onore, ma un onere in
comportabile, che tutti cercavano di fuggire, anche col vo
lontario esilio; nè dopo il 625 essa si trova più ricordata
nei documenti. Nella stessa Italia bizantina, dove la legge
romana era in pieno vigore, l’amministrazione municipale,
si disseterà scomparsa, cadendo nelle mani del Vescovo
e di ufficiali quasi governativi come il Curator ed il D e
fen sor. Nell’ Italia longobarda, secondo i medesimi scrit
tori, tutto sarebbe stato assorbito dalla Curtis regia, dai
Duchi, dai Gasindi, più tardi dai Vescovi. Ma sono teorie
ed ipotesi ora in gran parte abbandonate da coloro stessi
che una volta le sostenevano con grande ardore. Se tutto
ciò fosse vero, riuscirebbe assai difficile capire in che
modo i Longobardi avrebbero potuto amministrare e go
vernare le popolazioni italiane, in gran numero raccolte
nelle città. Di queste popolazioni essi dovevano pure^oc
cuparsi, ne avevano bisogno, perchè esse esercitavano i
mestieri, l’ industria ed il commercio. Qualunque fosse
poi lo stato legale delle cose, è assai difficile, per non
dire impossibile, il credere che, anche volendo, i Longo
bardi avessero potuto impedire che, almeno di fatto e
per consuetudine, continuasse fra gl’italiani a vivere una
qualche parte della giurisprudenza e delle istituzioni ro
mane. Esse avevano create fra di loro un gran numero di
relazioni civili, delle quali i Longobardi ignoravano af
fatto l’ esistenza e perfino il nome. Quanto poi a ciò che
seguì a tempo dei Bizantini, i quali vivevano essi stessi
con le istituzioni e con la legge romana, la totale scom
parsa del Municipio sotto il loro dominio, renderebbe
inesplicabile il suo pronto riapparire a Venezia, a Roma
ed in molte città del Mezzogiorno, che erano rimaste
più o meno alla dipendenza di Costantinopoli. Ma è su
perfluo qui anticipare la discussione d’ un argomento, che
si presenterà più tardi con assai maggiore insistenza ed
evidenza.
CAPITOLO IV
Gregorio I - A gilulfo sposa Teodolinda e pacifica il regno Gregorio I fa pace coi Longobardi di Spoleto - Agilulfo as
sedia Roma - L’ imperatore Maurizio è deposto; viene eletto
Poca - Morte di Grègorio I e di Agilulfo - S. Colonftbano.
Nel 590 morirono Pelagio II e Autari. Mutavano così
nello stesso tempo il capo della Chiesa e il re dei Lon
gobardi, e ad essi succedevano due uomini, il Papa so
prattutto, di grandissimo valore. Gregorio I, che prese il
posto di Pelagio II, era nato a Roma circa il 540 da illu
stre famiglia senatoria. La madre ed il padre erano pieni
di tanto zelo cristiano, che appena nato il figlio si det
tero addirittura a vita religiosa. Questi studiò con ardore
le lettere e la filosofia, ebbe alti uffici, e poco dopo la in
vasione longobarda, verso il 573, era Prefetto di Roma e
Presidente del Senato. Ben presto però si sentì anch’ egli
invaso dallo zelo religioso, e cominciò a spendere il suo
ricco patrimonio fondando conventi benedettini in Sicilia
ed altrove. Uno di questi conventi, nel quale si chiuse poi
egli stesso, vestendovi l’ abito, a quanto sembra, nel 575,
lo fondò a Roma, nel suo palazzo avito, sul monte Celiò.
Si narra che, vedendo un giorno nel mercato alcuni bel
lissimi e biondi Inglesi, pagani, esposti alla vendita come
schiavi, esclamasse : — Non Angli, ma Angeli si debbono
chiamare; — e parti subito per andare in Inghilterra,
con animo di convertir quelle popolazioni. Ma il popolo
10 fece richiamare dal Papa, che lo nominò diacono; piu
tardi fu inviato apocrisario a Costantinopoli, dove seppe
far sentire efficacemente nella Corte imperiale la sua
azione personale a favore della Chiesa romana. Tornato
a Roma, fu segretario del Papa, cui poi successe, eletto
a voti unanimi. Dicono che facesse di tutto per evitare la
enorme responsabilità d’ assumere il Papato, che era in
assai difficili condizioni ; ma non gli fu possibile. La peste
faceva strage, ed egli, per invocare l’ aiuto divino, ordinò
una processione solenne di tutto il popolo, la quale durò
tre giorni continui. Vuole la leggenda che Gregorio al
lora vedesse apparire sulla tomba d’Adriano un angelo,
11 quale rimetteva la spada nel fodero, a significare che
le preghiere erano state esaudite, e che la strage sarebbe
cessata. In memoria di ciò, su quella tomba monumentale
venne poi messa la statua dell’ angelo in bronzo, da cui
essa ebbe il nome di Castel Sant’Angelo. La statua che
oggi si vede è però del 1740.
Venuta da Costantinopoli la conferma, il nuovo Papa
fu il 3 settembre 590 consacrato col nome di Gregorio I,
rimanendo per quattordici anni sulla cattedra di S. Pietro,
fino cioè al marzo del 604. In lui v ’ era il doppio carattere
d’ un uomo contemplativo e ardentemente religioso, unito
a quello d’un uomo operosissimo e pratico: due qualità che
sembrano a molti poco conciliabili fra di loro, ma che pur
si trovano assai spesso riunite in uno stesso individuo.
Questo doppio carattere si riscontra anche ne’ suoi scritti,
alcuni dei quali, come i Dialoghi, le Omelie e i libri morali
ci mostrano l’uomo contemplativo; altri mirano invece ad
uno scopo pratico, come son quelli che danno regole per
la liturgia. Queste regole furono lungamente osservate:
la messa si celebra anche oggi in gran parte secondo le
norme fissate da papa Gregorio. A lui si deve anche la
riforma della musica sacra, e la fondazione delle scuole
di quel canto, che fu perciò chiamato gregoriano. I quat
tordici libri delle sue Epistolae sono un monumento dav
vero immortale per la sua vita e per la storia dei tempi.
In esse impariamo a conoscere con sicurezza il carattere
nobilissimo di quest’ uomo, che si può dire il secondo
fondatore del Papato ; e vi rispLendono di viva luce il suo
senno pratico, la sua febbrile attività e carità cristiana,
il suo ardore religioso. Vi si vede chiaro come egli fosse
divenuto il primo personaggio del secolo, che guidava non
solo la Chiesa, ma la politica italiana, e in parte quella
anche dell’ Europa. Dovette occuparsi d ’ amministrare
l’ enorme patrimonio che, per le continue donazioni dei
fedeli, allora già aveva la Chiesa in Sicilia, in Sardegna, in
tutta Italia. Di esso non è possibile determinare con esat
tezza il valore, che si fa da alcuni ascendere ad una esten
sióne di 1800 miglia, con una rendita di 7,600,000 lire. E
di questo denaro, che gli dava una gran forza, si valeva
per aiutare non solo i conventi, il clero, la Chiesa; ma
in assai più larga misura anche gli ospedali ed i poveri.
Le sue lettere sono piene di savissime norme ammini
strative, di un affetto, di una cura singolare per l’ inte
resse dei contadini. E oltre di ciò egli fa in esse una
costante guerra ai Longobardi ; anima le popolazioni ita
liane alla resistenza, alla difesa delle mura cittadine,
invitando qualche volta il clero stesso a prendere le
armi. Tutto questo suo ardore operoso, fervido, giova
nile si manifesta in mezzo ad un mondo che sembra da
ogni parte cadere in rovina, e nel quale egli sta sempre
fanno a lottare, per salvarlo colla fede inconcussa in Dio
e nella virtù, con una passione, un affetto inestinguibile
pel bene degli uomini. « I tempi sono tristissimi, egli
scrive, i campi desolati e deserti, le città vuote, il Senato
è morto, il popolo più non esiste, la spada pende sul capo
di coloro che sono rimasti : noi siamo in mezzo alla ro
vina del mondo. » Eppure non cede, non piega, non si sco
raggia mai. Con una energia indomabile, sostiene di fronte
all’ Impero la dignità della Chiesa romana, combattendo
il Patriarca di Costantinopoli, il quale pretendeva d’ as
sumere il titolo di patriarca ecumenico, che spettava solo
al Papa, capo della Chiesa universale. E, come per con
trasto, continuava sempre a portare il titolo già assunto
di Servo dei Servi, sostenendo la lotta, senza mai piegare
fino a che non ebbe ottenuto la vittoria.
L e sue lettere all’ Imperatrice sono piene delle più
nobili massime in favore degli oppressi, contro la cor
ruzione amministrativa, contro gli eccessi degli agenti
del fisco. « Piuttosto, egli le scriveva, che gravar di tasse
i miseri a segno tale che per pagarle alcuni son costretti
a vendere schiavi i propri figli, mandateci meno danaro
per le spese d’ Italia, ed asciugate invece le lacrime degli
oppressi. » Indefessa, costante fu la sua opera per gua
dagnare al cattolicismo i Longobardi. Per convertire il
loro re Agilulfo si valse della moglie di Ini Teodolinda,
che già era cattolica. D ell’ arcivescovo Costanzo, che rac
comandò ai Milanesi, si valse per combattere l ’ arianesimo
nell’ alta Italia. Molto fece per diffondere sempre più il
cattolicismo tra i Franchi e nella Spagna; ma soprattutto
si adoperò per convertire gli Anglo-Sassoni, presso i quali
mandò una prima missione nel 596, una seconda nel 601.
Rafforzò l’ unità della Chiesa, sottomettendo a Roma i
vescovi, sulla cui elezione vegliò severamente, per com
battere la simonia e la scelta di uomini poco degni, pe
ricolo che allora minacciava assai. A rafforzare la papale
autorità in Italia e fuori giovò molto anche il favore
che egli dette al monachiSmo, sul quale il Papato aveva
cominciato e continuò sempre più ad esercitare un’ azione
diretta, restringendo quella esercitata dai vescovi. Ma
nello stesso tempo rafforzò il divieto d’accogliere nei mo
nasteri chi ancora non aveva compiuti i diciotto anni, e
chi aveva moglie, se questa non si dava anch’essa alla vita
religiosa. In tutto si dimostrò un uomo superiore. Un
giorno egli rimproverò il vescovo di Terracina, per avere
a forza cacciati gli Ebrei dai luoghi in cui celebravano
i loro riti religiosi, dicendo che coloro i quali dissenti
vano dalla vera fede, si dovevano richiamare alla dot
trina di Gesù Cristo colla mansuetudine e la persuasione,
non colla violenza.
Nell’ anno stesso in cui fu eletto Gregorio I, si pro
cedeva alla elezione del nuovo re dei Longobardi. Que
sti dissero a Teodolinda, di cui avevano giustamente un
alto concetto, che si scegliesse un secondo marito, ca
pace di governare, ed essi, fidando nel buon giudizio di
lei, lo avrebbero senz’ altro accettato per loro re. Teodo
linda che aveva già cominciato a governare, e dato subito
prova della sua accortezza politica cercando di stringere
alleanza coi Franchi, tenuto ora consilium cum prudentibus, scelse Agilulfo duca di Torino, originario della
Turingia, parente di Autari, bello, giovane, valoroso, pru
dente. Deliberata la scelta, si mosse francamente per
andargli incontro verso Torino. E trovato che l’ ebbe a
Lumello, lo invitò a bevere nella stessa tazza, dopo di che,
cum rubore subridens, si lasciò baciare in bocca, come per
confermare la scelta che aveva fatta. Le nozze furono ce
lebrate con generale letizia; e nel maggio del 591 A gi
lulfo assunse la potestà regia, solennemente acclamato
dal popolo congregato a Milano.
La posizione in cui si trovava ora Agilulfo era assai
Flaminia, la quale va da Roma a Rimini, che per altra via
è congiunta con Ravenna, esso trovavasi fra la Pentapoli
e Roma, che di continuo minacciava. Papa Gregorio in
fatti si doleva ora amaramente all’ Imperatore che l’esarca
Romano, il quale pur era un uomo valoroso, lo lasciasse
esposto ai nemici assalti, senza muovere un passo in sua
difesa, tanto che doveva egli solo provvedere a tutto.
L o pregava perchè si movesse finalmente a difesa della
causa Italiae. < Io non so più, egli diceva, se ora adempio
l ’ ufficio di pastore o di principe temporale. Debbo prov
vedere alla difesa, a tutto; sono divenuto il pagatore dei
soldati. » E veramente egli pensava a restaurare le mura,
a dare ordini per la difesa; era l’ anima della guerra in
Roma e fuori; avvertiva i capi dei militi a stare di conti
nuo attenti ai movimenti degli Spoletini. In qualche città
inviava soldati, scrivendo che la difendessero sotto l’ or
dine del Magister militum (27 settembre 591). Con un’al
tra lettera, circa dello stesso tempo, indirizzata: Clero,
ordini et plebi consistenti Nepae, mandava il clarissimum
Leontium a difenderla. Nel giugno del 592 scriveva a
due Maestri dei militi come a suoi dipendenti, dando loro
ordini per la guerra. E nello stesso anno, alla città di
Napoli che si trovava senza armi, ed era minacciata da
Benevento d’ accordo con Spoleto, il Papa mandava il
« Magnifico tribuno » Costanzo, ordinando che gli si affi
dasse il comando dei soldati, perchè potesse dirigere la
difesa. E intanto, senza aver dall’ Esarca aiuto nè di uo
mini nè di danari, doveva difendersi da Ariulfo, che
s’ avanzava per assediare Roma. « I soldati regolari che
qui sono, cosi egli scriveva al vescovo di Ravenna, non
avendo più le paghe, hanno abbandonato la Città; gli al
tri a stento s’ inducono a far la guardia alle mura. Ormai
non resta che concludere la pace coi Longobardi. Questa
è divenuta per Roma questione di vita o di morte. » Ed
assumendo sopra di sè ogni responsabilità, quasi fosse
divenuto il capo legale, il rappresentante legittimo del
Ducato romano, concluse con Ariulfo la pace.
L ’ Esarca fa di ciò irritatissimo, accusando il Papa
d’ avere compiuto un atto d’ indebita sovranità, quasi
fosse indipendente dall’ Imperatore. Ormai, egli diceva,
Ariulfo, sicuro alle spalle, poteva da un momento al
l’ altro, unendosi con Agilulfo, procedere contro Ra
venna. E nell’ autunno del 592 s’ avanzò verso l’ Italia
centrale, trovando a un tratto quelle forze che fino allora
aveva sempre detto di non avere. S’ impadroni di Pe
rugia, di Todi, di Orte, di Sutri, che erano occupate dai
Longobardi. Ed il Papa, di buona o di mala voglia, non
ostante la pace fatta, dovette secondar questa guerra.
Così il suo accordo coi Longobardi fu rotto ; ed Agilulfo,
nel maggio del 593, si mosse in persona contro Roma.
Passato il Po, fece prigionieri alcuni Italiani, che mandò
nella Gallia per venderli schiavi; altri arrivarono in Roma
mutilati. Il Papa dovette allora solennemente annun
ziare al popolo, che interrompeva le sue predicazioni so
pra Ezechielle, per occuparsi della guerra. « Nessuno ci
potrà rimproverare, egli diceva, se cessiamo dal predi
care in mezzo a tante tribolazioni, circondati come siamo
dalle spade nemiche. Alcuni Italiani già tornarono fra noi
colle mani mutilate ; altri vennero fatti prigionieri, legati
e venduti schiavi; altri uccisi! » Agilulfo intanto aveva
già preso Perugia, ed ucciso il duca Maurizio che, dopo
aver tenuto quella città pei Longobardi, la teneva ora
pei Bizantini, ai quali l’ aveva a tradimento ceduta. Pose
poi T assedio a Roma, e sebbene le notizie che abbiamo
di questo fatto siano incertissime, sembra tuttavia che
in parte la resistenza dei cittadini animati dal Papa;
in parte la malaria che, a cagione della state, infieriva
nella Campagna; in parte la ribellione dei Duchi non
ancora sedata nell* alta Italia, finissero coll’ indurre A gi
lulfo a ritornare verso il Nord, dove l’ un dopo l’ altro
sottomise i ribelli.
In mezzo a tutti questi eventi il Papa andava sempre
più divenendo il personaggio principale in Italia, i cui in
teressi egli ora rappresentava, la cui storia sembrava con
centrarsi intorno a lai, che sorgeva gigante in mezzo al
secolo, dando al Papato inaspettata grandezza, iniziando
un’ epoca nuova, tenendo testa a tutti con straordinaria
energia. Non poteva andare d’ accordo coi Longobardi,
stranieri, ariani, barbari, saccheggiatori, nemici del nome
romano. Non poteva neppure andare d’accordo coi Bizan
tini, continui essendo con Costantinopoli i dissensi reli
giosi, continua essendo colà la pretesa di tenere la Chiesa
sottomessa all’ Impero. Il patriarca Giovanni era sempre
ostinato nell’ assumere il titolo di ecumenico; e l’Impera
tore aveva, con nuovo editto, proibito a coloro che face
vano parte dell’ amministrazione, d ’ accettare uffici eccle
siastici o entrare nei conventi. Contro di ciò il Papa
energicamente protestava. Oltre di che la continua velleità
d’ indipendenza manifestata dal clero di Ravenna, veniva
favorita adesso dall’ esarca Romano, < la cui condotta,
scriveva Gregorio, era peggiore di quella dei Longobardi;
tanto che sembrano piu benigni i nemici che ci uccidono,
dei rappresentanti della Repubblica, i quali dovrebbero
difenderci, ed invece colla loro malizia e le loro rapine
ci consumano lentamente. » Si valeva di tutti i mezzi per
agire sull’ Imperatore e sull’ Esarca; mediante l’ arcive
scovo di Milano, agiva anche su Teodolinda. Ma in so
stanza neppure a lui conveniva una vittoria o prevalenza
decisiva dei Bizantini o dei Longobardi. Avrebbe voluto
perciò un accordo, col quale venisse stabilito un equilibrio
che lasciasse la Chiesa libera dagli uni e dagli altri.
Agilulfo, che si trovava anch’ egli in mezzo a mille dif
ficoltà, pareva da parte sua disposto a stringere accordo
col Papa ; ma questi, dopo ciò che gli era successo per la
pace conclusa con Ariulfo, non poteva arrischiarsi a pro
vocare ora un’ altra crisi. Si trovava quindi sempre più
angustiato, e nelle sue lettere ripeteva che le continue
tribolazioni non gli lasciavano neppur tempo di leggere
o di scrivere. Tantis tribulationibus premor, ut mihi neque legere neque p er epistolas multa loqui liceat Ma
quello che era peggio, non gli*venivano risparmiate ca
lunnie d’ ogni sorta: lo accusarono presso l’ Imperatore
perfino d’ avere ucciso un vescovo. A l che egli perdette
addirittura la pazienza, e scrisse : « Se avessi voluto mac
chiarmi le mani nel sangue, a quest’ ora la nazione longo
barda non avrebbe nè re, nè duchi, nè conti, e sarebbe
in estrema confusione. Ma io temo Iddio e rifuggo dal
macchiarmi le mani del sangue di chicchessia. » L ’ Im
peratore lo aveva accusato d’ incapacità e fatuità nella
sua condotta verso i Longobardi. « E come ! esclamava
il Papa indignato, in un’ altra lettera del 5 giugno 595,
si è rotta, la pace da me conclusa con Ariulfo, ritirando i
soldati e lasciandomi solo contro Agilulfo. Ho dovuto ve
dere i Romani presi, legati come cani, e mandati a ven
dere schiavi nella Erancia ! L ’ Imperatore non avrebbe
dovuto giammai prestar fede alle parole dei miei nemici,
ma guardar solo ai fatti. » E se ne appellava a Gesù Cri
sto. Intanto i Longobardi di Spoleto e di Benevento si
allargavano sempre più nell’ Italia meridionale, saccheg
giando, conquistando; nè quelle popolazioni potevano tro
vare aiuto o incoraggiamento in altri che nel Papa, il
quale cosi acquistava sempre maggiore importanza ed
autorità, diveniva di fatto il capo legittimo delle popo
lazioni italiane, che per tale lo riconoscevano.
Nel 595 l’ aspetto generale delle cose cominciava a mu
tare alquanto, perchè moriva il patriarca di Costantino
poli, Giovanni, che era stato causa continua di dissidi,
e ne succedeva un altro, Ciriaco, che era piu accetto
al Papa. Moriva non molto dopo l’ esarca Romano, e
gli succedeva Kallinicus (per corruzione detto Gailinicus), anche questi a lui molto piu favorevole. Tutto ciò
avrebbe agevolato non poco le trattative d’ una pace ge
nerale coi Longobardi, se non si fosse trovato un osta
colo inaspettato nei duchi di Benevento e di Spoleto, i
quali, volendo agir sempre per conto proprio, pretende
vano di firmarla solo con speciali condizioni da essi impo
ste. Quindi nel 599 più che una vera pace, si concluse una
tregua di soli due mesi. E, come papa Gregorio aveva già
preveduto, dicendo: — si farà pace e non sarà pace; —
cosi, quando non era anche scaduto il termine fissato, la
tregua fu rotta senza poterla rinnovare. Nel 601 primo
a cominciare le ostilità fu l’ Esarca, cui rispose subito
Agilulfo cercando d’ incendiar Padova, che poi prese e
distrusse. Egli fu in questa guerra secondato dagli Avari,
ai quali mandò, adfaciendas naves, artefici italiani, proba
bilmente delle antiche sckolae o associazioni di mestieri.
A sempre più aumentare il disordine s’ aggiunse, che da
una parte gli Avari assalirono l’ Impero e devastarono
l’ Istria, da un’ altra i Longobardi di Spoleto ebbero più
d’ uno scontro cogl’ imperiali di Ravenna.
Il mutamento più notevole e di generale importanza av
venne però a Costantinopoli, dove l’ imperatore Maurizio
era divenuto assai impopolare per la severa disciplina che
voleva nell’ esercito. Gli Avari gli avevano nel 600 pro
posto che riscattasse per danaro 12,000 prigionieri, i quali
erano nelle loro mani; ma avendo egli decisamente ricu
sato, li uccisero, il che provocò un malumore grandissimo
contro di lui. Qualche anno dopo, avendo egli dato or
dine all’ esercito di passare il Danubio e svernare al di
là del fiume, lo scontento arrivò a tale che ne scoppiò
una rivoluzione, e fu proclamato imperatore Poca, il quale
manifestò subito il suo carattere mostruosamente cru
dele. Nel novembre del 602 fece uccidere il suo prede
cessore, dopo averne fatto trucidare i figli sotto gli occhi
stessi del padre. Siccome poi si doveva subito occupare
della guerra persiana, così concluse la pace cogli Avari,
richiamò VEsarca, che aveva fatto scoppiare la guerra an
che in Italia, vi rimandò Smeraldo, e pubblicò un decreto
con cui riconosceva la supremazia del Papa. Questi allora
gli scrisse una lettera nella quale, augurandogli ogni
prosperità, diceva, « che gli angeli stessi del cielo avreb
bero cantato un inno di lode al Signore, » per la nuova
elezione. Un tale linguaggio restò sempre come una mac
chia indelebile nella vita del gran Papa. Ed in vero, per
quanto Foca aiutasse il trionfo della Chiesa, che era lo
scopo costante, unico, supremo, a cui Gregorio Magno
tutto sacrificava, pure il congratularsi della elezione d’un
tal mostro non era scusabile in nessun modo. Bisogna
tuttavia osservare, che il linguaggio ufficiale di quei
tempi, massime coir Oriente, era assai ampolloso, e tutto
si diceva con frasi altosonanti. Nè si può con certezza af
fermare, che quando il Papa scrisse quella lettera, avesse
già avuto sicura e precisa notizia del sangue innocente
con tanta crudeltà versato.
Agilulfo, come abbiamo notato, subiva l’ azione che la
ferrea volontà del Papa esercitava per mezzo della re
gina Teodolinda, cattolica e donna d ’ alti sensi, la quale
lasciò gran nome di sè, e grandi opere pubbliche, sopra
tutto a Monza. Una nuova prova dell’ azione su di lui
esercitata dal Papa si ebbe nella Pasqua del 603, quando
Agilulfo fece battezzare cattolico il figlio Adaloaldo, nato
verso la fine del 602. Alcuni sostengono che si conver
tisse anch’ egli; ma certo è solamente che si dimostrò
assai favorevole ai cattolici. Del resto siamo già al prin
cipio della generale conversione dei Longobardi, la quale
si dovette appunto all’ opera di Gregorio, efficacemente
aiutato da Teodolinda. Tutto questo non impediva però
che Agilulfo continuasse le sue conquiste, e che il Papa po
liticamente gli si dimostrasse perciò sempre più avverso.
Dopo aver preso Monselice, il re longobardo andò oltre
verso Ravenna; e par certo che, in questa occasione, il
Papa si occupasse d’ indurre i Pisani ad aiutare l’ Esarca.
Abbiamo infatti una sua lettera, nella quale dice, che di
questi non c’ era da fidarsi punto, perchò avevano già
pronti i loro dromoni (navi rapide) per metterli'in mare, e
servirsene solamente a proprio vantaggio. Si direbbe, che
i Pisani fossero già ordinati in una qualche specie di mu
nicipale indipendenza, volendo e potendo deliberare da
sè sulle guerre che loro conveniva fare o non fare. Co
munque sia di ciò, Agilulfo, nuovamente favorito dagli
Avari, assalì ed abbattè Cremona ; prese Mantova di cui
demolì le mura, e lo stesso fece di altre città, fino a che
Smeraldo consentì ad una pace che doveva durare dal
settembre del 603 all’ aprile 605.
In questo mezzo erano per l’ età cresciute di molto le
malattie di Gregorio I ; ma, per quanto può argomen
tarsi dalle sue lettere, era anche andata sino all’ ultimo
crescendo sempre la sua prodigiosa attività. Non cessava
mai di raccomandare a tutti che si provvedesse alle sorti
della misera Italia, adoperandosi costantemente per essa:
e questo in mezzo a dolori, a infermità d’ ogni sorta.
L ’ anno 600 egli scriveva: « In undici mesi appena qual
che volta la gotta mi ha lasciato levare di letto. La mia
vita è divenuta tale che aspetto come un benefìzio la
morte. » Ed in un’ altra : c II dolore non è sempre uguale,
ma non mi lascia mai; eppure non riesce ancora ad uc
cidermi ! » Una delle ultime lettere fu scritta nel gen
naio 604, poco prima di morire, per mandare abiti e
coperte ad un vescovo assai povero che pativa il freddo ;
e vivamente lo raccomandava alla pietà dei compagni.
Poco dopo, V undici marzo successivo, Gregorio moriva,
ed era sepolto in S. Pietro.
In quello stesso anno Agilulfo, ad evitare le dispute
che potevano nascere per la sua successione, fece a
Milano proclamare erede il figlio Adaloaldo, che non
aveva allora più. di due anni. E ciò in presenza dei
grandi e dell’ ambasciatore di Teudiberto re dei Franchi,
la cui figlia, in segno d’ amicizia e di perpetua pace, ve
niva promessa sposa al giovanetto erede del trono lon
gobardo. Nel 605 fu fatta pace coll’ Esarca, rinnovata poi
fino al 612. A ll’ imperatore Foca era successo intanto Eraelio (610-41), che fu subito occupato nella guerra per
siana. Anche all’ esarca Smeraldo, che per la seconda
volta teneva quell’ ufficio, era successo, verso il 611, un
altro esarca di nome Giovanni.
Pareva che dovesse esservi pace in Italia; ma appunto
allora gli Avari, che erano stati in passato amici dei Lon
gobardi, mossero una guerra violenta contro Gisulfo duca
del Friuli; il quale, dopo viva resistenza, mori in battaglia
con la più parte de’ suoi, lasciando la vedova Romilda con
otto figli. E questa, con essi, e cogli altri superstiti, la più
parte dei quali eran donne, vecchi o fanciulli, si chiuse
nella città di Foro Giulio (Cividale del Friuli). Quattro
dei figli eran femmine, e quattro maschi, due soli dei
quali, Tasone e Cacco adulti ; gli altri due, fanciulli. Gli
Avari assediarono la città sotto il comando del loro
Cacàno. Narra la leggenda, che questi era così giovane
e bello, che Romilda, appena l’ ebbe visto, se ne invaghì
per modo, che offerse di aprirgli le porte della città,
se prometteva di sposarla. E così il Cacàno entrò, de
vastò, bruciò ogni cosa, e fece prigionieri gli abitanti,
che divise fra i suoi seguaci. Quanto a Romilda, dopo che
l’ ebbe sottomessa alle sue voglie, l’ abbandonò agli uffi
ciali, per farla poi impalare, dicendo che questo era il
solo matrimonio degno di una traditrice come lei. I primi
tre figli maschi di Gisulfo montarono intanto a cavallo
per salvarsi colla fuga. E perchè l’ ultimo di essi, Grimoaldo, giovanetto, non cadesse in mano del nemico, vo
levano ucciderlo. Ma egli disse al fratello che già aveva
sguainato la spada : — Non mi uccidere, chè io saprò ben
reggermi in sella. — E salito a cavallo lo segui. Se non che
nella fuga, il giovanetto restò indietro e venne raggiunto
da un Avaro, che lo prese. Questi però vedendolo cosi
bello, giovane e biondo (i suoi capelli eran quasi bianchi),
non osò ucciderlo, e lo menava seco tenendo le redini del
cavallo. A un tratto il fanciullo inaspettatamente, cavò
dal fodero la sua piccola spada, e con un vigoroso colpo
sulla testa, distese a terra l’Avaro, raggiungendo al ga
loppo i fratelli. Le sorelle restarono prigioniere, e per
salvare il loro onore, si posero in seno della carne cruda
e corrotta, la quale mandava un tal fetore che gli Avari
se ne allontanavano stomacati. La verità storica di un sì
fantastico racconto può ridursi a questo, che gli Avari
entrarono nell’ Istria, devastarono il Friuli, uccisero il
duca Gisulfo e presero Cividale ; poi si ritirarono, assai
probabilmente perchè Agilulfo si avanzava. Dei quattro
figli maschi di Gisulfo, i due adulti, Tasone e Cacco, po
terono assumere il governo, ma furono poi trucidati a
tradimento; gli altri, che erano troppo giovani ancora,
se ne andarono a Benevento, presso Arichi, che era del
Friuli anch’ egli, e loro parente. Arichi che li aveva già
prima educati nel loro paese, li accolse adesso come figli
a casa sua.
Ed ora Agilulfo, dopo venticinque anni di regno, mo
riva a Milano tra il 615 e 16, lasciando già, come ve
demmo, proclamato erede il proprio figlio Adaloaldo, che
allora aveva dodici anni. Cominciò quindi di fatto a go
vernare la madre Teodolinda, continuando a favorire con
ardore il cattolicismo, e promovendo anche la cultura, in
ispecie V architettura dei Longobardi. S’ apriva così la
strada alla loro totale fusione coi Romani. Ricchi dona
tivi essa fece alle chiese, ó molte ne costruì, fra le quali
viene ricordata la basilica di S. Giovanni a Monza, an
nessa al palazzo che Teodorico aveva costruito, e che
ella ora restaurò ed ampliò. Fu in questo palazzo appunto
che Teodolinda fece dipingere quelle pitture da cui Paolo
Diacono potè darci la descrizione del vestire dei Longo
bardi. Nella basilica s’ andò poi raccogliendo un vero
tesoro, nel quale erano sopra tutto notevoli tre corone.
Una di esse, tempestata di pietre preziose, con Cristo e
gli apostoli scolpiti, aveva un’ iscrizione, che la diceva
offerta da Agilulfo R ex totius Italiae; il che fa credere
che fosse di tempi posteriori, non sapendosi che egli ab
bia mai avuto un tal titolo. Questa corona venne da Napo
leone I portata a Parigi, dove fu rubata e sparì. Un’ altra,
anch’ essa di tempo posteriore, ha poca importanza. Ce
lebre sopra tutte è invece quella che fu chiamata la corona
di ferro, perchè dentro al cerchio d’ oro, scolpito a frutta e
fiori, con smalti e ventidue gioielli, specialmente perle e
smeraldi, v’ è un sottile cerchio di ferro, che dicesi for
mato da uno dei chiodi coi quali Gesù Cristo fu confitto
sulla croce. Con essa vuoisi che fosse coronato Agilulfo ;
e certo furono più tardi, per molto tempo, coronati i re
d’ Italia.
Un fatto notevole, avvenuto in questo tempo, fu an
che la protezione da Agilulfo e da Teodolinda accordata
a S. Colombano, celebre nella storia della Chiesa e della
cultura. Egli nacque verso il 543 nell’ Irlanda, dove il
Cristianesimo aveva suscitato un ardore, un entusiasmo
indicibile, e la cultura cristiana era in quei conventi prò
gradita in modo veramente m&raviglioso, diffondendosi
di là nel resto d’ Europa. Animato dall’ ardente spirito
di propaganda, S. Colombano andò in Francia, donde fa
poco dopo cacciato, per avere aspramente biasimata la
condotta di quei sovrani ohe, sebbene cattolici, erano cru
delissimi. Lo lasciarono tuttavia tranquillo a Bregenz, sai
lago di Costanza. P oco dopo egli andò più oltre verso il
mezzogiorno, restando nella Svizzera qual suo rappresen
tante il discepolo S. Gallo, irlandese anch’ egli, che dette
il suo nome alla celebre abbazia ed al Cantone in cui si
fermò. Venato in Italia, verso il 618, fu cordialmente ac
colto da Agilulfo e da Teodolinda, sebbene continuasse a
scrivere contro gli Ariani. Fondò il convento di Bobbio,
famoso per molti codici ivi raccolti, che sono oggi sparsi
nella Vaticana, nell’ Ambrosiana, nella biblioteca di To
rino, e rendono testimonianza del grande amore di lui
e de’ suoi seguaci per gli studi classici. La protezione
da Agilulfo concessa a questo santo; l’ aver lasciato con
vertire al catolicism o i suoi due figli; l’aver concesso lar
ghi donativi alle chiese, continui favori ai vescovi per lo
innanzi perseguitati dai Longobardi, sembrerebbero av
valorare la opinione di Paolo Diacono, che anch’ egli fosse
divenuto cattolico. Pure è negli storici generalmente pre
valso l’ avviso contrario, che cioè questa sua condotta
fosse dovuta piuttosto al poco ardore, quasi alla indiffe
renza religiosa dei Longobardi, all’ azione efficacissima
esercitata da Teodolinda sul marito, ed a quella che Gre
gorio I esercitò sempre su tutti.
C APITOLO Y
Rotari re - Eraclio imperatore - Guerra persiana
Maometto - L'Ecthesis - L’editto di Rotari
L ’ Italia andava adesso soggetta ad una doppia crisi.
Erano scomparsi dalla scena due uomini grandi, quali
Agilulfo e Gregorio I. La conversione già cominciata dei
Longobardi aveva seminato fra di loro la discordia, e
questa fece ben presto scoppiare una ribellione contro il
giovane Adaloaldo, che era cattolico, e se ne dovette ora
fuggire a Ravenna. Gli successe Ariovaldo il quale era
invece ariano (625). Di lui, che pure regnò diversi anni,
sappiamo assai poco ; ed ignoriamo ancora che cosa pen
sasse o facesse in questo mezzo Teodolinda. Si direbbe
che assistesse ornai spettatrice impassibile a tutti i muta
menti che seguivano. Nel 628 cessò di vivere, ed Ario
valdo, che aveva sposato la figlia di lei, Gundeberga, mori
verso il 686. Allora fu concessa alla sua vedova, come
già a Teodolinda, facoltà di scegliersi un secondo marito,
che sarebbe stato il nuovo re. Ed anche questa volta la
scelta riuscì felice, essendo per essa salito sul trono R o
tari, che fu il re legislatore dei Longobardi.
Intanto, per le difficili condizioni dell’ Impero, occu
pato nella guerra persiana divenuta sempre più grossa
e minacciosa, non solamente non si potevano mandare
aiuti a Ravenna, ma si mutavano continuamente gli ósarchi, per evitare che sorgesse in loro 1*ambizione di ren
dersi indipendenti. Infatti a Smeraldo era successo quel
Giovanni, che secondo alcuni era chiamato Lem igiw
Thrax (611-616), ed a questo un Euleterio (616-620), il
q*iale pensò di assumere in prcprio nome il governo delITEsarcato. Ma i f id a t i allora gii si ribellarono, lo uccì
sero e ne mandarono la testa a Costantinopoli, di dove fa
spedito un altro esarca.
In qnesto mezzo grave assai era la crisi che traversava
rImpero, ed essa naturalmente si ripercoteva sull'Italia. Il
5 ottobre *>10 era morto 1*imperatore Foca, al quale Sme
raldo aveva eretto la celebre colonna nel Foro Romano, ed
H etti regno crudele era stato turbato da continue cospirar
zionL A lui succedeva Eraclio -'610-41}. un vero carat
tere orientale, che passava da una straordinaria attività
ad una straordinaria indolenza. Infatti, salito che fa sul
trono, pareva nei primi dieci anni che se ne stesse a
guardare, senza impensierirsi del rapido avanzarsi dei
Persiani, aiutati dagli Avari. Pure il pericolo era grande
davvero, perchè i Persiani occuparono la Siria, entrarono
in Damasco, poi nella Palestina, e s’ impadronirono della
stessa Gerusalemme coi luoghi santi (614 e 15), portando
via perfino il legno della sacra croce. Dopo ciò s’ avanza
rono nell’ Egitto, minacciando d’ andare più oltre ancora.
Dove queste gravi perdite si dovessero fermare, nessuno
poteva prevederlo. Il nemico sembrava minacciare la
stessa Costantinopoli, e neppure allora Eraclio si mo
veva: si sarebbe detto che era addirittura spaventato.
Vi fu un momento (618) nel quale pareva che volesse
trasportare la capitale a Cartagine, sperando potere di
là meglio difendere l’ Impero.
Fu questo invece il momento in cui tutto mntò a un
tratto. Alla minaccia di perder la capitale, lo spirito pub
blico, religioso e politico, si sollevò in Costantinopoli. E
finalmente si ridestò dal suo letargo anche Eraclio, il
quale si trovò alla testa d’ una grossa guerra, combattuta
a difesa non solo dell’ Impero, ma anche della fede, per
liberare Gerusalemme e le sacre reliquie dalle mani prò-
fanatrici degli adoratori del fuoco. Egli parve divenuto
allora un altro uomo. Fatta nel 620 una tregua cogli
Avari per due anni, si apparecchiò febbrilmente alla
guerra. Nel 622 si mosse coir esercito, e quasi nuovo
Belisario, in una serie di fortunate battaglie, nel 622-25,
sconfisse ripetutamente i Persiani che dovettero ritirarsi
presso il Mar Nero, dove svernarono. Cosroe loro prin
cipe si apparecchiò allora ad uno sforzo supremo; e fece
alleanza coi Bulgari, cogli Slavi, cogli Avari. Questi
ultimi, col loro Cacàno alla testa, mossero ad un for
midabile assalto contro la stessa Costantinopoli, mentre
contemporaneamente e con ugual vigore i Persiani mo
vevano contro Eraclio. Ma a Costantinopoli il popolo, il
clero, i soldati fecero una disperata difesa, che dovette
esser vittoriosa davvero, perchè da questo momento non
sentiamo più parlare degli Avari. Pare che Eraclio avesse
deliberato di disfarsene affatto, dimostrandosi invece as
sai più favorevole agli Slavi. Certo è che d’ ora in poi
gli Avari cominciano quasi del tutto a scomparire dalla
storia; gli Slavi, invece, ben più numerosi, s’ avanzano,
occupando prima la penisola balcanica, e dilatandosi poi
anche in altri paesi verso l’ Europa centrale. Eraclio con
tinuò le sue vittorie fino a che Cosroe, umiliato per le
ricevute sconfitte, fu nel 628 da una ribellione popolare
deposto ed ucciso. Gli successe il figlio, che fece la pace
coll’ Impero, abbandonando tutte le conquiste fatte dal
padre, restituendo i prigionieri ed il legno della sacra
croce, che Eraclio, dopo d’ essere entrato trionfante in
Costantinopoli, riportò l’ anno seguente a Gerusalemme,
nella chiesa del Santo Sepolcro.
Di tutte le guerre sostenute nella lunga lotta contro
i Persiani, questa di Eraclio fu certo la più vittoriosa,
e pareva anche definitiva. Essa però mise sempre più in
luce un lato assai debole dell’ Impero d’ Oriente, il quale
aveva uno spirito greco, seguiva una politica romana, ed
era composto di province fra loro assai eterogenee. U ra
pido avanzarsi dei Persiani sin dal principio della guerra,
aveva fatto toccar con mano, quanta poca coesione vi fosse
tra le varie province. Parecchie di esse non erano state
assimilate all’ Impero, da cui poterono perciò esser fa
cilmente staccate. A riconquistarle era stata necessaria
una grossa guerra, che aveva obbligato a lasciare in
difese quelle che erano le parti più vitali o più assimi
late, e che restarono esposte alle invasioni di altri bar
bari. Di ciò s’ era già avuto un altro esempio a tempo
di Giustiniano, il quale, per riprendere l’Africa, la Spagna
e l’ Italia, aveva trascurato la difesa della Tracia, della
Macedonia, della Grecia, che vennero invase dai Bulgari,
dagli Avari, sopra tutto dagli Slavi. Lo stesso fatto, ed in
più larghe proporzioni, si era ripetuto a tempo di Eraclio.
Gli Avari, è ben vero, erano scomparsi dalla scena, ma gli
Slavi che fino a quel tempo avevano proceduto in loro
compagnia, combattendo insieme, inondarono addirittura
la penisola balcanica, avanzandosi nella Grecia, nella Dal
mazia, nell’ Istria, nella Carniola. Il destino di questi due
popoli, gli Avari che erano finnici, e gli Slavi, indo-europei
e numerosissimi, somiglia di molto al destino degli Unni
e dei Germani. I primi, finnici anch’ essi, cominciarono col
combattere e vincere la potenza dei secondi, i quali, uniti
poi ai Romani, li disfecero e li obbligarono a ritirarsi, dopo
di che gli Unni scomparvero quasi del tutto. E cosi gli
Avari, che erano sembrati dapprima prevalere sugli Slavi,
furon poi da questi e dall’ Impero distrutti o forse anche
assorbiti ed assimilati : certo non se ne sentì più parlare.
Questi popoli finnici, turanici appariscon quasi tutti come
un uragano, cui nulla può resistere. Ma se con grande faci
lità si avanzano, con grande difficoltà riescono ad organiz
zarsi stabilmente, e presto si decompongono per discio
gliersi e sparire colla stessa rapidità con la quale s’ erano
riuniti. Un’eccezione notevole sono però gli Ungari, detti
poi Ungheresi, che vennero in Europa assai più tardi, e
formano ancora oggi come un’ isola compatta e forte in
mezzo ai popoli ariani.
Certo è in ogni modo che tanto le imprese militari di
Giustiniano, quanto quelle di Eraclio non ebbero effetto
duraturo, perchè le province che essi riconquistarono fini
rono coll’ essere definitivamente abbandonate. L ’ opera
dei secoli v i i e v ili mirò a riprendere e conservare almeno
quelle più omogenee, che s’erano meglio assimilate. Il la
voro di disintegrazione, vittoriosamente combattuto da
Eraclio, ricominciò prima che egli morisse. Ed il ripetersi
di un tal fatto dimostrava che esso era tutt’altro che tran
sitorio.
S’apparecchiava allora un grande avvenimento politico
religioso, che doveva turbare profondamente l’ Oriente e
l’ Occidente. Maometto nel 628 cominciava dall’ Arabia,
colla predicazione e colle armi, a propagare la sua nuova
dottrina. Essa era un monoteismo, che lasciava da parte
tutte le sottili teorie e disputazioni filosofiche sulla Tri
nità, sulla doppia natura di Gesù Cristo, che egli rite
neva suo predecessore. Queste dispute, che tanto infiam
mavano ed agitavano lo spirito dei Greci, non erano punto
adatte alla intelligenza delle popolazioni in altre parti
dell’ Impero. La nuova religione non riconosceva inoltre
distinzione di classi sociali, giacché gli uomini, secondo
Maometto, sono uguali « come i denti di un pettine; » pro
metteva nell’ altro mondo un eterno paradiso, con tutti
quanti i piaceri dei sensi, a coloro che per essa combat
tevano e morivano ; ed inculcava un fatalismo che rendeva
indifferenti ad ogni pericolo di morte. Certo è che l’esalta
mento religioso degli Arabi e dei Saraceni (era questo il
nome ohe i Bizantini davano a tutti coloro che professa
vano la dottrina musulmana) divenne in breve tempo stra
ordinario. Morto Maometto nel 632, le popolazioni arabe,
di loro natura guerriere, educate nel deserto ad una vita
perennemente militare, guidate dai Califfi che gli succes
sero, andarono rapidamente di conquista in conquista ri
pigliando tutte quelle terre nelle quali s’ erano poco prima
avanzati i Persiani, respinti poi da Eraclio. Nel 635 fu
presa Damasco, nel 636 Antiochia, nel 637 Gerusalemme,
nel 638 la Mesopotamia, fra il 639 e 40 l’ Egitto. L ’ impe
ratore Eraclio pareva ricaduto nella sua prima apatia,
e dopo una debole, inefficace resistenza, mori nel 641,
quando l’ Impero aveva per sempre perduto le terre al
di là del Tauro.
La conquista musulmana era stata preceduta ed appa
recchiata dalla conversione religiosa, agevolata anch’essa
dalla natura di quelle popolazioni. L ’ Egitto, la Mesopota
mia, l’Armenia avevano sempre resistito alle dottrine del
Concilio di Calcedonia sulla Trinità e sulla doppia natura
di Gesù Cristo. Le abbiamo già viste inclinare costantemente al Monofisismo, che riconosceva in Gesù Cristo una
sola natura, la divina, sostenendo che essa aveva assor
bito l’ umana. Quest’ avversione ad ammettere la doppia
natura di Gesù Cristo le rendeva ben disposte al mono
teismo musulmano, pel quale le dispute sulla Trinità non
avevano nessuna ragione di essere : si lasciavano quindi
facilmente convertire alla nuova fede. E il dissidio reli
gioso si mutava allora facilmente in conflitto politico,
perchè quelli che divenivano musulmani, chiamavano in
loro aiuto gli Arabi, per esser difesi contro l’ Impero. Eraelio s’ era avvisto in tempo del pericolo religioso, ed aveva
cercato di mettervi riparo. Aiutato dal patriarca Sergio,
si manifestò fautore della dottrina monotelita, che rico
nosce in Gesù Cristo una volontà sola, pure ammettendo
la sua doppia natura. E con questa specie di compromesso,
che sperava di fare accettare a Roma, cercava di soddi
sfare le tendenze dei monofisiti, per evitare la loro sepa
razione dall’ Impero. Pare che papa Onorio fosse a ciò fa
vorevole, avendo detto che l’ insistere troppo sulla volontà
unica o doppia era una disputa grammaticale ed oziosa.
Ma lo spirito della Chiesa cattolica ripugnava sempre a
queste transazioni, e più che mai a tollerare che le dispute
religiose venissero decise dall’ Imperatore: peggio ancora
quando la decisione era ispirata da ragioni politiche.
Nel 638 Eraclio, incoraggiato dall’ attitudine del Papa,
pubblicava VEcthesis o esposizione della fede, ordinando
che non si disputasse più sulla doppia volontà di Gesù
Cristo, essendo colla doppia natura ammissibile la volontà
unica. Ma la opposizione che si sollevò allora in Italia
fu tale, che lo stesso papa Onorio difficilmente si sarebbe
potuto astenere dal condannare VEcthesis, se quando que
sto pervenne a Roma, egli non fosse già morto.
La discordia fra Roma e Costantinopoli s’ era cosi di
nuovo accesa, ed a farla crescere s’ aggiungeva ora il
fatto che l’ esarca Isacco, venuto a Roma, portò via il te
soro del Laterano, sotto il pretesto d’ averne bisogno per
dare ai soldati le paghe, che da Costantinopoli non arri
vavano. Eletto nel 640 il nuovo papa Severino, si comin
ciò col non volerlo confermare se prima non approvava
VEcthesis; ma si dovette poi cedere e riconoscere l’ ele
zione, sebbene egli avesse dichiarato di volere star fermo
alla dottrina di Calcedonia. Pochi mesi dopo, nello stesso
anno, gli successe Giovanni IV, che convocò subito un
Concilio, il quale condannò la dottrina monotelita, senza
nominar nè l’ imperatore Eraclio, nè il patriarca Sergio,
e molto meno papa Onorio, che la Chiesa naturalmente
voleva lasciar da parte. La disputa monotelita continuò
tuttavia ancora per un secolo, e così VEcthesis non era
riuscito ad altro che ad aumentar la discordia, aggiun
gendo ai molti che già v’ erano un nuovo scisma, come
era seguito in passato con VEnotikon.
Quando dunque nel 641 Eraclio moriva, potevasi dire
che l’ Impero, sempre più violentemente assalito dai Mu
sulmani, sempre più diviso dalle dispute religiose, si tro
vava in un grandissimo disordine. Rotari quindi non aveva
adesso nulla a temere da questo lato. Non mancavano
però le discordie interne anche fra i Longobardi, i quali
si trovavano in un periodo di transizione, per essersi già
molti di loro convertiti al cattolicismo. Rotari, duca di
Brescia, scelto a secondo marito da Gundeberga, cattolica
e vedova di Arioaldo morto nel 636, era ariano, il che
non poteva certo favorire la pace domestica. La divi
sione religiosa era tale e tanta che, secondo Paolo Dia
cono, non di rado in una stessa città si trovavano due
vescovi, cattolico l’ uno, ariano l’ altro. Il nuovo re co
minciò col fare uccidere parecchi nobili a lui avversi;
trattò assai male la moglie cattolica, che tenne per cin
que anni chiusa in carcere, nel suo palazzo di Pavia, non
sappiamo se per dissensi religiosi o per altra ragione. Essa
fu poi liberata per intercessione del re dei Franchi, Clodoveo II, e si dette sempre più a vita devota, facendo
limosino, ricostruendo a Pavia la basilica di San Giovanni,
nella quale fu poi sepolta.
Non ostante tutti questi turbamenti, Rotari sicuro dalla
parte dell’ Impero, che era sempre più minacciato ed as
salito dai Musulmani, ne profittò per estendere il proprio
dominio nella Lunigiana, avanzandosi nella Liguria sino
al confine franco verso Marsiglia. E dopo di ciò si volse
contro i Bizantini, prese Oderzo, e li battè sul Panaro
in una battaglia campale, nella quale, secondo Paolo Dia
cono, l’ esercito che essi avevano raccolto da Roma e da
Ravenna, avrebbe perduto 8000 uomini.
In questo tempo (641) moriva il duca di Benevento
Arichi, il quale fu prode In guerra, ed aveva esteso il
suo Stato nel Sannio, nella Campania, nelle Puglie, nella
Lucania, nei Bruzi. Forse allora appunto anche Salerno
venne annesso al suo territorio. E cosi il ducato di Benevento confinava a nord con lo Stato della Chiesa e col du
cato di Spoleto, al sud s’ estendeva in quasi tutta l’Italia
meridionale, divenendo sempre piu indipendente. Presso
quel Duca s’ erano, come vedemmo, rifugiati Rodoaldo e
Grimoaldo, i due figli maggiori di Gisulfo suo parente,
scampati alla strage fatta dagli Avari nel Friuli. Venendo
ora a morte, Arichi raccomandò che si desse la succes
sione ad uno di essi, piuttosto che al proprio figlio Aione,
il quale pareva scemo di mente, in conseguenza, si diceva,
d’ una bevanda misteriosa datagli dall’ Esarca. Tuttavia
egli successe al padre, ma poco dopo mori (642), ucciso
dagli Slavi, che dalla Dalmazia erano venuti a stabilirsi
in Siponto. Allora solamente Rodoaldo, il quale li scon
fìsse e cacciò dal Ducato, potè impadronirsi del potere,
che dopo cinque anni lasciò, morendo (647), al fratello
Grimoaldo, che lo tenne fino al 662. Essi furono ambedue
valorosi, ma dell’ uno e dell’ altro si sa assai poco. Igno
rasi perfino se Rodoaldo si trovasse nel 643 alla grande
assemblea di Pavia, dove venne sanzionato il celebre
Editto di Rotari ; come s’ ignora se questo Editto fu al
lora messo in vigore anche nel ducato di Benevento.
L ’Editto pubblicato nel 643, è certamente ciò che R o
tari fece di più notevole in tutto quanto il suo regno du
rato fino al 652. Esso è un monumento storico di grande
importanza, e costituisce un atto di vera e indipendente
sovranità. Era la prima volta che un barbaro osasse legi
ferare in Italia, senza tener conto alcuno dell’ Impero nè,
consapevolmente almeno, della legge romana. Rotari, lo
dice nel proemio, non fece altro che raccogliere in iscritto
le consuetudini già prevalenti nel suo popolo, cercando di
compierle e migliorarle, levandone il superfluo. Tutto ciò
« col consiglio e consenso dei Primati nostri Giudici, e di
tutto il fedelissimo nostro esercito. » Giudici e Primati
erano i Gasindi, i Duchi, i Gastaldi, che comandavano in
guerra e giudicavano in pace : esercito, secondo l’ nso
barbarico, era il popolo stesso dei Longobardi in armi.
L ’ usanza di consultare i Grandi ed il popolo nelle fac
cende di generale interesse, era antica presso tutti i po
poli germanici, come sappiamo anche da Tacito. Ma questa
usanza, per le condizioni affatto speciali di vita, e per
V organizzazione tutta militare dei Longobardi, aveva
perduto il suo carattere primitivo, ed era divenuta affare
più di forma che di sostanza. I Primati non deliberavano,
davano solo un parere, un consiglio; il popolo si limitava
ad approvare.
Era le compilazioni di leggi barbariche, l’ Editto di Ro
tali è certo una delle migliori. Ciò si deve al fatto, che gli
altri barbari scrissero le loro leggi o consuetudini poco
dopo entrati nell’ Impero, ed i Longobardi assai più tardi.
Sebbene poi questi non se ne avvedessero, è tuttavia per
noi visibile nelle loro leggi l’ azione indiretta del diritto
romano, che apparisce non solo nella stessa lingua latina
in cui sono scritte, ma anche in alcune frasi affatto giusti
nianee, in un ordinamento già fin dal principio alquanto si
stematico, ed in alcune disposizioni che evidentemente non
possono essere di origine germanica. L ’ Editto ò diviso
in trecento ottantotto capitoli, di cui gli ultimi dodici sem
brano aggiunti più tardi. d> Si comincia coi delitti con
ci) Altre aggiunte fece Grimoaldo nel 668, e più ancora Lintprando, che
dal 713 al 735 pubblicò 153 leggi, sanzionate in 15 assemblee, riunite dall'Au
stria, dalla Neustria (cioè le province orientali ed occidentali del regno) e
dalla Tuscia. Poche altre disposizioni promulgarono Bachi ed Astolfo, che
fu l’ ultimo dei re longobardi legislatori (V. l’ ediz. del Bluhme nei Jfon.
Germ.).
tro lo Stato e le persone; si prosegue col diritto eredita
rio, l’ ordine della famiglia e della proprietà; di diritto
pubblico v’è poco o nulla.
Si è molto disputato per sapere se questo Editto si
applicava solo ai Longobardi o anche ai Romani. Gene
ralmente le leggi barbariche avevano un carattere perso
nale, erano cioè esclusivamente del popolo che le aveva
scritte, e che le portava seco dovunque andava. Quelle
dei Longobardi però, e non di essi solamente, avevano
anche un carattere territoriale, perchè si applicavano a
tutti i popoli venuti con loro in Italia. Prova ne sarebbe,
secondo alcuni, il fatto che i Sassoni, i quali volevano
vivere colle proprie leggi e le proprie istituzioni, dovet
tero andar via. Rotari dice nel suo Editto, che egli lo
ha compilato per la giustizia, e per amore de'suoi sud
diti, senza far tra di essi distinzione alcuna, il che fa
rebbe credere all’ applicazione della legge longobarda
anche ai Romani : questione, come è noto, assai dibattuta.
Certo è che piu di una volta l’ Editto accenna alla esi
stenza di altre legislazioni diverse dalla longobarda; e
non pare credibile che, se la legge romana fosse stata ve
ramente annullata del tutto, d’una cosa di cosi grande im
portanza non si facesse chiaramente menzione neppure una
volta. Nè si può concepire come i Longobardi, anche vo
lendo, avrebbero potuto distruggere un diritto, che aveva
messo radici secolari, creando fra i vinti Italiani una quan
tità di relazioni giuridiche, molte delle quali erano ai loro
vincitori sconosciute in modo, che per esse la loro legge
non provvedeva e non poteva provvedere nulla addirit
tura. Non si capirebbe poi come, ammessa una volta l’asso
luta distruzione del diritto romano nell’Italia longobarda,
questo si ritrovasse più tardi in vigore, senza che del suo
sparire e del suo riapparire si facesse nei documenti o
nelle cronache cenno alcuno. La conclusione più proba
bile cui bisogna, secondo noi, arrivare è cbe, sebbene la
legge romana non venisse officialmente riconosciuta, pure
in molte delle relazioni private che da antico correvano
fra gl’ italiani, essa fosse lasciata vivere sotto forma per
lo meno consuetudinaria.
Ed invero se dall’ Editto di Rotari si può solamente
indurre la persistenza del diritto romano, <u questa appa
risce manifesta come un fatto normale nella legislazione
posteriore di re Liutprando. « Se un Longobardo, noi leg
giamo in essa, dopo avere avuto figli, si fa chierico, questi
continueranno a vivere sotto la legge stessa, sotto la quale
viveva il padre prima di farsi chierico. » Ciò vuol dire
non solamente che v’ era un’ altra legge, ma che ad essa
era sottoposto anche il Longobardo che si faceva chierico.
E quale poteva esser mai quest’ altra legge se non la ro
mana? Il diritto canonico, che pur vigeva certamente, non
era forse pieno d’ elementi di diritto romano, e non do
vette perciò contribuire a favorirne quel rapido incre
mento, che apparisce infatti sempre più manifesto? La
longobarda è una legislazione essenzialmente barbarica,
sulla quale si scorge sin dal principio l’ azione d’ una ci
viltà superiore, esercitata per mezzo del diritto romano
e del Cristianesimo. Lo stesso Rotari, che dice di racco
gliere le consuetudini nazionali e migliorarle, dichiara as
surdo l'uso barbarico del duello per risolvere questioni di
diritto, e cerca diminuirlo, come cerca di aumentare le
composizioni, per mettere un qualche freno alla vendetta
( faida) barbarica. In alcuni casi egli condanna l’uccisione
delle streghe, come contraria all’ umanità ed ai principii
del Cristianesimo. Liutprando dice addirittura, che egli
crede poco al valore dei così detti giudizi di Dio. Certo1
(1) Nessuna donna ohe vive secondo ]a legge lougobarda pnò essere tdbmundia. Dunque vi sono donne che non vivono secondo la legge longobarda.
a misura che si è approfondito lo studio del diritto longo
bardo, più chiari sono in esso apparsi gli elementi na
scosti di diritto romano. Risorge perciò sempre più la
teoria sostenuta dal grande Savigny a favore della per
sistenza del diritto romano, vera di certo nella sua so
stanza, sebbene egli 1’ abbia qualche volta esagerata.
Anche l1esistenza in tutto il Medio Evo di scuole di
grammatica e di diritto romano a Ravenna, a Roma ed
altrove, apparisce sempre più dimostrata.
La legislazione longobarda è certo un prodotto sostan
zialmente germanico, e manifesta costantemente questo
suo carattere fondamentale, sebbene in alcuni punti ap
parisca alquanto alterato dalle condizioni speciali in cui
essa venne formulata. E innanzi tutto la legislazione
d ’ un popolo in armi, ma d ’ un popolo di agricoltori sparsi
per la campagna, in case separate, con siepi che circon
dano i campi. Rotari dichiara fin dal principio d’ essere
mosso dall’ interesse dei propri sudditi, « specialmente
rispetto ai continui travagli dei poveri, ed alle esazioni
inutili contro i deboli, che noi sappiamo aver patito
violenza. » Un tale concetto si può in parte attribuire,
come è stato sostenuto, al Cristianesimo; ma in parte
si deve anche attribuire al fatto, che i barbari in ge
nerale rivolgevano la loro ostilità sopra tutto contro i
latifondisti oppressori dei poveri; spogliavano, uccide
vano i primi, e spesso favorivano i secondi, ai quali nulla
potevano togliere. Certo furono verso i poveri meno op
pressori dei Bizantini; nè si sa che nelle campagne o
nelle città li opprimessero al pari dei ricchi.
La legislazione longobarda è inoltre, anzi è sopra tutto
la legislazione barbarica d’ un popolo armato e conquista
tore; ed è di sua natura intrinsecamente, essenzialmente
contraria allo spirito vero del diritto romano. Quello che
vi domina non è il concetto giuridico dello Stato, ma il
concetto della forza. La famiglia, primo nucleo e fonda
mento di una società, in cui il governo è ancora assai
debole, si trova fortemente costituita a propria difesa;
ma non apparisce giuridicamente coordinata allo Stato,
risultando invece unita dai primitivi vincoli del sangue.
La donna, come debole, è sottoposta ad una perpetua
tutela, che si chiama mundio, da cui non può mai libe
rarsi: non può mai essere selbmundia. La tutela a cui
ella è sottoposta, secondo il diritto romano, è in gran
parte determinata dall’ interesse della famiglia, che si
vuol tenere unita, e della quale non si vuole perciò divi
dere il patrimonio. Per questa ragione la tutela romana
può in alcuni casi cessare. La donna longobarda passa
dal mundio del padre a quello del marito, alla morte del
quale va sotto il mundio dei parenti di lui, ed in alcuni
casi anche dei propri fratelli o del proprio figlio ; in ul
timo, della Curtis regia : non essendo capace di portare
le armi, ella dev’ esser sempre sotto il mundio di qual
cuno. I maschi la escludono quasi affatto dalla eredità,
di cui, quando è nubile, ha solo una piccola parte. La
famiglia longobarda non era come la romana una specie
di monarchia assolata, nella quale, massime sotto la Re
pubblica, il padre aveva un potere illimitato; però anche
presso i Longobardi questo potere era grandissimo. La
donna maritata trovava qualche protezione nell’ autorità
serbata ai suoi parenti; e l’ autorità paterna sul figlio
aveva dei limiti ignoti alla legge romana. Divenuto atto
alle armi, esso poteva separarsi dalla propria famiglia,
e costituirne un’ altra. La legislazione barbarica in gene
rale, come è noto, non conosceva il regime dotale; ma
presso i Longobardi la donna possedeva quello che le
veniva dal marito, il quale doveva liberarla dal mundio
del padre o dei fratelli, pagandone il prezzo; darle la
meta che si può dire una specie di dote, e il dono del
mattino, morgengab. Il padre le doveva solo il fad erfium, che era un dono a suo beneplacito. Presso di essi
la proprietà collettiva germanica era scomparsa quasi
del tutto, essendone solo qua e là sopravvissuta qual
che debole traccia. Osserviamo ancora che nei primi
tempi non si trova il testamento, e quando, sotto Fazione
del diritto romano, comincia ad apparire, esso è, come la
donazione, di sua natura irrevocabile.
Il carattere germanico di questa legislazione, opposto
a quello del diritto romano, apparisce più chiaro ancora
nel diritto penale. La pena di morte, che era assai rara,
si applicava, secondo 1’ Editto, innanzi tutto a chi atten
tava alla vita del re, che era tenuta sacra : « il cuore
del re è in mano di D io; » all’ adultera, che poteva anche
essere uccisa dal marito ; alla donna che uccideva il pro
prio marito; allo schiavo che uccideva il padrone; a chi
disertava al nemico, si ribellava contro il re o i duchi,
eccitava i soldati alla ribellione. Quanto al resto, tutto il
diritto penale longobardo era una serie di composizioni
pecuniarie, graduate secondo le persone e secondo i reati.
Ma questa pena era intesa a soddisfare la faida, o sia la
vendetta privata, riconosciuta legale, ed affidata a tutta
la famiglia; non era destinata, come presso i Romani, a
ristabilire la giustizia, a vendicare la Repubblica. Qui era
il contrasto fondamentale, che ai Romani doveva appa
rire ima barbarie enorme, incomportabile. Il sistema della
prova si fondava, oltreché sul giuramento, sul duello, sul
così detto giudizio di Dio, e sui sacramentali, che servi
vano a scemare i duelli. Il guidrigildo era la pena che
si pagava per l’ uccisione d’ un uomo o d’ una donna, ed
andava dapprima alla famiglia dell’ offeso, più tardi, parte
ad essa, parte al Re.
Il vedere che nell’ Editto di Rotari non si trova deter
minato nessun guidrigildo per il Romano ucciso, fece so
stenere che dai Longobardi non si desse alla sua vita
valore alcuno, e che perciò fosse schiavo. Ma abbiamo
già detto, che nessuno più creale alla schiavitù dei R o
mani, e quindi neppure che alla loro vita non si desse
valore alcuno; nessuno più osa dal silenzio della legge
dedurre così gravi conseguenze. E superfluo dunque fer
marsi a combatterle.
CAPITOLO V I
Grimoaldo re - Lotta e poi accordo tra Papa e Imperatore Costante II in Italia - Morte di Grimoaldo - Bertarido Cuniberto - Conversione dei Longobardi al cattolicismo Lintprando.
Morto Rotati (652), gli successe il figlio Rodoaldo, che
venne ben presto ucciso ; ed a lui segui il cognato Ariperto (653-61), figlio di quel Gundobaldo fratello di Teo
dolinda, venuto con lei di Baviera, e morto poi duca di
Asti. Di Ariperto si sa poco o nulla; e subito dopo se
gue un periodo assai oscuro, alterato da molte leggende,
dalle quali non riesce facile cavare un qualche costrutto
storico.
Ariperto lasciò il regno diviso fra i suoi due figli Ber
tarido e Godeberto, divisione questa assai comune presso
gli altri barbari, sopra tutto i Franchi ; ma affatto inso
lita fra i Longobardi, il regno dei quali era già troppo
diviso in Ducati. Nè meno singolare è il vedere che i due
fratelli ebbero le loro rispettive capitali, il primogenito
a Milano, il secondo a Pavia. Così non solo esse erano
l’ una vicina all’altra ; ma il secondogenito risiedeva nella
più importante delle due, Pavia essendo stata sempre la
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si mosse subito con un piccolo esercito, che s’ andò in
grossando per via. Arrivato a Pavia, secondo il racconto,
che in parte almeno è leggendario, invece d’ aiutare Godeberto, lo uccise inopinatamente, tanto che il figlio ebbe
appena il tempo di mettersi in salvo. Bertarido, saputo
quello che era seguito, se ne fuggi anch’ egli, ricoverando
presso gli Avari in tal fretta, che lasciò indietro la moglie
ed il figlio Cuniberto, i quali caddero ambedue nelle mani
di Grimoaldo, che li mandò prigionieri a Benevento. Grimoaldo sposò poi la sorella di Godeberto, che gli era stata
promessa per indurlo a venire in aiuto del fratello, da lui
invece detronizzato ed ucciso. Il duca di Torino, che aveva
secondato il tradimento, fu da un parente del tradito Go
deberto ucciso; ma Grimoaldo venne confermato a Pavia
re dei Longobardi (662). Questo fatto aveva grande im
portanza, perchè egli rimaneva anche duca di Benevento,
dove suo figlio governava per lui; e fu la prima, anzi
l’ unica volta in cui quasi tutta Italia si trovò unita sotto
un re longobardo, il che poteva, se fosse durato, avere
gravissime conseguenze. Ma chi già se ne risentiva non
poco era il Papa, il quale si trovò come stretto in un
cerchio di ferro, circondato per ogni lato dai Longobardi.
Ciò lo spinse ad avvicinarsi improvvisamente all’ Impe
ratore, col quale era stato fino allora in assai aspro dis
senso.
Noi abbiamo già accennato alla disputa monotelita, ina-
sprita dalla pubblicazione dell’ Ecthesis, e dall’ essersi
nel 640 l’ Esarca impadronito del tesoro lateranense. Se
guì poi la pubblicazione del Tipo, nel quale l’ imperatore
Costante II (642-68) minacciava pene severissime a co
loro che avessero continuato a disputare sulla doppia vo
lontà di Gesù Cristo. Ma papa Martino I (649-53), che
aveva un carattere assai energico, raccolse in Luterano
un Concilio (649), nel quale intervennero 202 vescovi,
che condannarono l’ empiissimo. Ecthesis di Eraclio, e lo
scelleratissimo Tipo di Costante. Era la prima volta che
un Papa osasse condannare a questo modo editti impe
riali; e però l’ esarca Olimpio ebbe ordine d’ impadro
nirsi colla forza della persona stessa di Martino I, e man
darlo a Costantinopoli. La leggenda narra che l’ Esarca
aveva dato ordino d’ uccidere il Papa, mentre celebrava
la messa; e che l’ assassino il quale ne aveva assunto
l’ incarico accecò nel momento stesso in cui doveva com
piere il delitto. Ma allora appunto il rapido avanzarsi
dei Musulmani nel Caucaso, nella Siria, in Egitto, più
oltre nell’ Africa, e finalmente in Sicilia, costrinse Olim
pio ad andar loro incontro nell’ isola, donde, essendo essi
in piccolo numero, si ritirarono. Ed in questo momento
scoppiò di nuovo la lotta fra l’ imperatore Costante ed
il Papa, che il nuovo esarca Teodoro Calliopas, venuto
a Roma con un esercito nel giugno del 653, doveva im
prigionare. Arrivato che fu l’ Esarca, lo trovò a letto,
presso l’ altare della Basilica lateranense. Il popolo vo
leva allora colla forza respingere la forza; Martino I però
vi s’oppose, vietando che si venisse per lui a spargimento
di sangue. Così si lasciò prendere e menare a Costantino
poli, dove sopportò la fame e la tortura; fu poi condotto
con un anello al collo nella loggia dove si esponevano i
malfattori, senza che con ciò si riuscisse a piegarlo. Fi
nirono col mandarlo in Crimea, dove mori nel settembre
del 655, e fu dichiarato Santo dalla Chiesa. A ll’ abate
Massimo, che era stato ardente sostenitore delle dne vo
lontà, venne mozza la destra e strappata la lingua.
Or fu appunto, quando a questo Papa così iniquamente
trattato successero prima Eugenio I (654-57) e poi Vi
taliano I (657*72), che noi vediamo iniziato e concluso
l’accordo politico coll’Imperatore, senza che questi avesse
da Roma ottenuto nessuna concessione nella disputa re
ligiosa. Ciò si dovette in parte al minaccioso e continuo
avanzarsi dei Musulmani, i quali nel 655, in un luogo
detto alle Colonne, presso il Monte Fenice, sulla costa
della Licia, in una grande battaglia navale sconfissero
e posero in fuga l’ imperatore Costante. A questo fatto,
che portò un vero spavento in tutta la Cristianità, s’ ag
giunsero la cresciuta potenza dei Longobardi, e i dissensi
religiosi che agitavano l’ Italia. In Aquileia s’ era riaccesa
la controversia dei tre Capitoli, sebbene i Papi avessero
fatto ogni opera per sopirla. La Chiesa di Milano dava
segni manifesti di volersi rendere indipendente a simili
tudine di quella di Ravenna, dove un tale desiderio era
assai antico, e dove l’ arcivescovo Mauro voleva ora as
sumere addirittura il titolo di Patriarca.
In conseguenza di tatto ciò, messo pel momento da
parte ogni dissenso religioso, Papa e Imperatore si uni
rono. Nel 662 Costante partiva da Costantinopoli per
venire con un esercito in Italia, dove nessuno sapeva in
dovinare con precisione che fine veramente egli avesse.
Secondo alcuni voleva portar la sua sede in Sicilia, per
farne centro dell’ Impero, a meglio difenderlo contro i
Musulmani; secondo altri veniva invece per frenare la
potenza dei Longobardi. In questo caso il momento non
sarebbe stato male scelto. Egli era infatti partito da Co
stantinopoli nell’ anno in cui Grimoaldo fu proclamato re
dei Longobardi ; sbarcava a Taranto nel 663, ed ingros
sato per via V esercito, andò sobito verso Benevento,
quando, per le discordie con violenza scoppiate nell’ alta
Italia, era assai difficile che Grimoaldo potesse mandare
aiuti al figlio Romualdo. Il quale tuttavia, vedendo adden
sarsi sul suo capo la tempesta, mandò il proprio balio
Sessualdo ad avvertire di tutto il padre in Pavia. Que
sti, senza metter tempo in mezzo, senza pensare al pe
ricolo di lasciare un regno a mala pena conquistato con
un colpo di mano e pieno perciò di scontento, si mosse
subito in aiuto del figlio. Non lo sgomentarono le diser
zioni seguite per via, nò la voce sparsa che egli non sa
rebbe potuto più tornare a Pavia. Sessualdo che lo aveva
preceduto, tornando per avvertire il figlio del prossimo
arrivo degli aiuti, fu fatto prigioniero da Costante, il
quale lo condusse sotto le mura di Benevento, dove vo
leva colle minacce e con la violenza indurlo ad affer
mare a Romualdo, che il padre non sarebbe in nessun
modo potuto venire a soccorrerlo. Ma Sessualdo invece,
quando vide il giovane Duca alle mura, esclamò eroica
mente: — Fatti animo, Grimoaldo è per giungere; questa
notte sarà al fiume Sangro. — Dopo di che, prevedendo
il suo inevitabile destino, gli raccomandò la moglie ed i
figli. Infatti ben presto V Imperatóre gli fece troncar la
testa, che fu con una macchina di guerra gettata den
tro le mura di Benevento, dove Romualdo la baciò pian
gendo. Costante si ritirò, lasciando intorno a Benevento
20,000 uomini, che furon battuti dalle forze riunite di
Romualdo e di Grimoaldo.
L ’ Imperatore andatosene allora a R om a(5 luglio 663),
donde il Papa gli venne incontro a sei miglia dalle mura,
visitò le chiese, lasciandovi donativi; ma portò via pre
ziosi bronzi, fra cui anche il tetto del Panteon, che era
dorato. Di là, per Napoli e le Calabrie, se ne tornò in
Sicilia, dove per cinque anni, oppresse siffattamente il
paese, che nel 668 venne affogato in un bagno. Gli suc
cesse il figliò Costantino Pogonato (668-85).
Grimoaldo doveva pensare adesso a ristabilire l’ or
dine nel suo regno. Lasciato quindi il figlio al governo
di Benevento, dette una sua figlia in isposa al conte di
Capila, che lo aveva aiutato nella guerra contro l’ Impe
ratore, e lo nominò duca di Spoleto. Tornato a Pavia,
si diede a combattere coloro che lo avevano abbando
nato o tradito. Quegli di cui più doveva temere era certo
Bertarido, che rifugiatosi presso gli Avari, divenne su
bito il richiamo di tutti gli scontenti. Grimoaldo invano
fece il tentativo d’ indurre gli Avari a darglielo nelle
mani. Allora Bertarido, fattosi animo, mandò il suo fido
Unulfo a dirgli, che sarebbe venuto spontaneamente, si
curo della lealtà di lui; e Grimoaldo lo accolse ami
chevolmente nel suo proprio palazzo. Ma tale e tanto
fu il numero di coloro che accorrevano a lui, che i so
spetti crebbero ogni giorno, ed il Re decise finalmente
di uccidere il suo ospite. Questi fattone consapevole, riu
scì a fuggire coll’ aiuto di Unulfo, a lui sempre fido com
pagno. Grimoaldo si diede allora a combattere Lupo, duca
del Friuli, un altro di coloro che gli si erano ribellati du
rante la guerra; e gli mosse contro gli Avari, che lo
sconfissero ed uccisero. Dopo aver fatto altre vendette,
strinse amicizia coi Franchi nel 671, e poi mori. Forte,
valoroso ed avventuroso, par che fosse anche tra i con
vertiti al cattolicismo. Nel 668 aggiunse alcuni nuovi ca
pitoli all’ Editto di Rotari. Fu certo fortunato nelle sue
imprese guerresche; ma anche a lui mancò un concetto
politico direttivo. Quando infatti l’ imperatore Costante
si era ritirato in Sicilia, egli avrebbe dovuto dedicarsi
a compiere la conquista dell’ Italia meridionale, ad im
padronirsi di Napoli e di Roma, il che lo avrebbe reso
più forte anche nell’ Italia superiore; ma invece, torna-
tosone subito nel settentrione, perdè il tempo in piccole
vendette o guerre alla spicciolata. Cosi tutto ricadde nelrantico disordine; e morendo egli lasciò nuovamente
l’ Italia divisa. Il suo primogenito Romualdo ebbe il du
cato di Benevento; il secondogenito Garibaldo governò
sotto la reggenza della madre, che era sorella di Bertarido. Ma questi, che s’ era rifugiato in Francia, accorse
ora in Italia, dove fu subito riconosciuto re dei Longo
bardi ; e di Garibaldo non si senti più parlare. Bertarido
che era anch’ esso fervido cattolico, regnò diciassette anni,
costruì molte chiese e conventi, favori sempre più la ge
nerale conversione dei Longobardi, che procedette assai
rapida, ma pel grande mutamento che portava, fu causa
continua di disordini.
Il fatto più notevole che avvenne, fu la ribellione
di Alachi duca di Trento, assai avverso al clero, che
Bertarido invece favoriva con ardore. Ma questi, dopo
averlo sottomesso, volle usargli clemenza, sebbene pre
vedesse ohe ciò sarebbe riuscito funesto alla sua fami
glia. Infatti, morto che fu Bertarido nel 688, lasciando
erede il figlio Cuniberto, Alachi insorse di nuovo e b’ im
padroni colla violenza del regno. Se non che il suo carat
tere violento e dispotico, la sua avversione al clero, la sua
condotta sleale promossero una ribellione che richiamò
Cuniberto, e cosi il regno si trovò diviso in due partiti,
lacerato da due pretendenti, i quali finalmente s’ affron
tarono sull’Adda, dove Alachi venne sconfitto e rimase
ucciso.
Durante questo tempo la società longobarda subiva
una notevole trasformazione. Il progresso del cattolicismo promoveva la cultura, faceva a poco a poco un po
polo solo dei vincitori e dei vinti, che sembravano risor
gere a vita novella. E ciò si scorge nel linguaggio stesso
adoperato da Paolo Diacono, quando descrive la lotta fra
Alachi e Cuniberto, dando allora per la prima volta im
portanza alle città della Penisola. Infatti egli dice che
Alachi, passando per Piacenza e per la parte orientale
del regno, cercò colla forza e colle blandizie di farsi
amiche e socie le varie città, singulas civitates. Giunto
poi a Vicenza i cittadini gli mossero guerra; ma dopo es
sere stati vinti, gli divennero anch’essi sodi (V. 39). Que
ste ed altre espressioni finora insolite nella sua storia,
farebbero credere che a lui apparisse già chiaro, come
le città italiane cominciassero allora ad acquistar nuova
importanza. Certo è in ogni modo che Cuniberto regnò
fino al 700 in buonissimi termini col clero, e nella Corte
di Pavia si videro allora per la prima volta fiorire i germi
d’ una nuova cultura.
Ma alla sua morte ricominciarono i disordini, perchè
al figlio Liutberto, affidato alle cure del fido e valoroso
Ansprando, si oppose il parente Ragimberto, che s’ im
padronì del trono e lo lasciò ben presto al figlio Ariberto II (701-12). Questi dovette però difendersi contro
Ansprando, e lo vinse pienamente, costringendolo a cer
care scampo in Baviera. Fece crudele vendetta contro la
moglie e i figli di lui, ai quali tagliò le orecchie, cavò
gli occhi, strappò la lingua. Lasciò tuttavia che presso
il padre si ponesse in salvo solamente il giovanetto Liutprando, che per la tenera età egli credette innocuo ; ma
che invece era destinato ad essere il più illustre re dei
Longobardi. Infatti, quando Ariberto pareva sicuro sul
trono, e nonostante le molte sue crudeltà, era lodato e
sostenuto dal clero pel suo zelo religioso, pei doni alle
chiese, per la restituzione fatta al Papa o, come si diceva,
a S. Pietro di alcune terre nelle Alpi Cozie, usurpate dai
Longobardi, giunse invece il giorno della vendetta. An
sprando, che era riuscito in Baviera a mettere assieme
un esercito, venne in Italia; ed Ariberto dopo debole resi
stenza cedette, cercando di ricoverarsi in Francia. Corse
perciò a Pavia, raccolse quanto oro potò, e si dette con
esso a precipitosa foga, tentando di ripassare a nuoto il
Ticino, cosi carico come era; ma invece, pel peso che seco
aveva, affogò. Ansprando allora sali sul trono, ed essendo
morto poco dopo (18 giuguo 712), lo lasciò al figlio Liutprando. Cosi ebbe fine questo lungo periodo di confusione
e di disordine, quasi d ia r c h ia , cui fu in preda la società
longobarda, durante la sua conversione al Cattolicismo.
CAPITOLO V II
Sollevazione di Ravenna e delle città dell’ Esarcato contro l’ Im
pero - Filippico imperatore - Ribellione in Roma.
Ma se grande fu in questo tempo il disordine nell’ Ita
lia longobarda, non minore era stato nell’Italia bizantina,
a cagione soprattutto degli avvenimenti religiosi seguiti
a Costantinopoli, e dei dissensi che in conseguenza di ciò
sorsero fra il Papa e l ’ imperatore Giustiniano II (685-96
e 705-711). Questi tenne di suo arbitrio un Concilio (691),
che dal luogo in cui s’ adunò, una sala del palazzo impe
riale, sotto una cupola (trullo), fu detto trull-ano o an
che in tru llo; altri lo chiamò quinisesto , perchè, ad evi
tare dispute con Roma, si pretendeva che non fosse un
nuovo Concilio, ma solo un complemento del quinto e
del sesto, essendosi occupato di sola disciplina e non
di dorama. Ma una tale convocazione era stata da parte
dell’ Imperatore un atto d’ indipendenza religiosa, che il
Papa non poteva certo tollerare. I nuovi canoni, se an
che di sola disciplina, si allontanavano dalla disciplina
di Roma; e perciò il nuovo Concilio fu dai cattolici chia
mato erratico , e papa Sergio (687-701) non volle sotto
scriverne le deliberazioni. L ’ Imperatore fu di tutto ciò
sdegnato per modo, che mandò il protospatario Zaccaria
ad imprigionare il Papa. Ma le milizie di Ravenna e della
Pentapoli corsero armate verso Roma a difenderlo; e
l’ esercito romano, che allora era già costituito, par che
se ne stesse a guardare senza punto muoversi. I ribelli
sopravvenuti furono perciò subito padroni della Città,
ed il Protospatario, per salvare la propria vita, fini col
nascondersi sotto il letto del Papa. Questi, fattogli co
raggio, si presentò dal balcone al popolo, raccomandando
la calma; ma la moltitudine non si mosse fino a che Zac
caria non fu ignominiosamente partito da Roma.
Tutto questo avveniva fra il 693 e 94, e Giustiniano II
non ebbe modo di far di ciò le sue vendette, perchè era
allora assai combattuto a Costantinopoli, dove non andò
guari che una rivoluzione lo sbalzò per alcuni anni dal
trono (696-705). Nè per questo cessava la lotta dei Bizan
tini con Roma. A papa Sergio era successo Giovanni V I
(701-705), quando s’ avanzò minaccioso il nuovo esarca
Teofilatto; e, secondo la espressione del Libro pontifi
cale, la Militia totius ItaliaeW corse tumultuosamente a
Roma, dove il Papa a fatica potette sedarla. Ma allora
appunto una rivoluzione seguita a Costantinopoli, rimet
teva da capo sul trono Giustiniano II, il quale, di na
tura sua sanguinario e crudele, voleva adesso vendicarsi
de’ suoi nemici, non solo in Oriente, ma anche in Italia.
Qui era stato eletto nuovo papa Costantino (708-15); e
poco dopo si vide arrivare a Ravenna una flotta coman
data dal patrizio Teodoro, la quale venne accolta come
amica. Ma ad un tratto i principali nobili ed ecclesiastici
furono fatti prigionieri e condotti in catene sulle navi ;
dopo di che i Bizantini scesero a terra in buon numero,(l)
(l) Liber Pontificalis, I, 383, edizione Dncbesne.
e posero a sacco ed a fuoco la città, facendo sommaria
ed aspra punizione dei ribelli. Parecchi dei prigionieri
che erano, come dicemmo, fra i più autorevoli cittadini,
vennero per ordine di Giustiniano II messi a morte. Ed
è ricordato fra gli altri un tal Giovanniccio, assai noto
per gli alti uffici che aveva tenuti, per la profonda co
noscenza della lingua e letteratura greca e latina. L ’arci
vescovo Felice di Ravenna fu, secondo l’ uso bizantino,
abbacinato, e poi mandato esule in Crimea. Così l’ Impe
ratore si vendicò contro i ribelli, che avevano osato umi
liare i suoi rappresentanti in Roma. Ed il Papa, che non
era punto amico dell’ Arcivescovo, perchè questi, al pari
di molti de’ suoi predecessori, era stato ed era sempre
pronto a sostenere la propria indipendenza da Roma, la
sciò fare all’ Imperatore senza alcuna protesta da parte
sua. Anzi, chiamato a Costantinopoli (710), v ’andò, e rag
giunto Giustiniano nell’ Asia Minore, par ohe fra di loro
si mettessero d’ accordo; dopo di che, festeggiato in
Oriente ed in Occidente, tornò a Roma il 24 ottobre 711.
Ma l’ agitazione non s’ era in questo mezzo punto cal
mata in Italia, anzi ogni giorno cresceva. I fatti di R a
venna avevano prodotto una grande irritazione nelle città
bizantine, soprattutto dell’ Esarcato. Agnello Ravennate,
dopo aver descritto i giuochi atletici, le lotte sangui
nose e la fierezza de’ suoi concittadini, narra che l’ Im
peratore assetato ancora di vendetta, mandò colà nuovo
esarca Giovanni Rizocopo. Questi, arrivato a Roma quando
il Papa era già partito per l’ Oriente, fece prendere e de
capitare alcuni dignitari della Chiesa, e ciò fu causa di
un’ altra violenta ribellione nell’ Esarcato, in conseguenza
della quale, appena arrivato colà, il nuovo Esarca v ’ in
contrò la morte. Il popolo era corso alle armi, eleggendosra proprio capo Giorgio, il figlio di quel Giovanniccio
che vedemmo trucidato dai Bizantini. Egli divise la cit-
tadìnanza in dodici bandi o compagnie armate, una delle
quali era composta del clero e de7suoi dipendenti, divi
sione che un secolo dopo durava tuttavia a Ravenna.
Giorgio arringò le popolazioni con un linguaggio, che fa
pensare a Cola di Rienzo. E con Ravenna allora insorsero
contro F Impero le città di Sarsina, Cervia, Cesena, Forlimpopoli, Forli, Faenza, Imola, Bologna, quasi tutto
l’Esarcato.
Questo è il primo esempio d’ una confede
razione di città italiane, che appariscono a un tratto come
già aventi una propria personalità. È vero che il solo a
parlarne è Agnello Ravennate, scrittore ampolloso che
visse un secolo dopo, il quale non dà nessun altro parti
colare d’un fatto cosi importante, del quale perfino Fanno
rimane incerto fra il 710 ed il 711. Ma noi abbiamo già
vistò in Paolo Diacono accenni alla importanza che anda
vano allora assumendo le città italiane, e abbiamo visto
anche de’ segni precursori di questa ribellione, che ben
presto si ripeterà sotto altra forma.
Giustiniano II non potè pensare a nuove vendette, per
chè una seconda rivoluzione, seguita a Costantinopoli,
privò della vita lui ed il figlio, proclamando imperatore
Filippico (711-13), il quale pareva che volesse conciliarsi
col Papa. Egli rimandò a Ravenna l ’Arcivescovo che era
stato crudelmente abbacinato, e che, appena tornato, fece
ora atto di sottomissione a Roma; mandò anche la testa
di Giustiniano II, che tutti corsero a vedere con feroce
avidità. Ciò non ostante, ben presto scoppiò da capo più
viva che mai la discordia col Papa, perchè il nuovo Im
peratore, che era monatelita, volle radunare i vescovi monoteliti, che dichiararono nulle le decisioni del sesto Con
cilio; il che sollevò subito una tempesta in Roma, dove
fu sdegnosamente respinta una tale deliberazione. In
S. Pietro e nelle altre chiese venne proibito il ritratto
dell’ Imperatore eretico, ed il suo nome non fu pronun
ziato nella messa; il popolo ne respinse gli editti, nò
volle dar corso alle monete d’ oro colla sua immagine.
Il Libro pontificale, narrando questa nuova ribellione,
menziona per la prima volta il Ducatus Romanae Urbis;
ricorda anche il suo D u x, e la parte presa dal Populus
Romanus nei tumulti. Nobili, esercito e popolo si trova
rono ora uniti contro l’ Imperatore, che voleva sostituire
un nuovo Duca, di nome Pietro, a quello designato dal
suo predecessore. Ne nacquero violenti tumulti, perchò
una parte del popolo faceva a ciò aperta opposizione. Il
disordine era durato quasi un anno, quando il Papa si
pose di mezzo per calmarlo ; e gli riuscì facilmente, per
chè allora appunto giungeva la notizia che l’ Imperatore
eretico era stato deposto ed accecato. Gli era successo
(713) Atanasio II, il quale, fatta dichiarazione della sua
fede ortodossa, mandò a Ravenna l’ esarca Scolastico; ed
i Romani accettarono il duca Pietro, dopo che esso ebbe
giurato di rinunziare a far vendetta de’ suoi oppositori.
In Oriente seguirono ancora alcuni anni di gran disor
dine, fino a che il 25 marzo 717 venne eletto imperatore
Leone III l’ iconoclasta, col quale incomincia addirittura
un nuovo periodo storico.
CAPITOLO V i l i
Liutprando, Gregorio II e Leone III - La lotta per le im
magini - Lintprando ne profitta ed assale il Ducato ro
mano - Il Papa si rivolge la prima volta ai Franchi - Non
potendo avere da essi aiuto, si riavvicina ai Longobardi.
Sulla scena del mondo appariscono ora tre grandi per
sonaggi: Liutprando, che sin dal 712 era salito sul trono
dei Longobardi, e fu il loro più gran re; Gregorio II,
che fu eletto papa nel 715, e non era punto indegno del
glorioso nome che portava; Leone III proclamato impe
ratore nel 717, il quale col suo celebre editto contro le
immagini (726) produsse una grandissima agitazione in
tutto quanto V Impero.
Liutprando, valoroso, forte, intelligente, conquistatore
e legislatore, regnò anni 31; ma dovette cominciare collo
sventare varie congiure ordite contro di lui, e porne a
morte gli autori. Il suo lavoro legislativo dopo quello di
Rotari fu il più importante, avendo egli, fra il 713 e 735,
pubblicato 153 leggi, in quindici assemblee, d’ accordo
« coi Grandi, coi Giudici, con tutto il popolo », o come
dice altrove, d’accordo « cogl’ illustri Ottimati e con tutti
i nobili longobardi. » In queste leggi visibile assai appa
risce l’ azione del diritto canonico e della Chiesa; e Liut
prando stesso dichiara d’ averle scritte per divina ispi
razione e per avvicinarle sempre più alla legge di Dio,
qualche volta scrive anche, quia Papa p er epistolas nos
adhortavit. Nella sua legislazione il carattere di primo re
longobardo cattolico apparisce più volte assai manifesto,
specialmente nei testamenti a vantaggio dell’ anima, nel
matrimonio riconosciuto come sacra istituzione, nei pri
vilegi accordati alla Chiesa, nell’ invito a guardarsi dagli
eretioi. Visibile ancora si scorge l’ azione del diritto ro
mano in alcune disposizioni sul testamento e sui diritti
successorii delle donne. Assai chiara apparisce ancora
una grande avversione ai giudizi di Dio, ed una crescente
premura a favore dei miseri contro la oppressione dei
regi ufficiali. Tutto questo non riesce però mai ad alte
rare il carattere longobardo della legislazione, che ri
mane sempre sostanzialmente intatto.
L ’ imperatore Leone III, come abbiamo già detto, fu
cagione d’ una grande agitazione negli affari generali del
mondo. £ g li dovette lottar prima contro i Musulmani, che
s’ avanzarono nell’Africa, nella Spagna, nella Provenza,
e minacciavano la stessa Costantinopoli. Dopo averli
valorosamente combattuti per terra e per mare, riuscì
non senza grave fatica e pericolo a respingerli. Dovette
inoltre reprimere parecchie ribellioni, la più grave delle
quali in Sicilia, dove si giunse addirittura a proclamare
un nuovo Imperatore. Non era appena domata questa ri
bellione, che scoppiò la lotta» per le immagini, la quale
parve mettere subito l’ Oriente e l’ Occidente, ma specialmente l’Italia, in fiamme; e quest’agitazione venne anche
più inasprita dai fatto che papa Gregorio II non era
uomo da lasciarsi intimidire nè piegare. Egli s’era subito
messo in attitudine di difesa contro i Longobardi, forti
ficando le mura di Roma. Liutprando però, che era fer
vente cattolico, si dimostrò verso di lui assai rispettoso;
confermò la restituzione da Ariberto II già fatta delle
terre usurpate alla Chiesa nelle Alpi Cozie. La ricostru
zione avvenuta circa il 719 del Monastero di Montecassino, più di un secolo prima distrutto dai Longobardi, era
un’altra prova del loro mutamento religioso.
La lotta per le immagini divampò con una singolare
rapidità, avendo essa trovato il terreno già apparecchiato.
Per sfortuna la cronologia dei fatti allora seguiti è dispe
ratamente intricata ed oscura. E di ciò gli scrittori eccle
siastici profittarono, per giustificare sempre ed in tutto la
condotta del Papa, cercando di dar carattere religioso
anche a quei suoi atti, che precedettero la lotta e move
vano solo da interessi politici. Così la storia di questo
periodo riesce ne1suoi particolari assai confusa. Sembra
certo che non molto prima che fosse cominciata la lotta,
Liutprando, profittando delle difficili condizioni dell’ Im
pero, si fosse avanzato verso Ravenna, impadronendosi di
Classe. Pure d’ un avvenimento così importante non si
trovano notate nè le cagioni, nè le conseguenze: resta
perciò come isolato ed inesplicabile. Circa l’ anno 717
0 718 il duca di Benevento, Romualdo II, s’era impadro
nito di Cuma città fortificata, che dominava l’ unica co
municazione rimasta libera fra Napoli e Roma. Il Papa
cercò d’ allontanare il pericolo, dando aiuto di consiglio
e di danaro a Giovanni I duca di Napoli, il quale infatti
con un assalto improvviso ripigliava quella città, dopo
avere ucciso 300 Longobardi, ed averne presi prigio
nieri 500. Oltre di ciò, prima che la lotta delle immagini
cominciasse, troviamo pure che l’ Imperatore ordinò al
l'Esarca d’imporre nuove tasse in Italia, senza esentarne
1 beni ecclesiastici, anzi impadronendosi, ove occorresse,
dei tesori delle chiese. E possibile che ciò avvenisse in
parte per avversione al Papa, ma senza dubbio anche pel
bisogno che c’era di danaro a continuare la guerra contro
i Musulmani. Certo è però che il Papa ritenne siffatta
deliberazione come un’ ingiuria da non sopportarsi, e or
dinò ai suoi dipendenti di non pagare, dando un esempio
assai contagioso, che provocava la rivolta.
L ’ Esarca ne fu quindi oltremodo indignato, ed ebbe
così origine un’ aspra lotta fra lui ed il Papa, contro la
vita del quale scoppiò in Roma una congiura, non si sa
bene se promossa dall’ Esarca, o da coloro che cosi ope
rando speravano di renderselo amico. Si dice che anche
il duca di Roma, Marino, la secondasse, e che parte non
piccola v ’ avessero i nobili della Città e i dignitari stessi
della Chiesa. La leggenda aggiunge che il Duca venne
a un tratto miracolosamente colpito da paralisi, per il
che si dovette ritirare da Roma, e la tenebrosa impresa
andò a vuoto. Se non che allora appunto arrivava in Italia
il nuovo esarca Paolo, ed i cospiratori ne presero animo ;
ma il popolo romano insorse, facendo man bassa su di
essi. Il cartulario Giordanes ed il suddiacono Giovanni
furono uccisi; un duca Basilio venne costretto a farsi
monaco. L ’esarca Paolo allora, più che mai irritato, mandò
a Roma un esercito con ordine di deporre il Pontefice,
e condurlo via. I Romani però corsero alle armi, ed aiu
tati anche dai Longobardi di Spoleto e di Benevento,
occuparono il ponte sul fiume Anio, e respinsero i soldati
dell’ Esarca. Questi sono i fatti che, secondo alcuni scrit
tori, precedettero la lotta per le immagini, secondo altri
invece non furono che episodi di essa. È molto proba
bile che fossero come i prodromi politici della lotta reli
giosa, cui apparecchiarono il terreno, rendendola anche
più aspra. Certo è che una grandissima irritazione do
vette produrre nell’ animo dell’ Imperatore il vedersi av
versato dal Papa in Italia, nel momento in cui assai gravi
pericoli in Oriente minacciavano lui e la Cristianità. Ed è
anche la ragione per la quale gli scrittori ecclesiastici
inclinano a far seguire tutti questi fatti più tardi, ed a
presentarli come episodi della lotta religiosa, giustifi
cando cosi pienamente la condotta del Papa.
Comunque sia, certo è che solo nel 726 Leone m pub
blicò il suo celebre editto contro il culto delle immagini.
La dottrina iconoclasta si connetteva strettamente colle
dispute monotelite e monofisite; era una conseguenza anch’ essa di quello spirito orientale sempre in opposizione
coll’ Occidente, e veniva secondata da ragioni politiche.
Il rapido avanzarsi dei Musulmani era apparecchiato e
promosso dal largo diffondersi dell’ Islamismo, il quale,
lo abbiamo già detto, trovava favore in alcune popola
zioni dell’ Oriente ed in quelle dell’Africa settentrionale,
perchè si presentava come uno schietto monoteismo senza
dispute sulla Trinità, sulla doppia natura di Gesù Cristo,
senza il culto dei santi. Col suo editto l’ Imperatore, an
che se non lo faceva a disegno, dava una qualche soddi
sfazione a queste tendenze dello spirito orientale, e non
s’ allontanava punto dal Cristianesimo.
Il culto delle immagini, grandemente favorito dalla na
tura delle popolazioni meridionali dell’Occidente, traeva
la sua origine dal Paganesimo. L ’ esagerazione cui si
giunse col venerare non solo le immagini visibili di Dio,
di Gesù, della Vergine, dei santi, ma il segno della croce,
le reliquie d’ ogni sorta, era stata ben presto biasimata
dai più autorevoli Padri della Chiesa. Ciò non ostante
quel culto divenne parte integrante della religione catto
lica, bisogno ardente delle popolazioni italiane. Il contra
sto scoppiò quindi con una violenza simile a quella che si
vide più tardi, ai tempi della Riforma. L ’ Imperatore or
dinò che venissero tolte dalle chiese, o distrutte, le im
magini, imponendo al Papa di riconoscere il suo editto
sotto minaccia di deposizione. Ed il Papa, senza esitare,
lo accettò invece come una dichiarazione di guerra, or
dinando che 1’ editto imperiale fosse ritenuto nullo ad
dirittura. La distruzione di alcune celebri immagini
credute miracolose portò al colmo lo sdegno delle popo
lazioni. A Roma, a Ravenna, nella Pentapoli, nell’ Istria
esse corsero alle armi, eleggendosi propri duchi. Ben
presto anche Venezia insorse a favore del Papa. A Ra
venna vi fu per un momento pericolo di guerra civile,
essendovi nn partito imperiale, che sembrava favorito
dall’ arcivescovo Giovanni, il quale cercava profittar del
disordine per rendersi indipendente da Roma. Ma ben
presto vinsero anche colà i fautori del Papa; l’ Arcive
scovo fu bandito, e l’ esarca Paolo, dichiarato scomuni
cato, venne ucciso. A Roma il duca Pietro, che era so
spettato d’ accordo con Costantinopoli, fu accecato. Si
parla anche di un duca Esilarato <*> nel Napoletano, il
quale, essendosi opposto al Papa, sarebbe stato nella
Campagna ucciso dai Romani insieme col figlio. Tutto
questo segui circa il 726 o 27, ed è un’ altra prova del
l’autonomia che andavano sempre più assumendo le città
bizantine dell’ Italia. A Roma, insieme col Ducato e col
Duca, andava acquistando sempre maggiore importanza
YExercittùS Romanus, di cui erano capi i nobili, che in
cominciavano addirittura a governare la Città.
Come era assai naturale, Liutprando cercava profittare
d’ un tale stato di cose, per impadronirsi più che poteva
dell’ Italia; e già molte città dell’ Emilia e della Pentapoli si arrendevano a lui senza resistenza. Prese anche
Sutri, a trenta miglia da Roma; ma ben presto la reistituì
alla Chiesa, cui apparteneva, e con la quale non voleva
mettersi ora in aperta lotta. Il Papa allora capiva bene,
che l’ aumento della potenza dei Longobardi era a lui più
ohe ad altri pericolosa. Se infatti si fossero impadroniti di
tutta Italia, egli sarebbe divenuto come un vescovo del
loro Re, assai più vicino, e quindi più incomodo ed oppres
sivo dell’ Imperatore. A tutto ciò s’ aggiungeva che i R o
mani, sempre più desiderosi di assicurare la loro indipendenza, erano avversissimi ai Longobardi, dai quali la 1
(1) Non poteva essere, come por si disse, duca di Napoli, perchè questo uf
ficio, osserva lo Sohlpa, era allora tenuto da Teodoro, eletto nel 719.
vedevano minacciata. Essa in verità era pel Papa un van
taggio ed un pericolo nello stesso tempo, non convenendo
a lui di trovarsi senza difesa in mezzo ad una popolazione
armata ed assai spesso in ribellione. Tutto compreso, egli
doveva quindi preferire che Longobardi ed Impero si te
nessero in equilibrio fra loro, senza che nessuno dei due
fosse interamente vincitore, perchè cosi avrebbe potuto
più facilmente tenere a freno i Romani. Noi lo vediamo
infatti adoperarsi ora a sedare la ribellione stessa che
aveva provocata. E quando le popolazioni insorte vole
vano addirittura eleggere un nuovo Imperatore, egli vi
si oppose con tutta la sua autorità, esortandole a rispet
tare il legittimo signore, che forse, egli diceva, avrebbe
finito col tornare alla vera fede, senza che V Italia rom
pesse i legami con l’ Impero, sempre necessario alla sa
lute del mondo.
Era questa una posizione equivoca ed intricata, che ap
parve tale anche più quando nel 727 giunse in Italia il
nuovo esarca Eutichio. Il Papa, sebbene fosse in lotta coll’ Imperatore, aveva certo compiuto verso di lui un atto
amichevole, adoperandosi a sedar la ribellione ; ma egli
era nello stesso tempo in buoni termini con Liutprando,
che gli aveva reso Sutri, e questa sua amicizia non poteva
in nessun modo piacere ai Bizantini, dei quali Liutprando
andava occupando le terre. E però l’Esarca non si astenne
punto dall’avversare il Papa, contro il quale mandava anzi
un suo inviato a cospirare, tanto che le popolazioni, essen
dosene accorte, volevano metterlo a morte. Ed anche ora
il Papa dovette intervenire, per salvargli la vita. L ’Esarca
allora, mutato animo, s’ avvicinò a Liutprando, secondan
dolo nel desiderio che aveva di sottomettere alla propria
autorità i Duchi di Spoleto (Trasamundo II) e di Benevento (Farovaldo), i quali giurarono allora fedeltà al Re,
cui dettero ostaggi. Poco dopo Esarca e Longobardi si tro
vavano minacciosi sotto le mura di Roma. Ma Gregorio II,
senza ponto sgomentarsi, valendosi della sna grande au
torità religiosa, uscito dalle mura, andò prima incontro al
Re, che condusse in Città dinanzi all’ altare di S. Pietro,
dove esso, in segno d’ossequio, depose la corona, la spada
ed il manto ; e dopo di ciò il Papa fece accordo anche col
l ’Esarca. Erano però accordi passeggeri ed effimeri.
Il di 11 febbraio 731 Gregorio II moriva, e gli succe
deva Gregorio III (731-41), che pareva volesse avversare
i Longobardi e favorire l’Imperatore; ma quando radunò
il Concilio (731), che dichiarò esclusi dalla Chiesa i ne
mici delle immagini, la rottura con Costantinopoli fu da
capo inevitabile, e la lotta s’andò sempre più inasprendo.
L ’ Imperatore infatti aggravò le tasse in Italia, massime
nella Calabria W e nella Sicilia, dove erano vasti possessi
della Chiesa. E questo par che fosse anche il momento
in cui le chiese di quelle province furono unite al patriar
cato di Costantinopoli, separandole da Roma, il che fu
causa che l’Italia meridionale rimanesse lungamente gre
cizzata. W Fu però l ’ ultimo colpo recato alla Chiesa di
Roma dall’Impero, ormai occupato sempre più nella lotta
contro i Musulmani, e lacerato dalle civili discordie. In
tanto il Papa si trovava senza aiuto esposto alle minacce
dei Longobardi.
(1) Il nome di Calabria, dato originariamente alle Paglie ed a Terra d’Otranto,
fa esteso nel secolo vn al Bruzio, ohe feoe parte anoh' esso del daoato di Ca
labria, cosi chiamato da quella regione ohe ne fa allora la parte maggiore.
Quando però la conquista longobarda si estese a poco a pooo a tutta quella
che era allora ohiamata Calabria, il Ducato ai trovò ristretto al solo Brusio,
cui nel 757 restò il nome di Calabria, che ritenne poi sempre. Era antica nsansa
dei Bizantini il continuare a conservar nella forma e nelle parole d ò che nella
sostanza e di fatto avevano perduto. V . Schipà in Areh. 8tor. per
Province
napoletane, anno X X , fase. 1. Napoli, 1885.
(2) È strano che ciò avvenisse senza ohe si veda una seria resistenza da
parte del Papa. Hodgkin, V I, 465, Bury, II, 466«
le
Era questo un periodo di grande trasformazione, di
continua mutabilità e di crisi profonda così per l’ Italia
come pel Papato. Da una parte le minacce dei Longo
bardi lo spingevano verso l’ Imperatore; da un’ altra que
sti era lontano, occupato, impotente a dare aiuto; ed
anche quando avesse potuto darlo, la disputa delle imma
gini avrebbe resa vana ogni speranza d’ accordo. Tale fu
la ragione per la quale i Papi, con quell’ accortezza po
litica che loro non mancò mai, con uno sguardo veramente
profetico, cominciarono fin d’ ora a volgere la loro atten
zione verso i Franchi. Già da un pezzo convertiti al Cattolicismo, e sempre più potenti, questi erano divenuti stre
nui difensori della Chiesa e della religione cattolica. Essi
combattevano ora valorosamente contro i Musulmani, che
dall’ Africa, per la Spagna, erano penetrati minacciosi in
Francia ; e come vedremo, li ricacciarono al di là dei P i
renei. Nel volgere lo sguardo ai Franchi, già balenava
nella mente dei Papi il concetto d’un nuovo ordinamento
politico del mondo, tale che li liberasse dalla continua
minaccia dei Longobardi, senza farli cadere in balìa dei
Bizantini, che nel momento del pericolo li abbandona
vano, per volerli poi opprimere quando il pericolo si di
leguava. Intanto tutto era disordine e confusione, tutto
continuamente mutava; non era quindi possibile seguire
nessun disegno prestabilito e determinato: dominava il
caso, bisognava perciò aspettare che venisse un momento
opportuno.
Ravenna si trovava in mano dei Longobardi, senza che
si possa saper con precisione come e quando ciò avvenisse.
Troviamo alcune lettere di papa Gregorio III (che altri
vorrebbe attribuire al suo predecessore), nelle quali verso
il 734 egli scriveva al doge di Venezia Orso e ad Antonino
patriarca di Grado, invitandoli ad andare coi Veneti e col
l ’esarca Eutichio (727-50), che s’era allora rifugiato presso
di loroya ripigliare per l'Impero la capitale dell’Esarcato,
levandola di mano ai Longobardi. H Doge, accettato l’m vito, mosse insieme coll'Esarca all’ assalto, questi dalla
parte di terra, quegli dal mare, sbarcando le sue genti.
Ravenna fa presa; Ildeprando, nipote di Lintprando, fa
fatto prigioniero ; il duca Peredeo venne ucciso. Un tal
fatto, per quanto sia ne’ suoi particolari oscuro, ci dimo
stra che Venezia era ornai già costituita poco meno che a
Stato indipendente ; e ci fa anche vedere qual mutabile,
vertiginosa politica seguissero allora i Longobardi, il Papa
e V Imperatore. Ognuno di essi voleva assicurarsi il pre
dominio in Italia a danno degli altri, e quindi s’univa ora
a questo ora a quello, mutando di continuo, per non render
troppo potente nessuno dei due rivali. Quando i Longo
bardi minacciavano di prevalere, il Papa s’ avvicinò al
l ’ Im pero; ma la discordia con questo ricominciò subito,
ed allora il Papa favori da capo Lintprando, che ne pro
fittò, come abbiamo già visto, per estendere la sua potenza
in Italia, e sottomettere alla sua autorità Benevento e Spo
leto. Il Papa che si sentiva allora come stretto in un
cerchio di ferro, e vedeva i Romani minacciar di correre
alle armi, mutò di nuovo la sua condotta, aiutando i due
Duchi contro il Re. Le relazioni di Roma con Spoleto
e Benevento hanno quindi una grande importanza; sono
quelle che costituiscono, determinano ora il carattere
predominante della politica italiana. Trasimondo di Spo
leto, che poco prima s’ era, come il duca di Benevento,
sottomesso a Liutprando, lasciandogli ostaggi, si ribellò,
e Liutprando lo assaliva, obbligandolo a fuggirsene in
Roma. Avrebbe voluto che il Papa ed i Romani glielo
dessero nelle mani; ma essi ricusaron di ciò fare, ed il
R e decise d’avanzarsi subito oltre il confine, occupando
quattro castelli del Ducato romano.
Fu questo il momento in cui Gregorio m scrisse la
prima lettera che ci sia pervenuta fra quelle dirette a
Carlo Martello, colui che seppe davvero consolidare la
dinastia franca dei Carolingi. Gli chiedeva aiuto contro
i Longobardi, i quali avevano osato devastare perfino la
chiesa di S. Pietro, che allora era fuori delle mura di
Roma. Il momento era assai male scelto, perohè Carlo
Martello si trovava allora occupato nella guerra contro
gli Àrabi, ed aveva chiesto l’ aiuto di Liutprando, che si
mosse subito verso il nord. Ma se Carlo non potè allora ve
nire a difendere la Chiesa contro Liutprando, contribuì
pure indirettamente a farlo allontanare da Roma. Il Papa
ne profittava subito per aiutar Trasimondo a ripigliare il
suo Stato; ed egli l’ occupò con la promessa, che poi non
mantenne, di riconquistare e restituire a lui le terre del
Ducato romano indebitamente usurpate da Liutprando.
Questi, quando fu giunto nell’Italia superiore, seppe che
la guerra contro gli Arabi era in Francia finita, e si di
resse allora verso Ravenna, saccheggiando le terre che
erano proprietà della Chiesa. Traversata la Pentapoli,
tornò di nuovo nello Spoletino, di dove, nonostante la
valida resistenza delle popolazioni, penetrò nel Ducato
romano (740), facendo man bassa sugli armenti, sulle
terre, sulle masserizie appartenenti alla Chiesa.
Gregorio IH scriveva allora un’ altra lettera a Carlo
Martello, chiedendogli che mandasse in Roma i suoi messi
a vedere coi loro occhi quale era lo stato vero delle cose.
Non abbandonasse, egli diceva, la Chiesa per l’ amicizia
dei nefandissimi Longobardi. I duchi di Spoleto e di Be
nevento meritavano di essere da lui favoriti contro Liut
prando, il quale li perseguitava solo perchè amici del
Papa. E concludeva ricordando la precedente lettera,
mandata con una solenne ambasceria, che gli aveva por
tato le chiavi d’oro della tomba di S. Pietro. Queste erano
una preziosa reliquia, perchè si poneva in esse la lima-
tara delle catene del Santo. Ma neppure adesso Carlo
Martello ri trovava in grado di poter soccorrere effica
cemente il Papa, il quale era scontentissimo anche per
chè Trarimondo non gli aveva mantenute le promesse
fatte. Pareva perciò che volesse per disperatone avvi
cinarsi di nuovo a Lintprando, quando il 10 dicembre 741
cessò di vivere. Bue mesi prima (22 ottobre) era morto
Carlo Martello, lasciando la Francia divisa fra i due figli
Carlomanno e Pipino. L'anno precedente (18 giugno) era
morto l ’ imperatore Leone 3XL E cori in breve tem po
scomparivano dalla scena lapin parte di coloro che l’ave
vano occupata. Restava ancora, ma per breve tempo, Liutprando.
Quando dopo soli quattro giorni di sede vacante venne
eletto papa Zaccaria (741-52), greco e perciò amico del
l’ Impero, egli aveva poco da temere per parte dei F ran
chi o di Costantinopoli; doveva invece pensar seriamente
ai Longobardi. La sua pronta consacrazione è assai no
tevole, perchè la brevità del tempo fu tale, che bisogna
supporre che l’approvazione venisse dall’Esarca per mezzo
del duca di Roma, o direttamente da questo. Sin dal 739
duca di Roma era Stefano, il quale portava anche il titolo
di patrizio, cosa fino allora insolita. Si può quindi ritenere
che, come altrove, così anche il Bucato romano s’andasse
separando dall’ Esarcato, e divenisse quasi indipendente,
riconoscendo però sempre la suprema autorità dell’Impe
ratore. Certo Roma appariva ogni giorno più una città
autonoma, ed il suo territorio, che formava il Bucato ed
abbracciava su per giù tutto il cosiddetto Patrimonio di
S. Pietro, partecipava della medesima indipendenza. Essa
aveva, come vedemmo, un proprio esercito, comandato
dal Duca, e sotto di lui dai nobili, che la governavano.
Grande v’era però sempre la papale autorità ; e tutto ciò
dette nel Medio Evo una speciale fisonòmia a questo
ohe divenne poi il Municipio romano. Venezia e Napoli
s’ andarono anch’ esse, in un modo o l’ altro, separando
dall’Esarcato, il cui antico carattere perciò sempre più
scompariva.
Il Papa non poteva adesso far altro che cercare d’ av
vicinarsi a Liutprando, per non averlo nemico, e tentar
di riavere le terre usurpate, che infatti gli furono rese.
Trasimondo allora, abbandonato a sè stesso, dovè pren
dere la tonsura e allontanarsi da Spoleto, dove Liutprando pose un suo nipote. Anche a Benevento pose come
nuovo duca Gisulfo II (782), che aveva educato presso di
sè a Pavia, ed era figlio di Romualdo U . Concluse poi
una pace direttamente col duca di Roma, il che dimostra
sempre più la importanza politica che questi andava pren
dendo. Liutprando si trovava ora direttamente o indiret
tamente padrone di una grandissima parte d’Italia, senza
dover temere nè dell’ Impero, nè dei Franchi, travagliati
ambedue da interne dissensioni. Sarebbe stato quindi il
momento opportuno per cercar di riunire la Penisola sotto
il suo dominio, cacciandone affatto i Bizantini, annetten
dosi interamente i ducati di Benevento e di Spoleto, fre
nando il Papa, sopprimendo tutte le tendenze crescenti
di autonomie locali. Ma neppur lui era un vero uomo di
Stato, capace di prendere a guida costante della sua vita
politica un grande concetto. Oltre di che si trovava già
innanzi cogli anni e malato. Pareva ora che volesse occu
pare Ravenna, ma si lasciò dissuadere dal Papa, e nel
gennaio del 744 cessò di vivere, lasciando erede suo ni
pote Udeprando, che era assai mal veduto e dovette ben
presto abbandonare il potere.
C A PITO LO I X
V enezia e N apoli
L ’ Esarcato come abbiamo già visto s’ era andato rapi
damente decomponendo; ormai non esisteva che di nome,
era poco più che un Ducato come gli altri. Già Roma s’era
costituita in una specie di repubblica col suo esercito, che
più di una volta, senza esitare, aveva combattuto contro
di esso, da cui anche l’ Italia bizantina del sud s’ andava
staccando. I tumulti avvenuti a Ravenna e nella Pentapoli avevano naturalmente reso sempre più vivo il senti
mento d’ indipendenza. Prima e più di tutti s’ era avviata
per questa via Venezia, grandemente favorita dalla sua
posizione geografica. Noi abbiamo già visto che fin dai
tempi di Teodorico Oassiodoro scriveva, in nome del suo
sovrano, ai Tribuni veneti ; e dalla sua lettera apparisce
ohe nelle isole della laguna s’era già formata una popola
zione ardita e navigatrice, che viveva in uno stato di se
mi-indipendenza, con Tribuni nelle varie isole, le quali
assai probabilmente erano fra loro già confederate. Certo
Venezia era allora in qualche modo dipendente dai Goti ;
e quando Belisario e Narsete s’ impadronirono dell’ Ita
lia, anoh’ essa venne naturalmente sotto il dominio bizan
tino, e vi sarebbe per lungo tempo restata, se non fossero
più tardi sopravvenuti i Longobardi. A questi il possedi
mento di Venezia poteva essere di una grandissima uti
lità, e quindi, per impedire che cadesse nelle mani dei loro
avversari, i Bizantini cercarono sempre di contentarla, la
sciandole una qualche indipendenza. Nel 580 il patriarca
d’ Aquileja, stanoo della dura oppressione esercitata colà
dai Longobardi, se ne fuggi a Grado, il che dette ai V e
neti anche un proprio capo ecclesiastico. I Longobardi
ne furono scontentissimi, e Liutprando chiese allora ed
ottenne dal Papa, che il vescovo di Cividale venisse tra
sferito in Aquileja, mutandolo in Patriarca. Ma quando
egli pretese, che da questo nuovo Patriarca dipendesse
anohe quello di Grado, i Veneti vi si opposero, ed il Papa
li contentò ; per il che i Longobardi dovettero accorgersi,
che se erano stati soddisfatti nella forma, nulla avevano
ottenuto quanto alla sostanza. Cosi Venezia restò politi
camente ed ecclesiasticamente libera da essi, governata
invece da Costantinopoli, per mezzo di Tribuni eletti dal
popolo, e confermati dall’Imperatore. Questi Tribuni erano
probabilmente dodici quante le isole, e si trovavano anche
in altre città bizantine dell’ Italia centrale e meridionale,
come Napoli, Gaeta, Rimini, ed anche nella Pentapoli. Già
la Prammatica sanzione voleva che i Judices delle pro
vince (Tribuni, Duces, Praesides) fossero eletti dai Ve
scovi e dai più ragguardevoli personaggi fra gli abitanti
del territorio che dovevano amministrare. Essi venivano
confermati in nome dell’ Imperatore.
Coll’ andar del tempo, le continue insurrezioni degli
Slavi da una parte e dei Longobardi dall’altra fecero sen
tire il bisogno d’ una maggiore unità di governo, per p o
ter fare una più energica difesa; e si pensò quindi alla
creazione di un Doge. Secondo le norme allora prevalenti,
l’Esarca avrebbe dovuto invitare i vescovi ed i notabili a
farne la elezione. Ma il cronista Dandolo ci narra invece
che nel 697 s’ adunò il popolo col patriarca di Grado, coi
vescovi, i notabili, i tribuni, i quali elessero Paoluccio,
uomo < egregio ed onorevole », o sia nobile. Questo Doge
non pare che avesse allora il potere militare, che, secondo
la Prammatica sanzione, doveva esser diviso dal civile,
ed era rappresentato dal Magister Militum. Il Doge con
vocava il popolo, nominava i tribuni e giudici perchè ren
dessero giustizia al popolo ed al clero, escluse naturai-
mente le cause ecclesiastiche, per le quali V era un Foro
speciale, da cui si appellava al Doge. Questi, secondo le
consuetudini bizantine, convocava anche i Sinodi, invitan
doli ad eleggere i vescovi, che da lui ricevevano l ’investi
tura. Pare che la sua elezione venisse allora confermata
dall’Imperatore, e che a tutti gli uffici fossero dal popolo
eletti i nobili. Morto Paoluccio nel 717, gli successe Mar
cello, stato prima Maestro dei militi, che governò nove
•Anni, dopo dei quali gli successe Orso. E fu sotto il costui
dogato che Liutprando, profittando della lotta per le im
magini, prese Ravenna, di dove l’ esarca Eutichio faggi
a Venezia. Colà pervennero le lettere del Papa, che invi
tarono il doge Orso ed il patriarca Antonino a riprendere
la capitale dell’ Esarcato, per ristabilirvi l’ Esarca, il che
fu fatto; e dimostra l’ autonomia e la forza che la città
della laguna aveva sin d’allora già acquistata. Nel 787 il
doge .Orso venne ucciso in conseguenza d’ una guerra ci
vile scoppiata fra il partito nazionale, alla cui testa egli
sì trovava, ed il partito che voleva una maggiore dipen
denza da Costantinopoli, e che ebbe' un temporaneo so
pravvento. Allora per cinque .anni £787-41), invece del
Doge a vita, fu eletto uu Maestro dei militi, il quale
durava solo un anno come i Tribuni. Ma verso la fine
del 741 una nuova rivoluzione depose ed accecò il Mae
stro dei militi Giovanni, e ripristinò l’ ufficio del Doge
(742) nella persona di Diodato, figlio di Orso. D quale,
essendo avverso al partito imperiale, s’ appoggiò invece
ai Longobardi, e cadde quando questi furono sconfitti dai
Franchi. La grande lotta tra i Franchi ed i Longobardi,
che fu provocata dai Papi per assicurare la propria in
dipendenza, ed aprirsi la via al potere temporale, rese,
come vedremo, inevitabile la caduta dei primi, favori la
potenza dei secondi, e più tardi anche l’ autonomia muni
cipale delle città.
Assai diversa da quella di Venezia è la storia del ducato di Napoli, dove il popolo, diviso probabilmente in
Scholae come in altre città bizantine dell’ Italia, era del
pari governato dagli Optimates. L ’ antica Curia munici
pale v’era affatto decaduta, e nella Campania, cui la città
di Napoli apparteneva, comandava un Giudice o capo
della provincia, alla dipendenza del Prefetto, mandato
dall’ Imperatore in Italia. La Prammatica sanzione v’ ac
crebbe assai il potere civile dei Vescovi, e sotto la loro
sorveglianza veniva eletto il Giudice fra coloro che erano
nati nel territorio. Dopo il 638, vediamo che invece del
Giudice governava il Vescovo, accanto al quale si tro
vava un capo militare, Duca o Maestro dei militi. Dap
prima erano due magistrati diversi, ma poi si fusero in
uno, che governò quello che fu chiamato il ducato di Na
poli. Il Duca era inviato dall’ Imperatore a comandare
T esercito, o più veramente il popolo armato della città,
ed aveva a sua dipendenza conti e tribuni, che erano a
capo dei vari presidii del territorio. Così Napoli potè non
senza gloria resistere ai Longobardi, a quelli soprattutto
di Benevento e di Spoleto, salvando la propria indipen
denza, che andò sempre crescendo.
A i tempi di Gregorio I troviamo che la città non aveva
nè un Duca nè un Maestro dei Militi, di che il Papa mo
veva lamento all’Imperatore, pregandolo che provvedesse.
Ma quando vide che non si otteneva nulla, mandò egli un
Tribuno, eccitando il popolo alla difesa ; e ciò gli dette
una grande autorità su tutto il Ducato, che restò per
qualche tempo sotto la sorveglianza del Papa. Questi in
fatti s’occupò lungamente a frenare la corruzione dei Ve
scovi della città, a difendere i Decurioni e i cittadini dalle
oppressioni fiscali degli agenti imperiali. Circa il 661, ve
nuto l’ imperatore Costante in Italia, dette nuova forma
al Ducato, per formarvi un nucleo di più forte resistenza
contro i Longobardi. £ d’ allora in poi noi vediamo che
Napoli resiste sempre più energicamente contro di essi,
contro i Musulmani, e più tardi anche contro i Normanni,
ai quali dovè finalmente soccombere. Il nuovo Duca, a cui
si dette pure il nome di Console o Maestro dei militi, fu
assai diverso dell* antico, col quale ebbe in comune poco
più che il nome. Non sappiamo però con precisione quali
fossero le sue vere attribuzioni. Eletto dal popolo di cui
faceva parte, comandava l’ esercito, ed in lui, con l ’ an
tico Duca e l’ antico Maestro dei militi, s’era fuso anche
l’antico Giudice, assumendo, al pari dell’Esarca, l’autorità
civile e la militare. Non sappiamo neppure quali erano
esattamente i confini geografici di questo Ducato, che da
principio almeno dovette estendersi a quasi tutta l’antica
Campania, e quindi contenere anche Amalfi e Gaeta, che
più tardi se ne staccarono. Certo è che il ducato di Na
poli formò parte integrante dell’ Impero e dell’ ammini
strazione imperiale. La sua lingua ufficiale era la greca,
e sulle monete, da una parte v’era l’immagine dell’Impe
ratore col suo nome in greco, dall’altra il nome della città
anch’ esso in greco. Dopo la morte di Costante, g l’ im
peratori cominciarono a trascurare l’ Italia continentale,
specialmente la meridionale, della quale non potevano
occuparsi coloro che erano mandati a governare là Sici
lia, perchè dovevano pensare a difender questa dai Musul
mani, che di continuo l’assalivano. Il ducato di Napoli, ab
bandonato allora a sè stesso, dovè fare assegnamento sulle
sole sue forze, e vivere combattendo, tanto che prese an
che il nome di Milizia o Milizia dei Romani o anche Mi
lizia dei Napoletani. Lentamente s’andò sempre più stac
cando dall’ Impero, per arrivare a reggersi, addirittura
come uno Stato autonomo. E fino al 764 ebbe tredici Du
chi, che restarono in ufficio durante periodi diversissimi
di tempo, tanto da far credere che fossero eletti a vita.
Molte e varie furono le vicende del Ducato. Dapprima,
ai tempi di Gregorio I, l’ abbiam visto sotto la prepon
deranza del Papa; più tardi lo vedemmo aggregato al1’ Impero, cui rimase unito anche durante la lotta per le
immagini, non pigliando parte veruna alla ribellione di
Ravenna e della Pentapoli; finalmente cominciò a stac
carsi dall’Impero, da cui il duca Stefano II, eletto nel 755,
lo separò affatto, rendendolo indipendente, avvicinandolo
di nuovo a Roma. Allora la lingua ufficiale non fu più la
greca, ma la latina ; e nelle monete più comunemente in
uso, all’immagine dell’Imperatore venne sostituita quella
di S. Gennaro, che fu simbolo d’indipendenza. Il suo nome
fh scritto in latino, e sul rovescio, al nome greco della
città si sostituì quello del Duca, anch’ esso in latino ; so
pra altre monete però, e sugli atti pubblici continuò a
porsi il nome dell’ Imperatore. Ma i duchi, oramai indipendenti, fanno la guerra e la pace, concludono trattati
in proprio nome. In questo mezzo Stefano I I s’ era sif
fattamente avvicinato alla Chiesa, che, restato vedovo
con figli, dopo che nel 766 era morto il vescovo di Na
poli, venne egli nominato vescovo, ed ebbe a Roma la
tonsura, continuando a governare insieme col figlio Gre
gorio II, che gli successe, e fu duca per 27 anni e sei mesi.
Con lui il Ducato cominciò a divenire, in parte almeno,
ereditario.
LIBRO QUARTO
I FRANCHI E L A CADUTA DEL REGNO LONGOBARDO
CAPITOLO I
I Merovingi e l’ origine dei Carolingi
Da an pezzo i Franchi s’ avanzavano nella Gallia pi
gliando una posizione sempre più importante. La loro
forza diverrà fra non molto preponderante in tutta l’ Eu
ropa, ed essi conquisteranno anche l’ Italia, iniziando ad
dirittura un’epoca nuova. È quindi necessario gettare un
rapido sguardo alla loro storia. I Franchi erano una riu
nione di molte e diverse tribù germaniche, ohe abitavano
la sponda destra del Beno. Dapprima cominciarono a fil
trare lentamente nell’ Impero: se ne trovavano nell’eser
cito, negli agricoltori, fra gli schiavi. Quando Stilicone,
per poter combattere Alarico, richiamò in Italia le le
gioni, ohe erano a guardia del Reno, i Franchi, al pari d i
altre popolazioni germaniche, passarono il fiume in grandi
masse (406). Non fecero però, come i Goti, i Vandali ed
i Longobardi, una rapida emigrazione, trasferendosi d’una
regione in un’altra, lungi dal proprio paese. S’avanzarono
invece lentamente, conquistando a poco a poco la Gallia,
s enza mai staccarsi affatto dalla Germania, dalla quale ri
ceverono sempre alimento ed aiuto di nuove genti. Serba
rono quindi, dentro l’Impero, più a lungo i loro costumi e
le loro istituzioni, come ad esempio la proprietà collettiva.
£ i Romani, coi quali si trovarono a contatto, fecero al
trettanto colle loro leggi ed istituzioni. Nella Gallia in
fatti, più che altrove, vediamo persistere la Curia muni
cipale. La fusione dei due popoli fu assai meno rapida,
ma anche meno violenta e più organica. Non pare che
i Franchi pigliassero, come gli altri barbari, un terzo o
più delle terre dei vinti. Grandi proprietari romani si tro
vano acdanto a grandi proprietari franchi; ed i Romani
sono ammessi agli uffici, non sono esclusi neppure dal
l’esercito. Unica differenza notevole, che sin dal principio
si notasse fra di loro, era nel guidrigildo, quello che si
pagava per la uccisione d’ un Franco, essendo doppio di
quello pagato per la uccisione d’ un Romano.
L ’ essere, come dicemmo, i Franchi una federazione di
varie tribù, portò per conseguenza che ben presto si tro
varono, con consuetudini e costumi diversi, divisi in Sa
lici e Ripuari, i quali si suddivisero formando vari regni,
che di continuo combatterono aspramente fra di loro, ri
tardando il progresso nazionale. Ogni volta che sorgeva
fra di essi un principe di genio politico e militare, veni
vano riuniti in un regno solo, per dividersi di nuovo alla
sua morte. £ cosi continuò per più secoli la loro storia
fino a che Carlo Magno riusci per breve tempo a sotto
porre quasi tutta l’ Europa al suo scettro.
Il primo che seppe riunire i Franchi fu Clodoveo, col
quale s’iniziò la dinastia dei Merovingi. Capo d’una tribù
salica, egli successe al padre nel 481 ; riusci, mediante il
suo ingegno ed il suo valore, ad unire Salici e Ripuari, e
fu ritenuto come il fondatore della monarchia. Ma pur
troppo fu anche un uomo senza scrupoli, che per ottenere
il suo intento, si copri d’ogni più crudele delitto contro al
leati e contro parenti, ricorrendo ai tradimento ed al san
gue, per mezzo di sicari o colle stesse sue mani. La lunga
serie di crudeli delitti, attribuiti a lui ed ai suoi succes
sori, fa tale da far credere che siano stati molto esagerati
dalla leggenda; ma per quanto se ne levi, resta pur sem
pre tanto da doverne raccapricciare. Questi delitti uniti
a grandi dissolutezze contribuirono finalmente ad inde
bolire la dinastia per modo da renderne inevitabile la ca
duta. Tra i fatti che nella vita di Clodoveo più agevola
rono la costituzione della monarchia, furono le guerre
contro gli Alamanni, e la sua conversione al catolicism o,
invece che all’ arianesimo, come avevano fatto gli altri
barbari. La guerra alamanna ebbe una grande importanza
storica, perchè con essa cominciò quella reazione dell’ Oc
cidente contro l’Oriente, che fu continuata dopo di lui, e
pose fine alle grandi migrazioni dei popoli germanici. La
conversione al cattolicismo, della quale durante la stessa
guerra egli aveva fatto voto a Dio, se gli concedeva la vit
toria, iniziò la conversione del suo popolo. E la monarchia
ne ebbe subito il favore della Chiesa romana, che, per
mezzo de’suoi vescovi, era organizzata ben più fortemente
dell’ ariana. I Franchi così divennero il popolo eletto da
Dio a difesa del Papa e della religione, il che agevolò an
che la loro fusione coi Romani. Ed è singolare davvero il
notare come sin d’ora apparisca chiaro nella mente degli
uomini il futuro destino di questo popolo. Gregorio di
Tours che scrisse poco dopo, nel narrare i continui delitti
del Re, ripete spesso: ogni giorno Iddio faceva cadere un
nuovo nemico di Clodoveo, ingrandendone il regno, per
chè egli « camminava diritto nelle vie del Signore, e fa
ceva ciò che gli era grato. > Altrove lo chiama addirittura
un novello Costantino. E così altri scrittori più o meno
vicini parlano in modo da far chiaramente capire, che in
questo nuovo Costantino essi già prevedono Carlo Magno.
Maravigliosa addirittura è la persistenza con la quale i
Papi continuarono attraverso i secoli l’ opera loro, quasi
imponendo ai Franchi la missione voluta, preveduta dalla
Chiesa; e non smisero mai fino a che essa non ebbe il
suo adempimento con la coronazione di Carlo Magno e la
fondazione del potere temporale. L ’ imperatore Atanasio
intanto conferiva a Clodoveo le insegne del Patriziato
ed il Consolato, che egli assunse a Tours, nella chiesa di
San Martino, dove i vescovi lo salutarono uomo di Dio,
nuovo Costantino. La capitale fu fissata a Parigi.
Alla sua morte (511) il regno restò diviso fra i quattro
figli, e cominciò quel periodo di corruzione e lussuria, di
guerre civili, di sanguinosi tradimenti e delitti, che lo
fecero paragonare al regno degli Atridi. Nel 558 d o
tano I, l’ultimo sopravvissuto dei figli di Clodoveo, riunì
di nuovo i Franchi, e dopo la sua morte la monarchia si
divise nuovamente fra i suoi quattro figli : e così si conti
nuò per lungo tempo. Molto si è discusso sulla vera natura
di queste divisioni, che gettarono il paese in una serie con
tinua di guerre civili. Sostengono alcuni storici francesi,
che si divise la royauté plutòt que le royaume. Ma il vero
è che i Franchi non formavano ancora un sol popolo, che
mancava affatto il concetto di nazionalità e di Stato, che
la Francia non esisteva. Secondo le idee barbariche il
loro regno, che solo dalla violenza e dalla conquista era
unito, appariva quale proprietà del conquistatore, e quindi
per legge di eredità veniva diviso tra i suoi figli. Anche
i servizi pubblici erano più che altro resi alla persona
del re. Mancava l’ idea di un’ amministrazione accentrata
ed organica; il diritto pubblico assai poco si distingueva
dal privato. E per quanto disgregata fosse ancora questa
società barbarica, il contatto continuo che essa ebbe con
la romana, l’ azione della Chiesa, l’ unità geografica del
paese fecero si che i Franchi tendessero lentamente, ma
pur costantemente a coordinarsi in unità. I quattro regni
(Austrasia, Neustria, Aquitania, Burgundia), sorti e risorti
dopo la morte di Clodoveo I, si ridussero nel secolo v i i
sostanzialmente ai soli due primi. Nella Neustria, fonnata
dalla Gallia occidentale e meri di oziale, erano i Salici, ed
in essi avevano acquistato maggior forca gli elementi ro
mani ; nell'Australia erano i Ripuari, ed in essi avevano
invece maggiore prevalenza gli elementi germanici, fa
voriti dal contatto e dalle relazioni continue colla patria
antica.
Dapprima il predominio spettò alla Neostrìa ed ai Sa
lici, ai quali appartenne Clodoveo, il fondatore della mo
narchia e della dinastia merovingia. Alla Neostrìa appar
tennero ancora i primi quattro re, che in tempi diversi
unirono di nuovo la monarchia, l 'ultimo dei quali fu Clo
doveo I l |63S-5<»). Il centro di ciascuno di questi governi
soleva essere allora il Palazzo, in cui primo ufficiale era
il Maestro o Maggiordomo. Il suo ufficio si rìduceva dap
prima ad amministrare la proprietà regia; ma coll’andare
del tempo il sno potere andò crescendo sempre piò, sino
a che egli divenne ministro delle finanze, poi primo mini
stro, e finalmente addirittura capo del governo. A poco a
poco, dopo che i quattro regni si erano ridotti a due, la Neustria cioò e l’Anstrasia, il centro di gravità passò dalla
prima alla seconda. I Ripnarì prevalsero sui Salici, e na
turalmente gli elementi germanici sui romani. Andò allora
crescendo il numero delle adunanze o assemblee popolari,
crebbe il potere di quei nobili germanici, che formarono
più tardi l’ aristocrazia feudale. Ed essi s’ andarono nell’Austrasia stringendo sempre più intorno al Maestro di
Palazzo: qualche volta lo elessero e riconobbero come loro
capo. Cosi a poco a poco egli fu più potente dei R e me
rovingi, che rapidamente decaddero, divenendo tanto d e
boli e spregevoli, da essere chiamati rois fain éan ts: da
ultimo dovettero cedere il posto ai loro rivali. Alla dina
stia merovingia successe allora quella assai più potente,
pi il intelligente ed anche più morale dei Carolingi.
Dopo la morte di Clodoveo II (656) i Maestri di Palazzo
erano divenuti nell’Austrasia così potenti, che pareva ten
dessero a formare colà un Ducato separato ed autonomo.
Ma i legami sempre stretti fra Salici e Ripuari, e Vunità
territoriale del paese spingevano invece inevitabilmente
alla formazione di un solo regno con la prevalenza dei
Ripuari. E questo nuovo regno fu iniziato per opera di
Pipino, detto d ’Héristal dal suo castello. Egli era Maestro
di Palazzo .nell’Austrasia, dove assunse anche titolo di
Duca, e fini coll’ esser di fatto padrone di tutto il Regno.
Alla sua morte (16 dicembre 714) seguì un periodo di
.disordine e di lotte fra i suoi eredi, dalle quali uscì final
mente vittorioso Carlo Martello suo figlio naturale, che
sebbene non arrivasse ad essere altro che Duca nell’A ustrasia e Maestro di Palazzo nella Neustria, pareva in
vece che fosse successo al padre come un principe ere
ditario di tutto il regno. Uomo d’ alto ingegno politico e
di grande valor militare, riuscì a fondare stabilmente la
sua dinastia.
Con una serie di guerre vittoriose contro i Sassoni, i
Frisi, i Bavari e gli Alamanni (718-30), pose termine alle
invasioni germaniche; e quando si fu assicurato da quel
lato, si rivolse contro gli Arabi, i quali, essendosi coi
Musulmani d’ Africa avanzati nella Spagna, avevano già
passato i Pirenei. Nel 732 dette loro a Poitiers una rotta,
che fu davvero memorabile, non solo pel gran numero
dei morti, i quali la leggenda fece ascendere a 375,000;
ma anche perchà venne con essa fiaccata in Francia la mi
nacciosa potenza dei Musulmani, che furono poco dopo
respinti al di là dei Pirenei. Nel 737 Carlo Martello o c
cupò anche la Provenza, e così riuscì ad esser padrone di
tatta la Francia, che tenne fino alla sua morte (741).
CAPITOLO n
Carlo Martello e le prime origini del Feudalismo
Il Papa si volge per aiuto ai Franchi
Ma Carlo Martello non era solamente un soldato, era
anche un grande uomo di Stato; ed a lui si deve se fin
d’allora l’aristocrazia franca andò pigliando quella forma
che doveva portar poi alla costituzione del feudalismo, il
quale dette più tardi una nuova forma alla società in Eu
ropa, e merita di essere studiato per la grande impor
tanza che ebbe anche in Italia. Sulle sue origini si è molto
discusso, alcuni credendole romane, altri invece germa
niche. Il vero è però che esso, come tutte le istituzioni
del Medio Evo, risulta da elementi germanici e romani, i
quali s’ incontrano, s’ intrecciano e si confondono ira loro.
È un’ aristocrazia germanica, se si guarda a coloro che la
costituirono, e ne fecero parte; ma è anche una istitu
zione composta di elementi romani, che dalla società
germanica furono profondamente alterati.
Il feudo è certo una nuova forma di quélla proprietà
individuale, affatto ignota alla primitiva società barba
rica. A l concetto del dominio assoluto e personale del
l’ uomo sulla terra s’ aggiunse in esso il concetto, romano
del pari, del dominio giuridico sull’uomo. E cosi nella so
cietà germanica, alterata e trasformata da questi elementi
che ad essa sono estranei, s’ andarono allora formando,
come nella romana, dei potenti signori. Resi dalla con
quista padroni delle terre, essi furon capi dell’ esercito,
e pigliarono parte principale al governo.
Nel tempo stesso in cui la società germanica, seguendo
questo cammino, s’ allontanava dalla sua origine e perdeva
il suo primitivo carattere, la romana, seguendo un cam
mino diverso, subiva anch’essa una trasformazione. I latifondisti, aumentando sempre più le loro terre, erano riu
sciti ad esser padroni di vastissime estensioni; ma questi
enormi possessi non davan loro diritto di pigliar parte al
governo, che teoricamente almeno emanava dal solo Im
peratore. Il fatto però non rispondeva alla teoria, da cui
invece sempre più si allontanava. Golia decadenza del
l’ Impero, indebolendosi la forza del governo centrale, i
ricchi proprietari divenivano, insieme colle terre, padroni
degli uomini che le coltivavano o le abitavano, e così co
minciarono a comandarli ed a governarli. Questo fatto,
che nella società romana appariva come effetto della de
cadenza, sembrava invece essere nella germanica effetto
d’una trasformazione progressiva, che ne cresceva la coe
sione e la forza. Le due società, partendo da due punti
opposti, avanzandosi in due direzioni contrarie, finivano
coll’ incontrarsi e confondersi fra loro, per dare origine
ad una società nuova.
I latifondi romani, coltivati da schiavi o da coloni che
pagavano un canone in natura, continuavano sempre ad
ingrossare, annettendosi le terre dei piccoli proprietari
vicini. I quali, oppressi dalle tasse e dai debiti, quando
non si potevano più reggere, finivano col cedere volon
tariamente le loro terre al latifondista, per riprenderle
in affitto come suoi coloni. Perdevano così, con la pro
prietà, la loro indipendenza; ma trovavano un protettore,
che li liberava dalle tasse e dall’ usura, e rendeva loro
almeno tollerabile la vita. I grandi proprietari solevano
avere uffici che in qualche parte li esentavano dalle tasse,
e l’ aumento delle terre non aumentava per essi le spese
generali di amministrazione : così tutto era a vantaggio
loro, e anche de’ loro dipendenti. Entrati una volta in
questa via, si procedette sempre più rapidamente in essa.
Perfino interi villaggi finivano coll’ abbandonarsi al latifondista, che pareva già un piccolo sovrano feudale.
Tutto ciò seguiva del pari coi grandi proprietari eccle
siastici. I vescovi ed i conventi erano infatti, pei molti
donativi dei fedeli, divenuti anch’essi latifondisti. Le con
tinue immunità e privilegi, da essi ottenuti in numero
sempre maggiore, finivano col porli in condizione anche
più vantaggiosa dei laici. Cominciarono ben presto a dare
in affitto i loro grandi possessi sotto forma di precaria,
che era una concessione revocabile della proprietà, con
un canone che, per la sua tenuità, dava alla concessione
stessa il nome di benefizio.
Questi privilegi, sia dei laici che degli ecclesiastici,
andavano crescendo di numero e di entità a misura che
da una parte s’ indeboliva la forza dello Stato, e dal
l’ altra aumentava la potenza della Chiesa. E fin dal s e
colo v i il latifondista esercitava una specie di giurisdizione
non solo sugli schiavi, ma anche sui coloni e dipendenti.
Responsabile per essi verso l’autorità governativa, questa
interveniva solo quando egli la invocava. N ell’ Italia b i
zantina i grandi proprietari, divenuti capi d ell’ esercito,
assunsero i maggiori uffizi, che venivano trasmessi per
eredità nelle loro famiglie. L ’ ufficio si connetteva colla
proprietà di colui che ne era investito, il quale aveva una
duplice giurisdizione, come possessore cioè e come uf
ficiale civile o militare. In questo modo s’ andò formando
un’ aristocrazia di possidenti, divenuti alti funzionari in
conseguenza della loro proprietà, e di funzionari che s’ar
ricchivano in conseguenza dei loro uffici. Essi armarono
qualche volta i loro schiavi, i coloni, ' i clienti e gli am
ministratori, come vedemmo fare a Gassiodoro, per di
fendere sè stessi ed i loro averi dai pericoli che li mi
nacciavano durante le invasioni.
In conclusione, la società romana sbandava decompo
nendo in una quantità di ricchi potenti, chiamati honesti,
clarissimi, nobiles, che disprezzavano la vilissima plebs
dei nullatenenti. Nella società germanica invece, la quale
non conosceva lo Stato e non aveva idea alcuna d’ accen
tramento, il potere sociale naturalmente cadeva diviso in
mano dei forti, che disprezzavano i deboli e g l’ inermi,
e divenivano ricchi in conseguenza della conquista. Cosi
cominciò a formarsi quella nuova aristocrazia che si do
veva più tardi costituire col nome di feudalismo.
Ed anche questo avvenne nella società ecclesiastica al
pari che nella laica. I vescovi, le chiese, i oonventi, con
cedevano le terre in forma di benefizi. Il vario possesso
della terra cominciò a qualificare la diversa condizione
degli uomini, che è un altro dei caratteri del feudalismo;
ed intorno ai vescovi, ai conventi, alle chiese, s’andarono
formando gruppi di beneficiari, che erano in germe i fu
turi vassalli. I re merovingi abbondarono nelle conces
sioni d’immunità ai vescovi; esentarono da imposte i beni
ecclesiastici, dal che derivava naturalmente il divieto agli
agenti del fisco d’ entrare nel territorio immune.
Se ora noi consideriamo quali saranno più tardi i carat
teri del feudo, troveremo che essi sono già tutti in for
mazione nella società romana, dalla quale passarono poi
nella germanica, alterandosi sostanzialmente. Nella storia
non v ’ è mai nulla di affatto nuovo ; il presente e l’ avve
nire sono sempre costruiti coi rottami del passato.
Abbiamo già visto come Tacito racconti, che presso i
re barbari si trovava un Comitatus composto dei loro più
intimi, i quali non solo vivevano col principe, ma con lui
e per lui combattevano. Da essi vennero poi gli Antrustiones franchi, simili ai Gasindi longobardi, e precursori
dei Paladini di Carlo Magno. Ed a questi loro fidi, come
ai capi dell’ esercito, i re franchi fecero altri larghi dona
tivi, dando terre in benefizio. E in benefizio si dettero al
lora anche gli uffici, i quali nella società germanica erano
sempre una concessione personale del re. Persino le tasse
e l’amministrazione della giustizia mancavano di quel ca
rattere pubblico, giuridico, impersonale, che ò proprio
dello Stato romano. Lo stesso obbligo del servizio m ili
tare derivava dal legame di fedeltà personale verso il
re, non già da un dovere verso lo Stato. Tutta la società
s’ andava cosi sempre più dividendo in gruppi di protetti
e di protettori. E quando i re cominciarono ad avvedersi
che questi nuovi signori minacciavano di divenire più
forti di loro, riducendo la monarchia in una confedera
zione di potenti, stretti al sovrano dal solo vincolo della
fedeltà, era troppo tardi per portarvi rimedio.
Il primo passo veramente notevole verso ciò che doveva
poi essere il feudalismo, lo dette Carlo Martello. A suo
tempo i vescovi erano divenuti cosi ricchi che si crede pos
sedessero un terzo di tutte quante le terre coltivabili nella
Franoia. E questi loro possessi, colle immunità annesse,
promovevano la loro indipendenza non solo politica di
fronte al re, ma anche religiosa di fronte al Papa. Carlo
Martello fece però sentire su di essi la sua mano potente,
iniziando una riforma che fu tra le più notevoli del suo
regno. Le necessità della guerra, quella sopra tutto con
tro i Musulmani, l’ obbligarono a cercar modo di remu
nerare largamente i capi dell’ esercito. E senza molti
scrupoli, oominciò col deporre alcuni vescovi, investendo
dei loro vescovadi i suoi fedeli, il più delle volte uomini
di guerra. Ciò non aveva nulla di strano in un tempo, nel
quale i vescovi combattevano alla testa degli eserciti al
pari dei grandi signori laici. Spogliò più tardi molte chiese,
vescovi e conventi d’ una parte considerevole delle loro
tenute, che dette ai capi dell’esercito, i quali sostenevano
le spese della guerra, pagando del proprio gli uomini che
sotto di loro combattevano. Cosi, danneggiando il clero,
rese i nobili sempre più potenti ed a lui più affezionati.
Non è quindi da maravigliarsi, che la tradizione ec
clesiastica gli divenisse fieramente avversa, e lo chia
masse nemico dei vescovi, spogliatore della Chiesa. Se
non che a questa ed alla religione Carlo Martello aveva
reso così grandi servigi, che fu pur forza perdonargli il
danno che aveva ad esse recato per meglio condurre a
termine la guerra contro g l’ infedeli. Anche le guerre
da lui fatte in Germania riuscirono a vantaggio della
religione. Le battaglie furono colà precedute dalle mis
sioni religiose, che vi fondarono la organizzazione defi
nitiva della Chiesa cattolica, spianando la via alle con
quiste, da cui venivano a lor volta aiutate. Le missioni,
come vedemmo, erano già da un pezzo cominciate dalla
Irlanda. Le continuarono più tardi i missionari anglosassoni, fra i quali tutti primeggiò Vinifrido, chiamato
poi S. Bonifazio. La sua opera nella Germania, già con
vertita dagl’irlandesi, fu appunto la organizzazione della
Chiesa cattolica, che egli pose in relazione con quella di
Francia, sottoponendole ambedue all’ assoluta autorità
del Papa. Cosi S. Bonifazio, aiutato da Carlo Martello,
spianava in Germania la via alle vittorie di lui, all’ assi
milazione di quelle genti, e nello stesso tempo alla fu
tura costituzione dell’ Impero carolingio. Sin da questo
momento; papa, principe e missionario cooperavano in
consapevolmente a quella unione civile, religiosa e mili
tare, che doveva poi attuarsi col nuovo impero di Carlo
Magno. Da per tutto vennero per opera di S. Bonifazio
fondate nuove chiese e nuovi monasteri, fra i quali quello
assai celebre di Falda (744). E cosi per lungo tempo egli
continuò, fino a che, credendo d’ aver compiuto l’ opera
sua in Germania, e sentendosi sempre più mosso dallo
spirito ardente ed irrefrenabile del suo apostolato, che
non lo lasciava star fermo, se ne andò a convertire i pa
gani della Frisia, dove trovò finalmente l’ambito martirio
circa l’ anno 754.
Che in presenza d’ un tale stato di cose, i Papi si vol
gessero per aiuto ai Franchi, non c’è da maravigliarsene.
E noi abbiamo già visto come sin dal 739 Gregorio m ,
minacciato da Liutprando, e sapendo che l’ Imperatore
non l’ avrebbe aiutato, si rivolse due volte a Carlo Martello, riponendo in lui e nei Franchi ogni sua speranza. Si
è affermato che il Papa facesse allora dichiarare a Carlo
Martello, che egli ed il popolo romano si volevano separar
dall’Impero. Questa affermazione, fatta mezzo secolo dopo
dal cosiddetto continuatore di Fredegario, prova in ogni
modo quali erano già fin d’ allora le idee intorno al dis
sidio esistente fra Poma e Costantinopoli, dissidio che
doveva portar ben più gravi conseguenze nell’ avvenire.
CAPITOLO III
Pipino eletto re dei Franchi, consacrato dal Papa per mezzo
di S. Bonifazio - Il Papa, minacciato da Astolfo, va in
Francia a chiedere aiuto.
A Carlo Martello che di fatto, sebbene non di nome,
era divenuto re dei Franchi, successero i figli Carlomanno
e Pipino, i quali legalmente non erano anch’essi che Mae
stri di Palazzo, tanto che fu sentito il bisogno di cavar
dal convento Childerico dei Merovingi, e metterlo su
quel trono (743), sul quale egli fu l’ ultimo dei rois fa i•
néants, l’ ombra addirittura d’ un re.
C’ era da aspettarsi prima o poi una lotta aspra e san
guinosa tra i due fratelli ; ma invece Carlomanno, dopo
le stragi da lui compiute nella guerra contro gli Ala
manni (746), si ritirò, disgustato del mondo, prima in un
convento da lui fondato sul Soratte, poi a Monteoassino; e cosi Pipino restò senza rivali. Se non ohe allora
appariva anche più chiaro che, giuridicamente parlando,
unico sovrano legittimo era Childerico, per quanto non
sembrasse altro, e di fatto altro non fosse ohe un re
spodestato. Era una questione che non si poteva risol
vere colla violenza, e senza risolverla Pipino sarebbe re
stato sempre nella falsa posizione di un usurpatore. Pensò
quindi di rivolgersi a papa Zaccaria III, perchè coll’ au
torità della religione facesse quello che la spada non po
teva fare. E mandò a lui una solenne ambasceria chie
dendo se era lecito che assumesse il titolo di re colui
che non faceva nulla addirittura, e non piuttosto colui
che di fatto governava, ed in tutto ne esercitava l’ufficio.
In vero solo il Papa poteva sciogliere i sudditi dal giura
mento d’ obbedienza, e tranquillizzando la loro coscienza,
por fine ad uno stato anormale di cose. Che doveva, che
poteva rispondere Zaccaria III? La nuova dinastia ormai
esisteva di fatto, era padrona della monarchia, aveva di
feso la religione ed era essa sola in grado di dare alla
Chiesa quell’ aiuto che nessun altro più le voleva o po
teva dare. N ell’ Impero il principio ereditario di succes
sione al trono non era stato mai sanzionato, e nei bar
bari era assai comune la elezione dei loro re. U Papa
adunque rispose, ohe ove fosse a vantaggio del paese, e
se ne promovesse davvero il benessere, era conveniente
che assumesse il titolo di re colui che di fatto ne eser
citava l’ufficio. E cosi fu che Pipino si decise a compiere
il suo colpo di Stato. Nel novembre del 751, in un’ as
semblea di Grandi radunati a Soissons, egli venne so
lennemente innalzato al trono, e proclamato re, « per
consiglio e consenso di tutti i Franchi, coll’ assenso della
Santa Sede, per elezione della Francia intera, con la
consacrazione dei vescovi e l’ obbedienza dei Grandi. »
A questa elezione, che fu fatta secondo il costume germa
nico, s’ aggiunse la consacrazione celebrata, in nome del
Papa, da S. Bonifazio alla testa dei vescovi, consacrazione
che ricordava quella di Saul per mano di Samuele. Il mi
sero Childerico ebbe la tonsura, e fu chiuso in un convento
insieme col figlio.
Se si getta ora uno sguardo a tutto quello che abbiam
detto finora, si vedrà subito quante e quanto gravi ragioni
spingessero i Papi a favorire i Franchi, per esserne poi
protetti. Ma Zaccaria H I, che voleva star bene con tutti,
s’era incontrato con Liutprando, ed aveva fatto ogni opera
per concludere con lui una pace durevole. Il re longo
bardo gli aveva promessa la restituzione dei beni patri
moniali usurpati alla Chiesa nell’ Esarcato, nella Pentapoli ed altrove; aveva promesso anche di ripigliare e
restituire al Papa i quattro castelli che nel Ducato ro
mano erano stati indebitamente occupati da Trasimondo.
Se non che, appena fissate queste condizioni d ’ una pace
ohe doveva durare venti anni, occupò invece lo Spoletino,
e lo dette ad un proprio nipote; pose a Benevento Gisulfo
il figlio di Romualdo II (742). Poco dopo, avuto a T em i
un altro colloquio col Papa, restituì i castelli e mantenne
la più parte delle promesse fatte. Ma nel 743, essendo
tornato a Pavia, di nuovo mandò l’esercito nell’Esarcato,
contro Ravenna. E di nuovo stava per cedere alle pre
ghiere di papa Zaccaria, che andò a visitarlo in Pavia
nel 742, quando nel gennaio del 744 mori.
Gli successe il figlio Ildebrando, che si dimostrò assai
inetto, e fu subito sostituito da Rachi, duca del Friuli,
che regnò cinque anni, dei quali si sa assai poco: ritira
tosi piu tardi dal mondo, vestì l’ abito monacale. Allora
ascese al trono Astolfo, valoroso, impetuoso in guerra, ma
politico assai poco accorto ; e s’avanzò verso Ravenna che
prese, ponendo in tal modo fine all’Esarcato. Subito dopo
si diresse minaccioso verso Roma nel 752, quando era
già morto Zaccaria. Allora fu eletto Stefano II, che mori
tre giorni dopo. Il successore prese lo stesso nome, e per
la brevità del Papato di colui che lo aveva preceduto,
venne chiamato anch’ egli Stefano II e non III (752-57).
Questi che fu uomo di molto valore politico, uno dei grandi
Papi, mandò subito ambasciatori ad Astolfo per con
chiudere un’ altra pace, che doveva durare quarant’ anni,
e venne rotta invece dopo quattro mesi, senza possibilità
di rinnovarla (752). A lle ripetute ambascerie il re lon
gobardo rispondeva con minacce contro il Ducato ro
mano. Da questo lato adunque non v ’ era adesso nulla
da sperare.
Il Papa trattava perciò con Costantinopoli, donde arri
vava ambasciatore il silenziario (capitano della guardia
imperiale) Giovanni; e lo mandò col proprio fratello Paolo
ad Astolfo, provandosi a chiedere la retrocessione dei
possessi e delle città indebitamente occupate nell’ Esar
cato e nella Pentapoli: ut Reipublicae loca.... usurpata
proprio restitueret dominio. W Ma Astolfo rispose che di
ciò avrebbe trattato, per mezzo di suoi ambasciatori, di
rettamente coll’Imperatore. Il Silenziario allora tornò in
dietro, ed il Papa mandò con lui i suoi messi a Costantino
poli, per dire che era ornai inutile fidarsi dei Longobardi ;
piuttosto era il caso di spedire un esercito per difendere
Roma e l’ Italia contro le loro aggressioni. Finora dun
que le relazioni del Papa coll’ Imperatore appaiono ami
chevoli. A questo infatti Stefano II si rivolgeva quando
Astolfo, dopo d’avere occupato l’Esarcato, frem ens ut leo,
minacciava di tutta la sua ira Roma ed il popolo romano.
Il pericolo era veramente grande e vicino. Il Papa fece 1
(1) Liber Pontificali*, I, 442.
infatti solenni preghiere e litanie, andando in proces
sione eon gran seguito, scalzo e coperto di cenere, a
S. Pietro, a S. Maria Maggiore, a S. Paolo, portando
innanzi, sospeso ad una croce, il patto di pace violato da
Astolfo. Da Costantinopoli non veniva intanto nessun
aiuto, nè c’ era speranza che venisse. Lo stato delle cose
pareva disperato.
Si presentava quindi più che mai naturale il pensiero
di rivolgersi ai Franchi. Pipino non poteva dimenticare
che ai Papi doveva la sua consacrazione. A lui dunque
Stefano II si rivolse, facendogli sapere che desiderava
andare solennemente a visitarlo ; ma voleva prima essere
invitato, sia per rispetto alla propria dignità, sia per es
sere garantito contro gli ostacoli che al suo viaggio poteva
mettere Astolfo. Il re non esitò a manifestare il suo buon
volere ; prima però di dare un passo che avrebbe potuto
obbligarlo a far poi la guerra, volle esser sicuro dell’ as
senso dei Grandi, senza i quali non sarebbe stato facile,
quando la necessità se ne presentasse, di condurre l’eser
cito in Italia. I magnati franchi non potevano avere ra
gione di speciale avversione contro i Longobardi, che,
appena invitati, s’ erano mossi per venir loro in aiuto
nella guerra contro gli Arabi. A quei Grandi perciò il
Papa, che era anche politico accortissimo, scrisse una let
tera che ci è rimasta, esortandoli a non venir meno all’ amore verso S. Pietro e la Chiesa. Quando Pipino li
convocò in assemblea, fu subito deliberato d’ inviare a
Roma una solenne ambasceria, con le più ampie assicu
razioni, per invitare il Papa a venire in Francia. Amba
sciatori furono due grandi dignitari franchi, Crodegango
vescovo di Metz ed il gloriosissimo duca Auticario. Essi
arrivarono a Roma nel 763, quando i Longobardi di
Astolfo s’ erano impadroniti di Ceccano, che faceva parte
del Ducato di Roma. Poco prima (settembre 758) era tor
nato da Costantinopoli il silenziario Giovanni, con la mis
sione d’ invitare il Papa a recarsi in persona da Astolfo,
per indurlo a restituire all’ Impero le terre che gli aveva
tolte. Ed il 14 ottobre 753 Stefano II insieme col Silen
ziario, con i due ambasciatori franchi e con gran seguito,
andò a Pavia per tentar di persuadere Astolfo a resti
tuire a chi di diritto, propria restituirei propriis) <*> le
terre indebitamente usurpate. Ma non si concluse nulla,
perchè Astolfo accettò i doni che gli furono recati, e
ricusò ogni concessione.
Il Papa allora continuò il suo cammino, e nonostante
ogni tentativo contrario fatto dal re longobardo per dis
suaderlo, passate le Alpi, andò in Francia. Nel mese di
dicembre, quando era ancora cento miglia lontano dalla
villa di Ponthion, fra Vitry e Bar-le-Duc, incontrò il gio
vanetto Carlo primogenito del Re, quegli che fu poi noto
nella storia col nome di Carlo Magno. Il 6 gennaio 754 in
contrò il Re stesso che, sceso da cavallo, lo accompagnò
per un buon tratto. Assai solenne fu l’ ingresso in Pon
thion, fra una moltitudine festante, che cantava sacri
inni. Non erano appena entrati nel palazzo, che il Papa
chiese al R e che volesse egli personalmente difendere
la causa di S. Pietro e della Repubblica romana, causarti
B eati P etri et Reipublicae Romanorum. Ed il R e senza
esitare giurò di « restituire in ogni modo l’ Esarcato e
gli altri luoghi e diritti della Repubblica ». Come mai
questo mutamento di linguaggio? Dopo avere chiesto la
restituzione delle terre all’ Impero, si parla invece di
S. Pietro e della Repubblica dei Romani ; e d’ ora in poi
si continua a parlar sempre della Repubblica, di S. Pietro
e della santa Chiesa di Dio, lasciando lf Impero assolu
tamente da parte.1
(1) Liber Pontificali», I, 446 e aeg.
Dopo l’ esplicito rifiato di Astolfo, era chiaro che la
restituzione delle terre richieste si poteva ottener solo
colle armi. Ed il Papa, che naturalmente pensava sopra
tutto ai casi suoi, arrivato in Francia, dovette accorgersi
con gran piacere, che se Pipino era ben disposto ad aiutar
lui e la Chiesa, non aveva nessuna voglia di fare una
guerra nell’ interesse dell’ Imperatore. L e terre che g li
fosse riuscito di prendere colle sue armi, quando non le
avesse egli ritenute per diritto di conquista, avrebbe po
tuto darle, in forza del sentimento religioso, alla Chiesa
ed al suo Capo, non però mai ad altri. Anche i Longo
bardi, piuttosto che vederle in mano dei Franchi o del
l’ Imperatore, avrebbero preferito che fossero concesse al
Papa, a cui più facilmente potevano sperare di ritoglierle.
Era perciò naturale che Stefano II, uomo assai accorto,
cercasse profittare di un tale stato di cose. E quindi nei
suoi discorsi, nelle sue lettere, invece di restituzione all’ Impero, cominciò a parlare di restituzione a Roma, a
S. Pietro, alla Chiesa. Pipino intanto lo aveva invitato
a passar l’ inverno nella Badia di S. Dionigi, presso Pa
rigi, e di là cosi l’ uno come l’ altro fecero ripetuti, ma
vani tentativi d’ indurre Astolfo a volere, per evitare
ogni effusione di sangue, pacificamente « restituire alla
Repubblica, alla santa Chiesa i suoi diritti, le sue pro
prietà. » In sostanza par che si chiedessero ora pel Papa
l’ Esarcato e la Pentapoli, che dai Longobardi erano stati
tolti all’ Impero. L ’ idea di succedere a questo in Italia
era balenata nella mente dei Papi fin dal momento in
cui Astolfo aveva occupato l’Esarcato. Non volevano che,
impadronendosi di esso e della Pentapoli, i Longobardi
divenissero troppo potenti. E se Pipino, dopo aver conqui
stato quelle province, avesse ricusato di restituirle all’ Im
pero, l’occasione sarebbe stata opportunissima per rendere
potente la Chiesa, facendole dare ad essa. E così fu che
PIPINO PBOMETTE DI VENIRE IN IT A L IA
867
invece d’ Impero si cominciò a parlare di Repubblica e
di popolo romano, che, secondo le idee del tempo, erano
sotto la speciale protezione di S. Pietro, rappresentato
in terra dal Papa, capo visibile della Chiesa. Il popolo
romano aveva eletto l’ Imperatore, ed eleggeva il Papa;
era una cosa sola coll’ Impero e con la santa Repub
blica, la quale, nel linguaggio comune, si confondeva al
lora colla Chiesa. Sostituire quindi all’ Impero la Chiesa
ed il Papa pareva la cosa più semplice e naturale del
mondo. Anche le quattro terre o castelli, che da Liutprando erano stati tolti al Ducato romano, il quale, teo
ricamente almeno, era già tenuto come legittimo pos
sesso del Papa, furono dallo stesso Liutprando restituiti
« a S. Pietro. »
Il vero è che Astolfo, senza punto occuparsi di que
ste sottili distinzioni, non voleva ceder nulla a nes
suno. Bisognava quindi fare la guerra. Pipino radunò
i Grandi in due assemblee, tenute la prima il giorno
1° marzo 754 a Braisne, non lungi da Soissons, e la se
conda il 14 aprile, giorno di Pasqua, a Quierzy, presso
Laon. In questa fu deliberata la guerra,' Si parla anche
d’ uno scritto, nel quale Pipino avrebbe allora fatto so
lenne promessa, che le terre le quali egli si proponeva
di conquistare, sarebbero da lui restituite al Papa. Della
esistenza di un tale scritto alcuni dubitano non poco;
certo ò però che, scritta o non scritta, la promessa fu
fatta, e venne poi mantenuta.
Le ansietà del Papa erano state in questo tempo gran
dissime. L ’ aver dovuto passare le Alpi nella fine di
autunno, il crudo inverno della Francia, le continue op
posizioni che alcuni dei Grandi avevano fatte alla guerra,
erano state più che sufficienti a turbarne l’ animo ed al
terarne la salute. A tutto ciò s’ aggiunse che, in questo
mezzo appunto, Carlomanno, il fratello di Pipino, per isti-
gazione, a quanto pare, di Astolfoyuscito improvvisamente
dal convento di Montecassino, era venuto in Francia a
perorare presso il fratello la causa longobarda. Il che au
mentò lo sgomento del Papa, ed irritò non poco anche P i
pino, il quale naturalmente temeva che questa venuta p o
tesse ridestare nei figli di suo fratello la speranza d i
succedere al trono paterno. Ma che cosa poteva mai fare
un frate contro l’ autorità del Papa, e contro la forza d el
Re, che ormai era padrone di tutto il regno riunito? Carlomanno infatti fu ben presto costretto a rinchiudersi in
un convento di Vienne presso il Rodano, dove poco dopo
mori. Anche i suoi figli dovettero prendere la tonsura.
Fra tante angoscie Stefano II finalmente s’ ammalò, e
durante la malattia gli apparvero, secondo la leggenda,
S. Dionigi, S. Pietro e S. Paolo, che gli promisero gua
rigione perfetta, a condizione che facesse erigere un
nuovo altare in S. Dionigi. Ed il 28 luglio 754 non sola
mente l’ altare era costruito, ma nella stessa chiesa si
compieva un atto solenne, il quale dimostrava la grande
accortezza e perseveranza del Papa. In questa stessa
chiesa egli consacrava ed incoronava Pipino e la moglie
Bertrada, consacrava anche i due figli Carlo e Carlomanno. Ma Pipino, si può qui domandare, non era stato
già coronato, non era stato consacrato da S. Bonifazio
per ordine del Papa ? A che fine ripeter la cerimonia ?
Non solamente la consacrazione per mano propria del
Papa era assai più autorevole; ma questi, consacrando
anche la regina ed i figli del Re, consacrava addirit
tura la dinastia. Quel giorno infatti, sotto pena di sco
munica, egli imponeva ai Grandi franchi di non mai più
eleggere nell’ avvenire un re « che fosse disceso da altri
lombi ». Così erano per sempre messi da parte non solo
i diritti dei Merovingi, ma quelli ancora che potevano
avanzare i figli di Carlomanno.
Oltre di ciò Stefano II, nel consacrare Pipino, gli dette
anche il titolo di Patrizio, cosa che ha fatto molto dispu
tare, perchè questo era un titolo dato solo dall’ Impera
tore a grandissimi personaggi come Odoacre, Teodorico,
gli Esarchi ; ed ora veniva concesso dal Papa a Pipino,
senza che l’Imperatore protestasse. Qualcuno ha supposto
che questi avesse dato a Stefano l’ incarico di conferirlo,
quando lo aveva inviato a chiedere la restituzione delle
terre all’ Impero. Arrivato però il Papa in Francia, e co
nosciuto lo stato vero delle cose, mutato animo, deciden
dosi a prendere esso in Italia il posto dellTmpero, avrebbe
creduto anche di poter conferire in suo proprio nome il
titolo di Patrizio. Questo titolo era semplicemente ono
rifico, ma soleva darsi solo a chi aveva già un altissimo
ufficio; ed il Papa lo dava a re Pipino come a difensore
della Chiesa. Questi infatti è d’ ora in poi chiamato in
distintamente Patrizio o Difensore della Chiesa.
CAPITOLO IV
Pipino e i Franchi vengono in Italia e vincono i Longobardi Donazione dell’ Esarcato e delle Pentapoli al Papa - Muore
Astolfo - Desiderio re dei Longobardi - Disordini in Roma Elezione di Paolo I e sua morte.
Nell’ estate del 754, poco dopo la sua consacrazione,
Pipino raccolse l’ esercito per l’ impresa d’ Italia, non
senza fare un ultimo tentativo di risolvere pacificamente
la gran lite, promettendo ad Astolfo anche buona somma
di denaro. Ma fu tutto inutile, e l’ esercito fr a n c o ^ ^ ^
porsi in cammino. I Franchi s’ avanzarono con a l l f l
il loro R e ; li accompagn va il Papa col suo ca p p #
con l’ abate Fulrado di S.
; * con altri
Passato il Cenisio, alle Chiuse presso Susa, vi fu uno
scontro nel quale l ’ avanguardia dei Franchi sostenne
l’ urto di tutto l’ esercito longobardo, che nella ristret
tezza del luogo non potè spiegare le proprie forze, e fu
cosi fieramente battuto, che la disfatta venne attribuita
a miracolo.
Astolfo dovette allora ritirarsi a Pavia, dove fu ben
presto assediato e costretto a venire a patti, che furono :
restituire Ravenna e diverse altre città, con la promessa
di non più molestare il Ducato romano, dando in garan
zia quaranta ostaggi. E questi patti, secondo il Libro
pontificale (I, 451), sarebbero stati formulati in una p a
gina scritta. Le terre cosi ottenute vennero da Pipino
cedute al Papa, che ormai senza più esitare cercava d i
sostituirsi in Italia all’ Imperatore. Più volentieri, più
risolutamente che mai lo faceva adesso che qnesti aveva
radunato un sinodo (753), il quale condannò il culto delle
immagini, dichiarandolo nuova idolatria. Ma quando i
Franchi ed il Papa si furono ritirati, ciascuno a casa sua,
Astolfo, dopo che ebbe ceduto Narni ai Franchi, non
solamente violò i patti, senza ceder più nulla a nessuno ;
ma s'avanzò col suo esercito nel Ducato romano, sac
cheggiando perfino le chiese. H 1° di gennaio 756 egli
era sotto le mura di Roma, e minacciava che se non gli
aprivano le porte, e non gli davano nelle mani la per
sona stessa del Papa, avrebbe messo i cittadini a fil d i
spada.
Stefano I I allora mandava a Pipino lettere sopra let
tere, con solenni ambascerie, descrivendo le « stragi e
le iniquità dei nefandissimi Longobardi ». L ’ ultima d i
queste lettere era indirizzata al R e ed ai suoi figli, in
nome addirittura di S. Pietre, il quale, dopo aver detto
che le ingiurie recate alle popolazioni, ai luoghi sacri e
profani erano tali che le pietre stesse ne avrebbero pianto,
finiva invocando il pronto aiuto del popolo franco, eletto
da Dio a difesa della Chiesa. Ogni indugio diveniva adesso
una grave colpa, di cui si sarebbe dovuto rendere stretto
conto a Dio.
Pipino non fu sordo all’ invito del Santo, e nella pri
mavera del 756 mosse di nuovo per la stessa via contro
Astolfo, che, abbandonato l’ assedio di Roma, durato già
tre mesi, corse a Pavia. Di là mandò l’ esercito contro
i Franchi; ma questi, passato il Cenisio, dettero una
nuova rotta al nemico, e procedettero oltre. Nel suo cam
mino Pipino s’ incontrò con un ambasciatore che veniva
da Costantinopoli, e che si provò a persuaderlo di re
stituire all’ Impero le terre indebitamente occupate dai
Longobardi. Egli allora rispose chiaro, che non era ve
nuto in Italia a far la guerra « per nessun interesse
mondano, in favore di nessun uomo; ma per amore di
S. Pietro e venia de’ suoi peccati.» Dopo di che andò
all’ assedio di Pavia, dove Astolfo dovette ben presto
arrendersi di nuovo. E questa volta naturalmente i patti
furono assai più duri che nel 754. Oltre una forte con
tribuzione di guerra ed un annuo tributo, dovette ce
dere un maggior numero di città, e dar nuovi ostaggi.
Il Libro pontificale dà la lista di queste città, com
prendendovi Comacchio, Ravenna, tutto il paese fra l’appennino ed il mare, da Forlì a Sinigaglia: la Marca
d’Ancona, Faenza, Bologna, Imola e Ferrara non vi sono
comprese. Si tratta in sostanza dell’ Esarcato e della
Pentapoli, quali però erano stati ridotti dopo le conqui
ste fatte dai Longobardi prima di Astolfo. L ’ abate Fulrado fu allora incaricato d’ andare personalmente, con
buon numero di soldati franchi, a prendere la consegna
delle città, facendosi dare le chiavi, e per maggiore si
curezza anche nuovi ostaggi. Le chiavi furono in Roma
consegnate al Papa insieme con l’ atto di donazione
« a S. Pietro, alla Santa Repubblica romana, ed a tutti
i successivi pontefici ». Questa donazione scritta fu
messa nella Confessione di S. Pietro, e vi si trovava
ancora, secondo Fautore della vita di Stefano l i , quando
egli scriveva (L. P., I, 453). Ben presto, come vedremo,
i Papi cominciarono a chiedere assai di più.
In quello stesso anno 756, pochi mesi dopo che P i
pino 8’ era ritirato in Francia, Astolfo moriva. Egli era
stato un sincero cattolico, aveva fondato chiese e con
venti, e se aveva portato via dalla Campagna romana
reliquie e corpi di Santi, lo aveva fatto per averli nelle
chiese del suo regno: tuttavia era stato in lotta con
tinuaeoi Papa. Valoroso in guerra, segui anch’ egli, come
la più parte dei re longobardi, una politica capricciosa
ed inconseguente, che lo condusse nella seconda parte
del suo regno a perdere tutto quello che aveva guada
gnato nella prima. Alla sua morte vi fu tra i Longobardi
una minaccia di guerra civile, a causa della successione.
Rachi uscì dal convento di Montecassino, per tentar d i
succedere al fratello ; ma ebbe a competitore Desiderio
duca di Toscana, che, mediante larghe promesse al Papa,
ne ottenne il favore. Questi indusse Rachi a tornarsene
nel suo convento,* scrisse a Pipino esaltando i meriti
di Desiderio, e le molte promesse ohe aveva fatte alla
Chiesa; pregava perciò anche lui di volerlo favorire e
d’ incoraggiarne le buone intenzioni. Si trattava adesso,
diceva il Papa, di condurre a compimento la bene in
cominciata impresa, facendo restituire a S. Pietro ed
alla Chiesa anche le terre che prima di Astolfo avevano
fatto parte dell’ Esarcato e della Pentapoli. Non era pos
sibile governare quel paese, tenendo separate popola
zioni che assai lungamente erano state unite. « Ora, cosi
concludeva il Papa, che è morto Astolfo seguace del de
monio, divoratore del sangue dei cristiani, e che, me
diante l’ aiuto vostro e dei Franchi, è successo Desiderio,
uomo mitissimo e buono, noi vi preghiamo non solo di
spronarlo a perseverare nella retta via ; ma di cooperare
con lui a liberarci dalla pestifera malizia dei Oreci, ed a
farci riavere le proprietà indebitamente tolte alla Chiesa.»
È chiaro che ora non si tratta più della pura e sem
plice attuazione delle antiche promesse fatte da Pipino,
ma di nuove domande. H Papa chiedeva l’ Esarcato e la
Pentapoli nella loro primitiva ed assai più vasta esten
sione; chiedeva inoltre anche le terre, le proprietà della
Chiesa, sparse altrove, che erano state indebitamente
occupate dai Longobardi o dai Bizantini. Il momento
pareva opportuno per attuare ciò che Desiderio gli aveva
fatto sperare in compenso dei grandi servigi a lui resi
per farlo salire sul trono. Se non che ben presto si vide,
che neppure il nuovo re dei Longobardi aveva voglia
di mantenere le sue promesse. Infatti, dopo aver ceduto
Faenza e Ferrara, non dette più altro. Stefano II però fu
dalla morte, che lo colpì il 26 aprile 757, liberato dal do
lore di questo crudele disinganno.
La successiva elezione, ohe fu assai tumultuosa, co
minciò a mettere in evidenza i grandi mutamenti che
dovevano seguire a Poma, in conseguenza della nuova
politica dei Papi. La donazione di Pipino rendeva il capo
della Chiesa sovrano temporale. Se era divenuto padrone
dell’ Esarcato e della Pentapoli, voleva naturalmente es
sere anche padrone effettivo del Ducato romano. Infatti
a Poma d’ ora in poi non si trova più un Duca, perchè il
Papa vuol farne esso le veci. Ma questo appunto sollevò la
nobiltà laica, o sia i Judices de Militia, i quali si trova
vano alla testa dell’ esercito, e vennero in fierissima lotta
con la nobiltà ecclesiastica, o sia i Judices de clero, i
quali, per la nuova autorità assunta dal Papa, avrebbero
voluto comandar essi in Poma. Fortunatamente, il 29 mag
gio 757, venne consacrato nuovo papa il fratello del de
funto, che prese il qome di Paolo I. Questi dovette subito
accorgersi che c’ era ben poco da fidarsi di Desiderio; si
volse perciò a Pipino, annunziandogli la sua elezione,
come prima soleva farsi all’ Esarca, e chiedendogli aiuto
contro i nobili, che divenivano sempre più riottosi. A d
essi Pipino scriveva raccomandando obbedienza al Papa;
ed abbiamo la lettera con cui il Senatus atque universi
populi generalitas rispondevano « all’ eccellentissimo Si
gnore da Dio eletto, e vittorioso Pipino re dei Franchi,
patrizio dei Romani. » In essa promettevano obbedienza
al Papa, che chiamavano « Padre comune. »
Il conflitto principale continuava però sempre ad es
sere coi Longobardi, e si complicava ora, perchè Desi
derio era d’ un carattere mutabilissimo, che doveva poi
essere la rovina sua e del suo regno. Quando i duchi d i
Benevento e di Spoleto accennavano a ribellarsi a lui, av
vicinandosi invece al Papa ed ai Franchi, egli, per man
tenere intatta la sua autorità, andò subito con la forza a
deporli, sostituendoli con altri di sua fiducia. E dopo
di ciò il suo primo pensiero fu di volgersi all’ impera
tore Costantino V, detto Copronimo, promettendo d’ aiu
tarlo a ripigliare l ’Esarcato e la Pentapoli. Ma quando
s’ accorse che per questa via non riusciva a nulla, perchè
l’ Imperatore era occupato altrove, mutò nuovamente
pensiero, e da capo s’ avvicinò al Papa, che, sebbene di
mala voglia e senza fidarsene, pur lo accolse. In verità
anche il Papa si trovava in una difficilissima posizione.
Non poteva sperar nulla da Pipino, trattenuto ora nelle
guerre d’ Aquitania e di Sassonia; e doveva nello stesso
tempo impensierirsi delle nuove difficoltà che gli susci
tava l’ Imperatore, giacché al conflitto politico coll’ Oriente
s’ aggiungeva ora quello religioso a causa delle immagini.
Costantino Copronimo, infatti, profittando della tendenza
del clero franco, che sembrava essere avverso al Papa
non solo nella dìsputa delle immagini, ma anche in quella
sulla Trinità, cercava di venire con Pipino ad un accordo
religioso, cui sperava dovesse facilmente seguire Rac
cordo politico. Ma Pipino, sebbene accettasse la discus
sione, fini col restar fedele alla Chiesa di Roma.
Siamo evidentemente in un periodo di transizione, nel
quale lo stato delle cose muta ogni giorno, ed ognuno
quindi muta la sua condotta politica. Pipino trattava
coll’ Imperatore, ed era amico del Papa, che scriveva e
riscriveva in Francia, perchè lo difendessero dai Bizan
tini, eretici e nemici di Santa Chiesa. Il Papa, disperato,
s’ avvicinava ai Longobardi nemici suoi e dei Franchi,
i quali da lui e dal suo predecessore erano stati chia
mati a combatterli. L ’ Imperatore cercava d’ avvicinarsi
ai Franchi, che gli avevano tolto l’ Esarcato e la Pentapoli dandoli al Papa, contro cui egli ora voleva spingerli.
Ma il 28 giugno 767 moriva Paolo I, il 24 settem
bre 768 moriva Pipino, e ciò doveva necessariamente
dare origine ad un nuovo e grande mutamento.
CAPITOLO V
Nuovi e gravissimi tumulti in Boma - Elezione di Stefano III
- Matrimonio di Carlo re dei Franchi con Desiderata - I
nemici del Papa sono oppressi - Stefano III muore.
La morte di Paolo I fu come il segnale dato ad un
nuovo e più violento scatenarsi dei partiti. Si vide al
lora chiaramente che cosa volesse dire l’ aver distrutto
affatto l’ autorità dell’ Imperatore in Roma, nell’ Esarcato
e nella Pentapoli, senza nulla sostituirvi, lasciandovi pa
drone il Papa, che era disarmato. Il Ducato romano, che
abbracciava presso a poco quella che oggi si chiama la
provincia di Roma, è ricordato la prima volta nel Libro
Pontificale l’ anno 712 (I, 392), e V E xtrcitus romanus ò
già ricordato nel 638 e nel 643 (I, 328, 331 e 395, n. 28).
Questo era diviso in scholae, comandate, come già di
cemmo, dall’ aristocrazia laica, potentissima nella Città e
nella Campagna. Alla loro testa era il Duca mandato
prima da Costantinopoli, dopo il 727 (I, 404) eletto dal
l ’aristocrazia, scomparso a tempo di Pipino, perchò a capo
della Città e del Ducato si pose allora il Papa. Questi
si trovava ora combattuto fra l’ aristocrazia laica, che co
mandava l’ esercito ed in parte anche le Città, e l’ aristo
crazia ecclesiastica, che, amministrando la Chiesa ed i
suoi vasti possessi, non era certo in Città meno potente
della sua rivale. Un conflitto tra l’ una e l’ altra appariva
adesso inevitabile.
Infatti Paolo I riposava ancora sul suo letto di morte,
quando Toto, duca di Nepi, raccolse nella Campagna più
gente che potè, ed insieme coi fratelli Costantino, Passivo
e Pasquale, corse a Roma dove fece colla forza nominar
papa il fratello maggiore Costantino. Questi era però laico,
e quindi il vescovo di Palestrina fu costretto, nonostante
ogni sua resistenza, .a consacrarlo successivamente chie
rico, suddiacono e diacono, dopo di che lo proclamarono
papa lo stesso giorno 28 giugno 767. Egli restò sulla sedia
episcopale solo tredici mesi, che furono pieni di sangui
nosi tumulti, perchè contro la sua strana elezione insorse
violentemente l ’ aristocrazia ecclesiastica, la quale era
stata da lui privata d’ una parte de’ suoi ricchi uffici. Essa
avrebbe naturalmente dovuto inclinare al partito dei
Franchi; ma, non potendo ora sperare nessun aiuto da P i
pino, tutto occupato nelle sue guerre, si vide costretta a
rivolgersi ai Longobardi, ed ebbe subito il favore di De
siderio. Cristoforo, che era Primicerio nella cancellerìa
f
papale, e suo figlio Sergio, che era Secundicèrio, pote
rono, coll’ assenso del R e longobardo, raccoglier gente
nel Ducato di Spoleto, ed il 29 luglio 768 si trovarono
a Porta S. Pancrazio, dove vennero alle mani cogli av
versari, cioè coi capi dell’aristocrazia laica. Questi furono
vinti, perchè tra loro c’erano dei traditori, i quali, appena
che la lotta si volse in favore del proprio partito, ferirono
alle spalle i compagni, che cosi furono vinti. Passivo, il
fratello del Papa, con alcuni de’ suoi più fidi, corse in Laterano per salvargli almeno la vita; ma vennero invece
tutti presi e tenuti prigionieri. Allora un tal Valdiperto,
prete longobardo, che aveva cooperato coi vincitori, rac
colse tumultuariamente i suoi amici, e fece eleggere papa
un prete Filippo, che fu subito consacrato in Laterano,
sedette sulla cattedra di S. Pietro, e benedisse il po
polo. Ma questa elezione, fatta esclusivamente a favore
del partito longobardo, non poteva piacere a nessuno
dell’aristocrazia romana, la quale era insorta solo a van
taggio della propria preponderanza. Essa perciò costrinse
subito Filippo a dimettersi, e raccolti gli amici, l’esercito,
il popolo, il clero, fece una nuova elezione, che riuscì a
favore di Stefano III (1° agosto 768), stato già amico fe
dele di Paolo I.
La nuova elezione, che venne finalmente riconosciuta
valida, non potè calmare gli animi, perchè i vincitori,
prima che il nuovo Papa fosse consacrato (7 agosto), vol
lero far vendetta della elezione di Costantino. Ad alcuni
dei suoi fautori vennero, secondo il crudele costume bi
zantino, cavati gli occhi, e strappata la lingua. La turba
inferocita corse poi alla casa in cui era stato rinchiuso il
già decaduto Papa, e copertolo d’ insulti, lo menarono, a
cavallo sopra una sella da donna, in un monastero. Di là il
6 agosto fu condotto alla basilica laterana, dove i vescovi
ivi radunati lo deposero solennemente, facendogli strap
pare il pallio. e levare i calzari pontifici. Poco dopo, tira
tolo fuori del convento, i suoi nemici gli cavarono gli oc
chi lasciandolo quasi esanime nella strada. La stessa sorte
toccò ad altri. Non fu risparmiato neanche il prete Valdiperto, perchè avendo egli di suo arbitrio fatto eleggere
Filippo, che era stato deposto, si temeva che, .messosi
d’ accordo coi suoi compagni longobardi, volesse ora ven
dicarsi. Per questa ragione quelli stessi che poco prima
erano stati suoi partigiani, lo cercarono adesso a morte;
nè gli valse Tessersi rifugiato in S. Maria dei Martiri (Pan
teon), dove teneva strette in mano le sacre immagini, spe
rando cosi di salvarsi. Lo trascinarono con violenza nel
campo del Laterano, dove anche a lui cavarono gli o c
chi, in conseguenza di che mori poco dopo di cancrena alle
occhiaie. Stefano III non fece nulla per opporsi a queste
iniquità ; nè basta a scusarlo il dire che, quando avesse
voluto, difficilmente sarebbe riuscito ad impedirle.
NelTaprile 769 venne radunato in Roma un Sinodo, per
prendere le misure necessarie ad evitare che nelle future
elezioni si rinnovassero gli scandali, e vi intervennero
anche dodici vescovi franchi. Ma neppure questo Sinodo
procedette pacifioamente. Il misero ex-papa Costantino
già accecato, jam extra oculos, fu chiamato a dichiarar
come mai avesse osato farsi eleggere, essendo laico. R i
spose che aveva dovuto cedere alla forza del popolo tu
multuante, e chiese perdono de’ suoi peccati. Ma nel
giorno seguente, avendo osato aggiungere a sua scusa,
che prima di lui v ’ erano pure stati a Ravenna e Napoli
vescovi eletti, sebbene laici, vi fu nel Sinodo uno scoppio
irrefrenabile d’ indignazione. Gli troncarono la parola in
bocca, ordinando poi che fosse dagli assistenti preso a
ceffoni e cacciato via. Furono bruciati il decreto della
sua elezione e gli atti del suo pontificato. Stefano H I, i
vescovi, il clero, i cittadini presenti nella basilica j>rega-
rono in ginocchio, facendo penitenza per aver tollerato nn
Papa cosi irregolarmente eletto, e accettato da Ini la comnnione. Fa inoltre, sotto pena d’ anatema, proibito di
far mai più salire al pontificato un laico. Venne anche
deliberato, che non potesse in nessun caso essere eletto
chi non era diacono o prete cardinale, e che non «fosse
lecito a nessuno portare armi nel luogo della elezione, la
quale d’allora in poi doveva esser fatta solo dai cardinali,
dai primati della Chiesa, e dai chierici di Roma, restan
done escluso il popolo, che insieme coll’ esercito avrebbe
solo acclamato il nuovo eletto.
A far sempre più peggiorare le tristi condizioni della
Città, contribuiva adesso non poco lo stato delle cose
all’estero. Dopo la morte di Pipino infatti il regno franco
era rimasto diviso fra i suoi due figli Carlomanno e Carlo,
i quali subito furono in grave discordia fra di loro. Que
sta discordia toglieva al Papa ogni speranza d’ aiuto da
parte dei Franchi, e cresceva l’ audacia dei nobili romani,
specialmente di Cristoforo e di Sergio. Essi avevano fatto
prima deporre Costantino, poi Filippo; avevano fatto
eleggere Stefano UT, e si credevano perciò in diritto di
dominarlo, di farla in tutto da padroni. Nella lotta tra
Carlomanno e Carlo parteggiavano pel primo, che li fa
voriva a dispetto del Papa, il quale mal tollerava la loro
prepotenza. Questa discordia dei due principi franchi
divideva gli animi anche in Italia, perchè bastava dichia
rarsi avverso ad uno di essi, per avere subito il favore
dell’ altro. E cosi venivano non poco alimentati i par
titi in tutta la Penisola, ma sopra tatto in Roma ed in
Ravenna. In quest’ ultima città lottavano fra di loro i di
versi aspiranti alla sedia arcivescovile, i quali andavan
d’ accordo solamente nel volerla rendere sempre più in
dipendente dal Papa, e ciò anche ora che l’ Esarcato
era stato a lui concesso da Pipino.
Bertarida, la madre dei due re franchi, faceva invano
ogni opera per pacificarli fra di loro. A questo fine essa
era venuta in Italia, e cercava imparentarli coi Longo
bardi. Riuscì infatti a concludere il matrimonio fra Carlo
e Desiderata, figlia di Desiderio. Si parlava anche d ’ un
matrimonio da concludersi fra Carlomanno ed un’ altra
longobarda. A tali notizie il Papa, che in questi accordi
vedeva un grandissimo pericolo per gl’ interessi della
Chiesa, una minacciosa rovina di tutti i disegni cosi lun
gamente meditati, fu preso da una collera irrefrenabile.
Il linguaggio da lui adoperato nella lettera che allora
scrisse ai due fratelli era infatti tale che, sebbene essa
si trovi nel codice carolino, venne da alcuni ritenuta
apocrifa. Chiamava diabolica ogni unione « fra la nobi
lissima gente dei Franchi e la iniquissima dei Longo
bardi. » Sembrava credere che i due fratelli avessero
già moglie, e quindi che i nuovi matrimoni proposti non
potessero esser altro che concubinaggi. E concludeva:
« abbiamo posto questa nostra lettera di ammonimento
sulla tomba di S. Pietro, celebrandovi sopra la messa, e
da questo luogo la mandiamo a voi colle lacrime agli
occhi. » Carlo però non aveva moglie legittima, non
v ’ era quindi ostacolo al suo matrimonio con Deside
rata, che fu celebrato; ed il Papa si dovò rassegnare
al fatto compiuto. A che invero avrebbe potuto giovare
l’ irritare Carlo e Desiderio? Si aggiungeva che Cristoforo e Sergio erano divenuti sempre più insopportabili,
s’ erano avvicinati a Carlomanno, e questi aveva man
dato presso di loro a Roma il suo ambasciatore Dodone
con alcuni militi, il che li aveva resi più audaci che
mai. Inoltre dopo la deposizione di Filippo e la ucci
sione di Valdiperto, essi erano necessariamente dive
nuti nemici dei Longobardi, e per questa ragione Bertrada potè riuscire a riannodar buone relazioni fra il
Papa e re Desiderio, che tornò subito a largheggiar di
promesse.
Sotto pretesto d’ un religioso pellegrinaggio, il re lon
gobardo con buon seguito d’ armati s’ avvicinava ora a
Roma, per incontrarsi col Papa in S. Pietro, ed aiutarlo
contro Cristoforo e Sergio, che erano sempre più minac
ciosi, e non si lasciarono prendere alla sprovvista (771).
Dalla Città e dalla Campagna avevano chiamato i loro
amici, radunandoli insieme coi pochi soldati franchi ve
nuti coll’ ambasciatore Dodone ; e quando il Papa e De
siderio s’ incontrarono in S. Pietro, tutto era pronto per
la rivolta. Ma neppure il Papa se n’ era stato ozioso,
avendo dato la direzione della difesa ad uno degli alti
ufficiali della Curia, il cubiculario Paolo, soprannominato
Afiarta, uomo audacissimo. Questi, senza por tempo in
mezzo, quando Stefano III tornava da S. Pietro al Laterano, chiamò il popolo alle armi, e levò il tumulto. Cri
stoforo e Sergio corsero colle loro genti al Laterano,
chiedendo ad alte grida che si desse loro nelle mani
l’Afiarta. Ma sfortunatamente per essi quelli che li segui
vano, entrati nel Palazzo, non seppero trattenersi dal sac
cheggiarlo, e penetrarono armati perfino nella Basilica,
dove il Papa s’ era rifugiato. Che cosa precisamente se
guisse allora noi non lo sappiamo. Stefano III scrisse
d’aver corso pericolo della vita; ma il giorno dopo andava
accompagnato da molti armati e dallo stesso Afiarta, ad
abboccarsi nuovamente con Desiderio in S. Pietro. Sem
bra certo che Cristoforo e Sergio non si spinsero fino a
far violenze al Papa, sia che essi non osassero porre le
mani sul Capo visibile della Chiesa, nel tempio del Si
gnore, sia che i loro seguaci allora li abbandonassero, o,
come è più probabile, che l’ Afiarta arrivasse in tempo
per resistere. Certo è che il giorno dopo, quando Ste
fano III era tornato in S. Pietro, caddero ambedue nelle
mani dei difensori del Papa, il quale ordinò che restas
sero nella Basilica fino a notte avanzata, per farli poi,
cosi almeno disse, coll’ aiuto delle tenebre, condurre dall’Afiarta più sicuramente salvi in città. Ma invece, quando
erano per entrar dentro le mura, sopraggiunsero improv
visamente alcuni manigoldi ivi appiattati, che li malme
narono e cavaron loro gli òcchi. Cristoforo fu trascinato
nel monastero di S. Agata, dove dopo tre giorni m ori;
Sergio invece fu tenuto prigioniero nel Laterano, donde
poi scomparve. E Desiderio, che era stato il segreto isti
gatore di queste sanguinose violenze, alle quali non si
può credere che rimanesse affatto estraneo il Papa, se
ne tornò a Pavia.
In tal modo i due antichi capi dell’ aristocrazia eccle
siastica, che si erano uniti ai Longobardi per poi tra
dirli, furono abbattuti. Ma papa Stefano, sempre debole
e mutabile, s’ era liberato da una tirannia, per cadere
sotto un’ altra. In Roma spadroneggiava ora l’Afiarta col
favore del partito longobardo, di che erano scontentis
simi i Franchi. Carlomanno infatti aveva favorito Cristoforo e Sergio; e neppure a suo fratello Carlo poteva
piacere di vedere in Roma trionfare i Longobardi. Con
ambedue i fratelli e con la loro madre Bertarida il Papa
si scusava dicendo che tutto era stata colpa dell’ amba
sciatore Dodone, il quale s’ era unito « c o i diabolici pro
motori d’ un tumulto, che aveva messo a grave pericolo
la sua propria vita in Laterano. Quanto alle violenze
usate a Cristoforo ed a Sergio, nel loro rientrare in
Città, esse eran seguite contro ogni suo volere, per
opera di volgari malfattori, che non si fu in tempo a
fermare, perchè erano sbucati inaspettatamente dai loro
nascondigli. » La lettera del Papa concludeva facendo le
lodi di Desiderio, a cui egli diceva di dovere la propria
salvezza, e che già cominciava a mantenere la premessa
di restituire le terre usurpate. Ma tutto ciò non era poi
vero, come ben presto si vide.
Lo stato generale delle cose mutava ora non poco in
Italia e fuori. Carlo, che era stato sempre avverso ai Lon
gobardi, ripudiava la moglie Desiderata, rimandandola al
padre, e ciò, come è naturale, apriva fra di loro un abisso.
Il 4 dicembre 771 Carlomanno moriva, lasciando un figlio,
che aveva solo un anno; ed i Grandi elessero Carlo a
successore del fratello, volendo colla unione del regno
aumentarne la forza. Il Papa, mutando ancora una volta
la sua politica, si allontanava da Desiderio, che non
manteneva le promesse fatte, e s’ avvicinava a Carlo.
Egli era molto irritato contro il re longobardo, perchò
quando aveva a lui ricordato gli obblighi assunti, questi
gli aveva risposto, che doveva invece essere contento,
e ringraziarlo di quanto aveva già fatto per lui, che
per opera sua era stato liberato dalla prepotenza di Cri
stoforo e di Sergio. Tutte queste agitazioni, tutti questi
continui e pericolosi mutamenti turbarono assai l’ animo
debole ed incerto del Papa, già malato del male che
doveva condurlo alla tomba. L ’Afiarta poi non gli la
sciava pace, perchè voleva apparecchiare a proprio van
taggio la nuova elezione ; e quindi di suo arbitrio man
dava in esilio, faceva mettere in carcere tutti i nobili
più avversi a lui ed ai suoi. Finalmente ai primi di feb
braio 772 Stefano III moriva, il che dette origine ad un
altro grande mutamento in Roma e nell’ Italia.
CAPITOLO V I
Elezione di Adriano I - Condanna e morte delVAfiarta - Di
scesa di Carlo re dei Franchi in Italia - Disfatta dei Lon
gobardi, assedio di Paria - Carlo ra a Roma, dorè passa la
Pasqua del 774.
L ’ Afiarta riusci a fare in modo, che la nuova elezione
procedesse rapidamente e senza tumulti, non però a
fare scegliere un papa quale a lui sarebbe convenuto.
Sulla cattedra di S. Pietro saliva infatti Adriano I (772-95),
uomo saldo nella fede religiosa, e di carattere fermis
simo, che, a differenza del suo predecessore, non esitava
mai. Quando infatti arrivarono a lui gli ambasciatori di
Desiderio, facendo al solito larghe promesse in nome
del loro signore, egli rispose, che non poteva prestar fede
a chi aveva sempre mentito al Papa defunto. Tuttavia,
siccome essi insistevano, e non volendo Adriano mancare
del tutto all’ usanza ed alle convenienze, mandò a Pavia
ambasciatori il notaio Stefano, e Paolo Afiarta. A rri
vati però che essi furono a Perugia, dovettero fermarsi,
avendo saputo che Desiderio, già mutato animo, s’ era
impadronito di Faenza, di Ferrara e Comacchio, dopo
di che le sue genti correvano liberamente per l’ Esar
cato, e minacciavano Ravenna, di dove l’ arcivescovo
chiedeva aiuto al Papa. La vedova di Carlomanno s’ era
in questo mezzo rifugiata coi figli presso Desiderio, il
quale, per odio a Carlo, l’ aveva accolta sotto la sua pro
tezione, e voleva che il Papa facesse lo stesso, che anzi
ne consacrasse i figli. Ma Adriano « si mostrò duro come
adamante; > mandò anzi una seconda ambasceria a Pa-
m orte
d e l l ’ a f ia r t a
885
via, per far nuovi rimproveri al re longobardo, ed inda
gare più precisamente F animo di Ini.
In questo mezzo l’ Afiarta, avendo compréso quanta
era l’avversione del Papa per lui e pei Longobardi, aveva
cercato di mettersi d’ accordo con Desiderio. Questi vo
leva avere un abboccamento con Adriano, sperando, me
diante nuove lusinghe, di poterlo tirare alle Bue voglie ;
e l ’Afiarta promise di condurglielo, « anche se fosse stato
necessario trascinarlo con una corda al collo. » Aveva
però fatto i conti senza l’ oste, giacché appena giunto a
Rimini, venne arrestato dagli agenti dell’ arcivescovo di
Ravenna, che ne aveva ricevuto ordine dal Papa. Il quale,
essendo deciso a farla finita colle prepotenze dell’Afiarta,
aveva richiamato quasi tutti coloro che da questo erano
stati esiliati, e fatti uscir di carcere quelli che aveva im
prigionati. Ordinò inoltre una severa inchiesta, per sapere
che cosa fosse mai avvenuto di Sergio. E fu scoperto
che, otto giorni prima della morte di Stefano m , in sul
far della notte, quel disgraziato era stato, per ordine
dell’ Afiarta e di altri, condotto sull’ Esquilino, presso
l’ Arco di Gallieno, dove l’ avevano ucciso e sepolto. Il
cadavere venne infatti trovato con i segni ancora visibili
delle percosse, e col capestro alla gola. I complici del
delitto, appena scoperti, o fuggirono o vennero esiliati.
Gli atti del processo furono mandati a Ravenna, perchè
anche l’ Afiarta venisse giudicato, e, se colpevole, punito
della stessa pena. Ma l’ arcivescovo, che era ardente par
tigiano dei Franchi, e però anche più del Papa nemico
dell’Afiarta e dei Longobardi, lo fece condannare a morte,
sentenza che venne subito eseguita. Il Papa se ne mostrò
assai scontento, perchè egli che era fermo, non voleva
appunto perciò apparire eccessivo.
In ogni modo adesso il partito dei Longobardi era in
Roma sgominato, ed il loro capo Afiarta non poteva più
dar noia a nessuno. Desiderio faceva gravi minacce al
Papa, che non si voleva accordare con lui; e subito dopo
occupava F Esarcato, entrava nella Pentapoli, e tra la
fine del 772 e i primi del 773 era già in via verso il
confine del Ducato romano. Adriano però non se ne stava
inerte ; ma raccoglieva gente dalla Campagna, dalle pro
vince, e dalle città, per esser pronto alla difesa. Nello
stesso tempo scriveva, sollecitando aiuto da Carlo, che
allora era spinto a venire in Italia anche da alcuni Grandi
longobardi nemici di Desiderio. Ben presto infatti gli
ambasciatori franchi arrivarono a Roma con la notizia
che Carlo aveva deciso di passare le Alpi. E però, quando
Desiderio era giunto a Viterbo, i messi del Papa, che
aveva ripreso animo, si presentarono a lui, intimandogli
di ritirarsi sotto pena d’ anatema. Ed il re longobardo,
saputo che i Franchi s’avanzavan davvero, si ritirò. Carlo,
come già aveva fatto Pipino con Astolfo, prima di ve
nire alle armi, anch’ egli avanzò proposte di pace al re
longobardo, promettendogli 14,000 soldi d’ oro, se resti
tuiva al Papa le terre promesse. Ma nessun accordo fu
possibile.
Nella primavera del 773 i Franchi s’ avanzarono per
ciò di nuovo verso l’ Italia, divisi in due eserciti. Uno,
che prese la via di Monte Giove, oggi Gran S. Bernardo,
era comandato da Bernardo, figlio di Carlo Martello e
zio di re Carlo. L ’ altro s’ avanzò pel Cenisio, condotto
dal R e in persona, che, arrivato alla Chiusa di S. Michele,
tentò nuovamente d ’ indurre Desiderio a cedere colle
buone. Ma fu tutto invano, e si dovè venire a batta
glia. E qui più d’ una leggenda altera la storia in modo,
che resta assai difficile scoprire il vero. Si narra che il
passaggio delle Alpi era cosi fortemente chiuso da un
grosso muro, costruito dai Longobardi a propria difesa,
che i Franchi, sgomenti, volevano ritirarsi, quando, per
divina volontà, i nemici si dettero invece a precipitosa
fuga. Un’ altra leggenda dice che ciò avvenne, perchè
alcuni dei capi longobardi tradirono. Una terza narra
che, quando re Carlo si trovò nella impossibilità di andar
oltre, un giullare longobardo si presentò a lui, offrendosi
d’ indicargli un sentiero sconosciuto, pel quale poteva pas
sare inavvertito. E cosi i Franchi, discesi nella pianura,
avrebbero preso il nemico alle spalle, ponendolo in rotta.
Si sarebbe allora chiesto al giullare che compenso vo
leva, ed egli, salito sopra un colle, e dato fiato al suo
corno, avrebbe chiesto che fin là dove il suono s’ udiva,
il terreno fosse suo. E gli fu concesso. Ma lasciando da
parte queste ed altre leggende, noi possiamo dir solo che
tra Franchi e Longobardi vi fu una battaglia, vinta cer
tamente dai primi, della quale però non sono conosciuti
i particolari. Sembra che, mentre re Carlo combatteva
di fronte i Longobardi, l ’ esercito comandato da Ber
nardo, avanzatosi rapidamente per una via poco cono
sciuta, li prendesse alle spalle, ponendoli cosi in fuga
precipitosa. Desiderio allora si ritirò a Pavia per difen
dersi, e suo figlio Adelchi si chiuse in Verona, dove si
era rifugiata anche Gerberga, la vedova di Carlomanno,
coi figli.
Carlo s’ avanzò subito coll’ esercito, occupando varie
terre importanti, fra cui Torino e Milano. Poi mise l’ as
sedio a Pavia, che poteva resistere a lungo. Adesso lo
scopo della guerra non era più, come a tempo di Pipino,
di far restituire le terre alla Chiesa. Carlo non voleva ve
nire a patti, faceva ai Longobardi addirittura una guerra
di sterminio, per annientarne la potenza, ed impadronirsi
di tutto il loro regno. Prevedendo che l’ assedio, già
regolarmente cominciato, dovesse andare in lungo, fece
di Francia venir la moglie Ildegarda, e compiè parecchie
secursioni, occupando altre città, che s’ arresero senza
resistere. Fra queste fu anche Verona; e caddero allora
nelle sue mani Gerberga e i figli, che finirono in un
convento. Adelchi invece riuscì a scampare, e dopo es
sere rimasto qualche tempo a Salerno, se ne andò a C o
stantinopoli.
Essendo passati già sei mesi, senza che la fine del
l’ assedio si vedesse vicina, Carlo pensò d’ andare quel
l’ anno (774) in Roma, a passarvi, com’ era allora il sogno
di tutti i credenti, la Pasqua, che cadeva quell’ anno il
2 di aprile. Il Re avrebbe anche avuto a Roma il modo
d’accordarsi col Papa sulle grandi questioni politiche, che
in conseguenza della guerra presente, dovevano sorgere
inevitabilmente. Infatti, conquistato che avesse il regno
longobardo, che cosa doveva farne? Non certo resti
tuirlo all’ Impero, perchè vi si sarebbe opposto Adriano I,
nè egli era venuto in Italia per ciò. Darlo tutto alla
Chiesa non avrebbe voluto, nè il Papa, disarmato com e
era, sarebbe stato in grado di governarlo. Tenerlo tutto
per sè, sarebbe stato un mancare alle promesse fatte al
Papa, col quale voleva andare d’ accordo : per difenderlo
e favorirlo egli era venuto in Italia, ed aveva intrapreso
la guerra. Era dunque necessario intendersi, ed anche
per ciò la sua gita a Roma riusciva assai opportuna.
Quello a cui già da un pezzo miravano i Papi, ed a cui
mirava più che mai Adriano, adesso che il regno longo
bardo era vicino a cadere, trasparisce abbastanza chiaro
dalle loro lettere e dalla così detta donazione di Costan
tino, la quale, sebbene sia un documento falso, compilato
in questo tempo appunto da qualcuno della Curia, ha
certo un notevole valore storico, perchè scopre chiara
mente le mire ambiziose, che da lungo tempo aveva
sempre avute la Chiesa. Questa donazione, che vien
fuori adesso, ed è ben presto citata dai Papi come un
documento autentico, diceva che l’ Imperatore, dopo aver
concesso al Papa il palazzo Laterano insieme con i più
alti onori imperiali, dopo aver riconosciuto la superio
rità della Chiesa, e riconosciuto nei prelati e nei cardi
nali la dignità senatoria, concedeva « la città di Roma
e tutti i luoghi, le province e città d ’ Italia al beatissimo
papa Silvestro ed ai suoi successori. » Per quanto vaghe
e fantastiche potessero sembrare queste concessioni, ri
sulta sempre più chiaro che i Papi aspiravano a prendere
in Italia il posto che l’ Impero era costretto a lasciare;
e i fatti provano che Adriano I non si contentava più
delle sole terre che Pipino aveva tolte all’ Impero. A p
punto ora gli Spoletini, per evitar di cadere sotto il
dominio di Carlo, erano venuti in Roma a fare atto di
sottomissione al Papa, giurandogli obbedienza, facendosi,
secondo l’ uso di quel tempo, tagliare i capelli e radere
la barba; ed il Papa aveva accettato, riconoscendo, quasi
fosse già loro legittimo signore, il nuovo Duca che si
erano scelto. Osimo, Fermo, Ancona e Città di Castello
imitarono l’ esempio di Spoleto. Che Adriano I però pen
sasse sul serio di potere in Italia succedere all’Impero ed
ai Longobardi, non è facile crederlo. Egli doveva ben
capire che, anche avendola, non avrebbe mai potuto, nè
saputo governar tutta la Penisola. Il concetto perciò che
a Carlo si presentava come più pratico e più facilmente
attuabile, era quello di formare nella Lombardia e nella
Liguria un regno franco, cedendo al Papa, oltre il Ducato
di Roma, l’ Esarcato e la Pentapoli, dandogli altrove an
che i territori e le proprietà su cui la Chiesa avesse potuto
dimostrare d’ avere giusti diritti patrimoniali. Tutto que
sto però non era ancora ben definito nella mente di nes
suno; era sempre un argomento fluttuante, aperto alla
discussione, che si sarebbe potuta fare a Roma.
A trenta miglia di distanza dalla Città, presso il lago
di Bracciano, Carlo incontrò i primi dignitari mandati
dal Papa. A d un miglio di distanza dalle mora incontrò
le Scholae della milizia, gli studenti con rami d’ ulivo,
tutta una moltitudine che s’ avanzava cantando inni re
ligiosi, portando in mano grandi croci, come s’ era usato
nel ricevere l’ Esarca. Appena che Carlo li vide, discese
da cavallo, ed andò a piedi sino a S. Pietro. L ’ antica
chiesa, che la tradizione diceva costruita per ordine di
Costantino, era assai diversa dalla presente, ed assai più
bella, pel suo carattere veramente originale. Si trovava
fuori delle mura, le quali ^ancora non circondavano il
quartiere vaticano, che era come un sobborgo della Città.
La vasta basilica a forma di croce aveva cinque navate,
la principale delle quali finiva con un abside semicirco
lare. Alla chiesa s’ arrivava traversando un atrio spazioso
a forma di chiostro, detto il Paradiso di S. Pietro. Il pa
vimento cosi della chiesa come dell’ atrio, si trovava al
cune braccia più in alto della piazza. Vi si ascendeva per
una scala larga quanto la facciata o muro esterno. L e novantasei colonne, nonché i mattoni coi quali erano state
costruite le mura e gli archi, erano stati tolti dal vicino
anfiteatro di Nerone, e da altri edifizi pagani : si vedeva
una grande varietà di sagome, di capitelli, di colonne. E
questo gran tempio cristiano, composto coi frammenti di
tempii pagani, sembrava sfavillar da lontano, perchè il
tetto era formato da tegoli di bronzo dorato, tolti anch’ essi dagli antichi tempii di Roma e diV enere. N el
l’ interno i diversi colori dei mosaici e delle pitture
davano a quella chiesa una solenne e severa varietà, che
armonizzava col sentimento religioso assai più del S. P ie
tro moderno, che sembra quasi un’ immensa galleria.
Molte erano le statue di marmo e di bronzo, alcune
delle quali anch’ esse tolte ai tempii pagani, e adattate
ad uso cristiano. A tutto ciò s’ aggiungevano ricchi broc
cati, veli a trapunto, lamine d’ oro e d’ argento. N el
CARLO E ADRIANO I IN 8. PIETRO
891
mezzo della croce era la Confessione dell’ Apostolo, ri*
vestita d’ argento, coperta da on tempietto con sei colonne
di onice a spira, con un centinaio di lampade e candele,
le quali ardevano giorno e notte. Ivi erano tutti ì giorni
prostrati in ginocchio migliaia di fedeli d’ ogni sesso ed
età, d’ ogni condizione sociale, venuti da tutte le parti
del mondo a chiedere perdono dei loro peccati. Insorama
era un tempio unico veramente, che poteva dirsi il con*
tro religioso del mondo.
In cima della scala d’ingresso, circondato dal clero,
da numeroso popolo, il Papa sin dal mattino aspettava
il Re, che nel vederlo cadde in ginocchio ai piodi della
scala, ed in ginocchio ne sali gli scalini, baciandoli l’ un
dopo l’ altro. Giunto che fu dinanzi alla porta, il Papa lo
baciò, e poi strettagli la mano, traversato con lui l’ atrio,
10 condusse nel tempio fino alla Confessione, dove il cloro
ed i cantori intonarono il versetto: «B enodetto chi viene
in nome del Signore ». Quel giorno stesso, sabato santo,
1° di aprile, Re e Papa, circondati da nobili franchi o
romani, scesero nella Confessione, dove erA la tomba di
S. Pietro, e si giurarono mutua fedeltà. Dopo di cho
andarono a S. Giovanni in Laterano, dove il Re assistette
al battesimo amministrato dal Papa. Il giorno seguente,
era la Pasqua, ed il R e ascoltò la ipessa solenne, ce*
lebrata in 8. M. Maggiore dal Papa. Il terzo giorno,
che era la prima festa di Pasqua, vi fu gran banchetto ;
11 quarto venne solennizzato in S. Pietro, dove colle lodi
del Santo furono celebrate quelle del R e ; il quinto in
S. Paolo.
Ma pià importante di tutti fu il sesto giorno, 6 aprile,
quarta festa di Pasqua. Il Papa usciva di città, in so*
lenne processione, e s’ incamminava nuovamente col Re
a S. Pietro, dove prese a scongiurarlo perdik volesse
adempiere interamente le promesse fatte da Pipino, e
da lui confermate. Allora, secondo il Libro pontificale,
che è la fonte quasi unica che qui abbiamo, Carlo si fece
leggere la donazione fatta da Pipino a Quierzy, la quale
venne da lui e dai suoi Grandi riconfermata. Ordinò
poi che venisse trascritta dal suo cappellano e notaio,
nuovamente impegnandosi a concedere le terre in essa
menzionate, facendone anche più specificatamente desi
gnare i confini, che si trovano infatti ripetuti nel ci
tato racconto. Questa carta di donazione, che noi più
non abbiamo, sottoscritta dal Re, dai suoi vescovi, abati,
duchi e conti, fu messa sull’ altare di S. Pietro; poi den
tro la sacra Confessione; e finalmente venne data al Papa
con solenne giuramento che sarebbe osservata. Una se
conda copia, di mano dello stesso notaio Eterio, fu, a
maggiore solennità e sicurtà, messa nella Confessione, là
dove era il corpo di S. Pietro, sotto gli Evangeli, che ivi
si solevano baciare: una terza restò nelle mani del R e.
Questa narrazione ci è data dal Libro pontificale, nella
vita di Adriano I, il cui autore dice d’ aver visto coi propri
occhi l’ atto di donazione. Ciò nondimeno, sulla esistenza
di esso e su tutto il racconto si sono fatte dispute in
finite, che hanno dato origine ad una intera letteratura :
si è parlato di falsificazioni, d’ interpolazioni, e simili.
Il resultato della.lunga disputa è stato però, che oggi
si presta fede allo scrittore della vita d’Adriano : le di
vergenze sorgono piuttosto sul modo d’ interpetrare le
sue parole.
Secondo lui adunque l’ atto di donazione dava al Papa
l’ Esarcato, nella sua più antica e vasta estensione. Non
ricordava espressamente la Pentapoli, ma par certo che
intendesse d’ includervela ; aggiungeva poi i Ducati d i
Spoleto e di Benevento, la Toscana intera e la Corsica, la
Venezia e l’ Istria. Cosi il nuovo regno che Carlo avrebbe
serbato esclusivamente per sè, si sarebbe ridotto in assai
angusti confini nell’ Italia settentrionale, ed il Papa sa*
rebbe divenuto padrone di quasi tutta l’ Italia centrale
e meridionale, con una parte anche della settentrionale.
È certo però, che i confini delle terre concesse al Papa,
al di fuori del Ducato romano, dell’ Esarcato e della Pentapoli, sono indicati in un modo assai indeterminato. E
bisogna concludere, che o s’ intese accennar solamente ai
beni patrimoniali che la Chiesa affermava di possedere
nelle altre province, ed il cui possesso credeva di poter
documentare ; o se si volle veramente promettere in que
ste un vero e proprio diritto di sovranità, siffatte pro
messe non furono certo mantenute. E ciò potò essere
avvenuto non perchè il Re avesse mutato animo, o avesse
voluto ingannare ; ma perchè ben presto dovette accor
gersi che il Papa non era in grado di conservare neppur
quello che gli era stato già concesso. In ogni modo, an
che volendo, nel 774 era assai difficile determinare con
precisione quello che gli si sarebbe veramente potuto
dare. Da una parte le pretese del Papa crescevano ogni
giorno ; e da un’ altra si trattava di conceder quello che
si doveva ancora conquistare. L ’ incertezza ne seguiva
perciò come necessaria conseguenza, ed apriva la porta
a molte discussioni, a cui solo l’ esito finale della guerra
poteva porre un termine.
Tra la fine di maggio ed i primi di giugno, re Carlo,
fatta a Roma un’ assai breve dimora, se ne tornava a
Pavia, che dopo avere già resistito circa otto mesi, do
vette finalmente arrendersi. E qui la leggenda viene di
nuovo a mescolarsi colla storia. Si narra che una figlia di
Desiderio, innamoratasi di Carlo, gli facesse, per mezzo
d’ un proiettile spinto attraverso il Ticino, pervenire una
sua lettera, e che dalla risposta avuta s’accendesse vieppiù
nel suo amore. Furtivamente allora prese le chiavi della
città, che erano sospese al letto del padre, e di notte apri
la porta al nemico. Quando però ella andò incontro
a Carlo, venne dai cavalieri franchi, che furiosamente
s’ avanzavano, calpestata ed uccisa. Tutto questo sem
bra significare, che Pavia s’ arrese non solo per la fame
e per le malattie, ma ancora per le discordie interne
dei Longobardi. Il re Desiderio fu condotto via, con la
moglie e la figlia, in Francia, dove mori oscuro monaco.
Il valoroso Adelchi s’ era già, per la resa di Verona, che
alcuni vorrebbero avvenuta dopo quella di Pavia, rifu
giato a Costantinopoli. Tutte le altre terre longobarde,
nell’ alta e nella media Italia, cedettero l’ una dopo P a l
tra. E così può dirsi colla caduta di Pavia caduto il re
gno dei Longobardi, che era durato più di due secoli.
CAPITOLO VII
Formazione del regno franco in Italia - Congiure e ribellioni
contro il Papa, che chiede aiuto a Carlo - Questi torna in
Italia, e celebra in Roma la-Pasqua del 781.
Carlo, che era giunto appena alla età di circa trentadne
anni, ed aveva da ogni parte assicurato il suo vasto re
gno, reso vastissimo dalle conquiste, prese ora il titolo
di re dei Franchi, re dei Longobardi e patrizio dei R o
mani. La sua cancelleria cominciò nei pubblici atti a
computare gli anni del regno dalla presa di Pavia, e
così fecero anche i privati: il nome dell’ Imperatore di
Costantinopoli fu in questi documenti come dimenticato.
Il nuovo regno dei Franchi nell’ alta Italia si estese al
di là dell’ Isonzo fino all’ Istria; ma la supremazia di fatto
esercitata da Carlo si allargò a tutta l’ Italia centrale.
Spoleto che aveva giurato obbedienza al Papa, se ne al
lontanò, per sottomettersi a Carlo. Il duca di Benevento,
Arichi, continuava però a farla da sovrano indipendente
quello del Friuli s’ era sottomesso assai di mala voglia,
ed aspettava una qualche occasione per ribellarsi. In
ogni modo il titolo di Patrizio dei Romani assunto da
Carlo non era più un semplice ornamento, ma cominciava
ad acquistare Un valore reale, perchè egli era divenuto
davvero il protettore e difensore della Chiesa. Infatti
anche le province più esplicitamente proprie di essa giu
rarono a lui fedeltà. Par che egli si serbasse il diritto di
decidere le condanne capitali, togliendole alle autorità
ecclesiastiche ; più di una volta infatti lo vediamo sedere
p rò tribunali, e giudicare nella stessa Roma. Con grande
accorgimento non assunse però mai il titolo di re d’ Ita
lia, ma quello solamente di re dei Longobardi; e non
volle aggregare alla Francia neppur quella parte d’Italia,
che ritenne per sè. Ne formò come una provincia sepa
rata, quasi un regno autonomo, cui lasciò le antiche isti
tuzioni e gli antichi Duchi : in qualche luogo pose, invece
del Duca, un Conte. A Pavia però cominciò subito ad or
dinare un’ amministrazione nuova, pigliando per sè i
beni della corona longobarda, una parte dei quali dette
ad alcuni conventi in Francia, il che si potrebbe dire
un principio di assimilazione.
A d un tratto re Carlo fu costretto a ripassare im
provvisamente le Alpi, per correre a domare la ribellione
dei Sassoni, contro i quali vinse nel 776 una grande
battaglia, dopo di che tornò, come vedremo, in Italia
a sottomettere il duca del Friuli ; ma dovette di nuovo
traversare le Alpi, per continuare contro i Sassoni quella
lotta, che pareva non dovesse aver mai fine. Sebbene
però la resistenza loro e degli Alamanni fosse oltre ogni
dire ostinata, gli uni e gli altri, come popolazioni più
omogenee, finirono coll’ essere assimilati ai Franchi. Lo
stesso non potè mai seguire degl’ Italiani, che resistettero
assai più debolmente e furono più facilmente domati.
Durante i due secoli vissuti insieme, Longobardi e R o
mani s’ erano fusi in un popolo solo, e quindi v’ era una
generale e persistente ripugnanza degli uni e degli altri
contro i Franchi, soprattutto poi nei Duchi ed in genere
nella classe governante. Nè meno profonde erano que
ste antipatie nelle terre occupate ancora dai Bizantini, i
quali, essendo irritatissimi per ciò che era stato loro tolto
dai Franchi, si sforzavano in ogni modo di seminare nelle
popolazioni odio contro di essi. Tutto ciò fu causa di grandi
disordini, cui se ne aggiunsero, come inevitabile conse
guenza, altri di natura diversa, ma non meno gravi.
Gli arcivescovi di Ravenna avevano, noi già lo v e
demmo, dato origine a molti dissensi e conflitti con
Roma; e questi, nel disordine presente, rinascevano più
vivi che mai. L ’arcivescovo Leone era riuscito nel 771 ad
assumere l’alto ufficio, vincendo il suo rivale con l’ aiuto
di Carlo ed il favore del Papa, al quale si dichiarò allora
obbediente; ma adesso, mutati i tempi, cominciò invece a
fare opposizione. Gli pareva che, cessato in Ravenna il do
minio bizantino, l’Arcivescovo dovesse nella sua sede as
sumere quella medesima autorità che il Papa assumeva in
Roma. Si faceva forte non solamente delle speciali con
dizioni in cui s’ era sempre trovato il seggio episcopale
nell’ Esarcato; ma anche della Prammatica sanzione, che
dava ai Vescovi facoltà di nominare i giudici, i quali erano
anche amministratori. — Non s’ era a lui stesso rivolto
Adriano I, quando si trattava di far giudicare l’Aflarta;
non aveva egli fatto eseguire la sentenza di morte, senza
neppur consultare il Papa? Le facoltà concesse dall’ Im
peratore ai Vescovi non potevano diminuire per la dona
zione fatta da Carlo a quello di Roma ; nè potevano esser
distrutte dall’autorità che il titolo di Patrizio dava al R e.
I mutamenti avvenuti erano stati fatti in nome del popolo
romano, il quale non poteva certo essere tenuto superiore
all’ Imperatore. — Cosi pare che ragionasse l’arcivescovo
di Ravenna : certo si può affermare che la sua condotta
appariva guidata da queste idee. E però egli voleva nell’ Esarcato e nella Pentapoli assumere la stessa posizione
(e per le stesse ragioni), che il Papa assumeva nelle terre
da cui l ’ Impero si ritirava. Trovò, è vero, una viva re
sistenza nella Pentapoli, che si dichiarò favorevole al
Papa; ma nell’ Esarcato gli riuscì d ’ insediare i suoi uffi
ciali, facendo respingere quelli mandati da Roma. L ’Arci
vescovo aveva avuto l’ accortezza di mostrarsi avversis
simo ai Longobardi, favorevole ai Franchi ; e però Carlo
non poteva osteggiarlo. Un tale stato di cose riusciva utile
al Re, per tenere un po’ a freno l ’ ambizione sempre cre
scente del Papa.
Di tutto ciò Adriano I era naturalmente scontentis
simo, e ne moveva lamento a Carlo, incitandolo a tor
nare in Italia, per ristabilirvi l’ autorità della Chiesa,
e mantenere le promesse fatte. E continuando ne’ suoi
rammarichi, gli rendeva conto d’ una congiura tramata in
Italia, d’ accordo con Costantinopoli, contro i Franchi.
Egli esagerava non poco la parte che solo indirettamente
potè avervi presa l’ arcivescovo di Ravenna, il quale
s’ era, come dicemmo, dichiarato amico dei Franchi; e
quella ancora che vi avevano presa i duchi di Benevento e di Spoleto, che nuovamente s’ erano alienati da
lui. Il Papa affermava, fra le altre cose, che una let
tera, nella quale il patriarca di Grado gli rendeva conto
della congiura, eragli pervenuta coi suggelli rotti dal
l’ Arcivescovo, che l’ aveva aperta per renderne conto
ai due Duchi coi quali cospirava. La verità è che una
cospirazione si tramava davvero da parecchi duchi lon
gobardi contro i Franchi e contro il Papa. Chi diceva
che Rodogaudo duca del Friuli aspirava alla corona di
Desiderio, e chi diceva che i Longobardi volevano ripri
stinare l’ interregno che s’ era avuto dopo la morte di
Clefi. Si aggiungeva che da Costantinopoli erano partite
navi, comandate da Adelchi, per secondare la trama.
È possibile che l’ arcivescovo Leone la favorisse, per
chè essa riusciva a danno del Papa, col quale si trovava
in lotta; ma non è credibile che egli avesse voluto coope
rare alla cacciata dei Franchi, dei quali era amico, ed
alla ricostituzione del dominio longobardo, al quale s’ era
manifestato avverso. Sembra però certo che a Spoleto
si era tenuta un’ adunanza, nella quale fu deliberata la
congiura di cui il Papa, esagerandola, avvertiva re Carlo.
Questi, pigliando la cosa con molta calma, cercò prima
di tutto di separar dagli altri cospiratori i duchi di Spoleto
e di Benevento, promettendo di lasciar loro una maggiore
indipendenza. Oltre di ciò, la notizia arrivata in Italia
nel febbraio del 776, che l’ imperatore Copronimo era
morto, levava ai cospiratori il principale appoggio su cui
avevano fatto assegnamento. Intanto il Re, che si trovava
allora libero dalla guerra contro i Sassoni, si mosse con
poche genti verso l’ Italia, dove pervenne colla rapidità
del fulmine, ed attaccò battaglia col solo Rodogaudo, che
fu subito vinto, e pare anche ucciso. Così Cario fu padrone
del Friuli, avendo ben presto superato anche la poca
resistenza fatta da Treviso, dove il 14 aprile 776 potè
celebrare la Pasqua. Se nella sua prima venuta in Italia
egli s’ era dimostrato assai indulgente, adesso, invece,
irritato dalla congiura, si dimostrò severissimo. Molti fu
rono, per la confisca dei loro beni, ridotti alla miseria,
e quando non vennero chiusi in carcere, andarono pel
mondo raminghi. Fu imprigionato tra gli altri anche il
fratello dello storico Paolo Diacono. E questi, dopo aver
lodata la generosità dimostrata dal Re nella sua prima
venuta in Italia} dovette ora lamentare la lunga e crudele
prigionia del proprio fratello, la cui moglie andò limosi
nando coi figli, laceri e privi di tutto. Carlo cominciò
adesso a porre nelle città italiane, molto più che non
aveva fatto prima, Conti invece di Duchi. I primi erano
meno potenti, più sottomessi a lui che li nominava, e
quindi più obbedienti. A i confini del regno, per meglio
difenderli, egli soleva costituire le Marche, riunendo in
una più contee, che affidava a conti di Marche, i quali
erano perciò non meno potenti dei duchi: e cosi fece
ora nel Friuli. Dopo di ciò, dovendo da capo ripigliare
la guerra contro i Sassoni, riparti dall’ Italia, senza avere
neppure visitato il Papa, verso il quale par che fosse que
sta volta un po’freddo, dimostrando invece, almeno in ap
parenza, qualche favore all’arcivescovo di Ravenna. Vinti
dopo fiera resistenza i Sassoni, Carlo dovette andare ra
pidamente verso la Spagna, e, passati i Pirenei, mosse
guerra agli Arabi, prese Pamplona, e s’ avanzò fino a
Saragozza. Ma allora fu subito costretto a tornare indietro
per combattere di nuovo i Sassoni. La sua retroguardia
venne per via fieramente assalita dai Baschi, e addirittura
distrutta nella celebre rotta di Roncisvalle (778), nella
quale mori il fiore dei paladini franchi, e fra gli altri
quell’ Orlando, il cui valore è tanto celebrato nei poemi
cavallereschi. Ciò non ostante, Carlo continuò il suo
cammino, inflisse nel 779 una nuova disfatta ai Sas
soni, e poi ripassò per la terza volta le Alpi, venendo
in Italia, dove lo stato delle cose imperiosamente lo
chiamava.
A Ravenna allora era morto l’ arcivescovo Leone, ma
non era cessata del tutto l’ opposizione al Papa, al quale
avversissimi si mostravano sempre più anche i duchi di
Spoleto e di Benevento. Questi davano animo a tutti i
nemici, a tutte le terre che a lui si ribellavano, come
ora aveva fatto Terracina, che, seguendo l’ esempio di
Gaeta, s’ era dichiarata pei Bizantini. Di ciò il Papa
amaramente si doleva col Re, invocandone l ’ aiuto. E d
ora per la prima volta faceva ufficialmente allusione alla
donazione di Costantino a Silvestro. Nel determinare
però quali erano i domimi che pretendeva per la Chiesa,
si manteneva in limiti assai più modesti di quelli indi
cati nella donazione. Infatti egli accennava solamente ai
patrim oni spettanti a S. Pietro nella Toscana, nello Spo
etin o, nel Beneventano, nella Corsica e nel territorio sa
bino, patrimoni che i Longobardi avevano usurpati, ma
che erano della Chiesa, in conseguenza di donazioni fatte
da Imperatori, da Esarchi e da altri per la salute delle
loro anime, come poteva con documenti provare. Sem
brerebbe perciò che, ad eccezione del Ducato romano,
dell’ Esarcato e della Pentapoli, si trattasse, per ora al
meno, solo di poderi, di terre, e di case sparse in diversi
luoghi. Il Libro pontificale avrebbe quindi, in modo più
o meno indeterminato e vago, esagerato, mutando il di
ritto di proprietà sopra alcuni terreni in diritto di sovra
nità sulle province in cui essi si trovavano.
Il Papa si rivolgeva ora a Carlo, come a legittimo si
gnore, chiedendogli ciò che secondo lui apparteneva alla
Chiesa, difendendosi nello stesso tempo dalle calunnie
che gli erano state fatte da’ suoi nemici circa la corru
zione del clero, circa il commercio degli schiavi, che di
cevano da lui favorito, e che egli invece aveva condan
nato e cercato d’ impedire. Ma quello che è più notevole,
come prova della grandissima autorità che il Papa rico
nosceva sempre nel Re, gli chiedeva ora il permesso
di tagliare alberi nei boschi dello Spoletino, per avere
le travi necessarie a restaurare il tetto della chiesa di
S. Pietro. Ciò dimostra ad evidenza che Adriano era ben
lungi dal presumere di volerla far da padrone in quasi
tutta 1*Italia centrale e meridionale, come vorrebbe far
credere il Libro pontificale.
Verso la fine del 780 Carlo passava il Natale a Pavia
con la moglie Ildegarda, e i figli Carlòmanno e Lodovico. Sebbene fosse questa volta venuto in Italia senza
un esercito, la sua dimora fu pure importantissima, per le
leggi o capitolari che allora pubblicò, cercando di dare
assetto definitivo al governo del paese. Alcune di queste
leggi, già pubblicate in Francia, vennero ora sanzionate
in Italia; altre furono fatte specialmente per essa, e
quasi tutte a vantaggio della Chiesa. A questa egli as
sicurava la riscossione delle decime, aumentava le ren
dite; cercava di regolare anche il pagamento dei censi
che le eran dovuti, di determinare la dipendenza dai me
tropoliti, e di render sicura l’ amministrazione della giu
stizia per parte dei conti. Tutto ciò, com’ è naturale, di
pieno accordo e con soddisfazione del Papa, col quale il
15 aprile 781 passava la Pasqua in Roma, dove fece da
lui ribattezzare il proprio figlio Carlomanno, che prese
allora il nome di Pipino. E perciò d 'ora in poi Carlo
nelle lettere papali è chiamato sempre compater noster.
Nello stesso giorno Pipino venne dal Papa consacrato
re d’ Italia, e Lodovico re d’Aquitania: atto questo di
pura forma, giacché l’ uno di essi aveva appena com
piuto quattro anni, e l’ altro due solamente.
Certo tutto ciò accresceva non poco l’ autorità del
capo della Chiesa, il quale sembrava assumere ognor
più la facoltà di fare e disfare i regni. Ma il potere su
premo, effettivo e reale, anche in Italia, rimaneva nelle
mani di Carlo, il quale solo firmava i pubblici documenti
del regno, che uscivano ora dalla cancelleria franca.
CAPITOLO V i l i
Irene governa in Costantinopoli - Carlo sconfigge di nnovo i
Sassoni - Torna in Italia e sottomette il Frinii e Benevento - Combatte gli Avari - Dispute religiose - Morte di
Adriano I e suo carattere.
Adesso tutto sembrava andare a seconda di re Carlo.
In Costantinopoli a Costantino Copronimo era successo
Leone IV iconoclasta, ed a questo succedeva nel 786 la
vedova Irene, la quale venne incoronata insieme col figlio
Costantino V I di soli dieci anni. Ella, che era favorevole
al culto delle immagini, ed aveva, come donna, bisogno
di consolidare la sua posizione sul trono, fece subito
adesione alla Chiesa di Roma, e mandò a Carlo amba
sciatori, chiedendo sposa per suo figlio la primogenita del
Re, Rotruda, la quale aveva soli otto anni. Cosi pareva
si potesse sperare non solo che a Costantinopoli s’ an
dasse d’ accordo coi Franchi, ma che non si dovesse
porre alcun ostacolo al libero possedimento concesso
alla Chiesa dell’ Esarcato, della Pentapoli e delle terre
sulle quali essa poteva dimostrare di avere legale di
ritto. Se non che appunto quando sembrava che si fosse
per venire ad accordi, Carlo dovette improvvisamente
partire, per ripigliare l’ eterna guerra contro i Sassoni,
di nuovo violentemente insorti. Egli li vinse e punì se
veramente, avendone, si dice, in un sol giorno condan
nati a morte 4500. Ma questo, invece di domarli, li fece
insorgere con maggior violenza. Nell’ anno 788, in cui
perdette prima la moglie e poi la madre, dovè combat
terli da capo, e dette finalmente ad essi un’altra decisiva
disfatta. Dal campo di battaglia, che lasciò coperto di
cadaveri, se ne tornò ricco di preda in Francia, ove
diede sepoltura alla madre ed alla moglie, sposandone
ben presto un’ altra, Fastrada. Nella state del 785 egli
dette ai Sassoni una nuova e grande disfatta* Il loro ce»
lebre capo Vidachindo, che li aveva sempre guidati, si
sottomise e si converti al cattolioismo, il che fu come
il principio della sottomissione e conversione di tutto
il popolo. Ma per arrivare a un tal resultato Ciarlo
dovette successivamente spedire contro i Sassoni un»
dici eserciti, nove dei quali furono comandati da lui in
persona.
Sebbene in questo mezzo le cose d’ Italia fossero an
date sempre migliorando, e sempre a vantaggio dei Papi,
favoriti da coloro che governavano la Penisola in nome
di Pipino, ma sotto l’ autorità effettiva di Carlo, pure
Adriano I non era soddisfatto. Egli si rallegrava dei
trionfi del R e e della conversione dei Sassoni, ma chie
deva con crescente insistenza le glu»tizU di 8. Pietro,
senza determinar mai con precisione quali e quante ve
ramante fossero: pareva che le andasse di continuo ni
largando. Ora insisteva più specialmente sul territorio
della Sabina, che era stato, egli diceva, sempre promesso,
non però mai reso. E di simili lamenti son piene le eoe
lettere dal 781 al 783. — 11 Re, cori concludeva il J'*p*y
aveva fatto fare le sue indagini, per accertar*i del;v *t*v,
vero delle cose: s*erano per tutto interrogati gii an/.Uni.
e dopo esa&ran venato in chiaro d ogn, *//*£*, r.vn % era pv;
nulla ©oneroso. — Le *te**c
‘j Papa fe/$*v* *, *
imperatrice Lnene. per uve, e
c.ve cr*no *t*v, v,
alla Chiesa dai;
ne ^
,'v •*//;.. * e * .
t r o v o . E p r v e t r ì e t . 'i . v c v o *
,,t u*-
r* v ,
v
porrà aitine v.*v p.«et»v
^ L* ,
't
quelli» i'fjhm/iJsxw*. n v . ^ « .v^v v / v - v ^ w . v i wwv >
ancora un’ infausta scissura, quando si parlava sempre di
concordia e di amicizia. »
Certo le cose in Italia non erano quiete. 11 Papa si
doleva sempre di non aver le sa e terre ; Arichi duca di
Benevento, ritenendosi affatto indipendente, minacciava
di continuo i vicini per la voglia che aveva d’ ingrandire
il proprio Stato. Carlo tornava perciò da capo in Italia, e
dopo aver passato a Firenze il Natale del 786, continuava
il suo cammino verso Roma, avanzandosi alla volta di
Benevento. Arichi s’ èra armato con la intenzione di d i
fendersi in Salerno, dove poteva dal mare ricever soc
corso ; ben presto però venne ad un accordo col Re. Il
Duca si sottomise a lui nel modo stesso in cui i suoi
antecessori erano stati sottomessi al re dei Longobardi;
pagò un’ indennità, e diede in ostaggio il proprio figlio
Grimoaldo. Ma ora si turbarono le relazioni con Costan
tinopoli. Nel 787 andò a monte il matrimonio della figlia
di Carlo con Costantino figlio d’ Irene, il quale nell’ anno
seguente sposò una moglie armena. Carlo tuttavia non
poteva adesso pensare a ciò, perchè, celebrata la Pasqua
del 787 a Roma, dovette tornare in Germania a combat
tere il duca di Baviera, che in quell’ anno finalmente si
•sottomise del tutto.
Verso la fine del 787 s’ udì ad un tratto che nell’ an
tica Calabria era sbarcato Adelchi. Il Papa affermava che
questi veniva in aiuto del duca Arichi, con intenzione
di metterlo alla dipendenza di Costantinopoli, per p oi
fare insieme con esso uno sbarco a Ravenna. Ma quali
che fossero siffatti disegni, ben presto il duca Arichi e
suo figlio Romualdo morivano, lasciando al governo la
vedova Adalberga, accorta e risoluta, che parteggiava
manifestamente pei Franchi. Ella chiese a re Carlo che
liberasse 1’ altro suo figlio Grimoaldo, tenuto sempre
in ostaggio. Questi fu rimandato, e subito prese possesso
del Ducato, senza punto Deraparsi del Pupa, nè delle ri
chieste che esso ountiimamente faceva di terre, di diritti,
di giustizie efi S. Pietro. H Dnca s' apparecchiax'a intanto
alla guerra contro i Ricanti ni. d'accordo con Carlo, occu
pato sempre in Germania ove ben presto dovette combat
tere gli Avari. Questi erano gli avanzi che, scampati alla
rovina del loro impero ai tempi di Eraclio, sperano rifu
giati nella Pannonia, e per un momento ancora ricompari
scono sulla scena, avanzandosi un momento sino al Friuli*
Nel 788 soldati bizantini sbarcavano nell’ Italia meri
dionale in aiuto di Adelchi; e contro dì essi marciavano
insieme con alcuni Franchi mandati da Carlo, Grìmoaldo
coi suoi Beneventani e Ildebrando cogli Spolettai* I Bi
zantini furono ricacciati in Sicilia; Adelchi si ritirò, senza
che se ne sentisse piu parlare. E per tutti questi fatti la
potenza e l’ autorità di Carlo ne crebbero a dismisura in
Italia. Egli dimostrava però sempre una grandissima de
ferenza verso il Papa, cosi nelle grandi come anello nelle
piccole cose. Gli chiedeva perfino, quasi ad autorità su
periore nell’ Esarcato, il permesso di esportare da Ra
venna alcuni marmi e mosaici, per servirsene nelle co
struzioni che voleva fare in Aquisgrana ed altrove.
La sua operosità pareva che non dovesse aver mal
posa: ogni giorno sorgevano nuovi perìcoli, ai quali egli
prontamente riparava. Nel 791 era occupato nella guerra
contro gli Avari in Germania e nel Friuli. Noi 792 dovè
reprìmere una congiura del suo figlio naturalo Pipino,
detto il gobbo, il quale si ribellò perché era assai scon
tento d'essere stato esci oso dalla successione al trono
a vantaggio, come sembrava credere, del fratello Jeg;f~
timo, a coi s’ era, già lo vedemmo, dato recenfern*n*e lo
stesso suo nome. Ma ben presto f i 7;n*o e 'h iis o in on
convento. Anche Spoleto e Bene 7er.r0 davano a**ai da
fare colle loro continue minacce di ri ve..ione.
A questo tempo appunto, quando cioè gli Avari mi
nacciavano il Friuli, dovrebbe riferirsi il fatto cui ac
cenna una carta, ohe ha la data dell’ 824. Volendosi re
staurare le mura di Verona per metterla in istato di
difesa, sarebbe sorta una grave disputa tra la città ed
il Vescovo, a cui essa voleva imporre un terzo della
spesa, quando egli credeva di esser tenuto a pagarne
solo un quarto. Si venne perciò ad una specie di giu
dizio di Dio, il quale riuscì a favore del Vescovo. Da
una tal narrazione s’ è voluto dedurre, che fin d’ allora
esistesse un principio d’autonomia in qualcuna delle città
longobarde. Ma non si è punto sicuri che la carta sia
autentica, ed assai probabilmente essa accenna a fatti
di tempi posteriori.
Nel por mano alla sua opera legislativa e di orga
nizzazione dello Stato, Carlo si occupò continuamente
della organizzazione della Chiesa ed anche delle que
stioni religiose. Nel 794 radunava un Sinodo a Francoforte, pigliando parte vivissima alle dispute teologiche.
In una di esse combattè la così detta dottrina dell’Arfozianismo, che era venuta di Spagna, ed ammetteva la
doppia natura di Gesù Cristo, dichiarando che, come
Verbo, era sostanzialmente figlio di Dio, come uomo era
figlio solo per grazia e libera volontà del Padre. L ’ altra
disputa religiosa, non meno vivace, fu d’ indole diversa.
li settimo Concilio generale tenuto a Nicea (787), nel
sanzionare il culto delle immagini, aveva ammesso che
alle immagini dei Santi si dovesse come alla Croce rivol
gere la preghiera, accendere i lumi, bruciare l’ incenso.
Tutto ciò poteva non sembrare eccessivo in Oriente, dove
s’ accendevano i lumi e si bruciava l’ incenso anche di
nanzi all’ immagine dell’ Imperatore; ma così non era in
Occidente. E la cosa divenne anche più grave, quando nel
tradurre, per ordine di papa Adriano, le conclusioni del
Concilio, alla parola onorare i Santi, quale era nell’ ori
ginale, si sostituì l’ altra ben diversa, adorare. E quindi
il R e con ragione, dopo essersi opposto all’Adozianismo,
si oppose anche alla pretesa che ai Santi si prestasse
10 stesso culto in forma di latria, dovuto alla Trinità.
Se non che questo era un combattere mulini a vento,
essendosi a Nicea parlato di onorare, non di adorare.
11 Papa perciò, senza consentire alla condanna (e non
avrebbe potuto) delle recenti conclusioni di Nicea, non
le approvò neppure. E ciò egli fece, non solamente per
la forma insolita che avevano, ma anche perchè vo
leva far conoscere il suo malcontento a Costantinopoli,
dove non mostravano nessuna voglia di restituire le terre
che egli diceva usurpate alla Chiesa nell’ Italia meridio
nale. In sostanza si dimostrò contento delle deliberazioni
prese a Francoforte. Il 10 agosto dello stesso anno 794,
re Carlo perdeva la moglie Fastrada, e subito dopo do
vette ripigliare ancora una volta la guerra sassone, che fu
continuata energicamente nel 795.
Il giorno di Natale del medesimo anno moriva Adria
no I, sotto il cui papato erano, come abbiam visto, se
guiti. avvenimenti di grande importanza, sebbene non
sempre per sua personale iniziativa. È ben vero che egli
chiamò in Italia re Carlo, il quale distrusse il regno lon
gobardo ed iniziò il potere temporale dei Papi; ma pareva
che ciò fosse avvenuto più per forza inevitabile delle cose,
che per opera personale di lui. Nelle lettere a Carlo egli
ricordava sempre Costantino, « che aveva fatto la gran
donazione, perchè non era giusto che l’ Imperatore ter
reno esercitasse la propria potestà là dove l’ Impera
tore celeste aveva costituito il suo principato sacerdo
tale. » E teneva tanto alla propria autorità, che si dolse col
Re, quando questi accolse alcuni abitanti della Pentapoli,
i quali erano andati a lui senza averne ricevuto il per
messo dal Papa. « Come i Franchi, egli scriveva, non ven
gono a Roma senza licenza dei Re, così costoro non avreb
bero dovuto andare in Francia senza licenza del Papa. E
come questi rispetta il Patriziato del Re, cosi il R e d o
vrebbe rispettare quello di S. Pietro. » Nè voleva ammet
tere che Carlo s’ ingerisse negli affari di Ravenna, perchè
l’ Esarcato e la Pentapoli appartenevano ormai a S. P ie
tro. Ma queste erano tutte più o meno teorie ; padrone
di fatto era il Re. Adriano potè evitare molti pericoli,
riconoscendo il vero stato delle cose, e sottomettendosi
con prudenza alla necessità, non ostante le sue proteste
e le continue riserve per mantenere intatti i diritti della
Chiesa. 11 suo successore, che fu d’ un carattere più
intransigente, e rispettava un po’ meno le apparenze,
ebbe ben presto, come vedremo, a soffrirne gravi conse
guenze.
C APITO LO I X
Elezione di Leone III - Ambasceria franca a Roma - Irene
imperatrice - Gravi tumulti in Roma - Il Papa a Padeborn - Suo ritorno a Roma - Carlo viene a Roma, dove è
coronato imperatore dal Papa, il giorno di Natale 800.Il
Il giorno dopo la morte di Adriano I veniva eletto
Leone III, consacrato il 27 dicembre 795. Il suo pre
decessore, che nel 772 datava ancora le Bolle ponti
ficie secondo gli anni in cui l’ Imperatore aveva gover
nato, cominciò, dopo che Carlo fu padrone d’ Italia, a
datarle secondo gli anni del proprio pontificato, ricono
scendo però sempre la superiore autorità dell’Imperatore.
Leone I II invece le datò subito secondo gli anni del re
gno di Carlo « re dei Franchi e dei Longobardi, Patrizio
dei Romani, dopo la sua conquista d’ Italia. » Cosi fu rotto
il legame della Chiesa con Costantinopoli, da cui il nuovo
Papa veniva di fatto a dichiararsi indipendente. Il suo
primo atto fu di annunziare a Carlo la morte del prede
cessore e la propria elezione, inviandogli le chiavi d’ oro
di S. Pietro e la bandiera della città di Roma, come a
Patrizio, di cui egli senza esitare riconosceva la supe
riore autorità. Lo invitava nel medesimo tempo a man
dar suoi messi in Roma, per ricevere il giuramento di
fedeltà dal popolo.
Il concetto che Leone III s’ era formato del nuovo
stato di cose lo fece chiaramente vedere anche nel ce
lebre mosaico da lui ordinato, per metterlo nel triclinio
del Laterano. Esso è ora scomparso, ma una riprodu
zione, fatta nel 174S da una copia in disegno, se ne
vede oggi nella Piazza di Porta S. Giovanni in Late
rano, vicino alla basilica, sul muro esterno dell’edifizio
della Scala Santa. Di là le figure di quel mosaico sem
brano contemplare, attraverso la Campagna, gli uliveti
di Tivoli, e più lungi ancora gli Appennini umbri e sa
bini, il cui diafano colore di tanto in tanto, durante l’ in
verno, sparisce sotto la cortina di neve che li ricopre. Esso
è diviso in tre compartimenti. In quello di mezzo, che è
il più ampio, si vede la figura maestosa di Cristo circon
dato dagli Apostoli, che manda pel mondo a predicare il
Vangelo. Una mano è distesa a benedire, l’ altra tiene
un libro su cui è scritto : P ax vobis. Nel compartimento
a destra si vede di nuovo Cristo che siede tra papa Sil
vestro e l’ imperatore Costantino, i quali, in assai più
piccole proporzioni, sono inginocchiati ai due lati. Nel
compartimento a sinistra la grande figura di S. Pietro
sta con le chiavi sulle ginocchia, e ai due lati sono in
ginocchiati Leone III e re Carlo, anch’ essi in piccole
proporzioni. San Pietro dà al Papa una stola, ed al Re
la bandiera di Roma. Sotto si legge: Beate Petre donas
vita Leoni PP. et bictorià Carulo Regi donas.
A ll’ ambasceria mandata da Roma, Carlo rispondeva
con un’ altra, di cui parte principale era l ’ abate Angilberto, noto per la sua dottrina ed il suo amore alla poesia,
che gli fecero dare il soprannome di Omero. Le istruzioni
avute erano assai semplici. Doveva ricordare al Papa la
necessità di « serbare la santità della vita, e di provve
dere alla osservanza dei sacri canoni. > Ed il R e scriveva
poi direttamente ad Adriano : « Angilberto viene a discor
rere con Voi di tutto ciò che crederete necessario alla
esaltazione di Santa Chiesa e di Dio, alla stabilità del vo
stro onore e del nostro Patriziato. Noi vogliamo con V oi,
come già col vostro predecessore, stringere patti d’ al
leanza, ed avere la vostra benedizione. Spetta a noi,
mercè l’ aiuto di Dio, difendere di fuori con le armi la
Chiesa contro i pagani e gl’ infedeli, proteggerla dentro
con la conservazione della cattolica fede. Spetta a voi,
o Santo Padre, assistere le nostre milizie, con le mani
levate al cielo, come Mosè, affinchè il popolo cristiano
possa conseguire vittoria contro i nemici di Cristo. »
Carlo prendeva adunque l’ attitudine non solamente di
protettore del Papa, ma anche di sostenitore della vera
fede. L ’ ammonizione sulla necessità di serbare il buon
costume, dimostrava che era giunta in Francia notizia
delle molte e gravi accuse che in Roma si movevano al
Papa dai suoi nemici e calunniatori.
Tutto intanto continuava ad andare a favore del R e ,
ed insieme con la fortuna cresceva l’animo suo e dei suoi
seguaci. Il suo dotto consigliere Alenino gli ricordava
continuamente, che era stato chiamato da Dio ad essere
non solo il più potente sovrano del mondo, ma anche
il sostenitore della vera fede. Adesso non c’ era più d a
temer nulla dall’ Impero d’Oriente, divenuto tale che nes-
su do osava parlarne senza arrossire. Di là non potava mi*
n&ociare nessun parinolo. iteaBnna opposizione alla so ver*
chiante potenza di Carlo. Irene aveva cominciato a go
vernare eoi figlio Costantino T I , tenendolo sottoposto
sino ad umiliarlo non solo, ma anche a batterlo. ftgli se
ne emancipò finalmente, escludendola dal governo, e con*
finendola. Ma era eoa debole, cosi dissoluto, capriccioso
e violento, che nel 797 ima rivoluzione rimise sul trono
la madre, la quale potè non solamente deporlo, ma anche
adoperare contro di lui ogni violenza, facendogli da ul
timo cavare gli occhi: non riusci però a farlo monte
come aveva sperato. Non solo adunque sul trono di Co
stantinopoli si trovava una donna, il che non era mai
sino allora seguito, e pareva perciò enorme; ma questa
donna, colla sua condotta verso il figlio, aveva dimostrati)
di essere un mostro.
Nè andavano gran fatto meglio lo ooho a Roma, dove
la debolezza dell’ Impero e la lontananza di Corto av<>
vano di nnovo fatto scatenare selvagge passioni, I )mlh **
de clero, e i ju d icts de militia, che già da qualche
comandavano nella Città, si sollevarono, 1 pumi,
già vedemmo, eran ricchi prelati, and«ó o pMj »i»n «W.j
Papi- D i mezzo ad essi si sceglievano ) sttfe »>militi
che reggevano la Curia, ed *;nf/jjnj*if*v*no yl
della Chiesa; ed alla loro testa *j 1*w v w <l /'/</>//<*
rius, che nelle pubbliche ce/heo*- k v
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Papa. <£uesf ufficio, sotto Ac* *,«.c ) * «,«»
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a farla da padrone, e veniva perciò avversato da Leone III,
di cui era naturalmente nemico. Egli ed il sacellario Cam
palo (forse altro nipote del Papa defunto) si posero alla
testa dei judices de clero, e dei jud ices de militici, i quali
ultimi, formando l’ aristocrazia laica, comandavano l’eser
cito,* e tutti insieme volevano ora impadronirsi affatto
del governo della Città.
Il 25 di aprile 779, giorno di 8. Marco, destinato alla
processione delle solenni litanie, Leone H I, accompa
gnato da Pasquale e da Campalo, s’ avanzava a cavallo,
seguito dal clero, per la via che da S. Giovanni in Laterano conduce a S. Lorenzo in Lucina. Appena che
furono giunti a S. Silvestro in Capite, sbucarono colle
armi sguainate i congiurati, che assalirono il Papa, get
tandolo giù da cavallo e ferendolo. Cercarono poi, se
condo la barbara usanza bizantina, di accecarlo e di strap
pargli la lingua, lasciandolo a terra semivivo. Pasquale
e Campulo, che eran d’ accordo coi congiurati, s’ unirono
con essi, e chiusero il Papa nel vicino convento; poi, per
maggiore sicurezza, lo condussero a Sant’ Erasmo sul
Celio. La leggenda vuole che colà egli miracolosamente
riacquistasse gli occhi e la lingua, che la storia invece
crede non avesse mai perduti. I congiurati non osarono
procedere alla elezione d’ un nuovo Papa, tanto più che
essi non avevano cospirato contro il capo della Chiesa,
ma contro il signore della Città. Essendo Leone I II
guarito ben presto delle sue ferite, fu da alcuni dei suoi
famigliari, tra cui il ciambellano Albino, calato con funi
dalle mura del convento, e menato in S. Pietro. Colà
venne il duca di Spoleto, Guinigildo, coi suoi armati,
in compagnia d’ un messo di re Carlo, e lo condussero
a Spoleto. Un’ ambasceria fu subito mandata in Fran
cia, per render conto al E e dell’ accaduto, aggiungendo
che il Papa voleva parlargli. Carlo rispose che sarebbe
subito venuto in persona, se non fosse stato trattenuto
da una nuova spedizione contro i Sassoni. Lo aspettava
perciò a Padeborn, ed avrebbe inviato ad incontrarlo
P arcivescovo Ildibaldo di Colonia, il conte Ascario ed
il proprio figlio Pipino re d’ Italia, che lo avrebbero,
per maggior sicurezza ed onore, accompagnato fino a lui.
Il viaggio del Papa, in compagnia di molti prelati, fu
trionfale. Incontrò prima PArcivescovo, poi Pipino, che
con una parte delP esercito lo accompagnò a Padeborn,
dove Carlo lo accolse solennemente, alla testa delle $ue
schiere, le quali ricevettero in ginocchio la benedizione
papale. Il R e lo intrattenne poi con grandi feste, e gli
fece anche larghi donativi.
Da Roma, dove la rivoluzione imperversava, conti
nuavano intanto ad arrivare gravissime accuse contro il
Papa, e si pregava il Re che volesse sottoporlo ad un
giudizio, perchè si trattava di colpe tali da doverlo de
porre, se non riusciva a dimostrarsene innocente. La cosa
appariva infatti tale che Carlo, sebbene trattenuto dalle
cure della guerra, par che si decidesse a consultare P opi
nione del suo fido Alcuino circa Popportnnità di conti
nuare in persona la guerra, o recarsi invece subito a
Roma, per provvedere allo stato ivi sempre incerto e
tumultuoso delle cose. Ed Alcuino allora scrisse al Re
una lettera assai notevole, in cui gli diceva: «F in o ad
ora vi sono state nel mondo tre potestà: il Vicario di
San Pietro, sacrilegamente oggi ingiuriato e maltrat
tato; l’ Imperatore, laico, dominatore della nuova Roma,
il quale, in modo non meno barbaro, venne balzato dal
trono, su cui fu messa una donna ; e finalmente la regia
dignità da Gesù Cristo a Voi affidata, per reggere il po
polo cristiano. Essa ora sovrasta a tutti in sapienza e
potenza ; in Voi perciò è riposta la salute della Cristia
nità. Bisogna che prima pensiate a portare rimedio al
ca p o (cioè R om a \ per pensare dopo a guarire i piedi
(cioè i S a sson i e g li a ltri nem ici), i coi mali son sempre
meno pericolosi. »
1 Re, che si vedeva adesso invocato quale suprema
autorità dal Papa e dai Romani, era compreso della gra
vità delle cose, e desiderava recarsi senz’ altro indugio
in Italia. Pure, non essendogli ancora possibile muoversi,
lasciò ripartire Leone III, accompagnato dagli arcive
scovi di Colonia e di Salisburgo, da cinque vescovi, da
t re conti, i quali andarono col Papa, non solamente in se
gno d’onore, ma anche per iniziare il processo sui fatti
seguiti in Roma, e sulle accuse che gli erano mosse.
Per la sua qualità di capo della Chiesa, per la reazione
già cominciata in suo favore, e per la protezione che
aveva dal Re, il Papa fu accolto trionfalmente per tutto.
Il 29 novembre 799 era a Pontemolle, dove gli vennero
incontro il clero, le suore, il Senato, cioè i nobili, l’ eser
cito romano, il popolo, le scholae degli stranieri, can
tando salmi, e portando le bandiere in mano. Leone I I I
andò in S. Pietro ove dette la benedizione, ed ammini
strò la comunione. Il giorno seguente si recò in Laterano,
e colà, dopo pochi altri giorni, i commissari regi inizia
rono il processo nel nuovo triclinio, dove era il gran mo
saico da noi ricordato più sopra. Pasquale e Campulo si
presentarono tranquilli coi loro compagni; ma non avendo
potuto provare le accuse, ed essendo invece manifeste
le sanguinose violenze da essi usate contro il Papa, fu
ri mo arrestati e inviati in Francia, per essere sottoposti
al giudizio supremo e definitivo di Carlo, il quale ri
mandò la decisione al suo ritorno in Italia.
Nè il Re si poteva muovere ancora, a cagione delle
guerre contro i Sassoni, contro i Bretoni, e contro i Mu
sulmani nella Spagna. S’ aggiunse che il 4 giugno dell’ 800
moriva la terza ed ultima sua moglie legittima, Liutgarda.
Finalmente nell’ autunno di quell’ anno intraprese il suo
quarto e più memorabile viaggio in Italia. Veniva alla
testa d’ un esercito, in compagnia di suo figlio Pipino,
che da Ancona egli spedì contro il duca di Benevento,
che nuovamente minacciava di ribellarsi. Il 28 novem
bre era a Mentana, a 14 miglia da Roma, e colà gli
venne incontro Leone III col clero, l’ esercito ed il po
polo romano. Si trattennero insieme e desinarono; dopo
il Papa ritornò a Roma. 11 giorno seguente Carlo fece il
suo solenne ingresso in S. Pietro, dove Leone III lo
aspettava col clero.
Il 1° di dicembre il Re, circondato dai suoi vescovi,
abbati e baroni, sedeva come supremo giudice in S. Pie
tro, dove aveva convocato una grande assemblea, alla quale
assistevano le due aristocrazie ed il clero di Roma. Carlo
vestiva la toga e la clamide di Patrizio dei Romani, ed
accanto a lui sedeva il Papa, i cui.accusatori, ricondotti
di Francia a Roma, erano ivi presenti. Il Re espose
allora d’ esser venuto, come Patrizio e difensore della
Chiesa, per restituire in essa 1’ ordine turbato dalle in
giurie e dalle accuse mosse al capo della Cristianità.
La suprema autorità di Carlo era da tutti riconosciuta;
ma ciò non ostante riusciva assai difficile arrivare ad
una conclusione in questo giudizio. Provare davvero le
accuse mosse contro il Papa non era possibile, ma non
era facile neppure dimostrarle false. I vescovi inoltre
dichiararono unanimi che ad essi non era in nessun modo
lecito giudicare il capo supremo della Chiesa, che do
veva invece essere il loro giudice. I particolari del pro
cesso ci sono ignoti, e non conosciamo neppure la pre
cisa natura delle accuse. Certo è che il 23 dicembre, alla
presenza del Re, dei vescovi, del clero, dei Franchi, dei
nobili e del popolo romano, solennemente radunati in
S. Pietro, il Papa, salito sull’ ambone, posando la mano
sugli Evangeli, oan chiara fc «onora tude, àicànajaiTA dae,
seguendo J'-esempio dei prò decessori (fra ì gmuli ai p o
teva in latti citare Pelagio, ac.enfiato cT-av-sr cantrii»nàto ai Sa.
saorto di papa T ig lio . di sua spantaram volantà, senza
die Dessimo potesse g.udicarìa. fu ra v a cTessere affatto
iimocente di tutte quante le co lje di cui lo ir e ia n o
acculato. Il clero cantò allora solenni litanie, in ringra
ziamento a Dio ed alla T ergine. Certo Leone ITT s~indilige a quest'atto, perchè era parso necessario al R e.
senza il cui aiuto egli non avrebbe potuto governare. La
sua autorità di fronte alla Chiesa ed al popolo fu però
salva. Pasquale, Campulo ed i loro compagni vennero
condannati alla pena di morte, commutata poi nell'esilio
perpetuo in Francia, per intercessione, a quanto si disse,
dei Papa stesso. Quel giorno arrivarono a Roma dne rap
presentanti del Patriarca di Gerusalemme, che conse
gnarono a Carlo le chiavi della città e del S. Sepolcro.
Il giorno di Natale egli assisteva alla messa solenne, ce
lebrata in S. Pietro dal Papa, finita la quale andarono
insieme a pregare nel sepolcro del Santo. Quando Carlo
si levò in piedi, Leone III improvvisamente gli pose sul
capo la corona imperiale, e si narra che subito dopo, ingi
nocchiatosi, lo adorasse. Il popo’ o romano freneticamente
allora acclamò : C arolo , p iissim o , a u gu sto, a D eo coro
nato, m agno , pa cifico Im p era tori vita et victoria . Questa
coronazione iniziava un’ epoca nuova nella storia del
mondo.
L ’ annalista Eginardo afferma che essa fu un atto im
provviso ed inaspettato del Papa, compiuto ad insaputa
di Carlo, il quale avrebbe anzi dichiarato che, se avesse
potuto prevederlo, si sarebbe, non ostante la solennità
giorno, astenuto dall’ andare in S. Pietro. Molto
i • lisputato sulla verità di una tale affermazione. A l
cuni la credettero pura invenzione del cronista, altri in
vece una finzione del Re, il quale avrebbe fatto come
Tiberio, che pretendeva di ricusar l’ Impero da lui pur
tanto ambito. Sin dal tempo in cui il Papa era a Padebom sarebbe, secondo essi, stato fissato tatto, per la im
periale coronazione, la quale in nessun modo avrebbe
potuto essere un atto improvviso ed inaspettato. Biso
gnava almeno aver prima ordinato, preparato la corona,
concertato la solennità della funzione, la quale infatti
non riuscì ponto inaspettata ai presenti, che subito inte
sero ed applaudirono unanimi e clamorosamente.
Nella storia non mancano esempi simili, i quali pro
vano che, per spiegare le parole del Re, non c’ è biso
gno di ricorrere alla finzione ed alla malafede. Il Persigny
racconta, nelle sue Memorie, come fu lui che affrettò quasi
violentemente la proclamazione dell’ Impero, contro la vo
lontà di Napoleone III, il quale pur tanto e da così lungo
tempo lo ambiva e lo preparava. Gli sembrava però che
non fosse ancora giunto il momento opportuno, che il
Persigny credeva invece arrivato, e non voleva lasciarlo
passare. È probabile quindi che Carlo, il quale certo am
biva l’ Impero, avesse desiderato di apparecchiarne me
glio la proclamazione e determinare prima la forma della
solennità; e che il Papa invece, appunto per non esser co
stretto ad accettare qualche formola o condizione a lui
poco gradita, avesse affrettato la decisione, presentando
il fatto compiuto. A lui importava sommamente, che la
coronazione e la proclamazione dell’ Impero apparissero
come opera del capo visibile della Chiesa, quale stru
mento di Dio, coll’ acclamazione del popolo romano, che
rappresentava l’universo popolo cristiano. Leone III vo
leva essere l’ iniziatore, il creatore del nuovo Impero,
perchè tutto riuscisse a vantaggio della religione, a sem
pre maggiore incremento dell’ autorità della Chiesa.
Su questo grande avvenimento, come è naturale, molto
27
si discusse e molte teorìe si esposero. Carlo, secondo al
cuni, fa proclamato imperatore dal Senato e dal popolo
romano; secondo altri invece lo elesse e consacrò il
Papa; secondo altri ancora l’ Impero fa conseguenza della
conquista. Causa prima fu però sempre riconosciuta la
volontà di Dio, di cui gli uomini sono strumento passivo.
Il fatto vero è che l’ Impero non fìx conseguenza di
nessuna teorìa, ma resultato inevitabile di una storica
necessità. La Chiesa aveva bisogno d ’ essere difesa e
protetta; il Papa perciò aveva chiamato i Franchi, e con
le sue mani, di propria iniziativa, in nome del Signore,
incoronò Carlo. Ma, dopo averlo incoronato, si era ingi
nocchiato dinanzi a lui. Chi dunque era superiore l’ Im
peratore o il Papa? Questo è ciò che solo l’ avvenire po
trà decidere. Per ora è il Papa che ha creato l’ Impero,
della cui protezione ha bisogno. La Chiesa, separatasi da
Costantinopoli, è dentro il nuovo Impero, alla testa del
quale si trova Carlo, a cui la posterità dette il titolo di
Magno. Di fatto sin d’ ora egli solo veramente comanda,
perchè solo ha la forza.
Ma l’ Impero era di sua natura universale, e quindi non
poteva essere che uno solo, quello cioè d’ Oriente, la cui
sede si trovava a Costantinopoli. L ’ Impero che in pas
sato venne chiamato d’ Occidente, non era stato che un
episodio passeggierò ed effimero già da lungo tempo
scomparso. Erano infatti decorsi tre secoli, dacché gli
ambasciatori d’ Odoacre e di Augustolo avevano deposto
le insegne imperiali nelle mani di Zenone, dicendogli
che l’ Occidente non aveva bisogno di un proprio impe
ratore, bastando a tutti quello di Costantinopoli, di cui
T Italia, sede primitiva, era sempre parte integrante. Il
nuovo Impero franco, adunque, pur essendo conseguenza
d’ una storica necessità, non aveva nessun fondamento
giuridico. E forse anche perciò Carlo aveva desiderato di
proceder cauto circa il tempo ed il modo della procla
mazione. Tuttavia il momento che Leone I II aveva scelto
era stato assai opportuno. Il re franco aveva allora vinto
tutti i suoi nemici, aveva fortemente costituito ed esteso
il proprio regno ; il Papa, riconosciuto innocente, era tor
nato sulla cattedra di S. Pietro più autorevole che mai.
Il giorno della incoronazione era stato quello a tutti sacro
della nascita di nostro Signore, della redenzione cioè del
genere umano. Sul trono di Costantinopoli, come abbiam
visto, si trovava una donna, e questa donna era un mo
stro, che non poteva far paura a nessuno. Ciò non ostante,
il grande avvenimento ora compiuto era pieno di equi
voci e di pericoli, dei quali si dovevano sentire le gravi
conseguenze. Per ora l’ autorità morale del Papa ne era
cresciuta a dismisura.
Dopo una dimora di cinque mesi, nell’ aprile 801, ce
lebrata la Pasqua, e lasciato a Pipino l’ incarico di conti
nuare la guerra contro Benevento, Carlo se ne tornò a
Pavia dove pubblicò alcune altre leggi, che aggiunse
a quelle dei Longobardi, ed assunse il titolo di « Serenis
simo Augusto, coronato per divino volere, reggente l’ Im
pero dei Romani, e per grazia di Dio re dei Franchi e
dei Longobardi. » A ll’ Italia superiore egli lasciò una pro
pria autonomia, senza annetterla alla Francia, consideran
dola piuttosto come una sua conquista personale. Invece
dei Duchi pose dei Conti, che scelse fra i Longobardi, e
che erano, come già dicemmo, meno potenti e più sotto
messi, con territori meno estesi. L ’ unità e la forza del
governo, la fusione dei vinti e dei vincitori fecero allora
un grande progresso. I Gastaldi, non più necessari, si mu
tarono in semplici amministratori, e dipesero dai Conti,
che rendevano giustizia, non più di propria autorità come
i Duchi, ma per delegazione del sovrano. L ’ eribanno, o la
convocazione dell’ esercito, appartenne al solo Imperatore
che andò ognor piò limitando il potere dei Duchi, per
messo dei M itri dominici, i quali presso i Franchi di
vennero nna istituzione regia di primaria importanza, e
per mezzo di essi V Imperatore vegliava sa tutta FammiDistrazione. Nei giudizi egli giudicava come vero sovrano,
anche secondo equità, quando mancava una speciale di
sposizione di legge. Questa facoltà che in parte era con
cessa ai duchi longobardi, non lr avevano i coati fianchi.
Carlo si occupò anche dellTordinamento giudiziario, che
presso i barbari serbò lungamente le tracce della sua ori
gine. Dapprima ognuno ai faceva giustizia da se ; poi la
giustizia venne amministrata dal popolo ; piu tardi ancora
dal sovrano, che rappresentava lo Stato. Nel Medio Evo
prevalse un sistema misto. Il popolo partecipava all’ am
ministrazione della giustizia insieme col R e, che giudi
cava solennemente, circondato dai Grandi della Corte, e
dai suoi giudici palatini, dinanzi alle assemblee popolari,
chiamate placito, che per delegazione potevano essere
presiedute dai Conti. Accanto al sovrano o al suo dele
gato v’ erano magistrati che dirigevano queste assemblee,
e conoscevano bene le consuetudini. A poco a poco il po
polo cominciò a non intervenire regolarmente ai p la cito ;
e le leggi scritte che vennero aggiunte alle consuetudini,
o furono sostituite ad esse, erano meno facilmente cono
sciute. Divenne allora necessario nominare magistrati
temporanei periti nelle leggi e capaci di formulare le sen
tenze. Questi magistrati furono da Carlo resi permanenti,
e vennero chiamati Scabini. Erano eletti nei placito in
presenza del Conte; e i Missi dominici ne approvavano
la nomina quando li trovavano idonei.
La forma generale della società e del governo franco
differiva molto dalla longobarda, specialmente nel sno
maggiore accentramento, nella maggiore autorità poli
tica, militare e giudiziaria del sovrano. Pei Franchi non
c’ era differenza tra il patrimonio dello Stato e quello
del R e. Ourtis regia, Palatium publicum, Res publica
erano una sola e medesima cosa: il sovrano poteva
concederli in beneficio o anche donarli. Le terre dema
niali, e quelle confiscate che per mancanza d’ eredi ve
nivano al demanio, facevano parte anch’ esse del patri
monio regio. Il Re dava l’ amministrazione di tutto ciò a
suoi ufficiali, che non erano indipendenti come i Gastaldi
longobardi ; ovunque e sempre la sua forte individualità
aumentava la sua morale e materiale potenza.
La continua e febbrile attività di Carlo si manifestava
in mille modi diversi. Forte, alto, bello della persona, fa
condo e valoroso, con occhi vivacissimi, sempre instan
cabile^ egli era non solo un capitano ed un uomo di Stato
di primissimo ordine, ma anche un gran promotore di
opere pubbliche, come furono generalmente tutti i grandi
sovrani. Nel 793 lo vediamo occupato ad esaminare la
proposta d’ un canale, che avrebbe dovuto congiungere
il Reno ed il Danubio, impresa gigantesca, superiore alla
capacità di quei tempi e che solo ai nostri giorni potè es
sere eseguita. Molti canali, strade, ponti, tra cui uno gran
dissimo sul Reno a Magonza, furono da lui costruiti. E
cosi pure molte chiese, fra le quali è celebre, pel suo te
soro, le sacre reliquie e le memorie, quella che anche oggi
è continuamente visitata dal forestiero in Aquisgrana, e
venne costruita a similitudine della chiesa di S. Vitale in
Ravenna. Ma la più parte di questi edilìzi è ora scom
parsa, nè a Carlo, non ostante i suoi lodevoli sforzi, riu
scì di fermare la decadenza dell’ architettura. Quello
che dà un’ altra prova della sua varia attività e del suo
alto intelletto, si è l’osservare come, sebbene egli fosse
cosi poco culto, che imparò assai tardi a leggere, nè mai
riuscì a scrivere con facilità, e sebbene fosse di uno
spirito e di un carattere essenzialmente germanico, fu
-132
urna quarto, cap. ri
anche no© dei pHi grandi promotori della coltura zre<
romana. Quando appena la guerra gli lasciava un se
monto di riposo, noi lo vediamo nello stesso tempo I
«mieterò, giudice supremo, iniziatore di opere pubblici]
e gran Mecenate, circondato di dotti, con piena intei
gonza di qnella coltura, che non possedeva, ma di c
comprendeva tutta l’importanza.
Presso di Ini troviamo fin gli altri Paolo Diacono,
storico dei Longobardi; nomo di varia coltura, che <
nesce va il greco, e scrisse parecchie opere in prosa i
in verso. Caro a Raehi ed a Desiderio, fa prima nel
Corte di Pavia, poi in qnella di Benevento: assistè al
rovina del regno longobardo, e si ritirò frate bened<
tino a Monte Cassino. La sna famiglia dovette essei
mescolata nelle congiure contro Carlo, giacché un si
fratello, come già vedemmo, fh tenuto dal Re in du
prigionia. Questo indusse Paolo, che sapeva in quas
stima l 'Imperatore tenesse i dotti, a scrivergli e pei
rare la causa del fratello. Dopo di che andò egli stesi
alla Corte, dove fu assai bene accolto, vi restò neg
anni 783-86, e par che la sua preghiera fosse esaudii
Ma l'amore della patria lontana lo richiamava, e se i
tornò a Monte Cassino, dove scrisse la sua Storia d
Longobardi. Per mezzo di altri dotti, che vennero
Francia o che vi erano nati, Carlo potè fondare nel pr
prio regno molte scuole, la principale delle quali sole!
risiedere nel sno Palazzo in Aquisgrana, e spesso lo s
guiva con la Corte nelle sue peregrinazioni. Essa fu d
retta da Alcuino, nato in Inghilterra, dove venne educai
nella scuola di York, in cui fioriva quella cultura, ci
dall’ Irlanda era passata nell' Inghilterra. In essa il doti
Inglese acquistò la conoscenza della filosofia e dei classi
latini, pei quali ebbe grande ammirazione. Carlo lo c
ng^jf^Jtulin, o lo invitò subito in Francia, dove Alcuii
andò con alcuni suoi compagni, e fa ivi l’ iniziatore della
grande scuola, d ie diresse, e che era una specie di Acca
demia, alla quale il S e soleva assistere coi suoi figli. Vi
s* insegnavano il Trivio, il Quatrivio, la Teologia; e i suoi
principali componenti, assumevano nomi greci, romani
o b ib lici S e Carlo era chiamato David, Alenino ebbe
il nome di Fiacco, il suo compagno Angilberto quello
d* Omero, e cosi gli altri. Dal 782 al 796, Alenino rimase
alla testa della scuola, la quale promosse grandemente la
cultura non solo in Francia, ma anche in Europa. Ed il S e ,
fra le altre non poche elargizioni, concesse a questo suo
dotto e fido consigliere la ricchissima abbazia di S. Mar
tino, nella quale esso finalmente si ritirò e potè scri
vere molte delle sue opere. Parecchi altri furono i dotti
che vissero nella Corte di Carlo. Eginardo, nobile dell’Austrasia (770-844), ebbe anch’ egli dono di ricche abbazie
dal sovrano, di cui scrisse la vita; e fu autore di Annali
preziosi per la storia del tempo. Angilberto, nobile della
Neustria, dopo avere avuto vari figli, si fece ecclesiastico
e divenne autore di poesie e di opere storiche. Altri non
pochi nobili furono da Carlo incitati a coltivar le lettere,
e fondarono scuole nelle loro città episcopali. Questo glo
rioso sovrano promosse la cultura non solo nelle lettere,
ma in tutte quante le possibili manifestazioni; anche la
musica ed il canto furono da lui protette. Si occupò della
revisione dei manoscritti della Bibbia, e della sua diffu
sione, come della diffusione delle opere dei SS. Padri.
Persino la scrittura sotto di lui migliorò, e prese una
forma nuova, che si chiamò carolingia.
La costituzione dell’ Impero franco fu il fatto capitale,
centrale di tutto quanto il Medio Evo. Esso strinse tem
poraneamente in una forte unità paesi e popolazioni as
sai diversi, promosse la fusione dei vinti e dei vinci
tori, dei Teutonici e dei Romani, dello spirito germanico
e dell» coltar» greco-romana ; favorì, temporaneamente
almeno, raccordo dello Staio colla Chiesa, la quale fa da
(h rlo colmata di favori. Egli cercò costantemente di pro
teggerla e di migliorarne la costituzione, presumendo as
sai spesso di vegliare anche alla purità della fede. Fuori
d'Italia egli nominò i vescovi, e cercò da per tatto te
nerli d ’ accordo fra di loro, col Papa e coi Conti, valen
dosi a ciò dei Mimi dominici, i quali, appunto perchè dove
vano provvedere alla giustizia ed alla religione, solevano
esser due, tino laico, l’ altro ecclesiastico.
Ma tutto questo grande organismo dell’ Impero, se era
un fatto storico e necessario, era anche l’ opera personale
di un uomo di genio: doveva perciò, in parte almeno, ca
dere insieme con lui. Dopo la morte di Carlo infatti, i
suoi successori, come tante volte era seguito tra i Fran
chi, furon subito tra di loro in guerra. E questa guerra,
per la vastità dell’ Impero, e per gli elementi cosi diversi
di cui esso era composto, divenne anche più aspra. Una
società nuova s’ era andata formando, nella quale il di
verso spirito nazionale dei vari popoli cominciò a reagire,
a manifestarsi irresistibilmente, decomponendo la tem
poranea unità formata dal genio militare e politico d i
Carlo. In Italia l ’ Impero non andò oltre il Garigliano,
ivi essendosi fermata la conquista vera e propria. U du
cato di Benevento riuscì a salvare la sua indipendenza,
e quindi colà sopravvisse per qualche tempo ancora la
società longobarda. È da questo momento infatti che
l’ Italia meridionale comincia ad avere una storia se
parata e diversa assai da quella di tutto il resto della
Penisola. Oltre di ciò la Chiesa e lo Stato, il Papa e
l’ Imperatore ben presto si trovarono fra di loro in lotte
aspre e violenti, che contribuirono non poco a indebo
lire sempre più la nuova società, formata dall’ Impero
franco, la quale s’ andò, con la costituzione del feuda
lismo, sgretolando in mille grappi secondari. In mezzo
al feudalismo ed in opposizione con esso si formeranno
e sorgeranno rigogliosi i nostri Comuni, i quali saranno
il primo resultato della fusione di due popoli e di due
società, iniziata dall’ Impero, e daranno origine alla ci
viltà moderna. Ma prima che i Comuni riescano a costituirsi, bisogna che l’ Europa e l’ Italia percorrano an
cora un nuovo periodo di profondo dolore, di grande
disordine e quasi di anarchia.
INDICE ALFABETICO
A cacio, patriarca di Costantinopoli. Condannato e scomuni
cato, 134, 136, 164.
A dalberga, vedova d’Arichi (II) duca di Benevento, 404.
A daloaldo, figlio di Agilnlfo re de7Longobardi. Fatto da Ini
battezzare, 295 ; e proclamare sno successore, 297. Costretto
a fuggire, 301.
Adelchi, figlio di Desiderio re de7Longobardi. Si chiude in
Verona, 387. Riesce a scampare dopo la resa di quella città
ai Franchi, e si rifugia a Costantinopoli, 388, 394, 398. Torna,
ma è respinto, 404, 405.
Adozianism o, dottrina teologica, 406.
Adriano I, papa, 384. Resiste alle lusinghe e alle minacce
di Desiderio re de’ Longobardi, 384. Fa imprigionare Paolo
Afiarta, capo del partito longobardo in Roma, 385. Si appa
recchia a resistere con 1’ armi a Desiderio, e sollecita gli aiuti
di Carlo re de’ Franchi, 386. Spoleto e altre città gli fanno
atto di sottomissione, 389. Riceve in Roma il re Carlo, 391 ; e
della donazione di terre da esso fattagli, 391 e segg. D’ un con
flitto tra lui e l’Arcivescovo di Ravenna, 396. Chiama di nuovo
re Carlo in difesa dell’ autorità della Chiesa, e dei suoi do
mimi, 397 ; e quali fossero i dominii cui pretendeva, 400,403.
Chiede la restituzione di alcune terre tolte alla Chiesa in Ita
lia dai Bizantini, 403, 407. Muore, 407. Riassunto del suo
pontificato e delle sue relazioni con Carlo re de’ Franchi, 407,
408. Come datasse le sue bolle, 408.
Adrianopoli. Combattuta da’ Goti, 48, 49.
Afiarta. V. P a o l o cubiculario.
Africa. Resiste ostinatamente ai Romani, 2, 3. Fornisce grano
all’ Impero, 5. Forma, con l’ Italia, una delle quattro Prefet
ture di esso, 31, 58. Vi scoppia una guerra tra i generali
romani ; e della invasione in essa de’ Vandali, 87 e segg. Re
sta divisa tra questi e i Romani, 91. Riconquistata all’ Im. pero, 181 e segg. Vi scoppia una rivolta, tosto domata da
Belisario, 185.
Agilulfo, duca longobardo. Sposa Teodolinda, e diventa re, 287.
Si trova in grandi difficoltà, e si regge con altrettanta pru
denza, 288. Conclude un accordo co’ Franchi, 288. Attende
a risottomettere alcuni Franchi ribelli, 289. Assedia Roma, 291 ;
poi si ritira, 292. Disposto ad accordarsi col Papa, 293. Prende
e distrugge Padova, 294. Il Papa ha grande azione su lui, 295.
Fa battezzare il figliuolo, 295. Prende od abbatte altre città
de’ Bizantini ; poi fa pace con loro, 296. Fa proclamare suo
successore il figliuolo, 297. Rinnova la pace co’ Bizantini, 297.
Muore, 298. Del favore da lui accordato ai Cattolici, 300 ; e
della opinione che anch’egli si convertisse al Cattolicismo, 300.
Agnello, cronista ravennate, 146, 326, 327.
Aione, duca di Benevento, 309.
Alachi, duca longobardo di Trento. Si ribella al Re, e usurpa
il regno, ma n’ è cacciato, 322 ; e ucciso, 322. Accenni alla sua
guerra per ricuperare il regno, 323.
AIm iì . Disfatti dagli Unni, 44. Invadono la Gallia, 67. Com
battuti e vinti dai Goti, 82. Seguono gli Unni, 96.
Alarico. Educato all’ armi nelle legioni romane, 25. Combatte
sotto l’ imperatore Teodosio, 52 ; ed è capo dei Visigoti, fe
derati dell’ Impero, 60. Si disegna di spingerlo dall’ Oriente
in Occidente, 62. Eletto per loro re dai Visigoti, 63. Fa una
invasione in Grecia, ed è respinto, 64. La sua mira diventa
l’ Italia, 64. Battuto da Stilicone, 66; dopo la cui morte si
fa più potente e minaccioso, 71. Non intende impadronirsi
dell’ Impero ma di farne parte, 71. Assedia Roma e la co
stringe a pagargli un tributo, 73. Vorrebbe venire a un ac
cordo con l’Imperatore, che si rifiuta, 74. Pone di nuovo l’ as
sodio a Roma, 74; e vi entra, 75; ma poco vi rimane, 75;
Muore, 76.
Alarico (H )f re de’ Visigoti. Sposa una figlia di Teodo
rico, 158.
Albano. Occupata dai Bizantini, 197.
Albino, patrizio romano. Accusato di congiurare contro Teodorico, 166; e condannato, 167.
Alboino. Uccide Torismondo figlio del re dei Gepidi, 252. Suc
cede al padre nel regno de’ Longobardi, 253. Della sua alleanza
con gli Avari, 253. Vince e stermina i Gepidi, 254 ; e uccide
Cunimondo loro re, e ne sposa la figliuola, 254. Sua invasione
e conquista d’ Italia, 254 e segg. Della sua morte, 258.
Albsuinda, figlia d’Alboino, 259.
Alenino, consigliere di Carlo re de’ Franchi, 410. Sue lettere
a Carlo, ricordate, 410, 413. Altre notizie di lui, 422.
Aligemo, goto, fratello di Teja. Si chiude in Crema, 239, 241.
Si arrende, e combatte poi per l’ Impero, 242, 243.
Alsasia-Lorena, 78.
Amalafrida, sorella di Teodorico. Sue prime e seconde nozze
ricordate, 158, 173; e altre notizie di lei, 174, 181.
Amalarico, figlio di Alarico II re de’ Visigoti, 159.
Amalasnnta, figlinola di Teodorico degli Amali re degli Ostro
goti, 158. Moglie di Entarico, 160. Vedova, e tutrice del
figliuolo Atalarico, 171. Sno governo, 171 e segg. I Goti le
sono avversi, 172 e segg. Vorrebbe andare a Costantinopoli,
poi ne depone il pensiero, 174. Morto il figliuolo, si associa nel
regno Teodato; da cui viene poi confinata e uccisa, 175.
Amali. Nobile stirpe degli Ostrogoti. V. T eo d o H c o .
Anastasio, imperatore. Sue relazioni con Teodorico re degli
Ostrogoti, 148, 160. Favorisce Clodoveo re de’ Franchi, 159.
Muore, 163.
Anastasio H , imperatore, 328.
Anastasio H , papa, 161.
Ancona. È in mano de’ Bizantini, 226; ma in procinto di ar
rendersi ai Goti, 229. Questi si ritirano dall’ assedio, 234.
È sempre in mano de’ Bizantini, 257 ; e fa parte della Pentapoli, 279. Giura obbedienza al Papa, 389.
Angilberto (abate). Ambasciatore di Carlo re de’ Franchi al
Papa, 410. Altre notizie di lui, 423.
Anglo-Sassoni. Gregorio I vuol convertirli al Cattolicismo, 286.
Ansprando. Perseguitato da Ariberto II, usurpatore del trono
de’ Longobardi, che poi costringe a fuggire, 323, 324. Sale
sul trono, ohe poi lascia al figliuolo Liutprando, 324.
Antemio (Procopio). Eletto imperatore d’ Occidente, 121. Si
unisce con quello d’ Oriente contro i Vandali, 121, 122. Discor
dia tra lui e il generale Ricimero, 123 ; e sua uccisione, 123. *
Antonina» moglie di Belisario, 180. S’ adopra per l’ elezione
di papa Vigilio, 196. Sua infedeltà verso il marito, e suoi
intrighi alla corte di Costantinopoli, 213, 214. È col marito
in Italia, 223. Torna a Costantinopoli per ottenergli aiuti
d’ anni, 226.
Antonino» patriarca di Grado, 337, 344.
Antrnstionos nel regno dei Franchi, 357.
Aqnileia. Presa e distrutta da Attila, 106. Ivi presso avviene
la prima battaglia tra Odoacre e Teodorico, 142. Il ano pa
triarca l’ abbandona nell’ invasione de’ Longobardi, 256.
Aqnitania» regno franco, 351.
Arabi. V. M u s u lm a n i.
Arbogaste» generale franco, 51. Domina l’ imperatore Valentiniano II, 51 ; e pretende all’ Impero dopo la sua morte, 52.
Sconfitto dall’ imperatore Teodosio, si uccide, 53.
Arcadio, imperatore d’ Oriente, 57. Affidato da Teodosio suo
padre alle cure di Rufino, 58 ; di cui in breve si mostra in
tollerante, 60. Sposa Eudossia figlia d’ un generale franco, 60.
Sotto di lui l’ Oriente è liberato dai barbari, 62. Consente ad
Alarico di stabilirsi coi Goti nell’ Illirico, 64.
Ardaburio, generale dell’ Impero d’ Oriente, 85.
Ariani, eretici. V. A r ia n i e J fanariosi. Editto pubblicato con
tro di loro, 71, 74. Ricordati. 134. Perseguitati, 164, 169.
Ariani e A tan affi ani, 33 e segg. La loro disputa divide i
Cristiani, 37. Durante la loro controversia una parte dei
Goti si converte al Cristianesimo (Arianesimo), 40.
Ariberto H , re de’ Longobardi. Suo regno, sue crudeltà, 323 ;
sua morte, 324.
Arichi, duca longobardo di Benevento, 289. Aocoglie i figlinoli
orfani di Gisulfo, duca del Friuli, 298; che gli succedono,
uno dopo l’ altro, dopo la sua morte, 309.
Arichi (II), duca di Benevento. Si comporta da sovrano in
dipendente, 395. Cospira contro Carlo re de’ Franchi ed il
Papa, 397 e segg. pass. Si prepara a resistere a Carlo, poi
viene con lui a un accordo, 404. Muore, 404.
Ario. Sua dottrina teologica, 34 e segg.
Ariovaldo, re de’ Longobardi, suo avvenimento al trono, e sua
morte, 301, 308.
Ariovisto, 10.
Ariperto, re de’ Longobardi, 316.
Arinlfo duca di Spoleto. Minaccia Roma, 290 ; e il Papa con
clude con lui una pace ; che poi si rompe, 291.
Armenia (di) Isaace, 222.
Arminio, 10.
Aspar, generale dell’ impero d’ Oriente, 85, 90. Sua poten
za, 119, 122. Sua rovina e sua morte, 122, 123.
Assemblea generale presso i popoli germanici, 21.
Astolfo, re de’ Longobardi. Occupa Ravenna, e minaccia Roma
ed il Papa, 363 ; e inutili tentativi fatti dal Papa e dall’ Im
peratore per indurlo alla restituzione, 363, 365 ; onde il Papa
si rivolge ai Franchi per aiuto contro di lui, 364 e segg. Altri
inutili tentativi del Papa e di Pipino re de’ Franchi presso
di lui, 366, 369. Costretto ad arrendersi ai Franchi e a ce
der Ravenna e altre terre, viola l’ accordo fatto e di .nuovo
invade il territorio romano, 370. Di nuovo assalito, e di nuovo
costretto ad arrendersi e a fare altre cessioni, 371. Muore,
riassunto della politica da lui seguita, 372.
Atalarico, figlio di Amalasunta, e nipote e successore del re
Teodorico in Italia, 171. Chiede di essere adottato dall’ Im
peratore, ma non V ottiene, 172. ' Educato alla romana, di
che si dolgono i Goti, 172, 173. Muore, 174.
Ataoarico, capo d’ una parte dei Visigoti, 41, 46.
Atanasiani. V. A r i a n i e A ta n a s ia n i .
Atanasio. Sua dottrina teologica, e come fortemente la sosten
ga, 34 e segg. Essa trionfa sotto l’ imperatore Teodosio, 53.
Ataulfb, re de’ Goti, 77. Sue buone disposizioni verso l’ Im
pero, 77. Conduce i suoi nella Gallia, 78 ; e sue imprese, 79, 80.
Sposa Galla Placidia, sorella d’ Onorio imperatore, 80. Vuol
trasferirsi nella Spagna, 81. Ucciso, 81.
Attalo, greco, proclamato imperatore d’ Oriente, 74. Preso e
mandato a Costantinopoli, 82.
A ttila, re degli Unni. Estensione del suo regno; sue qualità
fisiohe e morali, 95, 96. Sue relazioni con l’ Impero, 97 e segg.
Di una congiura ordita in Costantinopoli contro di lui, 98. Del
suo palazzo e di un gran banchetto, 99 e segg. Muove guerra
all’ Impero in Occidente, 102. Grande battaglia tra il suo eser
cito e quello dei Romani e Visigoti presso Chdlons, 104 ; dopo
la quale si ritira, 105, 106. Viene in Italia, distrugge varie
città ond’ è appellato F la g eU u m D e i , 106. Minaccia Roma, 107.
Influenza che esercitano su lui l’ Impero e la religione Cri
stiana, 107. Gli è inviata da Roma un’ ambasceria con a capo
il pontefice Leone, 107 ; e dopo il colloquio avuto con lui si
ritira, 109. Sua morte, 110; e scomparsa del suo vastissimo
regno, 111.
Audefleda, moglie di Teodorico re de’ Goti, 158.
Audoino, padre di Alboino, 252.
Aureliano, imperatore. Cede ai Goti la Dacia, 22.
Anatrasi», regno franco, 351 e segg.
Autari, re de’ Longobardi. Sua elezione, 265. Dà una grande
sconfitta ai Franchi, 267. Delle sue nozze con Teodolinda, 267.
Organizza il regno ed estende le sue conquiste, 268 e segg.
Muore, e suo elogio, 270.
Avari, 44. Delle loro relazioni coi Longobardi e coi Bizan
tini, 253, 294, 295. Loro invasione nel Friuli, 297, 298. Al
leati coi Persiani contro l’ Impero, 302, 303. Scompaiono dalla
storia, 303, 304. Presso di loro si rifugia Bertarido cacciato
dal trono dei Longobardi, 321. Sconfiggono e uccidono un duca
del Friuli, 321. Accenni a una guerra di Carlo re de’ Franchi
con loro, 405, 406.
Avito. Mediatore d’ un’ alleanza tra Visigoti e Romani, 103.
Eletto imperatore d’ Occidente, 117. Deposto e costretto a
prendere la tonsura, 119,
Baduario. Mandato da Giustino imperatore in Italia, 262, 279.
Barbari. Arrolati negli eserciti Romani, di cui presto formano
la maggior parte, 3, 5. Invasori dell’Impero. V.
G erm a n i, G o ti,
U n n i, V a n d a li, F r a n c h i.
Basilio, duca bizantino, 332.
Basilisco, generale romano. Combatte infelicemente contro i
Vandali, 122. Càccia dal trono Zenone imperatore d’ Orien
te, 130, 134.
Belisario, generale bizantino, 176. Sue prime imprese mili
tari, ricordate, 179, 180. Sua guerra in Africa contro i Van
dali, 181 e segg. ; dopo la quale è calunniato presso l’ Im
peratore, 183. Della sua guerra in Italia oontro i Goti, 184
e segg. Conquista la Sicilia, 185. Accorre a sedare una ri
volta in Africa, 185. Ritorna, e conquista Napoli, 186; e indi
Roma, 188 e segg. Infinite prove di valore e di genio mili
tare date da lui nel lungo assedio posto a Roma dai Goti,
190 e segg. Respinge le proposte di pace fattegli da loro, e
accetta una tregua, 197. Gelosie contro di lui alla corte di
Costantinopoli, 199, 200. Opposizione fattagli da Narsete man
dato per stargli a fianco da Costantinopoli, 200 e segg. Altre
sue operazioni militari, 202, 203. Si muove contro Ravenna
e l’ assedia, 204. Di nuovo respinge la pace, nonostante la
contraria inclinazione dell’ Imperatore, 204. Respinge l’offerta
de’ Goti di farlo imperatore d’ Occidente, 205. Entra in Ra
venna, 205. Gli è di nuovo offerto l’ Impero, 206. Torna a
Costantinopoli, 206 ; e come accoltovi dalla Corte e dal po
polo, 213. Sua guerra contro i Persiani, ricordata, 213. Riman
dato in Italia, e in quale stato d’ animo e di forze vi tomi, 218.
Tenta per ogni via, ma inutilmente, di soccorrere Roma di
nuovo assediata dai Goti, 219 e segg. Vi rientra, e la difende da
nuovi assalti, 225. Posto nella impossibilità di continuare la
guerra, 226. Suo ritorno a Costantinopoli, 226. Respinge un’ in
vasione degli Unni, 227. Ultimi anni della sua vita, 227.
Benedetto I, papa, 262.
Benevento (Duca e Ducato longobardo di). Assedia Na
poli, 263. Diventa ereditario e indipendente, 276. Risottomesso
dal re Agilulfo, 289. Minaccia Napoli, 290 ; e allarga il suo
dominio, 293. Ancora della ma indipendenza, 294, 309. Sua
estensione, 309. Assediato dall7imperatore Costante II, 320.
Ricordato a proposito della donazione fitta dai Franchi al
Papa, 392. Riesce a sairare la sua indipendenza, 424. V. an
che ai nomi dei Duchi : A io a e, A r i d i, A r i d i l i , FarnsUo,
Gitulfo I I , Grimoaldo, Grimoaldo I I , Rodoaléo, Romualdo,
Romualdo I I , ZotUme.
Bergamo. Presa da’ Longobardi, 257. Uno dei loro Ducati.
261, 289.
Bernardo, figlio di Carlo Martello. Combatte e vince i Lon
gobardi, 386, 387.
Bertarido. Divide il regno de* Longobardi col fratello Godeberto, 316. Si inimica con lui, 317. Cacciato da Grimoaldo, si
rifugia presso gli Avari, 317 ; a’ quali è inutilmente richie
sto da Grimoaldo, 321. Si rimette spontaneamente nelle sue
mani; gli è attentato alla vita e si salva con la fuga, 321.
Eletto re, suo regno, 322.
Bertrada, moglie di Pipino re de’ Franchi, 368. Cerca pacifi
care tra loro Carlomanno e Carlo suoi figli, 380.
Bassa, comandante la guarnigione imperiale in Roma, assediata
dai Goti, 220, 222, 223, 228.
Bisansio. V’ è trasferita la capitale dell’ Impero da Costantino,
e da Ini è detta Costaptinopoli, 32.
Bizantini. Loro guerra contro i Goti in Italia, 183 e segg.
Assediati in Roma, 192 e segg. Successive vicende della guer
ra, 199 e segg. Le cose loro declinano, e vanno di male in
peggio dopo la partenza di Belisario, 214. Guerre con gli ul
timi re Goti, 216 e segg., 228, 234 e segg. Impotenti a resi
stere ai Longobardi, 256. Quello che resti loro nella prima
invasione di quelli, 257, 258 ; e ancora della loro impotenza
resistere, 262, 263. Dei loro accordi e della loro azione
«Mimane coi Franchi, 265, 266, 269. Del loro governo in Italia
il fronte a quello dei Longobardi, e parte d’ Italia che pos
ale vano nel settimo secolo, 278 e segg. Continua la guerra
alternata da paci, 291 e segg. pass. Un loro esercito scon
fitto, 308. Si ribellano loro Ravenna e Roma, 325 e segg.
Congiurano coi Romani e i Longobardi contro i Franchi, 396.
Sieda, fratello di Attila, 96.
Bobbio (Convento di), 300.
Boesio. Sua grande scienza e reputazione, 166. Difendo il pa
trizio Albino, accusato d’ una congiura contro il re Teodo
rico, 166; ed è processato e condannato, 167. Della sua C on s o la tio P h ilo8op h ia e scritta nel carcere, 167 e segg. Suo estremo
supplizio, 169. I beni confiscatigli sono restituiti ai suoi fi
gli, 172.
Bologna, 219. Presa da’ Longobardi, 257. Fa parte dell’ Esar
cato dei Bizantini, 279.
Bonifazio, generale romano nell’ Irnporo d’ Occidente, 84. An
tagonismo tra lui ed Ezio, altro generale, 84, 85. È in Afri
ca, 85. Sue qualità, 86. Richiamato dall’Africa, non obbedi
sce, 87 ; ed è accusato di chiamarvi i Vandali, 87. Sue fa
zioni militari contro di loro, 90. Torna in Italia, combatte
con Ezio, e muore, 90.
Brescia. Presa da’ Longobardi, 256. Uno dei loro Ducati, 261.
Brindisi. Tolta dai Bizantini ai Goti, 220.
Britannia, 66, 67, 72, 78, 83.
Brusio di Calabria, 336.
Baccellino e Leutari. Invadono l’ Italia con un esercito di
Franchi-Alamanni, che è vinto e distrutto, 241 e segg.
Bulgari. Alleati coi Persiani contro l’ Impero, 303.
Burgundi. Vengono in difesa di Odoacre contro Teodorico, 144.
Travagliati dai Franchi, divengono loro dipendenti, 158. Man
dati in aiuto dei Goti in Italia contro i Bizantini, 202.
Burgundia, regno franco, 351.
Cacco, figlio di Gisulfo duca del Friuli, 297, 298.
C agli Fa parte della Pentapoli annonaria dei Bizantini, 279.
Calabria. Tenuta dai Bizantini, 280. Lo sue chiose vengono unite
al patriarcato di Costantinopoli, 336. Ducato bizantino, 331».
Callinico, esarca, 294. Richiamato, 295.
Campalo, sacellario della Curia romana. V.
P a sq u a le
primi
cerio, ec.
Cappadocia (di) Giovanni, ministro dell’ imperatore Giusti
niano, 214, 228.
Cftprarm» luogo della morte di Totila, 237.
Capila (Conte di), 321.
Carlo figliuolo di Pipino, re de’ Franchi (detto poi Xagno).
Consacrato dal Papa, 368. Alla morte del padre divide il regno
tra lui e il fratello. V. C a rlom a n n o. Sposa una figliuola di
Desiderio, re de’ Longobardi, 380; poi la ripudia, 383. Suc
cede al fratello, e riunisce il regno, 383. Sua venuta in Italia
contro i Longobardi, suoi primi acquisti, 386, 387. Assedia
Pavia, 387. De’ suoi intendimenti circa il suo futuro regno
d’ Italia, della sua andata a Roma e della donazione al Papa,
388 e segg. Torna all’ assedio di Pavia, che gli si arrende, e
leggenda relativa a quella resa, 393. S’ intitola re de’ Fran
chi e de’ Longobardi e patrizio dei Romani, 394 ; e datazione
do’ suoi atti, 394. Estensione del suo regno in Italia, e come
lo costituisca, 394, 395. Accorre a domare una ribellione dei
Sassoni, 395. Incitato dal Papa a tornare in Italia, dove si
cospira contro di lui, 397. Ritorna, e tratta con grande seve
rità i cospiratori, 398. Sue nuove disposizioni nella costituzione
del regno, 399. Riparte, e altri accenni alla sua guerra con
tro i Sassoni, 399. Torna per la terza volta in Italia, a istanza
del Papa ; e ancora della sua donazione ad esso, 399 e segg.
Pubblica i C a p itola ri, 401. Passa in Roma la Pasqua del 781,
401. Pratiche d’ accordo tra lui e Irene, imperatrice di Co
stantinopoli, 402. Ancora della sua guerra contro i Sassoni, 402,
403. Perde la madre e la moglie, e sue nuove nozze, 403.
Toma in Italia, 404. Fa il Natale del 786 in Firenze, 404.
Sottomotte il Duca di Benevento, 404. Si turbano le sue
relazioni con Costantinopoli, 404. Va contro il Duca di Ba
viera, 404 ; e contro gli Avari, 405. Sua deferenza verso il
Papa, 405. Piglia parte vivissima ad alcune dispute teologi
che, 406. Perde la nuova moglie, 407. Ripiglia di nuovo la
guerra contro i Sassoni, 407. Iniziatore del potere temporale
de’ Papi, 407. Leone III data le bolle dagli anni del suo regno
d’ Italia, 408. Gli sono dal Papa inviate le chiavi d’ oro di
S. Pietro e la bandiera della città di Roma, 409. Raffigurato
col Papa in un celebre mosaico, 409. Di una sua ambasceria
e d’ una lettera al Papa, 410. Accoglie a grande onore il Papa
perseguitato e cacciato da Roma, e lo rimanda con grande
accompagnamento, 412 e segg. Continua la sua guerra coi
Sassoni, 413, 414. Gli muore la terza e ultima moglie, 414.
Intraprende il suo quarto e più memorabile viaggio in Ita
lia, 415. Siede come giudice tra il Papa e i suoi avversari, 415.
Da Gerusalemme gli vengono le chiavi di quella città e del
Santo Sepolcro, 416. Coronato imperatore ; e dei vari giudizi
che si fecero di questa incoronazione, 416 e segg. La posterità
gli dà il titolo di Magno, 418. Pubblica altre leggi ; e ancora
della costituzione d’ Italia sotto il suo regno, 419 e segg.
Delle opere pubbliche e della cultura greco-romana da lui
promosse, 421 e segg. Grande importanza dell’ Impero da lui
costituito, e sguardo generale ai tempi che seguirono alla sita
morte, 423 e segg.
Carlomaiwo, figliuolo di Carlo Martello, 340. Si ritira in un
convento, 360. N’ esce e poi vi rientra, 367.
Carlomaiwo figliuolo di Pipino, re de’ Franchi. Consacrato dal
Papa, 368. Alla morte del padre si divide il regno tra lui e
il fratello Carlo, 379 ; e discordia tra loro, 379, 380 ; che fo
menta i disordini che sono in Roma per la lotta tra la nobiltà
civile e la ecclesiastica, 380 e segg. Muore, 383. La sua vedova
si rifugia coi figli presso Desiderio re de’ Longobardi, 384,
Carlomaiwo, figliuolo di Carlo re de’ Franchi, 401.
Carlo M artello, fondatore della dinastia carolingia de’ re
Franchi. Gregorio III si volge a lui per aiuto contro i Lon
gobardi, 339; ma egli non può soccorrerlo, 339, 340. Muore,
lasciando divisa la Francia tra i figli Carlomanno e Pipino,
340, 360. Riepilogo della sua vita e del suo regno, 353. L’ari
stocrazia franca piglia sotto di lui quella forma da cui poi
viene il feudalismo, 354, 358. Arricchisce i suoi fedeli e i no
bili laici coi beni del clero ; ma d’ altra parte rende grandi
servigi alla Chiesa e alla religione, 358, 359. Aiuto chiesto
a lui da Gregorio III, di nuovo ricordato, 360. Se non di
nome, è di fatto re de’ Franchi, 360.
Carolingi, dinastia di Re Franchi, succede ai Merovingi, 352.
Cartagine. Occupata dai Vandali, 91. Ritolta loro da Belisa
rio, 182, 186.
Cassiodoro, famiglia, 152.
Cassiodoro, ministro de’ re Goti. Varie notizie di lui, 148,
149, 152. Sue lettere, ricordate, 155, 156, 175. Cresce la sua
potenza sotto il governo di Amalasunta figlia di Teodorico, 171.
Accorre a difendere l’ Italia meridionale minacciata dall’ im
peratore Giustino, 172. Fonda due monasteri, e vi scrive
molte delle sue opere, 212.
Geccano» terra del Ducato bizantino di Roma. Presa da’ Lon
gobardi, 364.
Contane presso i popoli germanici, 19.
Ch&lons (Battaglia di) tra gli Unni e i Romani, 104; e sua
grande importanza storica, 104, 111.
Chiesa, Chiesa di Roma. Fin dal suo nascere assume carattere
universale, 32. Primi germi della lotta tra essa e l’Impero, 33.
Costantemente ferma in sostenere la sua unità e autorità uni
versale ; e suoi dissidi con l’ Impero e la Chiesa di Costan
tinopoli, 36, 53, 54, 108, 109, 133 e segg., 156, 160 e segg.,
229 e segg., 245. In mezzo alla rovina del mondo romano,
solo i suoi rappresentanti danno prova di dignità e di gran
dezza, 117. Sua autorità di consacrare gl’ imperatori, ricor
data, 119. Favorisce i Franchi sotto Clodoveo, 158, 159. Sua
temporanea decadenza dalla morte di papa Vigilio all’ assun
zione di Gregorio I, 233. Inizi della sua politica coi Franchi
contro i Longobardi, 263, 264. Del suo patrimonio al tempo
di Gregorio Magno, 285. Di nuovo della sua fermezza in so
stenere la sua dignità e unità, e de’ suoi dissidi con l’ Impero
eia Chiesa di Costantinopoli, 286, 292, 295, 307, 317 e segg.,
324 e segg. Delle donazioni fattele dai re Franchi, e principii
del suo dominio temporale. V. Carlo Martello, Pipino e Carlo.
Non dipende più dalla corte di Costantinopoli, 409.
C hiesa di Costantinopoli. V. Chiesa, Chiesa di Poma.
CUUdeberto, re de’ Franchi, 267, 289.
Childerico, re de’ Franchi, ultimo dei Merovingi, 360, 361.
C hiusi. È in mano de’ Goti, 199.
Cimbri, 10.
Cipriano, romano, partigiano de’ Goti. Sua falsa accusa con
tro Albino e Boezio, 166, 167, 172.
Ciriaco, patriarca di Costantinopoli, 294.
Civitavecchia. Occupata da’ Bizantini, 197. In procinto di
arrendersi ai Goti, 229.
Civitas presso i popoli germanici, 19 e segg., 26.
Classe, porto di Ravenna. Tolto dai Longobardi ai Bizan
tini, 263. Ripreso da questi, 267; e di nuovo dai Longo
bardi, 331.
Claudio, imperatore. Sua grande vittoria contro i Goti, 28.
Clefi, duca di Bergamo. Eletto re de’ Longobardi, 260. Muore,
e per dieci anni non si elegge altro Re, 260.
Clodoveo, re de’ Franchi. Convertito al Cattolicismo, 158. Del
suo regno e delle sue imprese, 159. Vinto da Teodorico, 159.
Con lui s’ inizia la dinastia dei Merovingi ; e di nuovo della
sua conversione e del suo regno, 349; e divisione d’ esso
alla sua morte, 351.
Clodoveo H , re de’ Franchi, 308, 353.
Clotaxio I, re de’ Franchi, 351.
Clotsuinda, prima moglie d’Alboino, 254.
Comacina (Isola). Tolta dai Longobardi ai Bizantini, 267.
Comitatus presso i popoli germanici, 22.
Concilio di Calcedonia. Ricordato a proposito d’ una con
troversia tra V imperatore Giustiniano e il Papa, 230, 231,
246, 267.
Concilio ecumenico, convocato da Giustiniano, 231.
Concilio Lateranense, adunato da Martino I, 318.
Concilio di ITicea, adunato dall’ imperatore Costantino, 34.
Concilio di Nicea, settimo generale, 406.
Concilio di Sardica, 109.
Concilio detto trullano, 324.
Conon, generale dei Bizantini in Roma, ucciso, 228.
Con8Ìlium civitatis presso i popoli germanici, 21.
Conti franchi. V. D u c h i e C o n ti .
Conza. Ultimo luogo fortificato de’ Goti, che si arrende ai Bi
zantini, 243.
Corpus Juris di Giustiniano, 177.
Corsica. Dipende dall’ Esarca dell’Africa, 278. Donata da Carlo
re de’ Franchi al Papa, 392.
Cosroe, re di Persia, 303.
Costante XX, imperatore. È in lotta col papa Martino I,
t
lo fa condurre prigione a Costantinopoli, 318. Per V avan
zarsi dei Musulmani contro l’ Impero fa nn accordo politico
col successore di lui, 319. Viene in Italia e assedia Benevento, poi si ritira, 320. Va a Roma e poi in Sicilia, dove
muore, 320.
Costantino, antipapa. Sua elezione, deposizione, e tortore in
flittegli, 376 e segg. pass.
Costantino, imperatore. Riforma e divide l’ Impero, 31. Ab
braccia il Cristianesimo, e trasferisce la sede dell’ Impero a
Bisanzio, 31, 32. Si pone in conflitto con la Chiesa di Roma, 33.
Parte da lui presa nella disputa tra Ariani e Atanasiani, 34.
Della sna così detta donazione alla Chiesa, 388 e segg., 400.
Costantino. Proclamato imperatore contro Onorio, gli ribella
la Gallia, 68 e segg. pass., 78, 79. Preso ed ucciso, 79.
Costantino, papa, 325. S’ accorda con l’ Imperatore in perse
guitare Felice arcivescovo di Ravenna, 326.
Costantino Fogonato, imperatore, 321.
Costantino V Copronimo, imperatore. Sue relazioni con De
siderio re de’ Longobardi, 374 ; e con Pipino re de’ Fran
chi, 374. Partecipa a una congiura ordita in Italia contro i
Franchi, 397. Muore, 398. Gli succede Leone IV, 402.
Costantino V I, imperatore, 402. Notizie del suo regno, e
nimistà tra esso e l’ imperatrice sua madre, 411.
Costantinopoli. Nuova capitale dell’ Impero Romano, 32. As
salita da’ Goti, 49 ; che vi sono accolti dall’ imperatore Teo
dosio, 5 0 .1 Goti vi commettono gravi disordini e vi acquistano
gran potenza, 60, 61 ; ma infine ne son cacciati, 62. Vita
che si mena a quella corte sotto l’ imperatore Teodosio n , 97.
Di una ribellione che vi accade contro Giustiniano, 178. Le
chiese della Calabria e della Sicilia son riunite a quel pa
triarcato, 336.
Costanzo, generale romano, mandato da Onorio a ricuperare
la Gallia, 79. Sposa Galla Placidia sorella dell’ imperatore, ed
è associato all’ Impero, 82. Muore, 83.
Costanzo, imperatore, 30, 35.
Cremona. Resiste a’ Longobardi, 217. Presa da loro, 296.
Cristianesimo. Sua essenza, 6. Combatte e trionfa del Paganesimo 6 e segg. La soa unione coll’ Impero fa sorgere il con
cetto d’ una Chiesa universale, 32. Diviso per la disputa tra
Ariani e Atanasiani, 37. Ad esso si convertono parte de’ Goti,
poi tutti i barbari, 40.
Cristoforo, primicerio della cancelleria papale. Egli e il figliuolo
Sergio sono capi della nobiltà ecclesiastica contro la laica, 377.
Loro atti, e loro fine, 377, 379, 381, 382, 385.
Ctuna. Resiste ai Bizantini, dopo le ultime disfatte de’ Goti,
239, 241. Si arrende, 242. Presa dal Duca di Benevento, indi
da quello di Napoli, 331.
Cuniberto, re de’ Longobardi, 317. Gli è usurpato il regno,
322; ma lo ricupera, 322, 323.
Dacia. Provincia romana al di là del Danubio, 12. Ceduta ai
Goti, 29. Oggi appellata Romania, 40.
Dalmasia. Vi si raccoglie un esercito di Bizantini, destinato
alla guerra d’ Italia contro i Goti, 234 e segg. pass.
Parnaso, papa, 53.
Danubio. Confine dell’ Impero Romano, 2, poi oltrepassato,
11, 30.
Decapoli, 279.
. Decio, esarca, 264, 279.
Deogratias, vescovo di Cartagine, 117.
Desiderata, figlia di Desiderio re dò’ Longobardi. Maritata
a Carlo re de’ Franchi, 380. Ripudiata, 383.
Desiderio, re de’ Longobardi. S’ acquista il favore del Papa
con larghe promesse, 372; che poi non attiene, 373. Suo ca
rattere mutabile, e sua politica col Papa, coi Franchi e coll’ Im
peratore di Costantinopoli, 374. Favorisce la nobiltà eccle
siastica di Roma nei tumulti successi tra essa e la nobiltà
laica, 376. Del matrimonio d’ una sua figliuola con Carlo re
de’ Franchi, 380, 383. Aiuto da lui prestato al papa Ste
fano III nei tumulti di che sopra, 381 ; e successive sue re
lazioni con lui, 381 e segg. Suo relazioni col papa Adriano I,
384 e segg. Occupa varie terre della Chiesa, 384, 386; o
minaccia tuttavia, 386. Non obbedisce alle intimazioni del
Papa di ritirarsi, e respinge le proposte di pace di Carlo re
de’ Franchi, 386. Vinto da lui in una battaglia si ritira a
Pavia, 387. È condotto in Francia, dove muore, 394.
Diocleziano. Sua riforma dell’ Impero, 30.
Diodato, doge di Venezia, 344.
Diogene, generale dei Bizantini, 228.
Diritto Domano e Legislazione Longobarda, a proposito dell’ Editto di Rotari, 311 e segg.
Dodone, ambasciatore di Carlomanno a Roma, 380, 381, 382.
Donatieti, eretici, 88.
Duchi e Conti franchi, 419, 420, 424.
Duchi e Ducati bizantini, 278. Dipendono dall’ Esarca, ma
in fatto sono indipendenti, 279, 281. Divisione ed estensione,
numero e nomi dei Ducati, 279 e segg.
Duchi e Ducati longobardi. Prime fondazioni dei Ducati, 258.
Discordie tra i Duchi, 260; che per dieci anni governano
senza il Re, 260. Quanti e quali fossero a quel tempo i Du
cati, 261. Dell’ autorità e potenza dei Duchi, e della loro mag
giore o minore indipendenza dai Re, 276, 277 ; e della loro resi
denza, 277. Alcuni minacciano di ribellarsi, 288 ; e il Re corre a
risottometterli, 289.
Dux, capo militare presso i Germani, 22.
Edecone, ambasciatore d’Attila a Costantinopoli, 98. Suppo
sto padre di Odoacre, 128.
Sguardo, annalista de’ Franchi, 416, 423.
Elmichi. Richiesto d’ uccidere Alboino, si ricusa, 259.
Epifanio, vescovo di Pavia, 143, 151.
Eraclio, eunuco, 112.
Eraclio, imperatore d’ Oriente, 297. Della sua guerra coi Per
siani, 302, 303. Cerca di comporre le dispute religiose che di
vidono l’ Impero, 306 e segg. Muore, 306, 308.
Erarico, re de’ Goti, 215.
Eretici. V. A r i a n i , M o n o fisiti, N e sto r ia n i, D o n a tisti, M o n o t e l i t i,
Ermalìrico, re degli Ostrogoti, 41. Disfatto dagli Unni, si uc
cide, 45.
Errili. Vengono in Italia con Odoacre, 126, 146. Si uniscono
coi Gepidi contro i Longobardi, 252.
Esarca» Questo titolo è attribuito per errore a Narsete, 244.
Prima menzione ufficiale di esso, 264, 265, 279. Rappresenta
in Italia V Impero, suo ufficio e autorità, 278, 280, 281. Ri
siede a Ravenna, 279. Di capo di tutto il governo diventa
capo (V un ducato, 279. S’ ingerisce anche delle cose ecclesia
stiche, 281, 292. Sue inimicizie e persecuzioni contro i Papi,
318, 331, 332.
Esarcato. Territorio di cui si compone, 279. Si solleva contro
1’ Imperatore, 326. Si va decomponendo, e non esiste più che
di nome, 340, 342. Finisce, occupato dai Longobardi, 363,
366. Tolto loro, in parte, dai Franchi, e donato al Papa, 371 ;
che mira a ottenere anche il resto, 372, 373. Di nuovo in
vaso dai Longobardi, 384, 386. Di nuovo donato, e intera
mente, al Papa, 392, 400. V. anche ai nomi degli Esarchi:
C allin ico, D e c io , E u le te r io , E u tic h io , G iova n n i, G io v a n n i B i z o co p o ,
Isa cco,
O lim p io,
T eod oro C a lliop a s,
P a o lo ,
Bom ano,
S cola stico,
S m era ld o,
T eofila tto .
Esilarato, duca bizantino, 334.
Eudocia, figlia di Eudossia imperatrice; fatta prigione dai
Vandali e data in moglie a Unnerico figlio del loro Re, 116.
Eudocia o Eudossia, moglie di Teodosio II imperatore, 98,101.
Eudossia, figlia di Teodosio II e moglie di Valentiniano III, 91 ;
poi di Petronio Massimo, 113. Della leggenda che chiamasse
i Vandali in Italia, 113. Condotta da loro in ischiavitu, 116.
Liberata, 121.
Eugenio I, papa, 319.
Eugenio, retore. Pretende alP Impero, 52. Vinto dall’ impera
tore Teodosio, e ucciso, 53.
Eugippo, 136.
Euleterio, esarca, 301.
Eutaxico, marito di Àmalasunta, 160. Adottato dall’ Impera
tore, 164. È ariano, 165. Sua morte, ricordata, 171.
Eutichio, esarca. Sue ostilità contro il Papa, 335, 336. Ri
cupera Ravenna caduta in mano de’ Longobardi, 337.
Eutropio, eunuco di Costantinopoli, 60. Congiura contro Ru
fino, dopo la m orte del quale cresce il «no potere, 61. Sita
morte, 61.
Esercitila romanità, e sua divisione in 8 ch ola e, 376.
Saio, generale romano nell’ Impero d’ Occidente, 84. Antago
nismo tra lai e Bonifazio, alta» generale, 84. Chiama gli
Unni, 85; poi li fa retrocedere, 86. Accasato di tradimento
contro Bonifazio, 87. Viene con Ini a battaglia, 90. Sna
guerra con Attila e gli Unni, 102 e segg. ; nella quale è so
spettato di tradimento, 105. Sae virtù militari, soa ambizio
ne, 111. Ucciso, 112.
Fano. È in potere de’ Bizantini, e fa parte della Pcntapoli,
257, 279.
FaroV&ldo, duca longobardo di Benevento. Giura fedeltà al
re Liatprando, 335. Perde lo stato, 341.
Fastrada, moglie di Carlo re de’ Franchi, 403. Muore, 407.
Felice, antipapa, 36.
Felice, arcivescovo di Ravenna. Accecato e cacciato dalla sua
sede, 326. Restituito, 327.
Felice II , papa. Sostiene fermamente, come i suoi anteces
sori, l’ autorità della Chiesa Romana, 135, 136.
Felice IH , papa. Sua elezione, 170.
Festo, patrizio, ambasciatore di Teodorico a Costantinopoli, 161.
Feudalismo. Delle sue origini, 354 e segg.
Fiesole. Ivi presso è sconfitto Radagasio, 67. Assediata e presa
dai Bizantini, 203.
Filippico, imperatore, suo dissidio con la Chiesa di Roma, 327,
328. Deposto, 328.
Filippo, antipapa, 377.
Finni, 44.
Firenze. Totila tenta d’ assediarla, ma è respinto, 217. Carlo
re de’ Franchi vi passa il Natale dell’ anno 786, 404.
Foca. Proclamato imperatore d’ Oriente, 295. Sua crudeltà, 295.
Proclama la supremazia del Papa ; e di una lettera scrittagli
da Gregorio I, 295. Gli succede Eraclio, 297, 302.
Fossombrone. Fa parte della Pentapoli annonaria dei Bizan
tini, 279.
Franchi. Del loro regno sotto Clodoveo, 158, 159. Vengono in
Italia in ainto de’ Goti contro i Bizantini, 202. £ di nnovo,
e vi occupano delle terre, 238. Neutrali tra Bizantini e Goti,
238. Di una loro impresa dopo la cacciata de’ Goti, 241.
Accenni alle loro guerre coi Longobardi nella Gallia, 258.
Tornano in Italia contro i Longobardi, poi si ritirano, 263,
264. Dei loro accordi coi Bizantini contro i Longobardi, 265,
266, 269; e nuove guerre con questi ultimi, 267 e segg.
Gregorio Magno cerca diffondere tra loro il Cattolicismo, 286.
Accordo tra essi e i Longobardi, 288. Ancora della loro conver
sione al Cattolicismo, 337. A loro si rivolgono i Papi per aiuto
contro i Longobardi, 337 e segg., 360; riassunto della loro sto
ria fino a questo tempo, 348 e segg. Potenza e ricchezza della
Chiesa e del clero nel loro regno, 356 e segg. Loro disceso
in Italia con Pipino contro i Longobardi, 369, 371 ; e con
Carlo suo figliuolo. V. C a rlo . Costituzione del loro regno ili
Italia, 394, 395, 399. Longobardi, Romani e Bizantini cospi
rano contro di loro, 396 e segg. pass.
Fridigerno o Fritigerno, capo d’ una parte dei Visigoti, 41.
Accolto co’ suoi barbari, fuggiaschi, dentro i confini dell’ Im
pero, 46 ; presto li riorganizza e s’ impone a’ Romani, 47, 48 ;
ma la sua morte porta la divisione tra loro, 50.
Frinii, ducato longobardo, 256, 261. Diventa ereditario, 276.
Occupato dagli Avari, 297 ; poi rilasciato, 298. Di nnovo mi
nacciato dagli Avari, 405, 406. V. anche R od o g a u d o .
Fulda (Monastero di), sua fondazione, 359.
Fulrado, abate di San Dionigi. Accompagna Pipino nelle sue
imprese contro i Longobardi, 369, 371.
Gaidulfo, duca longobardo di Bergamo, 289.
Gainas, generale goto. Va a Costantinopoli, 60 ; e vi acquista
gran potere, 61. Cacciato, e ucciso, 62.
Galeno Cesare, 30.
Galla, sorella di Valentiniauo II, 49. Sposa l’ imperatore Teo
dosio, 51. Muore, 52.
Galla Flacidia, figlia dell’ imperatore Teodosio e sorella d’Onorio, 52. Creduta istigatrice dell’ uccisione della vedova di Sti-
licone, 73. Fatta prigione da Alarico, 77. Di lei s’ innamora
Ataolfo successore d’Alarico, 78 ; e la sposa, 80. Dopo la morte
di lui è maritata a Costanzo, generale romano, che viene as
sociato all’ Impero, 82. Morto anche Costanzo, va a stabilirsi a
Costantinopoli, 84. Reggente del figlio Valentiniano III, 84 ;
nel cui nome governa, 86 e segg. pass. Muore, suo elogio, 93.
(follia. Resiste ostinatamente ai Romani, 2, 3. Una delle quat
tro Prefetture dell’ Impero, 31. È invasa da Alarico e altri
barbari, e si ribella all’ Imperatore, 67 e segg. pass. Vi è
gran disordine, 78. Vi va Ataulfo re de’ Goti e vi doma la
ribellione, 79. Diventa stabile dimora de’ Goti, 82. Conqui
stata a poco e poco dai Franchi, 348, 349.
(foribaldo, duca di Baviera, 267.
(foribaldo, duca di Torino» 317. È ucciso, 317.
(foribaldo, re de’ Longobardi, 322.
Gasindi nel regno Longobardo, 276, 277, 357.
G astaldi nel regno Longobardo, 276, 277; nel regno Frauoo, 419, 421.
Gelasio I, papa. Sostenitore costante della supremazia della
Chiesa di Roma, 160. Gli succede Anastasio II, 161.
Gelimero, re de’ Vandali, 181. Vinto e fatto prigione da Be
lisario, 182, 183.
Genova. Vi risiede pei Bizantini un V ica ria * I ta lia * , 278.
Genserico, re de’ Vandali. Invade l’Africa, 89. Fa una pace
co’ Romani, e poi la rompe, 91. Serba per sè grandi possessi
nelle terre occupate, 92. Legato di parentela coi Visigoti, poi
loro nemico, 103. Prende e saccheggia Roma, 115, 116 ; e fa
prigione l’ imperatrice Eudossia, 116; che poi rimette in li
bertà, 121. Fa un’ altra pace con l’ Impero, 126. Muore, 127.
Gepidi, 28. Abitano la Dacia settentrionale, 41. Seguono gli
Unni, 96. Un loro scontro con gli Ostrogoti, 142. Vengono
in Italia con Teodorico, 146. Delle loro inimicizie e guerre
coi Longobardi, 252 e segg. ; da’ quali finalmente sono ster
minati, 254.
Gerberga, vedova di Carlomanno re de’ Franchi. Si rifugia coi
figlinoli presso Desiderio re de’ Longobardi, 384. È chiusa in
Verona, 386; e cade in mano di Carlo re de’ Franchi, 388.
Germani. Loro prime invasioni nell7Impero, 10 e segg. Notizie
datene da Giulio Cesare, 12; e da Tacito, 14. Loro stato di
barbarie, 15; religione, 15; abitazioni, 16; divisione delle
terre, 17. Divisi in molti e diversi popoli, 18, 24. Loro costitu
zione civile e militare, 18 e segg. Paragone tra la società loro
e quella de7Romani, 22 e segg. Educati sotto i Romani, di
vengono soldati eccellenti, ma non perdono la loro avversione
all7Impero, 24. Altre loro invasioni, 27 e segg.
Germanico. Sue vittorie contro i Barbari, 11.
Germano, nipote dell7imperatore Giustiniano, destinato da lui
alla guerra d7Italia contro i Goti, muore, 234.
Gerusalemme. Presa dai Persiani, 302 ; e ricuperata all7Im
pero, 303. Ne son consegnate le chiavi a Carlo re de7Fran
chi, 416.
Geti, 28.
Gildone, 65.
Giordanes, cartulario, 332.
Giorgio, figlio di Giovanniccio, 326.
Giovanni, arcivescovo di Ravenna, 334.
Giovanni, capitano armeno nell’ esercito Bizantino, 181, 196.
Sue operazioni militari, 197 e segg. pass. ; e suoi dispareri
con Belisario, 197, 220. Altre sue fazioni militari, 220, 234.
Giovanni I, duca di Napoli. Prende Crema, 331.
Giovanni, esarca, 297, 301.
Giovanni, maestro de7militi di Venezia, 344.
Giovanni I, papa. Costretto a recarsi a Costantinopoli a so
stenere la causa degli Ariani, 169. Al suo ritorno è carcerato,
e muore, 170.
Giovanni IH , papa, 250. Muore, 262.
Giovanni IV , papa, 307.
Giovanni V I, papa, 325.
Giovanni, patriarca di Costantinopoli. Sue differenze col papa
Gregorio I, 292. Muore, 293.
Giovanni, primicerio. Scelto a successore dell7imperatore Ono
rio dal partito che vuole l7accordo tra7due Imperi d7Oriente
e d7Occidente, 84, 85. Preso ed ucciso, 85.
Giovanni nizocopo, esarca, 326. Ucciso, 326.
Giovanni Silenziario, 365.
Giovanni* suddiacono, 332.
Giovanniccio, ravennate. Mandato a morte dall’ Imperatore,
326. Un suo figliuolo è capo del popolo ribellato, 326.
Gioviano, imperatore, 40.
Giovino» pretendente all’ Impero, 79.
Gisnlfò, duca del Friuli, 256. Assalito dagli Avari, muore, 297.
Gisnlfò II» duca di Benevento, 341, 362.
Giuliano l’Apostata, imperatore. Sue dottrine e sue imprese
militari, 38, 39.
Giulio Cesare. Disfà e insegue oltre il Beno un esercito
germanico, poi si ritira, 10. Notizie che ci dà di quei
barbari, 10, 12; e in che differiscano da quelle date da Ta
cito, 14.
Ginlio Nepote, imperatore d’ Occidente, 124. Cacciato, 125.
Cerca di ritornare, 129. Muore, 133.
Giustina, madre di Valentiniano II, 49. È cacciata d’ Italia,
col figliuolo, poi vi ritorna, 51.
Giustiniano, nipote di Giustino imperatore, 163. Associato, e
indi successore di lui nell’ Impero, 172 ; sue qualità, suoi di
segni, 172, 173. Sue relazioni con Amalasunta, reggente del
regno Goto in Italia, e ancora de’ suoi disegni, 174, 175 ;
che si scuoprono dopo la morte di Amalasunta, 176. Sua orì
gine, sue doti e suoi difetti, 176. Della sua opera legislati
va, 177. Rivoluzione a Costantinopoli contro di lui, 178;
repressa, 179. Suo fermo proposito di restaurare l’unità dell’ Impero, 180. 181. Caccia i Vandali dall’Africa, 181 e segg.
Imprende la guerra d’ Italia contro i Goti, 183 e segg. Inclina
alla pace, 203, 204. Invia soccorsi a Napoli, minacciata da
Totila, 217. Richiesto di pace da Totila, non risponde, 224.
Come si comporti con Belisario, 227. Si arroga autorità nelle
cose di fede, e di una particolare controversia tra lui e li
Papa. 229 e segg. Riprende la guerra d’ Italia, 233 e segg. pass.
Morendo, lascia l’ Impero in triste condizioni; sguardo rias
suntivo alla sua politica, 246 e segg.
Giustiniano U» imperatore. Suoi dissensi c crudeltà coi Papi
e i cattolici d’ Italia, 324 e segg. Una rivoluzione lo cacciai
dal trono, e un* altra ve lo rimette, 325. É ucciso, e la sua
testa è mandata a Roma, 327.
Giustino, imperatore, 160. Succede a Anastasio, 163. Professa
le dottrine della Chiesa Romana, 163; e suo accordo col
Papa, 164. Perseguita gli Ariani, 164. Minaccia il regno dei
Goti in Italia, 172. Associa all’ Impero Giustiniano suo ni
pote, 172.
Giustino H , nipote di Giustiniano, a cui succede nell’ Im
pero;- sua politica contraria a quella dello zio, 249. Nega un
sussidio agli Avari, 253. Ammattisce, 263.
Glicerio, imperatore d’ Occidente, poi vescovo in Dalmazia,
124, 125.
Godeberto. Divide il regno dei Longobardi col fratello Bertarido, 316 ; e si nimica con lui, 317. Manda per aiuti a Grimoaldo duca di Benevento, ed è da lui ucciso, 317.
G oti Della loro origine, 27. Divisi in Ostrogoti e Visigoti,
cioè in Goti orientali e occidentali, 28. Loro prima invasione
nell’ Impero, respinta, 28, 29. I Romani cedono loro la Dacia
a patto ohe non passino il Danubio, 29. Cominciano ad in
civilirsi, e parte di loro si converte al Cristianesimo, 40; ma
la loro conversione li divide e indebolisce di fronte a’ Ro
mani, 41. V. V isig oti e O strog oti,
Graziano, imperatore d’Occidente, 49. Si associa, per l’ Oriente,
Teodosio, 50. Deposto ed ucciso, 51.
Grecia. I Romani la conquistano, e sono conquistati dalla sua
cultura, 2. Saccheggiata dai Goti, 64.
Gregorio H , duca di Napoli, 347.
Gregorio I Magno, papa. Sua vita di S. Benedetto, ricor
data, 209. Notizie di lui anteriori al pontificato, 264, 268,
283. Sua elezione, 268, 283, 284. Suo carattere, suoi scritti,
e atti del suo pontificato, 284 e segg. Difende per ogni via
da’ Longobardi Roma e altre città d’ Italia, di cui perciò
diventa il principale personaggio, 290 e segg. Di una sua
lettera all’ imperatore Foca, 295. Sue relazioni con Agilulfo
re de’ Longobardi 295. Ancora della sua prodigiosa attività
a vantaggio dell’ Italia, e sua morte, 296.
Gregorio H , papa. Sua elezione, 329. Si mette in attitudine
di difesa contro i Longobardi, 330. Delle su© discordie poli
tiche con 1’ imperatore Leone HI, 331 ; e della sua lotta con
lui per il culto delle immagini, 332 e segg. Ancora delle
sue relazioni coi Longobardi e della sua condotta politica tra
essi e i Bizantini, 334 e segg. Muore, 336.
O ngorio ZZI* papa! Delle sue relazioni e della sua condotta
politica coi Longobardi e i Bizantini, 336 e segg. Chiede
aiuto ai Franchi contri) i Longobardi, 338; e di nuovo,
339, 360. Muore, 340.
Gregorio di Tour», storico de’ Franchi, 350.
Grimoaldo» figlio di Gisulfo duca del Friuli, 298; poi duca
di Benevento, 309; e poi re, 317. Sposa una figliuola del
re Godeberto, 317. Accorre a liberare Benevento assalita dall’ Imperatore, 320. Toma, altre sue imprese, e sua morte, 321.
Giudizio del suo governo, 321.
Grimoaldo (TI), figlio d’Arichi (li) duca di Benevento, 404.
Succede al padre, 405 ; e aiuta Carlo re de’ Franchi contro
Adelchi, 405 ; poi minaccia di ribellarsi, 405 ; e di nuovo, 415 ;
e guerra contro di lui, 419.
Gubbio. Fa parte della Pentapoli annonaria dei Bizantini, 279.
Guidrigildo presso i Longobardi, 270, 315 ; e presso i Fran
chi, 345.
Guinigildo, duca di Spoleto. Mandato da Carlo re de’Franchi
in aiuto del Papa, 412.
Gundeberga, moglie di Ariovaldo, poi di Rotari, re de’ Lon
gobardi, 301, 308.
Gundobaldo, fratello di Teodolinda, 268, 316. Duca d’Asti, 316.
Gundobaldo, re de’ Burgundi, 124. Un suo figliuolo sposa
una figlia di Teodorico, 158.
Henoticon. Lettera in materia religiosa, 134 ; condannata dalla
Chiesa di Roma, 134, 136, 160, 161, 163, 164.
Zldebrando, duca di Spoleto. Aiuta Cario re de’ Franchi con
tro Adelchi, 405 ; poi minaccia di ribellatogli, 405.
Zldebrando, nipote del re Liutprando. Fatto prigioniero, 338.
Succede per breve tempo a Liutprando, 341, 362.
Ildegarda, moglie di Carlo re de’ Franchi, 387. Muore, 402,403.
Ilderico, re de’ Vandali, 181. Cacciato, 181.
Ildibaldo, arcivescovo di Colonia. Va a ricevere il Papa per
Carlo re de’ Franchi, 413; e lo riaccompagna, 414.
Ildibaldo, parente del Re de’ Visigoti. Succede a Vitige re
degli Ostrogoti, in Italia, 206. Suo prospero principio, e sua
morte, 215.
Illirico. Una delle quattro Prefetture dell’ Impero, 31. Resta
per un tempo diviso tra V Oriente e 1’ Occidente, 69,. Vi fa
un’ impresa Teodorico re de’ Goti, 157.
Immagini sacre. N’ è proibito il culto da Leone III impe
ratore; e lotta che ne segue tra lui e il Papa, e agitazione
in tutto l’ Impero, specie in Italia, 329 e segg. pass. Nuovi
e successivi accenni a detta questione, 374, 402, 406.
Imola. Presa da’ Longobardi, 257.
Impero Franco costituito da Carlo Magno, durante la vita
di lui, 417 e segg. ; e dopo la sua morte, 424.
Impero d’ Occidente. V. Im p ei'o M arnano, Continua a chia
marsi tale benché in gran parte occupato dai Barbari, e in
fine ristretto alla sola Italia, 86. Si unisce con quello d’Oriente
per opporsi agli Unni, 97 ; e sue relazioni con essi, 97 e segg.
Gli è mossa guerra da Attila, 102 ; e quale fosse allora il suo
stato, 102. Si approssima la sua fine, 112. Perisce con Odoacre, 129.
Impero d’ Oriente. V. Im p e r o R o m a n o , S’ unisce con quello
d’ Occidente per opporsi agli Unni, 97 ; e sue relazioni con
essi, 97 e segg. Diviso dalle dispute religiose, e in lotta con
la Chiesa di Roma. V. Chiesa, Abbraccia le dottrine cattoliche,
164. Le molte e varie genti di cui si compone sono tenute
unite dalla legge e disciplina; donde la sua lunga durata, 179.
Tristi sue condizioni alla morte di Giustiniano, 246 e segg. ;
e ancora della sua lunga durata, 248. Nuovo accenno alla
mancanza di coesione tra le sue parti, causa di debolezza, 303
e segg. La Chiesa si emancipa dalla sua dipendenza, 409. Sue
condizioni alla costituzione del nuovo Im p e r o F r a n c o , 418, 419.
Impero Romano. La corruzione non è la causa ma l’ effetto
della sua decadenza, 1. In ragione del suo estendersi perde
di unità, 2 ; e prima a risentirne è la costitazione dell’ eser
cito, per l’ introduzione in esso dei barbari e degli schiavi,
che presto ne formano la maggior parte, 3. Le imposte per
mantenere l’ esercito dissanguano i popoli ; la classe media
è disfatta, e si formano i latifondi che esauriscono la ferti
lità del suolo, 4. La scarsa cultura de’ campi e la poca in
dustria in mano degli schiavi, 5. L’ esercito e i possessori dei
latifondi vi spadroneggiano, 5. Alle cause civili, militari, eco
nomiche, di debolezza s’ aggiunge la guerra e il trionfo del
Cristianesimo sul Paganesimo, che n’ è il fondamento, 6. Per
la sua grande vitalità resiste più secoli, ma finalmente la cor
ruzione e decomposizione sociale aprono la via ai Barbari, 7,90.
Suoi confini sotto Augusto, 11 ; oltrepassati da Traiano, 12 ;
onde per due secoli e mezzo è costretto opporsi alle inva
sioni dei Barbari, 26 e segg. Riformato e diviso in quattro
Prefetture, 30, 31. N’ è trasferita la sede a Costantinopoli, 32.
Dalla sua unione col Cristianesimo nasce la lotta tra esso e
la Chiesa, 33 e segg. Diviso tra’ due imperatori d’ Oriente e
d’ Occidente, 46 e segg. pass. Politicamente riunito sotto Teo
dosio I, e concordia tra esso e la Chiesa, 53, 56. Di nuovo
diviso tra’ due imperatori d’ Oriente e d’ Occidente, indipen^
denti 1’ uno dall’ altro, 57 e segg. Disaccordi e antagonismo
tra loro, 83, 84. Nuova apparente riunione sotto Teodosio II,
84, 86 ; e nuova divisione, 86. Comincia un vero smembra
mento d’ esso con la cessione d’ una parte dell’Africa ai Van
dali, 91. Sua unità, ma solo di nome, dopo la caduta del
l’ Impero d’ Occidente, 129, 133. Giustiniano si propone di
restaurarne 1’ unità e lo splendore, 180.
Ipazio, 179.
Ippona, Assediata da’ Vandali, 90. Vi si fa una pace tra essi
e i Romani, 91.
Irene, imperatrice di Costantinopoli. Fa adesione alla Chiesa
di Roma, 402 ; e avvia pratiche d’ accordo con Carlo re
de’ Franchi, 402. Il Papa le domanda le terre tolte da’ Bizan
tini alla Chiesa, 403, 407. Si turbano le sue relazioni col re
Carlo, 404. Altre notizie del suo regno, e nimicizie tra essa
e l’ Imperatore suo figliuolo, 411, 419.
Isaace. V.
A r m e n ia
(<!’).
Isacco, esarca, 307.
Isaurici, montanari del Tauro, 122.
Istria. Si agita per una questione religiosa, 267. È in parto
de’ Bizantini, 280. Ricordata, a proposito della donazione fatta
da Carlo re de’ Franchi al Papa, 392.
Italia. Una delle quattro Prefetture dell’ Impero, 31, 32, 58.
Incursioni in essa di Visigoti, 64 e segg., 72 e segg. ; di
Unni, 106 e segg. ; di Vandali, 113 e segg. Ad essa sola, per
le continue invasioni de’ barbari, si restringe a poco a poco
tutto l’ Impero d’ Occidente, 86, 124; e staccandosi sempre
più dalle altre provincie, finisce per costituire una nuova unità,
politica, 124, 129. Divisione delle sue terre sotto Odoacre e,
per incidenza, nei tempi anteriori, 130 e segg. Spenta in essa
la vita politica, vi si svolge meglio quella religiosa, 133. Suo
stato sotto Teodorico, 146 e segg. ; divisione delle sue terre
tra i Goti, 151. Guerra tra Goti e Bizantini, 184 e segg. ; e
sua desolazione, 206 e segg. Quali parti ne abbiano i Goti
e quali i Bizantini durante la guerra tra loro, 226, 229, 238.
Termina il regno de’ Goti, 241. Di un’ invasione de’ Franchi,
241 e segg. Sue misere condizioni sotto il governo de’ Bizantini,
244 e segg. Invasa e conquistata dai Longobardi, 254 o segg.
Divisa da loro in ducati, 258, 260, 261; e sua condizione
sotto di essi, 261. Ricostituita in regno; e di nuovo delle sue
condizioni, e della divisione delle rendite e delle terre tra
Longobardi e Romani, e della pretesa servitù di questi, 265,
266, 270 e segg. ; e di nuovo del governo de’ Longobardi e
dei Bizantini, 274 e segg. Quasi tutta unita sotto un re Lon
gobardo, 317 ; e nuovamente divisa alla sua morte, 322. Dis
sensi religiosi, 319. Le sue città cominciano ad acquistare
una importanza nuova; e germi in essa di una nuova cul
tura, 323. Primo esempio di una confederazione di città ita
liane, 327. Ancora dell’autonomia che vanno sempre più acqui
stando le sue città, 334, 340. Costituzione in essa del regno
Franco, 394 e segg., 403, 419. La sua parte meridionale co
mincia ad avere una storia separata da quella di tutto il ri
manente, 424.
Jm L
Fa parte della Pentapoli annonaria de’ Bizantini, 279.
Jordanes, storico de’ Goti. Sua descrizione degli Unni, 45.
Ricordato ad altri propositi, 48, 63, 104, 153.
Latifondi e latifondisti romani, 4, 5, 92, 132, 152, 165,
355, 356.
Leone, arcivescovo di Ravenna. Suoi conflitti con la Chiesa .
di Roma, 396 e segg. pass. Muore 399.
Leone X, imperatore. Sua elezione, 119. Altre notizie di lui
e del suo governo, 119 e segg. pass. Vicino a morte, 124.
Leone XX, imperatore, 130.
Leone IH lvIconoclasta, imperatore, 328, 329. Respinge
un’ invasione dei Mussulmani, 330 ; e reprime alcune ribellio
ni, 330. Delle sue discordie politiche col Papa, 331 ; e della
sua lotta con esso « per il culto delle immagini », 332, 336.
Muore, 340.
Leone IV , imperatore, 402.
Leone I, papa. Capo d’ un’ ambasceria ad Attila, 107. Del suo
concetto d’ una Chiesa universale cristiana con a capo Roma,
108, 109. Dopo il suo colloquio con Attila, questi si ritira, 110.
Si oppone anche, ma senza effetto, all’ avanzarsi de’ Vandali
sopra Roma, 115.
Leone IH , papa. Sua elezione, 408. Datazione delle sue bolle,
con che di fatto si dichiara indipendente dall’ Impero di Co
stantinopoli, 409. Manda a Carlo re de’ Franchi le chiavi d’oro
di S. Pietro e la bandiera della città di Roma, 409. Quale
concetto si formi dello stato delle cose; mosaico da lui or
dinato, 409. Ambasciata mandatagli in risposta dal Re, 410.
Molte e gravi accuse si muovono in Róma contro di lui, 410.
Assalito all’ improvviso da’ suoi nemici, è maltrattato e fe
rito, 412. Invitato dal re Carlo a Paderbona, vi va ed è ac
colto solennemente, 413. Continuano le accuse contro di lui,
e si prega il Re di sottoporlo a un giudizio, 413. Rimandato
con grande accompagnamento a Roma, dov’ è trionfalmente
ricevuto, 414. S’ inizia il processo contro di lui, 414. Riceve
il re Carlo in S. Pietro, e giura d’ essere innocente delle colpe
appostegli, 415. Pone sul capo del Re la corona imperiale ;
e dei vari giudizi che si fecero di questa incoronazione, 416
e segg.
LeutarL V. Buccellino.
Liberio, papa, 35, 36.
Liberio, ufficiale civile nei regni di Odoacre e di Teodo
rico, 151.
Liutberto, figlio di Cuniberto re de’ Longobardi ; gli è usur
pato il trono, 323.
Liutgarda, moglie di Carlo re de’ Franchi, 414.
Lintprando, re de’ Longobardi. Sua legislazione, ricordata, 312.
Scampato alia persecuzione di Ariberto II contro la sua fa
miglia, 323. Succede ai re Ansprando suo padre, 324. Suo
doti, suo lavoro legislativo, 329. È fervente cattolico e si
comporta bene col Papa, 330. Profittando delle difficili con
dizioni dell’ Impero, s’ impadronisce di Classe, 331 ; e profit
tando della lotta tra il Papa e l’ Imperatore, cerca di sten
dere sempre più il suo dominio in Italia, 334. Riesce a sot
tomettersi i ducati di Spoleto e Benevento, e di nuovo delle
sue relazioni e condotta politica coll’Imperatore e col Papa, 335
e segg. pass., 362. Sua morte ricordata, 341, 362.
Lodovico, figlio di Cario re de’ Franchi, 401.
Longino, successore di Narsete, generale de’ Bizantini in Ita
lia, 255, 259, 262.
Longobardi. Nell’ esercito di Narsete contro i Goti, 235, 237 ;
commettono grandi eccessi, 237 ; e son licenziati, 238. Della
leggenda che poi Narsete li chiamasse in Italia, 250. Della
loro origine, 251 ; e delle inimicizie e guerra coi Gepidi, 252
e segg. Loro invasione e conquista d’ Italia, 255 e segg. Si
impegnano in una guerra coi Franchi nella Gallia, 258. Per
dieci anni non si eleggono il Re, 260. Il Papa e l’ Impera
tore chiamano contro di loro i Franchi, 263 ; che potentemente li assalgono, e poi si ritirano, 264. Ricostituiscono la
monarchia, 265. Accordi tra Bizantini e Franchi contro di
loro, 265, 266, 269. Tentano invano di fare un’ alleanza crii
Franchi, 266 ; che poi invece vengono contro di loro, ma sono
sconfitti, 267. Di nuovo guerreggiati dai Franchi, 268, c in
comune coi Bizantini, 269. Paragone e differenze tra il loro
regno e quelli di Odoacre e dei Goti, 270; e dei Bizanti
ni, 278 e segg. Gregorio I si adopera di tirarli al Cattolicismo, 286 ; e di una sua pace con loro, 291. Ricomincia la
guerra tra essi e i Bizantini, 291 e segg. pass. Comincia la
loro conversione al Cattolicismo, ma ad un tempo la loro di
visione, 296, 301, 308. Loro legislazione in sè, e rispetto al
Diritto Romano, 309 e segg. Del crescere della loro conver
sione e insieme dei disordini, 322, 323, 324. Ancora della
loro legislazione, 329. Ancora del loro mutamento religioso, 330;
e condotta politica dei Papi con essi durante « la lotta per le
immagini » tra la Chiesa e 1’ Impero, 330 e segg. pass. Scon
fitti dai Franchi sotto Pipino, 370 ; e di nuovo, 371 ; e sotto
il re Carlo, 386. Fine del loro regno, 394. Cospirano coi
Romani e i Bizantini contro i Franchi, 396 e segg. pass.
Carlo Magno aggiunge alle loro altre leggi, 419.
Lorenzo, candidato al papato contro Simmaco, 161, 162.
Lucca. Resiste a’ Bizantini dopo le ultime disfatte de’ Goti,
poi si arrende, 242.
Lupicino, generale romano, 48.
Lupo, duca del Friuli, 321.
Lupo, vescovo di Troyes, 104, 110.
Magiari, 44.
Maioriano (Giulio Valerio). Eletto imperatore, 119; suo
119, 120. Suoi apparecchi contro i Vandali, 120. Sua
morte, 121.
M ajores natu presso i popoli germanici, 20.
M antova. Presa da’ Longobardi 256 ; e demolitene le mura, 296.
M aom etto. Sua dottrina, e propagazione d’ essa, 305, 333.
Marbodio, capo de’ Marconianni, 11.
M arca presso i popoli germanici, 17, 18.
M arcello, doge di Venezia, 344.
M arciano, marito di Pulcheria imperatrice, 101. Si rifiuta di
pagare «'erti tributi ad Attila, 101; e minaccia d’ invadere
le sur
rre, 107.
M arco Aurelio. Suo elogio, 8. Respinge nn’ invasione bar
g o v e rn o ,
ba rica, 8, 27.
Marcomanni, popoli germanici, invadono 1’ Impero e son re
spinti, 8, 11, 27.
Maria, figlia di Stilicone e moglie d’ Onorio imperatore, 65.
Sua morte, ricordata, 68.
Marino, duca di Roma, 332.
Mario (C.), vincitore dei Cimbri, 10.
Martino I, papa. Condanna certi editti imperiali, 318. Con
dotto prigione a Costantinopoli, e sua morte, 318.
Massimiano Angusto, 30.
Massimino, ambasciatore di Teodosio II ad Attila, 98.
Massimo, pretendente all’ Impero, 79.
Massimo, successore dell’ imperatore Graziano, 51.
Maurizio, duca bizantino a Perugia, 291.
Maurizio, di Cappadocia, imperatore. Cerca di muovere i
Franchi contro i Longobardi, 264. Sue relazioni col papa Gre
gorio I, 290 e segg. Rivoluzione contro di lui, 294.
Mauro, arcivescovo di Milano, 319.
Merovingi, dinastia di Re Franchi, 349. Le succede quella
dei Carolingi, 352.
Messina, 229.
Milano. Vi risiede l’ imperatore Onorio, 66. Assediata e presa
dai Goti, 202. Si arrende a’ Longobardi, 257, o diventa uno
dei loro ducati, 261. Quella Chiesa vuole essere indipendendente, 319. Presa da Carlo re de’ Franchi, 387.
Mimulfo, duca longobardo, 289.
M issi dominici nel regno Franco, 420, 424.
Modena. Presa da’ Longobardi, 257.
Monofisiti, eretici. Loro dottrina, 134, 306. Ricordati a vari
propositi, 178, 230, 232, 333.
Monoteliti, eretici, 305 e segg. pass., 317 e segg. pass., 333.
Monselice. Resiste a’ Longobardi, 256, 257. Presa da loro, 296.
Monte Cassino, monastero, 211, 212. Distratto dai Longo
bardi, 263; e da loro stessi ricostruito, 330. Vi si ritira Oarlomanno figlio di Cario Martello, dopo la morte del padre, 361.
Monza. Basilica di 8. Giovanni, fondatavi da Teodolinda, e
palazzo di Teodorico, ricordati ; e del tesoro raccolto nella
basilica, 299.
ridimoio. 128. Il a capo dell7esercito, 126 ; che gii ai ribel
la, 127. Prwo ed ucciso, 127.
O r iw tt. Una deile quattro Prefetture dell7Impero, 31, 58.
Ori— t# (l i t r o di). V. Im p e r o .
(M étta. Assediata dagli Unni. 104.
Q n d sd a , papa, 160. Succede a Simmaco, e continua a lot
tare, come lui. per la supremazia della Chiesa di Roma, 163.
(ìli succede Giovanni I, 169.
Ororio, 75. 77.
Osso, doge di Venezia. Aiuta l7Esarca a ricuperare Ravenna
caduta in mano de* Longobardi, 337, 344. È ucciso, e gli
succede un figlinolo, 344.
Orto, 291.
Orvieto. È in mano de7Goti, 199, 201. Presa da Belisario, 202.
Orimo. È in mano dei Goti, 199, 200, 201. Assediata da Be
lisario, si arrende,* 203. Giura obbedienza al Papa, 389.
O stia. È in mano de7 Goti, 221. Presa da7 Bizantini, 222.
Ostrogoti. V. G o ti. Vinti e sottomessi dagli Unni, 45. Sono
nell7esercito d7Attila e combattono contro i Romani e i Vi
sigoti loro alleati, 96, 104. Si staccano dagli Unni dopo la
morte d7Attila e la rovina del suo regno, 138 ; e occupano
la Pannonia, 138. Si uniscono con loro quelli che sono in Co
stantinopoli, 139; e invadono l7Italia, e se ne impadroni
scono, 140 e segg. Le antiche istituzioni germaniche sono
mutata presso di loro, 147. Eleggono Teodorico loro re, 148.
dizione nel nnovo regno di fronte ai Romani, 149
pass. Teodorico tenta inutilmente la fusione tra i
due popoli, 165. Divisione delle terre tra di loro, 151. Loro
star.* *l«>po la morte di Teodorico, 172. 173. Loro avversione
tbisunto figlinola «li lui, 173. 174. Della guerra mossa
imperatore Giustiniano. 183 e segg. Assediano Roma,
l *1 .* <egg. Fanno proposte di pace ai Bizantini assediati che
rifiutano. 197: indi prepongono una tregua eh7è accet; ir * ; >7. Levano 1*assetilo. 198. Continuazione della guerra,
1 *‘ . «a*gg. la loro fortuna risorge dopo la partenza di Beceneralo dei Bizantini. 214 e segg. Tengono l’ alto
li *' t e quasi tutta la centrale. 226. Sbarcano in Sicilia, 229.
Assediano Ancona, e la loro armata ò distrutta, 234. Di
sfatti da Narsete succeduto a Belisario, 237 ; e di nuovo, 240.
Fine del loro regno in Italia, 240, 241. Loro ultime resi
stenze, 241 e segg. Quello che rimanesse dolln loro legisla
zione, 245.
Otranto, 218.
Padova. Resisto a7Longobardi, 251, 257. Presa da loro o di
strutta, 294.
Paganesimo, 6. Oli Stoici cercano, ma invano, di salvarlo
dagli assalti del Cristianesimo, 8 ; e i Neoplatonioi, puro Inu
tilmente, di risuscitarlo, 37 e segg.
Fagus presso i popoli germanici, 19 e segg., 28.
Falnde Meotide, 44.
Fannonia. Occupata dagli Ostrogoti, 188.
Paolo, cubiculario, soprannominato A f ia r ia . Difensore di Ste
fano III papa contro le violenze dei capi dell1aristocrazia
ecclesiastica in Roma, 381. Spadroneggia, dopo la loro ca
duta, col favore de’ Longobardi, 382 o segg. Ambasciatore
del papa Adriano I al re Desiderio, 384. Corca accordarsi col
Re contro il Papa, 385. Imprigionato ed ucciso, 885.
Paolo, esarca. Manda un esercito a Roma contro il Papa, 882.
Scomunicato e ucciso, 334.
Paolo X, papa. Consacrato, 374. Chiedo aiuto a Pipino con
tro la nobiltà laica di Roma, 374. Sua politica tra 1 Fran
chi i Longobardi e l’ Impero, 375.
Paolo Diacono, storico dei Longobardi, ricordato a vari pro
positi, 249, 251, 261, 308 ; in ispecie a proposito della condi
zione dei Romani sotto i Longobardi, 268, 270, 272 ; c rid
i’ importanza che acquistarono col tempo sotto di loro le
singole città italiane, 323, 327. Un suo fratdlo e fatto im
prigionare da Carlo re de’ Franchi, 398. fc alla corto di osso
Carlo, e altre notizie di lui, 422.
Faolnccio, doge di Venezia, 343, 344.
Parma. Presa da’ Longobardi, 257.
Pasquale primicerio, e Campalo -acdJarie, della Curia ro
mana. Congiurano contro il papa Leone III, e lo acerj«ano a
Carlo re de’ Franchi, 411, 412. Non potendo provare l’ accuse,
sono arrestati o mandati in Francia, 414. Ricondotti a Roma,
415; e dannati alla pena di morte, commutata poi nell’ esi
lio, 416.
Pavia» Vi accade un tumulto, 70, 72. Vi si rinchiude Teo
dorico durante la sua guerra con Odoacre, 142, 143. Sac
cheggiata dai Franchi, 203. Assediata dai Bizantini, 205. Una
delle principali città de’ Goti dopo la loro perdita di Raven
na, 238. Cade anch’ essa in mano de’ Bizantini, 240. Fa lunga
resistenza a’ Longobardi, 255, 257 ; ma infine s’ arrende, 258 ;
e diventa uno de’ loro ducati, 261. Ricostruzione della sua
basilica, ricordata, 308. Vi è sanzionato l’ Editto di Rotari,
309. Capitale del regno Longobardo, 317. Assediata dai Fran
chi, 370; e di nuovo, 371. Vi si rinchiude il re Desiderio,
od è di nuovo assediata da Carlo re de’ Franchi, 387; cui
finalmente s’ arrende, 393, 394.
Pelagio, diacono. Fa le veci del Papa assente, 223. Mandato da
Potila a trattare di pace con Giustiniano, 224. Eletto papa, 245 ;
si mette in opposizione coi vescovi e prelati italiani, 246. Gli
succede Giovanni III, 250.
Pelagio XX, papa, 262. Si rivolge a’ Franchi e all’ Imperatore
contro i Longobardi, 263, 264, 279. Si accorda coll’ Imperatore
in una questione religiosa, 267. Muore, 268, 283.
Pentapoli de’ Bizantini. Città che la compongono, 257. Divisa
in marittima e annonaria, 279. Occupata da’ Longobardi, 366.
Tolta loro in parte da’ Franchi e donata al Papa, 371 ; che mira
a ottenerla tutta, 372, 373. Di nuovo donata, e interamente,
al Papa, 392, 400.
Peredeo, duca longobardo, 338.
Peredeo, uccisore d’Alboino, 259; sua morte, 259.
Persia e Persiani. Sempre nemici dell’ Impero; accenni alle
loro guerre con esso, 39, 48, 202, 204, 213, 214, 248, 301.
Loro conquiste, 302. Ripetutamente sconfitti, 303.
Perugia. È in potere de’ Bizantini, 217, 226 ; che indi la per
dono, 226; e poi la ricuperano, 238; e la conservano, 258.
Occupata da’ Longobardi e ripresa da’ Bizantini, 291 ; e di
nuovo da’ Longobardi, 291.
Pesaro. È in potere de’ Bizantini) o fU parto della Beuta*
poli, 257, 279.
Petronio Massimo. Eletto imperatore, 113. Ucciho, 1U.
Piacenza. Resiste a’ Longobardi, 257.
Piceno. Posto a soqquadro da’ Bizantini, 198.
Pietra Pertusa, 236. Si arrende a’ Bizantini, 238.
Pietro, duca bizantino di Roma, 328. Accecato, 334.
Pipino d’ Héristal, franco, 353.
Pipino, figliuolo di Carlomanno, 340, 360. ft eletto e conMacrato re de’ Franchi, 361. A lui si rivolge 11 papa Stefano li
per aiuto contro Astolfo re de’ Longobardi, 864; ed egli lo
invita a recarsi in Francia, e accoglienza o promesse che gli fa,
364 e segg. Di nuovo consacrato e incoronato dal Papa, 368 ;
o datogli da lui il titolo di Patrizio, 369. Tenta inutiImmite
di indurre Astolfo a « restituire alla Repubblica Romana e alla
Chiesa » le terre da lui occupate, 366, 369. Viene con l’esercito
in Italia, toglie ad Astolfo Ravenna e altre città e le ernie a)
Papa, 369, 370. Non mantenendo Astolfo i patti, ritorna ; gli
toglie altre terre e le dona come le precedenti, 370 e segg,
Esorta la nobiltà laica di Roma, levatosi contro la nobiltà
. ecclesiastica, ad obbedire al Papa, 374. 8ue relazioni con l’ Im
peratore, 374, 375. Muore, 375; e il regno si divide tra Car
lomanno e Carlo suoi figlinoli, 379.
Pipino, figlio naturale di Carlo re de’ Franchi, detto il gold**.
Congiura contro il padre, ed è rinchiuso in nn convento, 405,
Pipino re d’ Italia, figliuolo di Cario re rie’ Franchi, Mandato
dal padre incontro al Papa, 413. spedito contro il Duca di
Benevento, 415, 419.
Pisa. Accenno alla sua condizione politica al tempo della lotta
tra Bizantini e Longobardi, 2ff6.
Placadia, figlia di Kodosssa imperatrice, 116.
Placiti, assemblee sotto i Frate.'... U h.
Plotino, capo del >'c o p i a t o : . I 37.
F orim i IO
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P o r t o , eiVA.
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£ 2 '.
no, 232, 244, 245, 278, 343, 345.
IYÌacÌ|lM presso i popoli g im w iciT 20 e segg.
PrìseO) «nhMriitore di Teodosio II ad Attila, amre una de
scrizione del n o ràggio, 98 e aegg.
Procopio, 42, 46, 141, 148. Acro-paglia Belisario nello sne
guerre, delle quali landa un prezioso diano, 177. Citato a vari
propositi, 190 e segg. pass., 207, 216, 224. Mandato in esplo
razione a Napoli, 195.
P rovaua. Tolta da Teodorieo a7Franchi, 159; e governo da
Ini costituitovi, 159.
Pulcharia, sorella di Teodosio II imperatore, 83, 98; a cui
succede, 101.
Quadi, popoli germanici, 27.
Rateili, re de7Longobardi, 362, 372.
Radagaaio. Battuto nella Rezia, 6 ; e di nuovo in Toscana, e
fatto prigione, 67.
Ragimberto. Usurpa il trono de7Longobardi, 323.
Ravenna. Capitale dell7Impero d7Occidente, 66. Divisa tra chi
vuole l’ indipendenza di quell7Impero dall’ Oriente e chi un
accordo con questo, 83. Ricordata a proposito dei monumenti
erettivi da Galla Placidia, 94. Assediata e presa da Teodo
rico, 144, 145 ; e opere pubbliche da lui compiutevi, 155. Vi è
bruciata la sinagoga degli Ariani, 165. Vitige re de’ Goti vi
raccoglie un esercito, 188, 189. Vi si accosta un capitano di
Belisario, 198; e poi egli stesso vi pone l’ assedio, 204. Si
arrende, 205. Sempre in potere de’ Bizantini, 255, 257. Vi ri
siede il loro Prefetto del Pretorio, 278 ; e l’ Esarca rappresen
tante dell’ Impero, 279. Posta a sacco da’ Bizantini, 326. È in
mano de’ Longobardi, ed è loro ritolta da’ Bizantini, 337. Ri
presa da’ Longobardi, 362. Ritolta loro da’ Franchi, e donata
al Papa, 371. Di nuovo minacciata da’ Longobardi, 384. Que
gli Arcivescovi cercano rendersi indipendenti dalla Chiesa di
Roma, 379, 385, 396.
Reggio di Calabria. Tolta da’ Bizantini a’ Goti, 221.
Reggio d'Em ilia. Presa da’ Longobardi, 257.
Reno. Confino dell’ Impero Romano, 2.
Rezia. Resiste ostinatamente ai Romani, 2, 3. Vi è sconfitto
un esercito barbarico, 65. Posseduta da Teodorico, 157.
Ricimero, barbaro, generale dell’ Impero d’ Occidente, 117. Ri
porta una vittoria sui Vandali, 118. Fa e disfà gl’ impera
tori, 118 e segg. pass. Muore, 123. Per opera sua viene
l’ Italia iu piena balla de’ Barbari, 124.
RiminL Occupata dai Goti, 144. Tolta loro dai Bizantini, 198.
Di nuovo assediata da’ Goti, 201; a’ quali si arrende, 229. L
di nuovo in mano de’ Bizantini, 257 ; e fa parie della Pentapoli, 257, 259.
Ripuari. V. Salici.
Rodoaldo, figlio di Gisulfo duca del Friuli, poi duca di Be
nevento, 309.
Rodoaldo, re de’ Longobardi, 316.
Rodogaudo, duca del Friuli. Cospira contro Carlo re de’ Fran
chi, 395, 398; ed è da lui assalito e sconfitto, 398.
Roma. Accenno allo stato suo dopo la divisione dell’ Impero
e il trasferimento della sede imperiale a Costantinopoli, 31,
32; dopo la quale è spinta a divenire la capitale religiosa
del mondo, 33. Assediata e presa da Alarico re do’ Goti, che
poi si ritira, 72 e segg. ; e il suo stato va migliorando, 88.
Minacciata dagli Unni, manda ad essi una solenne amba
sciata, 107. Incapace di ogni resistenza nella venuta de’ Van
dali, 114; dai quali è presa e posta a sacco, 115. Chiude lo
porte in faccia a Odoacre, 142. Teodorico vi lascia lo anti
che magistrature, 153. Tolta da Belisario ai Goti, e ricon
quistata all’ Impero, 188 e segg. Se ne restaurano lo mura,
188. Del lungo assedio postolo da’ Goti, 190 e segg. Libe
rata, 198. Assediata da Totila, Belisario tenta per ogni via
di soccorrerla, ma finalmente cade iu mano de’ Goti, 219 e
segg. Totila vorrebbe distruggerla, 224; poi l’ abbandona, 225.
Vi rientrano i Bizantini e vi riparano i guasti fattivi e la
difendono da nuovi jvssalti dei Goti, 225. Ripresa da To
tila, 228. Assediata e ripresa da Narsete, 239. Resta ai
Bizantini nella prima invasione de’ Longobardi, 258; ma e
continuamente osteggiata da questi, 262. V’ è pei Bizantini
un Vicariti* Urbi*, 278; e un Maestro de’ militi, 281. Minac
ciata dal Duca longobardo di Benevento, 290. Assediata dal
re Agilulfo, 291. Sollevazioni in essa pei dissensi religiosi fra
l’ Imperatore e il Papa, e in difesa di questo, 325, 327; e
di nuovo, 332. Inizi della- sua indipendenza e libertà muni
cipale, 334, 335. Si va a poco a poco staccando dall’ Esar
cato, 341; e costituendo in una specie di repubblica, 342.
Disordini e tumulti che vi accadono per la nuova autorità
acquistatavi dal Papa dopo la donazione di Pipino, 373, 375.
11 Papa manda a Carlo re de’ Franchi la bandiera della città,
409, 410. Nuovi disordini e tumulti che vi accadono per la de
bolezza dell’ Impero e la lontananza del re Carlo, 411 e segg.
Som a (Chiesa di). V. C hiesa ec.
Som a (Ducato bixantino di), 328. Molestato e invaso dai
Longobardi, acquista a poco a poco indipendenza dall’ Impero
e viene in possesso della Chiesa, 334, 338 e segg. pass.. 362
e segg. pass., 367, 370, 373, 376. Donato da Carlo re dei
Franchi al Papa, 393, 400.
Romani. Paragone tra la loro società e quella de’ Barbari, 23 e
segg. Loro condizione di fronte ai Coti sotto il regno di Teo
dorico; antagonismo tra i due popoli, 149 e segg. pass., e
come si scopra in manifesta avversione, 165. Della loro con
dizione sotto i Longobardi. V. I t a l i a .
Romania. V. B a c i a .
Romano, esarca, 267. Stringe un accordo co’ Franchi contro
i Longobardi, 269. Si sdegna d’una pace contratta da Grego
rio I papa con loro, 291; e toglie loro alcune città, 291.
Gregorio si lagna di lui con l’ Imperatore, 292. Muore, 294.
Romilda, vedova di Gisulfo duca del Friuli, 297.
Romolo Augnatolo. Eletto imperatore, 126. Deposto e con
finato, 127.
Romualdo, figlio d’Arichi duca di Benevento, 404.
Romualdo, figlio di Grimoaldo duca di Benevento e re. Go
verna per lui quel Ducato, 317, 320; e gli succede, 322.
Romualdo H , duca di Benevento. Piglia Crema, 331; pre
sto ritoltagli, 331.
Rosmunda, figlia di Cunimondo re dei Gepidi, 254. Alboino
le uccide il padre e la costringe a sposarlo, 254. Sua ven
detta e sua morte, 259.
Rossano, 226.
Rotavi, re de’ Longobardi. Sua ascensione al trono, 301. Ri
porta una vittoria sui Bizantini, 308. Del suo E d i t t o , 309 e
segg. Muore, 316. Editto, di nuovo ricordato, 329.
Rotruda, figlia di Carlo re de’ Franchi; 402.
Rufino. Tutore di Arcadio imperatore d’ Oriente, 58; e pre
fetto del Pretorio, 59. Oriundo della Gallia, 59. Antagoni
smo tra lui e Stilicone tutore d’ Onorio in Occidente, 159.
Ucciso, 61.
Rugi, barbari. Devastano la provincia del Norico, 136. Vinti e
cacciati da Odoacre, 137. Il figlio del loro Re si rifugia presso
gli Ostrogoti, 137 ; coi quali poi vengono in Italia, 146, 215.
Sabina. Quel territorio è chiesto dal Papa a Carlo re de’Fran
chi, 403.
Salerno. Sua annessione al ducato di Benevento, 309.
Salici e Ripuari (Franchi), 347 e segg. pass.
Sallustio. Suo palazzo in Roma, incendiato, 75.
S. Ambrogio vescovo di Milano, 53. Suo carattere, sue rela
zioni, con l’ imperatore Teodosio, 54 e segg.
S. Basilio, 53.
S. Benedetto. Di lui e dell’ Ordine da lui fondato, 208 e segg.
Sua
R e g o la ,
ricordata, 263.
S. Bonifazio. Accenni al suo apostolato, 359. Consacra in
nome del Papa Pipino eletto re de’ Franchi, 362, 368.
Colombano, 299.
Genoveffa, 104.
Giovanni Crisostomo, vescovo di Costantinopoli, 62.
G ioiam o, 53.
Gregorio Hasianzeno, 53.
Pietro, chiesa di Roma, nella sua primitiva forma, 190.
Severino. Profetizza a Odoacre la sua fortuna in Italia, 128.
Benefica azione da lui spiegata nel Norico, 128, 136.
S. Sofia, tempio di Costantipoli, 176.
S.
S.
S.
S.
S.
S.
S.
Sardegna» 278.
Sassoni. Misti coi Longobardi nella loro invasione d’ Italia,
255, 260. Accenni alle loro guerre con Carlo re de’ Franchi,
395, 398, 399, 402, 403, 407, 413.
Scabini nel regno Franco, 420.
Schiavi romani. Arrolati negli eserciti dell’ Impero, 3 ; e in
numero sterminato, 5.
Scholae nell’ ordinamento militare di Roma, 376, 390, 414.
SoirL Vengono in Italia con Odoacre, 126, 146.
Scolastica» sorella di S. Benedetto, 211.
Soolastioo» esarca, 328.
Souldasoi nel regno Longobardo, 277.
Serena» moglie di Stilicone, e nipote dell’ imperatore Teodo
sio, 59, 71. Uccisa, 73.
Sergio, papa, 324. L’ imperatore Giustiniano II manda a im
prigionarlo, ma non 1’ ottiene, 325. Sua morte, 325.
Sergio, patriarca di Costantinopoli, 306, 307.
Sergio, secundicerio della cancelleria papale. V. C ris to fo ro p r i
m icerio.
Sessualdo, balio di Romualdo, governatore di Benevento, 320.
Severino, papa, 307.
Severo (Libio), imperatore, 121.
Sioilia. Tolta da Belisario ai Goti e riconquistata all’ Impe
ro, 185. Vi sbarcano i Goti, 229. Ha un suo proprio Pre
fetto, 278. Si ribella, ma è risottoposta, 330. Le sue chiese
vengono unite al patriarcato di Costantinopoli, 336.
Silverio, papa, 188. Deposto, 196.
Simmaco, capo del Senato, fatto morire da Teodorico, 169.
Si restituiscono ai suoi iigli i boni a lui confiscati, 172.
Simmaco, papa. Sua elezione contrastata, 161, 162. Suoi
atti, 162, 163.
Simplicio, papa. Sostiene fermamente, come i suoi antecessori,
l’ autorità della Chiesa Romana, 134.
Sinesio, rètore, 61.
Singerico, re do’ Goti, 81.
Sinigaglia. È in potere dei Bizantini, e fa parte della Pentapoli, 257, 279.
Slavi. Loro conquiste nel dominio dell’ Impero, 303, 304. En
trano nel Ducato di Benevento, poi ne sono cacciati, 309.
Smeraldo, esarca. Mandato da Costantinopoli in Italia contro
i Longobardi, 265. Toglie loro il porto di Classe, 267. Sua
imprudente condotta in una agitazione religiosa dell’ Istria e
della Venezia, 267. Richiamato dall’ Imperatore, 267. Ricor
dato, 279. Rimandato con la stessa carica in Italia, 295; e
di nuovo sostituito, 297.
Sofia, imperatrice, 249.
Spagna. Resiste ostinatamente ai Romani, 2, 3. È invasa dai
barbari, e da ribelli all’ Impero, 67, 69, 72, 78, 79, 82.
Spoleto. È in potere de’ Bizantini, 217 ; che indi la perdono,
ma poi la ricuperano, 238. Diventa un ducato longobardo,
258, 261. V. S p oleto (D u c a e D u c a to di). '
Spoleto (Duca e Dnoato di), 258, 261. Assedia Napoli, 263.
Diventa ereditario e indipendente, 276. Forte posizione di
quel Ducato, 290. Minaccia Roma, 290 ; e il Papa conclude
seco una pace, che poi si rompe, 291. Si allarga nell’ Italia
meridionale, 293. Ancora delle sue mire d’ indipendenza, 294.
Ricordato 321. Giura obbedienza al Papa, 389. Ricordato a
proposito della donazione fatta da Carlo re de’ Franchi al
Papa, 392. Si allontana dal Papa per sottomettersi a Carlo, 395 ;
poi gli si aliena e cospira contro di lui, 397, 398* V. anche
ai nomi dei Duchi: A H u l f o , G u in igild o, Ild eb ra n d o , T ra sim o n d o .
Stefano, duca bizantino di Roma, 340.
Stefano H , duca e vescovo di Napoli, 347.
Stefano, notaio. Oratore del papa Adriano I al re Deside
rio, 384.
Stefano H , papa. Minacciato da Astolfo re de’ Longobardi,
cerca inutilmente di far pace con lui, 363. Si rivolge invano
per aiuti all’ Imperatore, 363. Si rivolge a Pipino re de’ Fran
chi, 364. Cerca inutilmente di persuadere Astolfo a restituire
le terre tolte all’ Impero, 365. Va in Francia, e delle pro
messe fattegli da Pipino, 365 e segg. S’ ammala, e guarisce
miracolosamente, 367, 368. Consacra ed incorona il Re, 368.
Cessione fattagli da Pipino di terre tolte ad Astolfo, 370. Di
nuovo minacciato da Astolfo, di nuovo ricorre al Re de’ Fran
chi, 370. Donazione fattagli di altre terre, 371. Sue relazioni
con Desiderio successore di Astolfo, 372. Muore 373.
Stefano IH» papa. Sua elezione, 377. Quello che faccia e
gli accada nei tumulti seguiti a suo tempo in Roma tra
la nobiltà civile e la ecclesiastica, 378 e segg. pass. Sua
condotta tra Franchi e Longobardi, 380 e segg. pass. Muo
re, 383.
Stilinone. Tutore d7Onorio imperatore d7Occidente, 58. Sposa
una nipote dell7imperatore Teodosio, 59. Antagonismo tra
lui e Rufino tutore d7Arcadio in Oriente, 59 e segg. ; riesce a
farlo uccidere, 61. Come intendesse procedere coi Goti, 63.
Respinge un7incursione d7Alarico, ma non lo insegue, ed è
sospettato di tradimento, 64. Cresce la sua potenza e auto
rità in Italia, 65. Dà in moglie a Onorio una sua figliuola, 65.
Respinge Radagasio, 65 ; e di nuovo Alarico, 66; e di nuovo
Radagasio, e lo fa prigione, 67. Crescono contro di lui le
accuse di tradimento, 67, 68. Dà un7altra figliuola in moglie
ad Onorio, 68. Consiglia Onorio ad accordarsi con Alarico, 69.
È un barbaro romanizzato, donde insieme la sua forza e la
sua debolezza, 69. Suo attaccamento all7Impero, 70. Cade
in mano dei suoi avversari, ed è ucciso, 71.
Stoicismo. Si sforza, ma inutilmente, di combattere il Cristia
nesimo", 7. Ricordato a proposito del Neoplatonismo, 38.
Subisco, monastero, 211.
Sutri. Tolta dai Bizantini al Papa, 291 ; dai Longobardi ai
»Bizantini, e restituita al Papa, 334, 335.
Sfevi. Invadono con altri barbari la Gallia, 67.
Tacito. Della sua descrizione dei popoli germanici e confronto
con quella di Giulio Cesare, 14 e segg.
Taranto. Si arrende ai Goti, 229.
Tasone, figlio di Gisulfo duca del Friuli, 297, 298.
Teja, generale goto. È in Verona, 236. Manda aiuti a Totila, 236,
237. Eletto re dopo la morte di Totila, 238. Fa. trucidare
trecento giovani romani, 239. Sua disfatta e sua morte, 240.
I suoi editti non sono riconosciuti dai Bizantini, 245.
Telemaco, monaco orientale, 66.
Teodato» figlio d’ una sorella di Teodorico» 173. Avverso ad
Amalasimta figlia di lui» 174. Associato da Amalasunta nel
regno» in breve la caccia e fa uccidere, 175. Perde la Sici
lia, 185; e Napoli, 186. Deposto dai suoi Goti, 187.
Teodato, primicerio della Curia romana, 411.
Teodemiro degli Amali, ostrogoto, padre di Teodorico, 138.
Teodolinda. Del suo sposalizio con Autari re de’ Longobar
di, 267. È cattolica, 286. Suo savio governo, ricordato, 287.
Sposa Agilulfo, 287. Ricordata, 292, 295, 296. Governa il
regno nella minorità del figliuolo, 299. Della protezione ac
cordata da lei e da Agilulfo a S. Colombano, 300. Muore, 301.
Teodora, imperatrice e moglie di Giustiniano. Creduta istigatrice della uccisione d’Amalasunta, 175. Sua origine, sue
qualità, 177. Coraggio da lei spiegato in una rivoluzione di
Costantinopoli, 179. Fa deporre papa Silverio ed eleggere
Vigilio, 196. Perseguita Belisario, 213, 214. Sua morte, ri
cordata, 226.
Teodorico degli Amali. Educato all’ armi nelle legioni Ro
mane, ‘ 25. Capo degli Ostrogoti, 137. Notizie di lui anteriori
alla sua discesa in Italia, 137 e segg. Sua discesa, 141. Sua
guerra contro Odoacre, 142 e segg. ; che è costretto ad ar
rendersi, 144 ; e delle condizioni dell’ accordo, 145. Uccide
Odoacre, 145; e resta solo padrone d’ Italia, 146. Condizione
in cui si trova, come capo de’ suoi barbari e insieme rappre
sentante dell’ Impero, 146 e segg. Sua autorità e suo gover
no, 148 e segg. Non potendo fare assegnamento sull’ Impero,
cerca fortificarsi, 157 ; e s’ imparenta con altri Re barbari, 158.
S’ impadronisce della Provenza, e governo che vi ordina, 159.
La questione tra la Chiesa di Roma e quella di Costantino
poli e tra il Papa e l’ Imperatore toma a suo danno ; ed ei si
adopera a risolverla, 160 e segg. Perseguitandosi gli Ariani,
egli perseguita i Cattolici, 165, 169. Di una pretesa congiura
contro di lui, 166 e segg. ; e della sua vendetta, 168, 169.
Sua morte, e leggende intorno ad essa, 170. Presenta ai Goti
per suo successore il nipote Atalarico, 171.
Teodorico, re de’ Visigoti. Alleato dei Romani contro gli Unni,
103, 104. Muore, 105.
Teodoneo
T L,
re
fa ?
V isigo ti, 1 17 . F a eleggete A v ito all’ im
pero <T O ccidente, 117.
TeodosiCO, soprannom inato
Strabene, capo dei G oti stabiliti
in O riente, 1 39 .
Teodoro, patrizio. Pone a sacco e a fuoco R avenna, 3 2 5 , 3 2 8 .
Teodoro d e c id a » 2 3 0 .
Teodoro Calliope*, esarca, 3 18 .
Teodosio^ im peratore. E letto a sno com pagno, per l ’ O riente,
dall’ imperatore Graziano, 5 0 . Conclude im a capitolazione coi
G oti, 5 0 . R im ette sul trono d’ Occidente Valentiniano I I sta
tone cacciato, e sposa G alla sua sorella, 5 1 . M orto V alen tiniaao, vince altri usurpatori del trono e riunisce p oliticaniente l’ Im pero, 5 2 ; e v i ricostituisce l ’ unità religiosa, 5 3 .
Nato un tum ulto contro di Ini, fa uccidere rei ed innocenti, 5 4 .
Chiam ato a fam e penitenza da 8 . A m brogio, dapprima g li
resiste, poi si um ilia, 54 e seg g . Sua m orte, dopo la quale
rinascono e crescono tu tti i pericoli m inaccienti l’ Im pero, 5 6 .
Lascia l ’ Im pero diviso tra i suoi due figlin oli, 5 7 .
Teodosio H ,
imperatore d ’ O riente, 7 4 . D issensi tra Ini e Ono
rio im peratore d’ Occidente, 8 3 , 8 4 ; dopo la cui m orte as
sume l’ autorità d’ unico im peratore, 8 4 . P oi rim ette l ’ Occi
dente nelle mani di Valentiniano D I , 8 6 . Costretto a pagar
tribu ti, e sempre m aggiori, agli U nni perchè non m olestino
l ’ Im pero, 96 e segg. pass. Sua v ita religiosa, 9 7 , 9 8 . L a sua
m oglie ricordata, 9 8 . Sua m orte, 1 01 .
Teofilatto, esarca, 325.
Termangia» m oglie d’ Onorio im peratore, 6 8 , 7 1.
Terracina. Iscrizione ivi dedicata a Teodorico, 160.
Teudebaldo, re de’ Franchi, 241.
Teudiberto, re dei Franchi. Manda, e poi viene egli stesso, in
aiuto de’ Goti contro i Bizantini, 202, 203. Promette altri
aiuti, 204.
Teudiberto H , re de’ Franchi. Una sua figlia è promessa
sposa a un figlinolo di Agilulfo re de’ Longobardi, 297.
Tiberio U . Supplisce e poi succede all’ imperatore Giustino II,
263. A lui succede Maurizio di Cappadocia, 264.
Tivoli, 219.
Todi, 291.
Tolosa, capitale del regno de7Visigoti, 158.
Torino. Presa da Carlo re de7Franchi, 387.
Tonamelo, re de7Gepidi, 252.
Torismondo, figlio di un Se de7Gepidi, 252.
Torismondo, re de7Visigoti, 106.
Toscana. Ricordata a proposito della donazione fiatta da C arlo
re de7Franchi al Papa, 392.
Totila, re de7Goti. Visita S. Benedetto, 211. Rialza le sor?
Goti in Italia, 216. Soa molta abilità strategica e politil a. 216.
Fatti vari della sna guerra coi Bizantini, 216 e segg V i a l
l7impresa di Napoli, che gli s7arrende, 217. S7apparecchia al
l'assedio di Roma, 217 ; e vi s7incammina, 218. L'assedia 219 ;
e se ne impadronisce, 223. Vorrebbe trattar di pace con V impe
ratore Giustiniano, che si rifinta, 224; ond'egli s'accingistrugger Roma; ma poi se n'astiene, 224; e l7abbandon i 22"».
Torna per ricuperarla, 225 ; e la ricupera, 228. Sbarca in Si •■11••.
234. Assedi^ Ancona, ma è costretto a levarsene, 234. R i t m o . .
proposte di pace, 234. È presso Roma e attende rinforzi, 296. V i
incontro a7nemici comandati da Narsete, 236; ed è scotimti» «
muore, 237.1 suoi editti non sono riconosciuti da' Bizanti
T ato, duca di Nepi. Capo della nobiltà laica in Roma coni n » l a
ecclesiastica, 376.
Trasamondo, re de'Vandali. Sposa una figlia di Teodo:
degli Ostrogoti, 158, 173. Ricordato, 181.
Tracimando, duca longobardo di Spoleto. Giura fedeltà a l
re Lint.prando, 335; poi gli si ribella, e perde e rieri p
di nuovo ripeTde Io stato, 338 e segg.
T r* Capitoli. tynestione teologica detta dd T r e C a p itoli, agitata
tra la Chiesa di Roma e l’ imperatore Giustiniano, 229 e «*-gg.
Trénta. Fresa da'Longobardi, 257; e uno de7loro lineati. 261.
V. anche A la r hi.
T ri battiamo, ginreconsnlto, compilatore del C orp u s .7uri* 176.
Trojraf. Scampa a nn saccheggio j^cr opera del suo Ve*-si
104, 110.
T n l à , maestro dei cavalieri di Odoacre, 143.
Tnrcilingi* Vengono in Italia eon Odoacre, 126, 146.
Ulfari, duca longobardo dì Treviso, 289*
IJlfila» goto, vescovo. Inizia la cultura e la conversione de’ Goti
al Cristianesimo, e traduce la Bibbia, 40.
Ungari, poi Ungheresi, 305.
Unnerico, figlio di Genserico re de’ Vandali, 116.
Unni. Grande famiglia di popoli a cui appartengono, 42 e segg.
Disfanno gli Alani, 44. Descrizioni lasciatene dai cronisti, e leg
gende intorno ad essi, 44. Sottomettono gli Ostrogoti, 45. As
salgono e inseguono i Visigoti, 46. Chiamati in Italia, poi fatti
retrocedere da Ezio generale romano, 85, 86. Durano a lungo
le loro amichevoli relazioni con l’ Impero, 95. Poi mutano,
estendendosi sempre più il loro regno sotto Attila. V. A t t il a .
Alcuni di loro mandati da Costantinopoli a soccorrere Roma
assediata da’ Goti, 193. Una loro invasione respinta da Beli
sario, 226.
Unulfo, 321.
Uraias, nipote di Vitige re de’ Goti, ricusa di succedergli, 205.
Ucciso, 215.
Urbino. È in mano de’ Goti, 199, 201. Presa da’Bizantini, 202.
Fa parte della loro Pentapoli annonaria, 279.
Valdiperto, prete longobardo, 377, 378.
Valente, imperatore d’ Oriente. Concede il passo ai Visigoti,
cacciati dagli Unni, 46; poi gli combatte ed è sconfitto, 48.
Valentiniano I, imperatore d’ Occidente, 46, 49.
Valentiniano H . Gli è dato dall’ Imperatore il governo del
l’Italia e dell’Africa, 49. È cacciato d’Italia, poi vi ritorna, 51.
Sua morte, 52.
Valentiniano IH , 84. Fatto imperatore d’ Occidente, sotto la
tutela della madre, 86. Comincia a governare da sè, 91 ; sue
nozze, 91. Uccide Ezio generale dell’ Impero, 111, 112. È uc
ciso lui, 112.
Valeriane), generale bizantino in Ravenna. Sue fazioni mili
tari, 234, 238.
Valia, re de’ Goti, 81. Suo accordo con l’ imperatore Onorio, 81.
Fonda il regno Visigoto nella Gallia, 82.
Vandali. Invadono la Gallia, 67. Combattuti da’ Goti nella Spa-
gna, 82. Della loro invasione in Africa, 87 e segg.; e del loro
governo e dominazione in essa, 91 e segg. Alleati de’ Visi
goti, 102; e poi loro nemici, 103. Fanno continue scorrerie
sulle coste d’ Italia, 1 1 2 . Delle loro crudeltà e della loro ve
nuta a Roma, 113, 114; che prendono e saccheggiano, 115.
Sono sconfitti in una battaglia da Ricimero, generale roma
no, 118; poi vanno a vuoto altre imprese tentate contro di
loro, 120, 121 ; e il loro orgoglio cresce a dismisura, 122. Sono
cacciati dall’Africa, 181; e scompaiono dalla storia, 182.
Varo, console romano, sconfitto da’ Barbari, 1 0 .
Venezia. Sua fondazione, 106. È in potere de’ Goti, 226. Dal
Veneto incomincia l’ invasione de’ Longobardi in Italia, 256.
Si agita per una questione religiosa, 267. È un Ducato bi
zantino, 280 ; e fa parte dell’ Esarcato, ma a poco a poco di
viene indipendente, 338, 341. Riassunto della sua storia, e sua
costituzione politica e civile fino a questo tempo, 342 e segg.
Ricordata, a proposito della donazione fatta da Carlo re dei
Franchi al Papa, 392.
Verina, moglie di Leone I imperatore, 122 , 124, 130.
Verona. Assediata da’ Bizantini, 205. Difesa da Teja, 236. Di
nuovo voluta assediare, 238. Si arrende a’ Longobardi, 256.
Vi muore Alboino, 258. Vi si rinchiude Adelchi figlio di De
siderio re de’ Longobardi, 387. Cade in mano de’ Franchi, 388,
394. Accenno a una questione tra la città e il suo Vescovo, 406.
Vicenza. Si arrende a’ Longobardi, 256.
Vicovaro (K onaci di), 210.
Vicna presso i popoli germanici, 19, 2 0 .
Viduchindo, capo de’ Sassoni, 403.
Vigila, interpetre d’ un’ ambasceria d’Attila a Costantinopoli, 98.
Vigilio, papa. Sua elezione, 196. Chiamato a Costantinopoli,
e di una controversia religiosa tra lui e l’ imperatore Giusti
niano, 231. Suo ritorno a Roma, e sua morte, 231. Danno
recato alla Chiesa dalla sua condotta con l’ Imperatore, 233.
Visigoti. V. G o t i . Si convertono in parte al Cristianesimo, e
divisione tra loro e dagli Ostrogoti, 41. Dalla Dacia setten
trionale passano il Danubio, ma son respinti, 42. Inseguiti
dagli Unni, lo ripassano, e guerra tra essi e i Romani, 46 e
segg. Discordie tra loro, 50 ; fanno una capitolazione coll’ im
peratore Teodosio, per cui 6 loro concesso di stabilirsi nella
Tracia, 50. Combattono in un esercito dell’ Imperatore, 52.
Aumentano sempre a danno dell’ Impero, 56. Si dolgono di
non ricevere da esso le paghe de’ soldati 60, 62. Con loro si
uniscono altri Goti cacciati da Costantinopoli, 62. Fanno loro
re Alarico, 63; e con lui invadono la Grecia, poi l’ Italia e
Roma. Y. A l a r i c o . Dopo la sua morte chiamano re Ataulfo, 77. Vanno nella Gallia, 79 ; e vi fondano il regno Visi
goto, 82. Alleati de’ Romani, combattono con essi contro gli
Unni, e si trovano a fronte gli Ostrogoti confederati di
questi ultimi, 103 e segg. Si uniscono agli Ostrogoti contro
Odoacre, 144, 158. Estensione del loro regno, 158. Sconfitti
da’ Franchi in una battaglia, 158.
Vitaliano I, papa, 319.
Vitige, re degli Ostrogoti, 187. Della guerra mossagli dall’ im
peratore Giustiniano, 187 e segg. Dell’ assedio da lui posto a
Roma, 191 e segg. Sta chiuso in Ravenna, con grosso eser
cito, 201. Ordina d’ assediar Milano, 202. Fa minacciare dai
Persiani l’ Imperatore, 203, 204. Assediato in Ravenna, 204.
Tradito dalla moglie, 204. Fatto prigione, 205; e menato a
Costantinopoli, 206, 213.
Zaccaria IH f papa. Sua elezione, 340. Sue relazioni co’ Lon
gobardi, 340, 341. Dà licenza a Pipino d’ intitolarsi re de’ Fran
chi, 361; e lo consacra, 362. Ancora delle sue relazioni coi
Longobardi, 362. Muore 363.
Zaccaria, protospatario, 325.
Zenone, imperatore d’ Oriente, 123; e solo legittimo impera
tore dopo la caduta dell’ impero d’ Occidente, 129. Suoi accordi
e altre relazioni con Odoacre, 130, 133, 137. Pubblica una
lettera per conciliare due opposte dottrine teologiche, 134.
Spinge in Italia i Rugi contro Odoacre, 137 ; e poi gli Ostro
goti, 137; e sue relazioni con Teodorico loro capo, 139 e segg.
Zottone, duca longobardo di Benevento, 289.
INDICE DELLE MATERIE
Pag.
P r e f a z io n e
v ii
LIB R O PRIM O
DALLA DECADENZA DELL’ IMPERO ROMANO
FINO AD ODOACRE
C a p it o l o I. - La decadenza dell’ Im p ero.......................
1
Ca p it o l o IL - I Barbari....................................................
10
C a p it o l o III. - La riforma dell’ Impero. Diocleziano e Costan
tino. L’ agitazione religiosa. Ariani ed Atanasiani. Neoplato
nismo. Giuliano l’ apostata. Il vescovo Ulfìla, e la conversione
dei Goti..............................................................................
30
Ca p it o l o IV. - Gli Unni....................................................
42
C a p it o l o V. - Teodosio..........................................
49
Ca p it o l o VI. - Arcadio ed Onorio. Rufino, Stilicone ed Ala
rico .....................................................................................
57
C a p it o l o VII. - Dalla morte di Alarico alla costituzione del re
gno dei Visigoti nella Gallia...........................................
77
C a p it o l o V ili. - Galla Placidia. L’ invasione dei Vandali in
Africa.............................................
83
C a pit o l o IX. - Attila e gli Unni. La battaglia di Chàlons. Il
generale Ezio. Papa Leone I
.......................................
95
C a p it o l o X. - Massimo imperatore. I Vandali saccheggiano
Roma. Ricimero, Oreste ed Augustolo..........................
113
Papa. Muore Artolfo. Desiderio re dei Longobardi. Disordini
in Roma. Elezione di Paolo I e sua morte . . . . Pag- 369
C a p it o l o V. - Nuovi e gravissimi tumulti in Roma. Elezione
di Stefano m . Matrimonio di Cario re dei Franchi con Deside
rata. I nemici del Papa sono oppressi. Stefano HI muore 375
Ca p it o l o VI. - Elezione di Adriano I. Condanna e morto del-
l’Afiarta. Discesa di Carlo re dei Franchi in Italia. Disfatta
dei Longobardi, assedio di Pavia. Cario va a Roma, dove
passa la Pasqua del 774 ................................................. 384
C a p it o l o VII. - Formazione del regno fianco in Italia. Congiure
e ribellioni contro il Papa, che chiede aiuto a Cario. Questi
torna in Italia, e celebra in Roma la Pasqua del 781 . . 394
C a p it o l o VITI. - Irene governa in Costantinopoli. Cario scon
figge di nuovo i Sassoni. Torna in Italia e sottomette il Friuli
e Benevento. Combatte gli Avari. Dispute religiose. Morte
di Adriano I e suo carattere...........................................402
C a p it o l o IX. - Elezione di Leone HI. Ambasceria fianca a
Roma. Irene imperatrice. Gravi tumulti in Roma. Il Papa a
Padebom. Suo ritorno a Roma. Carlo viene a Roma, dove è
coronato imperatore dal Papa, il giorno di Natale 800. . 408
Indice alfabetico
427