Articolo scritto dopo la lettura dell’impressionante e poderoso libro di mons. Luciano Gherardi (Le querce di Monte Sole, Dehoniane, Bologna 2014), impreziosito da una lunga ed impegnativa introduzione di don Dossetti. La chiesa di...
moreArticolo scritto dopo la lettura dell’impressionante e poderoso libro di mons. Luciano Gherardi (Le querce di Monte Sole, Dehoniane, Bologna 2014), impreziosito da una lunga ed impegnativa introduzione di don Dossetti.
La chiesa di Casaglia è rimasta come l’avevano lasciata le distruzioni della guerra. Lì fu ucciso, sull’altare, il parroco Ubaldo Marchioni. Gherardi lo paragona a San Tommaso Becket. La mattina del 29 settembre, don Ubaldo aveva trovato in chiesa il popolo angosciato raccolto in preghiera, e lui l’aveva preparato all’estremo sacrificio con la benedizione eucaristica; consumando le ostie perché non subissero sacrilegi e anticipando, come prima vittima, il destino della sua gente. Gli sventurati furono poi condotti, come un gregge al macello, al vicino cimitero, per essere sterminati (93 vittime, quasi la metà bambini).
Ho saputo che per i tre preti diocesani uccisi con la loro gente, Giovanni Fornasini (29 anni), Ferdinando Casagrande (29 anni) e Ubaldo Marchioni (26 anni) è stata avviata, nel 1998, la causa di beatificazione. Lo stesso era stato fatto precedentemente per gli altri due preti, Martino Capelli (32 anni) e Elia Comini (34 anni), da parte delle loro congregazioni (dehoniani e salesiani). I cinque giovanissimi e coraggiosi preti, morti per aver scelto di stare con la propria gente, sono figure davvero meravigliose, e anzi mi sorprende che non siano abbastanza conosciuti e apprezzati nella chiesa italiana. Don Giovanni Fornasini, per esempio, la cui morte è ancora misteriosa è, per riconoscimento universale, una figura talmente splendida, limpida, integerrima, coraggiosa e attuale che potrebbe illuminare e commuovere generazioni di preti e di cristiani. Avrebbe potuto essere proposto, insieme ad altre figure, come modello nell’anno sacerdotale. In tempi in cui parroci e religiosi si inchinano senza tanti complimenti davanti ai boss mafiosi, l’eroismo quasi sereno di Giovanni Fornasini e dei suoi compagni, dovrebbe scuotere certi preti codardi e i loro vescovi piuttosto silenziosi. I preti martiri bolognesi sono un esempio straordinariamente eloquente di offerta di sé al popolo loro affidato, ad imitazione di Gesù buon pastore.
Trovo poco comprensibile, anzi persino inaccettabile, che solo per i cinque preti sia stata avviata la causa di beatificazione. In questo modo essi sono, per così dire, tolti alle loro comunità, separati e posti al di fuori o al di sopra di esse. Non credo che loro sarebbero d’accordo (torneremo su questo punto). Se un’operazione così va in porto, non sarebbe che clericalismo; non aggiungerebbe nulla, anzi toglierebbe molto al significato e alla dignità del loro martirio. Sarebbe inoltre un esito scorretto dal punto di vista storico. Dossetti e Gherardi ci invitano, con i loro studi che raccomando alla lettura di più numerosi lettori, ad essere innanzitutto fedeli alle vicende storiche.
È anche il significato ecclesiale e teologico di quelle tragedie ad essere distorto. Gherardi lo chiarisce fin dal sottotitolo del saggio Le querce di Monte Sole: “Vita e morte delle comunità martiri”. Si tratta di un martirio di comunità, non solo di cinque indimenticabili ed eroici pastori. Tra i circa 800 uccisi, c’erano moltissime donne (almeno 315), mamme e nonne, morte a difesa dei loro bambini e anziani, che mai avrebbero abbandonato. C’erano i bambini appunto (se ne contano 216), in tutto assimilabili ai Santi Innocenti, uniti a Cristo grazie al battesimo e alla prima comunione ricevuta, da parte di decine di loro, poche settimane prima. C’erano delle religiose, tra cui Maria Fiore, che si rifiutò di tornare al sicuro nel suo convento per preparare i bambini alla prima comunione (poi tutti trucidati) e rigettando anche solo il pensiero di lasciarli soli.
Scrive Gherardi: “il vero soggetto di questa storia è la comunità nel suo insieme: la gente umile e inerme, che trema ma non fugge, che trema come una foglia, ma reagisce in modo splendido” (Le querce di Monte Sole, p. 398).
Merita di essere conosciuta la storia di Antonietta Benni, la maestra Orsolina dell’asilo di Cerpiano, dove il quel tragico 29 settembre ebbe inizio l’episodio forse più inquietantemente crudele. In un’interminabile agonia di 33 ore, nell’oratorio dedicato all’Angelo custode, furono uccisi in modo orribile 24 donne, 18 bambini e quattro uomini. Antonietta fu l’unica supersite, insieme a due piccoli scolaretti che protesse con le sue parole e che tenne nascosti tra i poveri cadaveri. La relazione scritta dalla maestra è tra i documenti più preziosi per la ricostruzione degli eventi del 1944. I particolari di quel massacro sono così atroci che, per pudore e strazio, si sceglie sempre di ometterli.
Antonietta fu quasi l’unica superstite che nel 1967 pronunciò parole di perdono cristiano (non di scarcerazione) a favore del criminale Walter Reder. Chi conosce la sua drammatica vicenda, fatta anche di altre dolorose violenze subite nei giorni successivi all’orribile massacro, non esiterebbe ad affermare che Antonietta esercitò in grado eroico la virtù del perdono.
Chi legge la vicenda di Monte Sole vede come c’è un inquietante elemento di odio alla fede che anima le comunità. Dossetti (che parla di delitti ‘castali’, motivati da un’ideologia pagana visceralmente anti-cristiana) e Gherardi hanno illustrato questo punto con grande chiarezza e intuizione. I nazisti si trovano a che fare proprio con comunità di fede, che diventano “punto unico di riferimento. Si infrangono antiche barriere. La solidarietà raggiunge un grado di concretezza e disponibilità quali difficilmente si riscontrano in altri tempi e in altri luoghi. La comunione fraterna, a rischio della vita e al di là di ogni divisione, è uno dei segnali più alti che giunge a noi.” (Le querce di Monte Sole, p. 400).
Alcuni principali massacri sono avvenuti in luoghi sacri: dalla chiesa di Casaglia al cimitero; e l’oratorio dedicato all’Angelo custode dell’asilo di Caprara. Luoghi scelti in totale e blasfemo disprezzo di Dio, della sua presenza sacramentale tra il popolo, dei simboli religiosi, e soprattutto di quel tempio dello Spirito Santo che è la persona umana; e tra tutti vale la pena di ricordare ancora le centinaia di bambini, incolpevoli di ogni peccato personale, e associati a Gesù dal battesimo e dall’eucarestia.
Certamente gli assassini di Monte Sole erano cristiani e cattolici. Giova ricordare che i santi Edith Stein, Massimiliano Kolbe, Pino Puglisi (e altri ancora) sono stati canonizzati in forza del loro martirio e formalmente riconosciuti come martiri: eppure sono stati perseguitati e uccisi, ahimè, da cristiani e cattolici. I loro assassini hanno preferito obbedire agli ordini criminali dei loro superiori piuttosto che alla loro coscienza, aderendo a ideologie antievangeliche, quali il nazismo e la mafia. I persecutori cristiani di Stein, Kolbe e Puglisi hanno forse potuto far addormentare la loro coscienza influenzati da una gerarchia ecclesiastica in gran parte e per lungo tempo silente sui crimini del nazismo e della mafia. Ci sono anche altre ideologie antievangeliche, quali il comunismo, che pure hanno causato e causano numerosi martiri.
Pur da lontano, con coscienza formata alla riflessione storica e teologica, mi appello alla chiesa di Bologna e alla chiesa italiana. Si rifletta sugli eventi di Monte Sole, anche alla luce delle chiese dell’Asia orientale. C’è da accogliere la dimensione comunitaria, ecclesiale e solidale dei martiri di Monte Sole, che non possono essere divisi tra chierici e non chierici. Il martirio, l’abbiamo cercato di mostrare con esempi luminosi, deriva dalla vocazione battesimale, non da quella clericale, e appartiene anche ai bambini, come la festa del 28 dicembre ha peraltro sempre affermato.
Nel vangelo di Matteo troviamo l’infelice espressione “senza contare le donne e i bambini” (14, 21): dispiace che il redattore non abbia recepito quanto le donne e i bambini contassero davvero molto per Gesù! Sembra purtroppo che in molti casi la chiesa proceda ancora così, senza contare le donne e i bambini. Eppure le donne e i bambini contano: a Monte Sole contano per due terzi dei martiri.
Nelle ore precedenti alla strage della canapiera di Pioppe di Salvaro, il cavaliere Emilio Veggetti, che poteva esercitare ancora una qualche influenza, si avvicinò ai nazisti e implorò la liberazione almeno del sacerdote salesiano Elia Comini, tenuto prigioniero con altri 42 uomini (incluso p. Martino Capelli, il quale aveva, come Sr Maria Fiore, disobbedito ai superiori per non abbandonare il popolo nel momento del pericolo). Dalla finestra della fabbrica dove era tenuto prigioniero, don Elia disse: “O ci liberano tutti, o nessuno!”. Gherardi osserva in modo pungente che “con questa espressione, che non ammette mezze misure, viene siglato un patto sociale fra la classe operaia e la Chiesa. L’olocausto consumato in un locale di fabbrica che vede accomunati sacerdoti e laici, abili e inabili, intellettuali e operai, è una dichiarazione di solidarietà che fino ad oggi ci ha colti largamente inadempienti” (Le querce di Monte Sole, p. 430).
La drammatica invocazione di don Elia (“tutti o nessuno”), lo affermiamo con rispetto e un po’ di timore - davanti come siamo al sacrificio di un uomo coraggioso e generoso - mi pare riassuma in modo eloquente il significato di questo mio intervento.