Magazine

Voguing is back!

Voguing is back
Voguing is back

Dalle periferie alle passerelle. Dalla fine degli Eighties a oggi. La parabola del ballo ispirato alle pose delle top models attraversa lo spazio e il tempo. Per approdare su altri lidi. Della cultura e dell’arte. Narra la leggenda che Madonna fosse venuta per la prima volta in contatto con il Voguing al Sound Factory di Chelsea, un club gay di New York ormai chiuso da più di dieci anni, ma popolarissimo alla fine degli anni 80. Pare che la regina del pop, che a quel tempo frequentava la scena underground newyorkese, fosse rimasta così affascinata da quella danza da volerci scrivere un pezzo – “Vogue”, appunto – e che per il video abbia personalmente scelto i ballerini tra i frequentatori abituali del Sound Factory, tra cui il mitico Willi Ninja, da molti considerato il padrino del Voguing, nonché insegnante di passerella di top come Naomi Campbell.

Qualunque sia la verità è indubbio che il salto mainstream di questo ballo lo si deve a lei, a quel video in bianco e nero e all’esibizione vestita da Maria Antonietta agli Mtv Music Awards del 1991. Se oggi lo ballano FKA twigs fa nel video di “Glass & Patron” e Azealia Banks in “1991”, se dj planetari come Bob Sinclar lo ripropongono nei live acts al Pacha di Ibiza e nel video di “Feel the Vibe”, se in stile Voguing è anche il promo della collezione Balmain x H&M con Kendall Jenner, le cui coreografie sono state curate da Normann Shay, ex ballerino di Madonna. E, ancora, se il rapper Mykki Blanco, pilastro della controcultura acclamato anche dalla stampa più istituzionale, lo ripropone nel suo video “Wavvy”. Se stilisti come Riccardo Tisci e Alexander Wang lo introducono nelle loro sfilate. Se, insomma, il Voguing è presente nella cultura mainstream lo si deve anche a quel disco e a quella esibizione, momento importante che però non deve essere confuso con la sua nascita. Lontano dai lustrini e dalle telecamere di Mtv, diverso rispetto alla versione edulcorata e politicamente corretta di Madonna che cantava «non importa se sei bianco o nero, se sei un ragazzo o una ragazza», il Voguing nasce come fenomeno sotterraneo e underground, assolutamente politicizzato e con una forte connotazione sociale. Siamo ad Harlem, quartiere nero per eccellenza, e siamo alla fine degli anni 80.

All’epoca il Voguing lo ballano prevalentemente le drag queen e la comunità gay afro, ma anche latina, che affolla le sale da ballo e che, a colpi di danza, si sfida in vere e proprie battaglie, con tanto di giudici e pubblico a tifare per l’una e per l’altra squadra. Su una base fatta di mosse provenienti dalla danza classica e jazz, il Voguing impone movimenti con le mani netti, squadrati e veloci, ma soprattutto l’andatura da passerella, le espressioni della faccia, le pose sensuali e un po’ corrucciate che scimmiottano quelle delle top model sui giornali di moda. Una danza che nasce come un misto di omaggio e imitazione: ballando il Voguing le drag queen si trasformano per una notte nelle donne bellissime che ammirano sulle copertine delle riviste e che sognano di diventare. La moda come sogno e aspirazione, fuga dalla periferia, realtà alternativa in cui perdersi, anche per sfuggire da quella vera dove una nuova malattia, l’Aids, uccide senza guardare in faccia nessuno. Non è infatti un caso che le crew, ovvero i gruppi all’interno dei quali ciascun voguer si identifica, prendano i nomi di brand di moda: House of Balenciaga, House of St. Laurent, House of Escada, House of Mizrahi.

E che le serate siano di fatto una serie di gare tra drag queen appartenenti a crew diverse. Una danza che è quindi parte importante dell’identità della comunità lgbtq dell’epoca, ma che pian piano trova visibilità e spazio anche altrove. Oltre alla già citata Madonna, altri personaggi giocano un ruolo importante nel traghettare il Voguing fuori da Harlem. Malcolm McLaren, per esempio: nel 1989 il suo disco “Deep in Vogue” arriva in testa alla classifica inglese trasferendo nel vocabolario comune un termine che prima di allora era usato solo dagli adepti. Oppure il fotografo Chantal Regnault: il suo libro “Voguing and the house ballroom scene of New York City 1989-92” contiene centinaia di immagini e di interviste ai personaggi che hanno animato quelle notti ed è considerato ancora adesso una delle testimonianze più dirette ed efficaci del Voguing. Un ruolo importante ce l’ha anche il documentario del 2006 “How do I look”, girato nell’arco di dieci anni dall’attivista Wolfgang Busch come atto di empowerment per la comunità gay decimata dall’Aids. Prima di lui era toccato a “Paris is burning”.

Diretto da Jennie Livingston e vincitore del Gran Premio della Giuria al Sundance Festival del 1991, in questo docu-film i protagonisti sono i ballerini, i voguers: gay, travestiti, afroamericani e latini, eccentrici di ogni tipo, dotati di stili eclettici ma accomunati dall’eleganza, dall’amore per l’eccesso e per il lusso. Ma torniamo all’oggi. Dopo un quarto di secolo, e dopo anni in cui sembrava un po’ sparito, il Voguing è di nuovo cool. Spogliato della sua funzione sociale e di elemento di coesione per la comunità gay e trans, con nuovi stili che prendono il nome di Vogue Fem e New Way, si ritrova infatti sulle passerelle di importanti designers: oltre ai già citati Riccardo Tisci e Alexander Wang c’è anche Hood by Air, brand ultra cool fondato da Shayne Oliver, ex ballerino e voguer molto rispettato all’interno della comunità Lgbtq. Uscite dai club di periferia, ora le sfide di Voguing si fanno nelle feste più cool. L’anno scorso il Mugler Ball, andato in scena nel Queens, a New York, ha visto sfidarsi tra gli altri FKA twigs (allieva del ballerino Jamel Prodigy) e Rihanna (il video di lei che sfila in passerella è diventato virale grazie a Olivier Rousteing, designer di Balmain, che lo ha postato su Instagram).

Elementi di Voguing sono presenti anche nel video “Get me bodied” di Beyoncé e nel film “Magic Mike XXL” dove a farlo è lo spogliarellista/ballerino Channing Tatum. E si espande a macchia d’olio anche su Instagram: vedere l’account del duo giapponese Ayasatobambi, per esempio. Ovviamente non manca un connubio con l’arte, destinazione naturale per una disciplina così visivamente coreografica e ricercata. Si deve a Rashaad Newsome, artista contemporaneo che vive a New York, il merito di aver introdotto il voguing alla Whitney Biennale nel 2010 con l’opera “Untitled I”: un ballerino – che altri non è che Shayne Oliver, fondatore di Hood by Air, all’epoca ancora uno sconosciuto – mostra vari stili di voguing davanti a una cinepresa, solo in una stanza completamente bianca. E i fondatori? Cosa pensano di questa trasformazione non si può sapere, perché non sono più tra noi. Willi Ninja, il più famoso tra i pionieri, è morto di Aids nel 2006. Consola sapere che la sua eredità si è diffusa più che mai nell’arte, nella moda e nella cultura.

Photo by Francesco Carrozzini

Simona Siri,Vogue Italia, marzo 2016, n.787 pag.414