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AISSCA CANTIERI DELL’AGIOGRAFIA IV EDIZIONE – ROMA, 21-23 gennaio 2020 Programma http://www.aisscaweb.it/wp-content/uploads/2018/05/Programma-Cantieri-2020-.pdf Panel Comunicare la fede con il corpo e con il sangue: dinamiche del martirio Mercoledì 22 gennaio ore 14.15, Università La Sapienza Aula A, Dipartimento SARAS, Facoltà di Lettere e Filosofia Il panel ha come oggetto il martirio come forma estrema di comunicazione della fede. L’insieme dei contributi presentati presuppone la constatazione della centralità e transculturalità del corpo nelle dialettiche religiose, nonché la forza espressiva del corpo passionato. Ha come focus le interrelazioni fra religione, violenza e testimonianza in ambito mediterraneo e mediorientale fra Tarda Antichità e Medioevo. Mette in evidenza differenze e interrelazioni delle valenze del martirio in ambito cristiano, ebraico ed islamico. Considera le narrazioni martiriali come elementi attivi sia nelle dinamiche interne ai gruppi religiosi, sia nelle relazioni esterne fra gruppi religiosi diversi. Esamina pertanto le trasformazioni, le forme e gli adattamenti delle narrazioni stesse in differenti contesti e momenti storici. Emanuela Colombi, Università degli Studi di Udine Marianna Cerno, Università degli Studi di Udine Comunicare il e col martirio. Codici espressivi e tradizioni ecclesiastiche fra le due sponde dell’Adriatico La relazione presenta due aspetti del martirio: la scenografia del momento topico del martirio e alcuni motivi di circolazione di scritture e riscritture del martirio in area adriatica. Vengono integrate due prospettive differenti: 1. scrittura e riscrittura: verranno confrontate le descrizioni del martirio e dei suoi elementi caratteristici in un campionario di Passiones che siano state soggette a una o più riscritture, per verificare la tipologia e l'entità delle possibili trasformazioni, e il messaggio che ne consegue in rapporto ai possibili 'lectores in fabula'. 2. agiografia regionale: la campionatura sarà basata su corpora di Passiones antiche e/o altomedievali originarie della stessa area geografica (Gallia merovingica, Patriarcato di Aquileia, santorale romano) in modo da verificare, sulla base dell'analisi di un momento chiave come la descrizione del martirio, la validità e il potenziale della prospettiva regionale nello studio dei testi agiografici. La relazione si propone di indagare la scenografia del momento topico del martirio esaminandone le trasformazioni introdotte nelle riscritture di una campionatura di testi agiografici. La selezione del corpus sarà condotta su base regionale, per verificare il potenziale di tale prospettiva metodologica. Inoltre, la relazione presenta un dossier agiografico formato dalle Passioni di tre martiri dalmati (Domnio, Anastasio, Donato) le cui storie legano in modi diversi le due arcidiocesi contigue di Aquileia e Salona, alle due sponde opposte del mare Adriatico. Le caratteristiche formali e contenutistiche di questi testi martiriali, due dei quali in più redazioni, rendono una duplice testimonianza: da un lato costituiscono il mezzo di espressione dell’identità ecclesiastica delle rispettive sedi di appartenenza; dall’altro, rivelano essi stessi importanti dettagli delle relazioni fra le due arcidiocesi e la loro evoluzione storica (secoli VI-XI). Le ricerche che l’A. sta conducendo negli ultimi anni su queste Passioni, studi che raccordano e approfondiscono la bibliografia italiana e croata anche recente, stanno portando un significativo progresso alla conoscenza dei testi e delle dinamiche dei relativi culti nell’arco adriatico. Si presenta un dossier formato dalle Passioni di tre martiri dalmati che legano in modi diversi le chiese di Aquileia e Salona. La forma e i contenuti dei testi da un lato sono il mezzo di espressione dell’identità ecclesiastica delle rispettive sedi; dall’altro rivelano le relazioni fra le due arcidiocesi e la loro evoluzione storica (secoli VI-XI). Elena Barile, Università degli Studi di Bari Comunicare la santità: il prologo della Passio Perpetuae et Felicitatis La Passio Perpetuae et Felicitatis (203 d.C.), come è noto, è un testo composito e stratificato, a proposito del quale la critica converge nell'attribuzione prevalente alla stessa martire e nell'individuazione dell'intervento di un redattore finale. Obiettivo di questo contributo, più che una ripresa del testo in sé (ormai ampiamente analizzato nei suoi molteplici aspetti), è l'analisi di alcuni elementi legati alla funzione comunicativa del prologo. Questo si configura, infatti, come una dichiarazione programmatica in cui il redattore espone i criteri generali che guidano il suo lavoro. Si tratta, in sostanza, di esplicitare, anche attraverso precise scelte lessicali e sintattiche, informazioni circostanziate riguardanti gli autori del testo, l’argomento e gli scopi della trattazione, i destinatari e i criteri di raccolta delle informazioni. Tali elementi, insieme al dichiarato intento edificatorio e alla finalità ultima di serbare il ricordo di quanto avvenuto, sembrano chiaramente presentare il testo martiriale quale tentativo embrionale di produzione storica. Tale obiettivo comunicativo viene raggiunto attraverso una consapevole ripresa, anche a livello stilistico, di preamboli e/o di sezioni metodologiche di opere storiche di età classica, nonché con altri testi martiriali coevi. Mi riferisco in particolare ai proemi delle Storie di Erodoto e Tucidide, al Martirio di Policarpo, al Martirio di Pionio e alla Passione di Montano e Lucio. Mattia Di Taranto, Università del Piemonte Orientale Il corpo come pergamena. La santificazione del Nome e i Dieci Martiri Il tema del martirio ha da sempre occupato un ruolo di centrale rilevanza nella tradizione rabbinica. Fin dall’epoca tannaitico-amoraica (I-V sec. e.v.) si è sviluppata sull’argomento un’articolata riflessione sul duplice piano esegetico e normativo, tramandata da alcune delle pagine più affascinanti dell’intero corpus talmudico. Tuttavia, barriere linguistico-culturali difficilmente sormontabili ne pregiudicano ancora la ricezione nel vivace e proficuo dialogo interreligioso e, segnatamente, ebraico-cristiano. La presente relazione si propone di offrire un contributo in tal senso, fornendo alcune informazioni preliminari di carattere generale, utili a definire più precisamente il significato della locuzione “santificazione del nome” e ad indagare le sue molteplici implicazioni in riferimento all’ortoprassi. Tale sezione introduttiva, nella quale saranno sinteticamente illustrate anche le basi testuali per l’elaborazione della halakhah in materia, ha altresì lo scopo di mettere a disposizione di studiosi di diversi settori disciplinari alcuni fondamentali strumenti ermeneutici, necessari per accostarsi più agevolmente alle fonti rabbiniche e cogliere la cifra distintiva del martirio ebraico. Nella seconda parte dell’ intervento si prenderà poi in esame, come caso di studio, il famoso episodio dei “dieci martiri”, la cui importanza è testimoniata peraltro dal secolare impiego nella liturgia sinagogale. Oggetto di particolare attenzione sarà la figura di Rabbi Chaninah ben Teradion, protagonista di una delle narrazioni più esemplificative e letterariamente efficaci dell’esperienza ebraica di martirio. La lettura commentata di brevi passi consentirà di apprezzare dettagli di primario interesse per il nostro discorso e formulare, infine, alcune considerazioni in merito alle modalità di rappresentazione del corpo martirizzato, latore di un contenuto semantico complesso e stratificato.  Giuseppe Cecere, Università degli Studi di Bologna Violenza e martirio nell’agiografia islamica in età ayyubbide e mamelucca Secondo una rappresentazione diffusa nella tradizione accademica e nell’immaginario collettivo europeo, il sufismo (mistica musulmana) avrebbe costituito, sin dalle origini, uno spazio privilegiato di tolleranza e di apertura all’Altro in seno alla tradizione islamica. Tuttavia, l’associazione tra ascesi spirituale (zuhd) e dimensione militare della “lotta sulla via di Dio” (jihad) sembra caratterizzare le principali figure che i grandi maestri del sufismo presentarono, dal III/IV secolo dell’Egira (secc. IX/X d.C.), come loro modelli e precursori: dallo stesso Profeta dell’Islam fino ad al-Ḥasan al-Baṣrī (m. 728), ʿAbd al-Waḥīd Ibn Zayd (m. 750 ca.) o ‘Abd Allāh Ibn al-Mubārak (m. 797). In questo senso, il noto ḥadith (detto attribuito al Profeta) secondo cui il jihad maggiore consiste nel combattimento spirituale contro la propria anima (nafs), mentre il combattimento fisico contro nemici esterni rappresenta soltanto una forma di jihad minore, non costituisce una condanna del jihad militare, ma una riaffermazione della superiorità della dimensione interiore su quella esteriore di ogni pratica religiosa, in conformità alla logica generale del sufismo. L’associazione tra ascesi spirituale e combattimento fisico per l’Islam continuò anzi a rappresentare un riferimento significativo per i sufi di varie epoche. L’Egitto, per la sua collocazione geopolitica, la sua composizione multi-religiosa e la sua esposizione a tentativi ricorrenti di conquista militare, sembra aver costituito un contesto particolarmente favorevole all’emergere di correnti di sufismo “militante”. In particolare, l’associazione tra mistica e violenza - talora con il corollario del martirio (inteso come morte in combattimento) - affiora significativamente in fonti agiografiche di età ayyubide e mamelucca (fine sec.XII - inizi sec. XVI), in relazione sia alla guerra contro invasori esterni (Crociati, Mongoli) sia ad episodi interni di violenza interreligiosa contro le comunità non-musulmane (Ebrei e Cristiani) soggette all’ambiguo statuto di protezione-discriminazione della dhimma. Come interpretare tali episodi in rapporto alla storia complessiva della mistica musulmana? Si tratta di “casi” eccezionali scaturiti da motivazioni contingenti? O invece è possibile individuare delle relazioni ideologiche significative tra queste vicende e alcune dottrine sufi? La presente comunicazione intende alimentare una riflessione su tali interrogativi, a partire dall’analisi (retorico/strutturale, ideologica e contestuale) di significativi racconti di violenza e martirio nell’agiografia islamica di età ayyubide e mamelucca. Renata Salvarani, Università Europea di Roma Martiri negati. Cristiani tra oblio, memoria e santità durante la prima islamizzazione (VII-XI secolo) Sono relativamente rari i cristiani uccisi perchè rimasti fedeli al Vangelo che nell'Alto Medioevo sono diventati oggetto di culto, inseriti nei martirologi greci, latini, armeni, siriaci, copti, africani. Quelle di Antonio Ruwah o Abo di Tblisi sono vicende emblematiche, ma restano poco più che eccezioni sul piano della santità canonica. Che ne è stato della memoria degli altri? Si possono ipotizzare alcune spiegazioni di tipo psicologico e di tipo ecclesiale, che aprono altrettante prospettive di ricerca storica su base documentaria. La prima: la memoria di questi martiri è andata perduta o è stata cancellata perchè si è estinta la comunità cristiana a cui appartenevano: non ci sono stati testimoni oppure non c'è stato chi ha ricevuto la testimonianza, l'ha tramandata e l'ha trasformata in culto. Si possono aggiungere motivazioni più profonde, come la paura, il timore di raccontare, il pudore del dolore, il pudore della sconfitta subita. Le comunità cristiane superstiti sono state private di una parte della loro memoria per imposizioni e divieti esterni oppure hanno esse stesse rimosso questa parte della loro storia? Hanno esse stesse rinunciato a testimoniare eventi contemporanei (o vicini nel tempo), rinunciando a proporre i martiri come esempio e modello da seguire, per evitare altre persecuzioni e per permettere una forma di sopravvivenza della comunità nel tempo? Quando e a quali condizioni, dunque, il sangue dei martiri può diventare seme per nuovi cristiani? Per cercare di capire se e come lo sia stato durante la prima fase dell'islamizzazione, occorre riflettere non solo sui meccanismi comportamentali e psicologici locali, ma anche sugli atteggiamenti ecclesiali che hanno determinato scelte celebrative e cultuali.