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Ripartenza

Basta con le città pigliatutto: nell'Italia post-Covid investiamo nelle università del Sud

Puntare sui distretti più dinamici o incoraggiare lo sviluppo dei territori più arretrati? La risposta data dall'emergenza è chiara: bisogna spendere per gli atenei minori e in tecnologie che migliorino la qualità della vita in tutto il Paese

Basta con le città pigliatutto: nell'Italia post-Covid investiamo nelle università del Sud

In città la vita costa di più l’aria è più inquinata, eppure ovunque crescono e accolgono porzioni crescenti di popolazione. Perché? È la conseguenza del funzionamento dell’economia della conoscenza che non si genera in solitudine, ma interagendo con altra conoscenza, che non viaggia facilmente via email e non si può interamente codificare in un manuale di istruzioni. Quelli che una volta si chiamavano i trucchi del mestiere, che perfino il genio di Leonardo dovette andare ad apprendere nella bottega del Verrocchio, oggi si chiama conoscenza tacita che, come capì agli inizi del secolo scorso l’economista inglese Alfred Marshall si può “respirare nell’aria” solo nei luoghi in cui viene generata, non altrove.

Ecco perché la caratteristica saliente dell’economia della conoscenza è il ritorno delle grandi città e le agglomerazioni di imprese. Neppure la nascita del web è riuscita a sconfiggere le concentrazioni geografiche, ci riuscirà il Covid a creare un mondo piatto, in cui una connessione veloce consentirà di svolgere la maggior parte dei lavori? Di sicuro abbiamo scoperto che alcune mansioni possono essere svolte da remoto e un tot di riunioni, lezioni e consulenze possono essere svolte in streaming. Tuttavia non credo che sia possibile immaginare un mondo del lavoro a interazione personale zero: ne risentirebbe la creazione di nuove idee, la circolazione di conoscenza e da ultimo l’innovazione che è il motore primario della crescita economica.

Non credo che impareremo ad apprendere senza interagire. E le reti telematiche non potranno sostituire le reti di rapporti informali che hanno giocato sin qui un ruolo fondamentale nella diffusione di conoscenza e innovazione. La soluzione è la via intermedia che da un lato rendano più sostenibili e piacevoli i nostri stili di vita, e dall’altro mantengano vive le forze creatrici che scaturiscono dall’interazione dei cervelli. La politica e le politiche pubbliche hanno una grande occasione. Finora erano poste di fronte ad un dilemma: investire nelle città e nei territori più dinamici, in nome della competitiva del sistema, oppure incoraggiare lo sviluppo nei territori più arretrati? Basta osservare lo sviluppo delle grandi infrastrutture, come l’alta velocità, le università di eccellenza, i centri di ricerca di Genova (l’Istituto Italiano di Tecnologie) e di Milano (lo Human Technopole), per comprendere come tale dilemma è stato risolto negli ultimi anni.

Ma se il rischio di pandemia ci imponesse di evitare assembramenti nei grandi centri urbani del Nord - quante famiglie del Mezzogiorno saranno ancora disposte a mandare i propri figli a studiare in Lombardia o a Londra? - allora è possibile immaginare un percorso intermedio. Si dovrebbero sostenere i centri di ricerca pubblici delle maggiori città del Mezzogiorno, Palermo, Catania, Reggio Calabria, Bari, Lecce, Salerno, Napoli, Cagliari come per il Technopole di Milano. I centri di ricerca andrebbero orientati in domini scientifici che abbiano un aggancio con il tessuto produttivo del territorio, si pensi ad esempio al settore dell’economia marittima o del patrimonio culturale, oltre alle scienze dure.

Diversi sarebbero i benefici. Primo, creazione diretta di nuovi posti di lavoro nell’economia della conoscenza. Secondo, interrompere il flusso di giovani brillanti dal Sud verso il Nord e, viceversa, attrarre giovani ricercatori verso il Sud. Terzo, stimolare la nascita di nuova imprenditorialità. Questo andrebbe fatto operando di concerto con incentivi e strumenti già esistenti e finanziati, in particolare il Fondo per l’Innovazione.
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