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Europa

Come ha fatto la piccola Irlanda a diventare così influente

Un’economia agile, una diplomazia invidiabile e un soft power in espansione. Ecco come il piccolo Paese si è conquistato un ruolo sempre più cruciale nell'Unione Europea

Come ha fatto la piccola Irlanda a diventare così influente
La festa di San Patrizio a Dublino
Nel 1973 quando l’Irlanda, un’isola verde, povera e con solo cinque milioni di abitanti, divenne il nono Paese membro dell’Unione europea nessuno prevedeva che nel giro di mezzo secolo si sarebbe trasformata in uno degli attori più influenti della politica europea. Ma in questa nuova epoca in cui uno vale uno, e i piccoli stati europei hanno deciso di volere contare, non potendosi più fare scudo né della vecchia austerità tedesca, né dell’euroscetticismo riottoso degli inglesi, l’Irlanda ha saputo scambiare le sue vesti di Cenerentola con quelle di Regina di cuori e di danari.

Rimasto l’unico anglosassone dei 27 Paesi Ue, con un’economia agile e liberale, in netto contrasto con il centralismo di Parigi e Berlino, una popolazione giovane, multietnica e sempre più liberal, un nuovo governo frutto dell’alleanza tra i due schieramenti di centrodestra e il partito dei Verdi, Dublino ha capito in fretta come muoversi tra le varie fazioni che si stanno formando nell’Europa post-Brexit, schierandosi di volta in volta con i Paesi che tutelano i suoi interessi ma senza indurirsi ideologicamente.

Così nonostante abbia in comune con molti anseatici del Nord, dall’Olanda alla Danimarca per arrivare alla Lituania, l’aspirazione globalista e la pochezza demografica oltre alla creatività fiscale, non ha esitato a schierarsi a favore del piano inizialmente elaborato da Francia e Germania e poi ha applaudito al compromesso sul Fondo di ripresa dal Covid e sul budget settennale (in codice MFF) concordato lo scorso 21 luglio dal Consiglio europeo nella seduta più lunga della storia europea insieme a quella per il Trattato di Nizza. «Siamo contributori netti al budget europeo ma siamo stati a lungo debitori», dicono fonti diplomatiche che sottolineano come l’Irlanda, oggi un Paese ricco, sia stata a lungo povero, dettaglio che le permette di empatizzare con tutti gli stati europei, finanche con i Paesi dell’Est che si stanno arricchendo grazie all’Unione: «Non abbiamo chiesto sconti come hanno fatto gli anseatici. È il nostro momento di essere solidali con chi ci ha aiutato per decenni». E, nel non detto si trovano i dettagli, assicurarci in futuro i fondi necessari a contrastare le perdite economiche derivanti dalla Brexit, i sussidi per l’agricoltura e il 25 per cento degli introiti doganali.

Per seguire l’andamento del prodotto interno lordo irlandese negli ultimi trent’anni, occorre però prepararsi ad un giro sulle montagne russe: incentrata sull’agricoltura e povera di manifattura, la sua economia decolla solo negli anni Novanta quando le multinazionali statunitensi sfruttando il regime fiscale di favore (una tassazione aziendale al 12,5 per cento che con vari escamotage ha spesso accarezzato lo zero), il vantaggio linguistico e l’accesso illimitato al mercato unico hanno cominciato a trasferirvisi a manciate (oggi sono almeno 700). Era il tempo delle tigri celtiche, l’inizio del nuovo millennio, il boom di Internet e l’Irlanda esportava musica e tecnologia, attirando forza lavoro da tutta Europa.

Era diventata l’emblema della globalizzazione allora dominante, il ponte tra Washington e Berlino. Poi però si schianta sul tracollo di Lehman Brothers del 2008, sotto il peso di debiti privati eccessivi e di un mercato immobiliare impazzito. La bolla scoppia e l’Irlanda entra a far parte del triste acronimo PIIGS, unico Paese nordico accanto a Portogallo, Spagna, Italia e Grecia. Con un debito insostenibile che sfiora il 130 per cento, dalla bancarotta la salvano l’Europa e la Troika con un bail-out da 85 miliardi. Ma il recupero è fulmineo per un Paese con il numero di abitanti di una grande capitale europea: «Abbiamo capito di avere sbagliato e abbiamo fatto i compiti a casa». Già nel 2014 torna a contribuire al bilancio Ue più di quanto non riceva e nel 2018 raggiunge un rapporto debito/Pil del 60 per cento, al di sotto la media dell’Unione.

Nel frattempo ha costruito una struttura diplomatica da fare invidia a quella dei Paesi più grandi. «Abbiamo sempre ammirato la diplomazia inglese ma negli ultimi 20 anni abbiamo fatto meglio», dicono con orgoglio da una capitale che ha appena raddoppiato il numero dei suoi diplomatici inviati in Germania e ha appena aperto un consolato anche a Francoforte. Da circa 15 anni, ogni 17 marzo, il giorno di San Patrick, grande festa nazionale ma anche occasione di promozione del Paese, partono i ministri del governo alla volta di varie capitali estere per celebrare le qualità della madrepatria. Il primo ministro si reca annualmente a Washington dove è ormai di casa, essendo gli Usa il suo più grande alleato per ragioni storiche (a metà 1800 gli irlandesi costituivano la metà di tutti gli immigrati negli Usa), sapientemente coltivate nel tempo.

Un grande merito di Dublino è stato quello di avere trasformato una gigantesca diaspora - all’estero vivono 80 milioni di irlandesi contro i cinque residenti in patria – dovuta a povertà e guerre interne in uno strumento cruciale per estendere la sua influenza economica e culturale. Così, dopo anni, è riuscita a giugno a sfilare al Canada un seggio nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ottenendo i due terzi di voti necessari.

Già prima, in corso le trattative sulla Brexit, si era assicurata in Europa un commissario chiave in tempi di Brexit (Philip Hogan è approdato al Commercio) e aveva inserito nel direttivo della Bce l’ex governatore della banca centrale irlandese Philip Lane. Infine, ciliegina sulla torta, un paio di settimane fa ha battuto persino la Spagna nella gara verso la presidenza dell’Eurogruppo, dove vengono prese decisioni chiave in materia fiscale, e dove ora siede il ministro delle finanze irlandese Paschal Donohoe. Una vittoria, quest’ultima, ottenuta anche con l’indispensabile supporto dei Paesi del Nord Europa, intimoriti dalle possibili mosse della vice ministra spagnola Nadia Calviño, non certo una fan del regime fiscale predatorio che l’Irlanda ha in comune con Olanda e Lussemburgo: al motto «la fiscalità è prerogativa nazionale», sottraggono miliardi di euro l’anno alle casse dei quattro Paesi più grandi.

Ma cambiare le regole non è facile, come ha dimostrato l’ultima vittoria irlandese. Negli stessi giorni della nomina di Donohoe, all’inizio dell’estate, la Corte di giustizia europea ha annullato la storica decisione presa nel 2016 dalla commissaria Margrethe Vestager di imporre all’Irlanda la raccolta di 13,5 miliardi di tasse mai pagate da Apple, nonostante gli utili stratosferici accumulati sul Vecchio Continente e trasferiti in Irlanda. «Quando siamo entrati nella Ue abbiamo dovuto accettare la competizione dei grandi Paesi manifatturieri contro le nostre piccole industrie in nuce», dice Michael Collins, ex diplomatico di lungo corso, ora direttore del think tank irlandese IIEA: «Non c’era gioco, così la facilitazione degli investimenti esteri, soprattutto americani, è diventata il cuore della nostra strategia economica».

Tra l’intellighenzia del Paese cresce la consapevolezza che prima o poi il disallineamento fiscale col resto d’Europa dovrà essere corretto, se non altro come contropartita (insieme alla contribuzione al bilancio della Difesa, e l’Irlanda non è nemmeno membro della Nato) all’enorme aiuto che il Blocco Ue sta dando compatto a Dublino nell’ambito della trattativa, che riprenderà subito dopo la pausa estiva per concludersi entro Natale, per definire i termini definitivi dell’uscita della Gran Bretagna dalla Ue. Fino al 1922 colonia di Londra, con cui ha trovato pace solo negli accordi del Venerdì Santo del 1998, dopo anni di lotta armata per l’Irlanda del Nord, Dublino ora tiene testa a Downing Street, tanto da non averle consentito di imporre sull’isola un confine netto tra Nord e Sud. Non che Dublino sia favorevole alla dipartita inglese: «Non c’è nulla di positivo nella Brexit. Nulla», dice Collins. L’Irlanda, insieme al Belgio, saranno tra i Paesi più colpiti economicamente: per ogni punto percentuale di caduta del Pil britannico, quello irlandese cederà lo 0,33 per cento, tanto i due mercati sono diventati interconnessi.

Ma gli accordi del 1998, quelli, sono intoccabili: la vera linea rossa della Brexit, a sostegno della quale l’Irlanda ha saputo coinvolgere l’intera Europa. Le hanno di fatto garantito non solo prosperità economica ma anche serenità politica e sociale. La religione cattolica, per decenni brandita come fattore differenziante dall’Inghilterra protestante, ha preso da allora a perdere la sua stretta violenta sulla società. Che da estremamente arretrata è arrivata nel giro di una generazione ad essere una delle più liberal d’Occidente, non solo recuperando il gap in materia di diritti civili ormai assodati (divorzio nel 1998 e aborto nel 2018) ma diventando il primo Paese europeo a legalizzare il matrimonio omosessuale nel 2015.

A guardare oltre i danni economici, per molti osservatori la Brexit potrebbe rappresentare un secondo momento di liberazione irlandese e di ulteriore espansione del suo soft power. Se gruppi come i Cranberries e gli U2 sono stati i primi ambasciatori irlandesi nel mondo, oggi tramite Netflix sono serie come “Peaky Blinders”, con protagonista l’attore irlandese Cilian Murphy, tanto bravo quanto sexy, o “Normal People”, ambientata nella Dublino del sempre più celebre Trinity College, a diffondere il nuovo accento europeo della lingua inglese, pur sempre principale veicolo di comunicazione europea, e con esso l’immaginario irlandese. I teenager di oggi prenderanno a guardare all’Irlanda come luogo dove imparare la vecchia lingua di Shakespeare, ora che le università inglesi non faranno più parte del programma Erasmus e potranno applicare agli europei le stesse tariffe in vigore per gli studenti internazionali. Senza contare le difficoltà logistiche che comportano visti e passaporti, tra i giovani nemmeno un ricordo del passato.

Così, se saprà assicurarsi le maggioranze per controbilanciare i danni della Brexit e costruire un equilibrio diplomatico tra le esigenze dei “frugali” del Nord, i fuorilegge dell’Est e le contraddizioni del Club Med del Sud, anche in campo fiscale, l’Irlanda si potrebbe ritrovare con un’influenza dentro e fuori l’Europa completamente sproporzionata rispetto alle sue dimensioni. E potrebbe diventare un nuovo portabandiera: non più della globalizzazione, ormai retrò, ma dei benefici di una nuova Europa forte e sovrana.
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