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Editoriale

Il preoccupante silenzio della società civile

Mentre il governo prosegue a occupare tutta la scena, è sempre più vistosa l’assenza dei corpi intermedi che sono la forza della democrazia e che in altri momenti difficili della Repubblica hanno mostrato di avere una visione del futuro

Il preoccupante silenzio della società civile
Nella stasi senza quiete, nella confusione immobile della politica italiana di metà 2020, l’anno più drammatico e incredibile della nostra storia recente, c’è un convitato sempre più strabordante, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte che, come ha scritto il politologo Mauro Calise (Il Mattino, 13 luglio) è «un premier venuto dal nulla, capace di restare in sella con due maggioranze opposte , senza un proprio partito e privo di qualsiasi appeal carismatico. Un non-leader che si trasforma nel più inamovibile dei capi».

E c’è un’assenza sempre più vistosa. La società civile, come l’avremmo chiamata un tempo. La rete dei corpi intermedi. Quella parte di opinione pubblica fuori dai partiti, ma interessata all’impegno civile e alla politica che ha sempre costituito un pezzo importante dell’identità nazionale e del dinamismo italiano: un motore di modernità, progresso, lotta alle disuguaglianze, diritti economici e sociali. Militante per appartenenza ideale, per cultura, per convinzione, per interesse generale, in quel campo largo che si può ancora osare definire di sinistra. Una sinistra larga, non asfissiata dagli apparati, non intellettualmente conformista, in un rapporto positivo e virtuoso con le istituzioni.

Nel 1990, nell’estate di trent’anni fa, un pezzo di società completava la raccolta delle firme per uno strano referendum (tre quesiti) promosso per cambiare la legge elettorale proporzionale in senso maggioritario: i referendum Segni, dal deputato democristiano Mario Segni che diede volto e voce alla campagna, ideata dai giovani universitari cattolici della Fuci. Segni non era di sinistra, è un credente nei valori della fede e della liberaldemocrazia, ma si batteva per il sistema dell’alternanza, in cui la sinistra avesse le stesse opportunità degli avversari del polo moderato di andare al governo con il voto dei cittadini. Una rete di associazioni, nelle stesse settimane, si era mobilitata per i diritti dei primi immigrati in Italia dall’Africa, con numeri certo non paragonabili a quelli attuali, ma da lì nacque la legge che porta il nome dell’allora ministro della Giustizia, il socialista Claudio Martelli. E ancora, si faceva sentire un movimento di cittadinanza attiva che porterà un anno dopo alla prima legge-quadro sul volontariato, un patrimonio del Paese. Anche in questo caso, un mondo che non poteva e non può essere annesso alla sinistra in senso partitico. Ma che confinava con una comune visione del mondo, negli anni in cui lo Stato sociale veniva smantellato lasciando ai privati e alle famiglie la gestione delle emergenze più difficili da sostenere.

Tutto questo per dire che in una recente fase delicata della vita repubblicana, la crisi della Prima Repubblica che era già evidente nonostante il trionfo apparente dei partiti vincitori della guerra fredda dopo la caduta del muro di Berlino, c’era chi nella società civile si preoccupava di costruire il futuro e perfino una exit strategy, un’uscita di sicurezza dalla crisi. Riforma e rafforzamento delle istituzioni, riforma e riconoscimento dei nuovi diritti e dei soggetti attivi fuori dal Palazzo.

Oggi assistiamo allo spettacolo opposto. Il governo non agirà con il favore delle tenebre, aveva rassicurato Giuseppe Conte qualche settimana fa, non ricordo più in quale conferenza stampa nei giorni del lockdown. E invece ecco che un Consiglio dei ministri convocato alle 22 e finito alle 5 e trenta del mattino opera una svolta profonda nella vita economica del Paese. Il ritorno dello Stato (via Cassa depositi e prestiti) nella società Autostrade che era stata privatizzata nel 1999 e consegnata alla famiglia Benetton. Governava all’epoca Massimo D’Alema, lo stesso anno in cui fu privatizzata la Telecom con i capitani coraggiosi, la cordata di imprenditori gradita al premier post-comunista, su questo passaggio ha scritto pagine significative Franco Bernabè nel suo libro “A conti fatti” (Feltrinelli). All’epoca uscì dalla proprietà l’Iri, oggi entra la Cdp. Sono le partite di potere che ridisegnano gli assetti del debole capitalismo italiano, con l’ingresso dello Stato negli asset più importanti. In seguito a un fallimento, come fu nel 2016 con Monte dei Paschi di Siena, o di un disastro, come il crollo del ponte Morandi del 14 agosto 2018. Un elenco cui si devono aggiungere l’Ilva, l’Alitalia, la valutazione per le garanzie per le aziende in crisi previsto dal decreto Liquidità, affidata alla partecipata di Cdp Sace.

Tutto questo meriterebbe un dibattito politico non episodico. Tra i pochissimi a sollevare come merita la questione del ritorno dello Stato nell’economia, e a farlo in senso favorevole, è uno dei protagonisti di quella stagione passata, Romano Prodi. «Non ho nessuna intenzione di tornare all’Iri, è qualcosa che ho già fatto decenni fa, ma l’intervento pubblico nel riorganizzare l’economia è un fatto fondamentale», ha detto l’ex presidente del Consiglio la settimana scorsa dal palco di Repubblica delle Idee a Bologna, prima della svolta su Autostrade . «Grandi imprese non ne abbiamo più: le imprese pubbliche hanno tenuto, quelle private sono state vendute. La forza economica di Cdp è enorme, ma non può essere solo un aiuto finanziario, deve essere una strategia perché l’Italia ritorni in certi settori».

Ma nella mossa del cavallo su Autostrade non si vede nessuna strategia. Semmai un’opportunità da cogliere, dall’indubbio valore comunicativo e di spregiudicata abilità negoziale, dal punto di vista del premier. Tutto avviene con un distillato di pragmatismo, senza grandi dibattiti, nel silenzio, di quello che per decenni è stato considerato un attore importante del sistema, la società civile. E in un indistinto politico in cui tutti finiscono per somigliare a tutti.

Si diceva, un anno fa di questi tempi, che il pericolo era la destra sovranista rappresentata dalla Lega. Il governo Conte 2 nacque un mese dopo, come una manovra di Palazzo, senza radici nel Paese, nonostante la richiesta di Nicola Zingaretti, un’alleanza strategica tra Pd e M5S per mescolare l’impasto di un nuovo centro-sinistra. A quasi un anno di distanza si può dire che tutto questo non ha più valore.

Si può fare un’alleanza strategica se si sa chi sei, a quali valori appartieni, quali interessi rappresenti. E sulla base di queste identità puoi costruire un progetto alternativo a quello della destra che invece sa benissimo cosa è e chi vuole rappresentare. Se si smarrisce questa identità, invece, tutto diventa possibile, anche l’impossibile.

Abbiamo assistito in queste settimane alla riabilitazione, forse alla beatificazione in vita, di Silvio Berlusconi, oggi rinomato statista e europeista, ma ieri era il capo della destra italiana che manifestava contro l’ingresso dell’Italia nell’euro, il premier di un governo che vide la cacciata di Renato Ruggiero dal ministero degli Esteri subito dopo l’entrata in vigore ufficiale della nuova moneta europea. Il papà politico di Matteo Salvini, il senatore Umberto Bossi, commentò l’umiliazione di Ruggiero, di origine napoletana, con tracotante cattiveria: «’Na bella jurnata!».

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Giuseppe Conte, l'illusione del concreto

Era nato come un vaso di coccio tra Di Maio e Salvini, ora ha imparato alla perfezione l'arte di durare. L'incertezza è la sua cifra: riunioni di notte, rinvii, zero intese ufficiali. E tutto intorno a lui è sospeso: i congressi, le discussioni, le battaglie su referendum e regionali

Stiamo accogliendo increduli una metamorfosi degna di Kafka, Luigi Di Maio si trasforma da rivoluzionario grillino a rassicurante centrista, fedele atlantista, aspirante garante di quegli equilibri che voleva sconvolgere: qualcuno racconta che il ministro degli Esteri abbia chiesto a Beppe Grillo il permesso di ricostruire la Democrazia cristiana e non sono date da conoscere le reazioni. E il partito della politica e dunque dell’identità, il Pd che stava imboccando la strada faticosa della ricostruzione di una cultura politica di sinistra e di una organizzazione di partito sul territorio, viene ricacciato in una terra di nessuno. Dove regna il neo-conformismo, dove tutti sono uguali a tutti e perciò sono irriconoscibili. Il brodo di coltura di tutte le destre.

Oggi i partiti contano nulla, sul piano organizzativo. Ancora meno contano le differenze di cultura politica, la destra e la sinistra, che sono il sale della politica. Importa chi sta al governo e si trova nella condizioni di decidere o di non-decidere. Importa chi ai vertici del governo si atteggia a portavoce del cittadino qualunque.

Di questo qualunquismo di governo, Conte è a suo modo un campione, essendosi rivelato di abile gestione. La scelta di far entrare Cassa depositi e prestiti nella società Autostrade può essere considerato un modello, per riscrivere il rapporto tra lo Stato e l’economia. Oppure un episodio legato al crollo del ponte Morandi, per punire i Benetton. Nel primo caso è una strategia, nel secondo è una bandiera da sventolare di fronte all’elettorato.

A mettere dentro le distinzioni dovrebbero essere i partiti, ma la dialettica si è spezzata, è interrotta. Quando Conte fu nominato presidente del Consiglio per la prima volta, nel 2018, mi venne in mente l’idea dell’autore anonimo del best seller “Berlinguer e il Professore” a metà degli anni Settanta (si rivelò poi essere il giornalista Gianfranco Piazzesi), il progenitore di tutti i romanzi e serie tv di fantapolitica italiana. In un’Italia sconvolta dalla crisi petrolifera, dal terrorismo e da una inquietante catena di delitti politici, l’incarico di formare il nuovo governo fu affidato a Ruggero Bertolon, un coltivatore diretto della campagna vicentina. «I ministri furono sorteggiati, uno per regione. Nessuno protestò, e la saldezza del quadro politico venne nuovamente assicurata».

Una democrazia casuale. Conte è un avvocato, un professionista certo soddisfatto di sé, come dimostrava il suo sconfinato curriculum esibito al momento di salire sul proscenio, ma fino al momento dell’incarico di formare il governo, due anni fa, era quasi un anonimo. Contava ciò che non era piuttosto che quello che era, pensava o rappresentava, per questo il suo cantore più infaticabile lo definisce «quanto si avvicina di più a un presidente del Consiglio».

Il presidente del Consiglio incolore che disperde la classe dirigente, resta in equilibrio sul filo o davanti alla porta, come lo fa vedere Mauro Biani nella sua striscia. Intanto la società resta a guardare, nel silenzio. Il silenzio non è più quello del lockdown, nel deserto delle strade vuote e delle piazze che era la difesa dal contagio nei giorni più duri dell’emergenza sanitaria.

Oggi il silenzio è l’effetto di una crisi sociale e culturale di lunga durata. Il silenzio degli intellettuali. Il silenzio delle organizzazioni sociali tradizionali, a fronte dei movimenti nuovi che provano a fatica a germogliare. Il silenzio di una parte d’Italia rimasta senza voce ma che non per questo accetta di essere assorbita e annullata. La radice di ogni diversità, che è ricchezza e dunque spinta per il futuro.
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