Caso Eliseo: cinque domande in attesa di risposta

La notizia è il rinvio a giudizio del direttore del Teatro Eliseo, Luca Barbareschi, del suocero, ex ragioniere generale dello Stato, Andrea Monorchio e del lobbista Luigi Tivelli, per traffico di influenze illecite ( il riferimento è agli 8 milioni, 4+4, che Barbareschi ottenne in due tranche gratis e senza niente in cambio nella manovra del 2017 grazie a pressioni lobbiste su alcuni politici).

Questa vicenda giudiziaria avrà il suo corso e sarà la giustizia a decidere come andrà a finire. Tuttavia pone alcune domande, urgenti, che necessitano di risposte immediate per l'intero settore del teatro e della Cultura nel nostro paese:

1) E’ vero quello che ha pubblicato il sito “La verità” e che ha lasciato intendere lo stesso Barbareschi (“Proprio in questi giorni si decide al Senato il destino della legge per i finanziamenti all'Eliseo, che orologi straordinariamente sincronizzati ci sono in Italia!" c’è scritto in un pezzo su Dagospia ) che tra gli emendamenti alla manovra finanziaria 2019 ne esiste uno riferito ancora una volta al Teatro Eliseo con la richiesta di nuovi finanziamenti straordinari al teatro?

2) Se sì, sarebbe d’obbligo sapere chi sono i politici che hanno presentato questo emendamento (e verrebbe da dire con quale coraggio lo hanno fatto)? Quali le ragioni per cui si chiedono ancora soldi( e quanti?) dello Stato a sostegno di un teatro oltre quelli del contributo ordinario elargito attraverso il Fus, Fondo Unico dello Spettacolo?

3) Va ricordato che nessun teatro ha mai ricevuto la strepitosa cifra di 8 milioni di euro. L’Eliseo sì. Con una parte di quegli 8 milioni, secondo le indiscrezioni, Barbareschi ha comprato l’edificio dell’Eliseo di cui oggi è proprietario. Ci si chiede: se così è, è legittimo che soldi pubblici siano usati a fini privati?

4) E' una consuetudine normale che lo Stato debba elargire un finanziamento straordinario a un teatro per ripagarne i debiti? Se uno gestisce un teatro e non fa quadrare i conti, è legittimo che lo Stato ripaghi la sua incapacità gestionale o non sarebbe meglio chiederne le dimissioni?Il ministro della Cultura Franceschini non ha da dire niente su questa anomala procedura?

5) Può un ente che vive di contributi pubblici elargiti dal Mibact essere diretto da una persona rinviata a giudizio?

A margine un breve commento: La cultura va finanziata, certo. Questo non si discute. Ma secondo regole e leggi condivise e uguali per tutti che garantiscano a tutti le stesse condizioni. Altrimenti è barbarie.

Il Premio Duse a Monica Piseddu, Lucia Lavia la giovane promessa

Monica PisedduMonica Piseddu

Monica Piseddu

“Che attrice meravigliosa, mai prima ho visto qualcosa di simile”. Fu il commento di Anton Cechov alla vista di Eleonora Duse in scena a San Pietroburgo nel 1896. E’ solo uno dei tanti e autorevoli commenti sulla più grande attrice italiana di tutti i tempi.
Proprio in continuità con quella figura mitica del nostro teatro da 33 anni viene conferito il Premio Duse – a cura della Fondazione Banca Popolare di Vigevano, la Ubi Banca e il Piccolo Teatro di Milano- che valorizza interpreti femminili capaci di distinguersi sulla scena.
Oggi ci sarà la cerimonia del Duse 2019, alle 19 al Piccolo Teatro Grassi di via Rovello: la ”Duse” 2019 è Monica Piseddu, la protagonista, in questa stagione, di Quasi niente , lo spettacolo con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, e a giorni di Antigone, diretto da Massimiliano Civica.

Inoltre come è nella consuetudine viene assegnata una Menzione d’onore a un’attrice giovane emergente e la giuria lo ha assegnato a Lucia Lavia in particolare per la sua interpretazione matura in Il costruttore Solness con Umberto Orsini e la regia di Alessandro Serra.

Lucia LaviaLucia Lavia

Lucia Lavia

Proprio i due premi di quest’anno spingono verso una serie di riflessioni. Ma prima una premessa: il Duse è l’unico premio teatrale a cui chi scrive ha scelto di partecipare, perché è l’unico riconoscimento programmaticamente di genere e perché è deciso da una giuria di pochi esperti – oltre a chi scrive sono Maria Ida Biggi, Maria Grazia Gregori, Renato Palazzi e Magda Poli- che si assume ogni edizione la responsabilità della propria scelta, dunque il premio risulta poco esposto alle logiche di cordate o conventicole, all’unanimismo che governa il teatro italiano e che condiziona altri premi.
Inoltre il Duse, proprio per la sua specificità di genere, più di altri riconoscimenti, può essere un testimone di cambiamenti in atto nel teatro che sollevano alcune riflessioni.
Certamente nel nome della Duse, e nella memoria di quello che la grande Diva ha rappresentato, sono state in passato premiate le “signore della scena”, primedonne che nel loro essere mattatrici del dominio della scena, contavano in una intima fusione col pubblico il quale a sua volta sovrapponeva l’attrice al personaggio. L’attrice dunque era la presenza dominante e il teatro era il valore della sua interpretazione.
Basta pensare agli spettacoli di Mariangela Melato, di Alida Valli, di Valeria Moriconi, di Franca Valeri,Anna Proclemer …. tutte vincitrici del Duse.

Eppure oggi quel tipo di interpretazione e di attrice non ci farebbe lo stesso effetto. Il teatro è diventato più complesso: non è più solo l’attore/attrice, è regia, scena, musica, è il corpo dell’attore e tutte queste cose assieme. La nuova generazione ha interpreti sensibili, duttili, magari non tutte con un solido bagaglio tecnico (ma molte sì) e comunque capaci di mettersi al servizio di registi diversi, di una idea più intellettuale dello spettacolo, di una lettura critica del testo, del prevalere dell’immagine….

E' dunque arduo pensare oggi di identificare il lavoro delle attrici come quello delle interpreti del passato. Attrici come Ermanna Montanari, come Federica Fracassi, Sonia Bergamasco, Elena Bucci, Monica Piseddu , per citare gli ultimi “Duse”, sono artiste che credono che il proprio lavoro si misuri all’interno di un progetto artistico che sia il lavoro registico o altro. Sono interpreti che stanno lontane dagli eccessi interpretativi, dal carisma pubblico, ma attrici fortemente autonome, capaci mettersi al servizio dello spettacolo, interpreti- perfomer che ci colpiscono
per la ricchezza con cui i sentimenti, le emozioni, le parole sono offerte al pubblico. Quel che tocca è la forza, la partecipazione, la capacità di credere ai propri personaggi, più che a imporre se stesse.

Molto è cambiato, dunque. E fa piacere che il Premio Duse si sia fatto testimone di queso cambiamento.

Dante diventa africano coi bambini di Kibera

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Per chi non conosce (pochi) le Albe di Ravenna, stimatissima compagnia teatrale nata intorno a Marco Martinelli e Ermanna Montanari, va subito detto che la relazione con l’Africa è una costante nel lavoro di questi artisti, dal teatro al cinema.
Ma The sky over Kibera il film che viene presentato stasera all’interno del bel festival milanese Filmmaker diretto da Luca Mosso (al cinema Beltrade ore 20.30) raccoglie molte delle esperienze che hanno reso forte, emozionante, importante il lavoro delle Albe, dalla non-scuola, i laboratori teatrali con i giovani che costruiscono una performance insieme, al progetto pluriennale che le Albe stanno portando avanti su Dante Alighieri e che culminerà nel 2021 per il settimo anniversario della morte del Sommo poeta. (Martinelli ha anche pubblicato da Ponte alle Grazie, “Nel nome di Dante”, un libro che intreccia Dante alla propria biografia).

Una scena del film "The sky over Kibera"Una scena del film "The sky over Kibera"

Una scena del film "The sky over Kibera"

Ma andiamo con ordine. Tutto è cominciato da uno degli esperimenti didattici della non-scuola che Marco Martinelli ha sperimentato in Kenya, invitato dalla Fondazione Avsi. Il progetto del laboratorio è culminato poi nel film dove 150 studenti delle scuole di Nairobi (Kenia) - sono la Little Prince School, Ushirika Centre, Cardinal Otunga High School, Urafiki Carovana Primary School – sono stati coinvolti nella messa in scena della Divina Commedia di Dante negli spazi di Kibera, uno dei più grandi slum di Nairobi, con oltre mezzo milione di persone, senz’acqua potabile, immondizia a cielo aperto.

Una scena sul set con Marco Martinelli (di spalle) che guida i bambini protagonistiUna scena sul set con Marco Martinelli (di spalle) che guida i bambini protagonisti

Una scena sul set con Marco Martinelli (di spalle) che guida i bambini protagonisti

Nel documentario quel paesaggio di degrado sembra vivere un’altra vita, trasformarsi in qualcosa di vitale, diverso, creativo, così come questo “strano” Dante in lingua inglese e swahili diventa una bella favola. Con la cinepresa entriamo tra gli spazi poveri dello slum accompagnati da tre ragazzini che sono Dante, Virgilio e Beatrice: i suoi colori accesi, il cielo, l'allegria dei bambini sembrano trasfigurare la miseria reale con una sensazione di vitalità. Anche perchè i 150 bambini sono sempre lì, presenti, a fare o i diavoli, o i governanti, a rappresentare il potere, ma anche i poeti, passando di cantica in cantica (ovviamente selezionate) della commedia dantesca. E così i versi del poeta si mescolano ai canti e ai balli che un po’ sono come quelli dei ragazzi europei un po’ assumono movimenti tribali, ma si intrecciano anche alle vedute delle baracche, e del cielo azzurrissimo e del giallo della terra come succede nei sogni .
Il film ha ottenuto un importante riconoscimento, il "Premio al volontariato 2019" per la sezione "Cultura", conferito dal Senato della Repubblica a Marco Martinelli e a AVSI. Il suo interesse è molteplice: nell’essere testimonianza dell’incontro tra culture, e della capacità del teatro come strumento di incontro, ma prevale soprattuto il valore di un documentario in cui la Divina Commedia diventa un gioco, quando i bambini dissmulano gioia o paura , insicurezza o timidezza, un divertimento pieno di vita che smonta differenze, disparità, e diventa un gesto politico.

La voce delle donne iraniane, ascoltiamole

Una scena di "I am a woman. Do you hear me?"Una scena di "I am a woman. Do you hear me?"

Una scena di "I am a woman. Do you hear me?"

Forse per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne che cade il 25, il Piccolo Teatro ospita uno spettacolo “militante” di una artista di Teheran che vale la pena vedere, anche per farsi una idea del teatro contemporaneo iraniano. Camelia Ghazali, regista 34enne, è la cofondatrice con il drammaturgo Toomaj Daneshbehzadi del Praxis Theater Group che ha portato in scena con I’m a woman. Do you hear me?. Lo spettacolo affronta in modo simbolico più che realista, ma diretto il tema del ruolo della donna nell’immaginario culturale del nostro tempo, tanto più interessante in Iran, dove per la donna c’è ancora l’obbligo del chador.
Lo spettacolo si articola in una serie di quadri e con un linguaggio anche fisico oltre che verbale molto ricco e sapientemente organizzato: in ogni quadro avanza in proscenio una figura femminile raccontando la propria storia (ci sono i sovratitoli in italiano), riflessioni come fossero un flusso interiore che rappresentano sempre una storia di mortificazione, di umiliazione, di non considerazione del proprio ruolo sociale, e tutte scandite da questo continuo intercalare del “Do you hear me?”, “Mi ascolti?” che è insieme una richiesta ma anche un grido di guerra.
Bella la soluzione scenica: pannelli stretti, verticali, trasparenti che creano come una parete labirintica e un clima generale quasi senza tempo, arcaico, con due figure “topiche”: quella di una donna coi capelli bianchi, figura impersonale quasi mitologica e l’uomo raffigurato come un centauro all’incontrario, col corpo di uomo e la testa di cavallo.
Nella successione di quadri l’elemento catalizzatore è la forza delle donne di “prendere parola” e di dare voce alla rabbia, al dolore, al senso di frustrazione e alla fatica per affermare la propria identità e il proprio ruolo sociale.

Marcido nei "dialoghi" di Pavese in cerca del mito

Il fondale "Le streghe" che Daniela Dal Cin ha realizzato per "I dialoghi di Leucò"Il fondale "Le streghe" che Daniela Dal Cin ha realizzato per "I dialoghi di Leucò"

Il fondale "Le streghe" che Daniela Dal Cin ha realizzato per "I dialoghi di Leucò"

Tra tutte le compagnie nate negli anni Ottanta (1986 a Torino) i Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa hanno continuato a marciare senza mai fermarsi e passo dopo passo, cambiando poco del proprio percorso sono arrivati a oggi, a un teatro, il loro spazio torinese, Marcido Film, a lasciare nell’immaginario del pubblico decine di spettacoli notevoli (Una giostra: L’Agamennone, Pinocchio, Una canzone d’amore, Bersaglio su Molly Bloom, Loretta Strong), uno stile di recitazione pensata come “cantabilità della voce” che ancora oggi è la cifra “Marcido” insieme a una rilettura personale dei testi dove la macchina scenica (sempre di quel genio figurativo che è Daniela Dal Cin) è anch’essa parte della drammaturgia.
E adesso, come racconta il regista e fondatore , Marco Isidori, i Marcido sono approdati a un “amore di gioventù”, a cui pensavano da 35 anni I dialoghi di Leucò di Cesare Pavese in scena al Marcido Film fino al 24, con Maria Luisa Abate , Paolo Oricco, Francesca Rolli, Vittorio Berger, Gabriele Scianka, Alessandro Marteno, Veronica Solari e l’Isi(che deve essere Isidori stesso). Regia come sempre di Marco Isidori e Daniela Del cin per le scenario.
Isidori perchè così tanti anni se era un amore di gioventù?
Isidori: “Ci voleva la maturità per fare un testo del genere. Ci abbiamo lavorato molto, al punto che per il 40 per cento è Isidori. Ho cercato di toglierli quell’eccesso di intenzionalità e forse l’ho manomesso perché ho cercato di far dire a Pavese cose che lui non dice, ma che io avrei voluto sentirgli dire”.
Perchè di Pavese le è piace proprio questo testo?
Isidori: “Lo ritengo importante, è il suo testamento, l’ultimo libro e quello a cui teneva, dove pensava di aver messo il succo della sua idea di scrittura. E poi c’è il mito, il sangue e questo discorso col tragico che a Marcido ha sempre interessato tanto”
E quindi cosa è diventato in scena?
Isidori: “Intanto non è un racconto, né c’è uno sviluppo storico ma dialoghi poetici. Noi ne abbiamo scelti sette su 27 e hanno una connotazione iconica particolare, tanto che il nostro teatro che è piccolo sembra l’Opera di Pechino”.

Un altro disegno per un altro fondale "L'inconsolabile" di Daniela Dal Cin Un altro disegno per un altro fondale "L'inconsolabile" di Daniela Dal Cin

Un altro disegno per un altro fondale "L'inconsolabile" di Daniela Dal Cin

Quali dialoghi avete scelto?
Isidori: “Quelli che rivelano il senso del tragico e insieme danno l’idea di integralità del discorso di Pavese. Quindi Mnemosia per il dialogo di Esiodo con la Musa, Orfeo molto interessante perché Pavese ne fa un personaggio nuovo, uno che già ha deciso di lasciar perdere, poi c’è l’Uomo/lupo, qul Licaone che gli dei hanno trasformato in lupo ma conserva una sua umanità; Circe, la maga che dialoga con Leucò, per chiuder con l’amore e la bellezza di Endimione e Giacinto”.
La macchina scenica è incredibile come sempre. Daniela Dal Cin la può raccontare?
Dal Cin: “E’ un dispositivo scenico, composto da sette elementi bidimensionali che tra di noi chiamiamo sipari, ma sono come fondali, tele dipinte, le quali conquistano tridimensionalità nella costruzione della macchina: un dispositivo, appunto, che avanza verso gli spettatori fino quasi a eliminare, nell’ultimo quadro, la separazione tra scena e platea. L’idea è una saturazione fisica di immagini che da cui lo spettatore viene catturato come in un caleidoscopio, perché c’è molto movimento”.
A che immagini si è ispirata?
Dal Cin: “Sono le immagini col mio segno,ma poiché ci sono gli attori ho pensato a immagini con squarci da cui si affacciano appunto gli attori, come fossero visioni con teste che sbucano come bassorilievi e fanno parte dell’immagine stessa. La espressività degli attori è certamente sacrificata in questo spettacolo, sono teste costrette a condensare l’energia nella voce. Mentre diversa sarà l’ultima scena, di cui lasciamo la sorpresa”.
Dove portano i ‘Dialoghi di Leucò’ passando attraverso il mito e il tragico?
Isidori: “Allo scavo della natura umana, ma cosa si trova poi, non so rispondere, certo non cose positive. Lo scontro/confronto col dio, il mondo animale e vegetale, con quelle forze primordiali, primigenie è per l’uomo sempre perdente. Quello che posso dire è che mettere in scena un libro come questo è una sfida perché poter visualizzare una intensità solo poetica , credo che solo i Marcido con la loro poetica potevano riuscirci”.
E lo spazio di Marcido film come va?
“Dopo 5 anni risultati importanti. Certo, qui possiamo fare sol spettacoli piccoli, c’è la fatica che il pubblico bisogna cercarlo. Ma abbiamo un bacino di almeno duemila persone che ci seguono. A dicembre porteremo a compimento il progetto di Teatro/Poesia della stagione precedente con Voci prima della scena con la poesia di di Roberto Mussapi , a gennaio ci sarà la ripresa di Loretta Strong , poi Vecchio Oceano, Esopo in Technicolor, fino a maggio quando faremo Dispiegare una storia: Vaduccia tratta dall’omonimo testo dello scrittore israeliano Abraham B. Yehoshua”.

Tolstoi vs Lombroso, che bel match

Cesare LombrosoCesare Lombroso

Cesare Lombroso

Lev TolstoiLev Tolstoi

Lev Tolstoi

Quando si dice le scoperte curiose.... Fino a domani, sabato 16, è in scena a Torino nel Palazzo degli Istituti Anatomici uno spettacolo con Mauro Avogadro e Martino D’Amico nato intorno a un testo interessante e piacevole. Si intitola L’incontro. Quando Tolstoi salvò Lombroso da sicuro annegamento come il libretto, edito da Robin Edizioni, 72 pagg., 10euro, con illustrazioni molto belle, di Sergio Ariotti che è anche il regista e che nel mondo del teatro è conosciuto come il co-direttore con Isabella Lagattolla del Festival delle Colline Torinesi, non nuovo comunque alla scrittura di testi per il teatro.
Ariotti, ma cosa possono avere in comune il grande scrittore russo e l’antropologo criminologo italiano?
“Avevo scoperto anni fa di un incontro nell’agosto del 1897 tra Tolstoi e Lombroso, sulla Rivista dei Libri, in una recensione a un testo di Paolo Mazzarello ,”Il genio e l’alienista”, edito da Bollati Boringhieri, siamo quindi circa nel 96-97. Un libro molto bello. E mi ripromisi di tornarci sopra. L’occasione è venuta dal decennale del Museo Lombroso con cui abbiamo spesso collaborato per il Festival e che ora ci avevano chiesto un lavoro per l’anniversario. Io ho proposto questo dialogo, che non è un ‘dialogo impossibile’ perché è realmente avvenuto, ma di cui non si sa nulla”.
Come mai si erano incontrati?
“Lombroso era in Russia per un congresso medico, e avendo la segreta ambizione di incontrare Tolstoi, un grande scrittore che aveva monitorato come interessante incrocio tra genio e follia, fece il tentativo di vederlo. Lombroso manda un telegramma alla figlia e l’incontro si riesce a fare. Cosa si siano detti, sono solo supposizioni. Nei diari Tolstoi si limita a dire di Lombroso ‘un vecchietto limitato e ingenuo’. E Lombroso, poco dopo l’uscita di “Resurrezione” di Tolstoi, scrive di aver sciupato il fiato”.
Insomma rimasero ognuno nel suo?
“Però dai diari della figlia dello scrittore russo si sa che Lombroso quando si videro in Russia, aveva rischiato di annegare e a salvarlo fu proprio il vecchietto Tolstoi. Le uniche due cose che si sanno con certezza, sono queste. Il resto è frutto della fantasia, un dialogo immaginario che però ho costruito sulla base di quello che entrambi hanno detto e scritto. Dunque frutto del loro pensiero e della loro penna”.

Sergio Ariotti con Isabella LagattollaSergio Ariotti con Isabella Lagattolla

Sergio Ariotti con Isabella Lagattolla

Certo che due così diversi non si poteva immaginarli.
“Lombroso ha il mito della scienza, della medicina che può curare le malattia, è convinto che si possa prevenire la criminalità attraverso l’osservazione del cranio, della famosa fossetta occipitale mediana, teorie sbagliate ma in quel momento il positivismo alla Lombroso imperava. L’altro invece era un intellettuale preoccupato per il pianeta, più evangelico, con una sorta di misticismo tutto suo. Si trovano un po’ d’accordo solo nella sottovalutazione del ruolo della donna, ma erano periodacci. Si confrontano anche sulla letteratura. Lombroso ama Flaubert e Tolstoi Dickens.
Lei ha fatto ricerche per un anno su entrambi. Che idea si è fatto di loro?
“E’ stata una lettura piacevolissima tra le opere di Tolstoi. Avevo letto ‘Guerra e pace’, ‘Resurrezione’ , ma ho scoperto gli scritti sull’arte dove si scaglia contro Shakespeare. Tolstoi era un tipaccio. Lombroso invece era uno che aveva idee fisse e le applicava con sicumera. Era convinto che la pellagra dipendesse dal mais guasto”
E lo spettacolo?
“Tolstoi rivive nell’interpretazione di Mauro Avogadro e Lombroso in quella di Martino D’Amico. Stanno seduti su seggiole di vimini e dialogano. Ci siamo divertiti perché c’è anche una corda ironica. E’ una piccola cosa che abbiamo fatto grazie al sostegno del Sistema museale dell’Università e di Fondazione Piemonte Europa. Speriamo che sia la prima tappa di quello che un domani potrebbe diventare uno spettacolo vero e proprio”.

I sognatori di Aterballetto

Un brano  di "Dreamers"Un brano  di "Dreamers"

Un brano di "Dreamers"

Stanno cambiando molte cose nella Fondazione nazionale della danza-Aterballetto di Reggio Emilia, la principale realtà di danza italiana fuori dalle fondazioni liriche, e ora sempre più impresa, anche per dimensioni economiche. Impresa d’arte, ovvio, che si occupa di promozione, esperimenti multidisciplinari, progetti formativi e di produzioni con una linea di repertorio che il direttore Gigi Cristoforetti spinge verso la collaborazione con i grandi coreografi internazionali ma anche con i giovani come Diego Tortelli (artista associato),Giuseppe Spota, Eugenio Scigliano, e va dalla prosecuzione di una rilettura in forma di danza della shakespeariana Tempesta, alla ripresa di Bach Projects, la creazione di Lost e soprattutto a Dreamers, che più dà la misura della qualità artistica raggiunta.
E’ infatti un trittico di livello europeo, una coproduzione internazionale che, dopo l’esordio trionfale al festival “Oriente Occidente” di Rovereto, è atteso il 10 novembre alle Muse di Ancona, prima di una tournèe all’estero. Sui tre pezzi spicca Secus, del mitico Ohad Naharin, star e leader della Batsheva Dance Company, tra le top ten della danza contemporanea. Non è frequente che Naharin dia i suoi titoli, dunque averlo “ceduto”è un segno di fiducia verso la compagnia emiliana che ricambia con uno spettacolo di rigore e perizia professionali degne del Maestro israeliano. Secus (si era visto a TorinoDanza di due anni fa, con la Batsheva, in Three) è un pezzo coreografico bellissimo, con tutto il gruppo dei 14 ballerini di Aterballetto, le musiche che vanno dall’indiano Kaho Naa Pyar Hai ai Beach Boys, e costituito di atti, azioni, in duo o in gruppo buffe, magnetiche, plastiche, che disegnano un paesaggio emotivo e umano, solare, ribelle, ironico fino a diventare poesia. Un discorso diverso riguarda l’altro pezzo, Cloud/Materia di Philippe Kratz che è uno dei ballerini “icona” della compagnia, un lavoro molto fisico, basato sulla ripetizione di una serie di variazioni a partire dalla musica elettronica originale di Borderline Order, che deve però registrare il proprio ritmo interno, in certi momenti monotono. Una bella sorpresa Traces di Rihoko Sato, musa e interprete preferita di Saburo Teshigawara, che debutta nella coreografia proprio con Aterballetto. Un pezzo, il suo, visionario, quasi un rituale, una immersione profonda in uno spazio lontano che rivela via via alcune figure. Dai tre pezzi emerge la bravura dei danzatori, tesi nelle sequenze gestuali e nell’azione fisica, ricchi di espressione, precisi. Segno di uno stile più sicuro, di fedeltà al proprio passato o della voglia di perlustrare un nuovo tipo di teatro. Probabilmente le tre cose assieme.

Addio a Patrizia Cafiero, press agent e femminista

Patrizia CafieroPatrizia Cafiero

Patrizia Cafiero

E' stata una delle agenti cinematografiche "storiche" a Roma (però era napoletana) ma Patrizia Cafiero, morta oggi a Roma per una grave malattia che l'aveva colpita già da qualche anno, era molto più di un'agente. Passava per essere una "dura" e come molte donne di carattere era generosa e comprensiva e non solo con le attrici o gli attori che facevano parte della sua agenzia e di cui diventava invariabilmente ogni volta amica, custode, consigliera, complice, ma perfino coi giornali, con quei sui modi sempre gentili e signorili con cui ci teneva a segnalare i suoi artisti, mai insistente o petulante, al contrario collaborativa e spesso utile.
Io Patrizia l'ho conosciuta anche in una veste più bella, quella di femminista. Patrizia è stata a fianco di Cristina e Francesca Comencini e delle altre fin dalla fondazione del movimento "Se non ora quando?". Quando ci fu la indimenticata manifestazione di un milione di donne in piazza contro il governo Berlusconi il 13 febbraio 2011 lei si era spesa in prima linea: presente a tutte le riunioni, aveva coinvolto molte artiste ed era stata lei con Loredana Taddei a fare da cassa di risonanza coi giornali e le televisioni per il successo anche mediatico di quell'evento. Femminista nel mondo del cinema, dove le donne sono spesso vincolate a un modello di bellezza, esibizione esteriore, non era scontato: lei lo è stata, credendoci, impegnandosi, spendendo molte serate e molta pazienza a discutere. Grazie.

I funerali si terranno lunedì 11 novembre alle ore 11 nella chiesa degli Artisti a Roma.

La memoria brulicante di Ceredi

Il Manifesto di "Eve #1"Il Manifesto di "Eve #1"

Il Manifesto di "Eve #1"

Affollato, vivace, variegato il Festival Danae resta, con lo Spazio K, una delle poche occasioni milanesi per vedere artisti, avventure, esperienze non già “acclamate”, conosciute, digerite. Per esempio Filippo Michelangelo Ceredi, artista visivo, filmaker e performer , creatore di lavori che attraversano diverse specializzazioni e ambiti artistici.Il suo spettacolo più conosciuto è Between me and P., passato in vari festival da Danae e Spazio K, a Short Theatre, alle Colline Torinesi: un autoracconto particolare che ricostruisce la storia del fratello scomparso e di fatto mai conosciuto attraverso materiali di archivio informatico, oggetti, lettere, fotografie, musiche e proiezioni, documenti del passato che possano dire qualcosa nel presente. E proprio il passato e il valore del bagaglio della memoria torna nel nuovo Eve #1, presentato a Danae ieri. Ceredi ripercorre la storia contemporanea globale dal 2001 a oggi con le immagini dei ricordi di quel ventennio, suoi e di altre persone (anche al pubblico chiede di mandare i propri ricordi) . Si va dalle Torri gemelle, il fatto più sconvolgente dello scorso decennio, a l’orso bianco tra lo sciogliomenti dei ghiacci, al piccolo Alan Kurdî, il bambino siriano morto su una spiaggia turca... Una sorta di percorso all'indietro che però permette anche di rileggere in un altro modo quello che è accaduto.
Eve #1, come dice il titolo, è un "primo capitolo" e la presentazione pubblica mantiene chiaramente questo aspetto ancora di ricerca e studio: non è uno spettacolo, semmai una installazione "live" creata davanti agli occhi del pubblico ,con un racconto audio e una antologia di immagini del ventennio proiettate, che nella scena finale grazie a un gioco di spicchi di specchi, assume un che di frammentato, parziale, enigmatico.
Non è né bella né brutta, secondo le convenzioni. Tutto è eseguito senza nessuna pretesa spettacolare, con semplicità artiganale,e deve proseguire per arrivare a una forma compiuta. Per ora quello che si intravvede, però, è interessante: rende esplicita la distanza del ricordo, interrompe il circuito della memoria collettiva che crede di conoscere e sapere, per metterci di fronte altre domande.

Medea e il dramma dell'abbandono

"Medea" con la regia di Emilio Russo"Medea" con la regia di Emilio Russo

"Medea" con la regia di Emilio Russo

E’ stato uno degli appuntamenti di punta del 72 esimo Ciclo di spettacoli classici all’Olimpico di Vicenza quest’anno decisamente sottotono rispetto ad altre edizioni. E ora è in scena al Teatro Menotti di Milano questa Medea diretta da Emilio Russo dalle atmosfere simboliche e rituali. Ridotto l’originale (lo spettacolo dura un’ora e venti circa) nell’adattamento di Romina Mondello, interprete principale, e dello stesso regista, Medea qui si libera dei suoi aspetti più crudeli, violenti per diventare la tragedia dell’abbandono, della solitudine, della debolezza delle passioni e anche dell’amore.
Abiti bianchi monacali con qualche riferimento “antico” - Giasone, per esempio, appare come in una sorta di peplo – e lo spazio scenico immerso nel buio, contraddistinguono fin dall’inizio la cifra dello spettacolo che si muove intorno al relitto di una piccola barca di legno, mucchietti di sabbia bianca accatastati e sullo sfondo tre grandi finestre che mostrano ognuna una scala che conduce a una botola, come se fossimo in un sottosuolo indefinito. Da subito echeggia il canto, i suoni arcaici, lontani di Camilla Barbarito, che già è stata una presenza importante in altri spettacoli di Russo, e qui nel ruolo del Coro accompagna il pubblico verso una dimensione primitiva. Anche la Medea di Romina Mondello ne è una espressione forte: in abito bianco, i capelli lunghi neri, strani segni sul viso e sulle mani, si muove con gesti lenti, ripetitivi, non quotidiani, proprio come in un rituale. E’ l’aspetto più originale e interessante di una messa in scena che accentua l’ambiguità del testo di Euripide anche se poi, nella la recitazione (al netto del sempre deprecabile uso dei microfoni per amplificare le voci degli attori), spinge verso il visionario, il dramma interiore con la stessa Mondello che evoca le ragioni del sentimento, fragile e sensibile. Tra gli interpreti, accanto a Paolo Cosenza, Giovanni Longhin, Patricia Zanco, Nicolas Errico, spicca Alessandro Averone che si spoglia di ogni eroismo e fa proprio il marito tradito con una sua dolce fierezza.