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7 settembre 2007, 15:55 - Ultimo aggiornamento alle 15:49

Bush in Iraq, la guerra continua

Stefano Rizzo,  05 settembre 2007

Approfondimenti      L'improvvisata del presidente americano ad Al Asad è servita a dare il "la" al generale Petraeus e all'ambasciatore statunitense Crocker in vista della relazione sull'andamento del conflitto, che la Casa bianca dovrà presentare al Congresso entro il 15 settembre



Il viaggio di Bush in Iraq (il suo terzo) è durato lo spazio di un pomeriggio. E' partito domenica notte in gran segreto, per motivi di sicurezza (neppure i giornalisti sapevano dove sarebbe andato), ed è ripartito lunedì sera per Sydney per partecipare ad una riunione dell'APEC (l'organizzazione economica dei paesi dell'Asia e del Pacifico) e dare il suo sostegno alle vacillanti fortune elettorali del suo omologo australiano John Howard.

Per capire il significato di un viaggio così breve bisogna guardare non tanto alle parole come sempre rassicuranti del presidente, ma al contesto - quello iracheno e, soprattutto, quello americano. Bush, accompagnato dal segretario di stato Rice e dal consigliere per la sicurezza nazionale Hadley e seguito su un altro aereo dal ministro della difesa Gates e dal capo di stato maggiore Pace, non è andato in Iraq per incontrare il primo ministro Nuri al-Maliki, nei confronti del quale vari esponenti politici americani (tra questi Hillary Clinton) avevano espresso aspre critiche.
Non è neppure andato a Baghdad, non ha visitato la Zona verde dove si trovano l'ambasciata americana e larga parte degli uffici governativi. Probabilmente per motivi di sicurezza, dal momento che sia la via dell'aeroporto che buona parte della città, a distanza di un anno dall'inizio dell'operazione Together Forward (Avanti Insieme) e di sei mesi dalla famosa "surge", sono ancora troppo pericolose. L'Air Force One è invece atterrato nella base militare americana di Al Asad, dalla quale il presidente non è mai uscito, in una zona desertica lontana da ogni centro abitato nella provincia sunnita di al-Anbar.

Qui, al pari di un imperatore d'altri tempi, ha convocato al-Maliki, il presidente Talabani e il resto del governo iracheno e ha anche incontrato un gruppo di sceicchi e capi tribali sunniti della provincia. La ragione sta nel fatto che, senza che l'opinione pubblica ne sia stata informata, la strategia per la quale era stato chiesto a febbraio l'aumento di 30.000 soldati - mettere in sicurezza, zona per zona, prima la capitale e poi il resto del paese - è stata già abbandonata. Si è visto infatti che subito dopo che un'operazione militare aveva "ripulito" un quartiere dagli insorti e confiscato le armi, partiti i soldati ritornavano a spadroneggiare gli insorti e i criminali comuni. E continuavano gli attacchi contro le truppe americane condotti con le micidiali bombe improvvisate.
Il comandante americano David Petraeus ha allora deciso, ignorando il governo al-Maliki, di accordarsi direttamente con i capi sunniti così da assicurarsi la loro non belligeranza. Accordi che prevedono la fornitura di armi e in pratica piena libertà di azione ai guerriglieri sunniti purché non attacchino le truppe americane e concentrino i loro sforzi sugli uomini di al Qaeda.
I primi risultati si sono visti e sono in effetti diminuiti gli attacchi contro gli americani, ma un'operazione del genere difficilmente potrà essere replicata in altre zone a composizione etnico-religiosa mista. Nulla impedisce inoltre che, una volta sconfitto il comune nemico, i sunniti decidano di rivolgere nuovamente le armi nei confronti degli americani che gliele hanno date, così come del resto fece Bin Laden dopo avere sconfitto i sovietici in Afghanistan.

Ma la ragione principale del viaggio presidenziale sta a Washington. La settimana prossima il Congresso inizierà la discussione sul rapporto che la Casa bianca dovrà presentare entro il 15 settembre sull'andamento della guerra. Per illustrarlo arriveranno da Baghdad il generale Petraeus e l'ambasciatore Ryan Crocker. Non si sa che cosa diranno i due, ma con tutta evidenza l'improvvisata di Bush ad Al Asad è servita a suggerirglielo. Davanti al Congresso i due massimi rappresentanti americani riecheggeranno probabilmente le parole del loro presidente affermando che la surge ha conseguito "alcuni primi importanti risultati", ma che ci vuole ancora tempo per consolidarli e che lasciare l'impresa adesso vorrebbe dire consegnare la vittoria al nemico e invitare i terroristi a colpire la madrepatria.

Naturalmente i democratici (e molti repubblicani contrari alla guerra) non prenderanno per oro colato le loro affermazioni. A sostenere la tesi del ritiro più o meno graduale ci sono già vari rapporti ufficiali, di fonte governativa e parlamentare, che raccontano una storia molto diversa. L'ultima NIE sull'Iraq (National Intelligence Estimate) diffusa ad agosto parla di situazione politica al collasso e della immutata capacità dei gruppi di insorti e di terroristi di montare attacchi micidiali. Un rapporto del GAO (Government Accounting Office) anticipato la scorsa settimana alla stampa dice chiaramente che dei 18 obbiettivi politici, economici e militari fissati per valutare il successo della guerra almeno 12 non sono stati raggiunti, e tre lo sono solo parzialmente.
A questi due rapporti si aggiunge la relazione di una commissione nominata dal Congresso (e presieduta dall'ex generale James Jones) per valutare l'efficacia delle forze di polizia irachene, che dovrebbero garantire la sicurezza dopo il ritiro delle truppe. Il giudizio è tranciante: tutti i corpi di polizia addestrati con grande dispiego di energie negli anni scorsi (ricordate? il 2006 era stato proclamato "l'anno della polizia"), devono essere sciolti perché profondamente infiltrati dalle milizie sciite e colpevoli di operazioni di pulizia etnica.

Infine anche i capi di stato maggiore hanno fatto sentire la loro voce: basta, hanno detto; a questi ritmi, con la ferma dei soldati portata a 15 mesi, la guerra irachena è insostenibile e minaccia gravemente la capacità di risposta dell'esercito americano se dovesse sorgere un'altra emergenza.
Contuttociò George W. Bush è un uomo di forti e poche convinzioni; quindi è prevedibile che alla fine di "un lungo e appassionato dibattito" la guerra continuerà.





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